L’Eucarestia
Pallanza, 27-28 marzo 19821
di don Michele Do
La riflessione pasquale che oggi vi propongo è sul significato della fractio panis, dell’eucarestia, nell’esperienza di Gesù e dei suoi discepoli, di ieri, di oggi, di sempre.
È forte il bisogno di ritrovare l'eucaristia così come la prima comunità cristiana l'aveva accolta. Si legge nel libro degli Atti:“I fedeli stavano insieme ed avevano tutto in comune...Ogni giorno frequentavano unanimi il tempio, spezzando il pane in casa, prendendo cibo con gioia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. E ogni giorno il Signore aggiungeva alla comunità: coloro che si sarebbero salvati”. (Atti 2, 44-47).
In me si è andato via via chiarificando il mistero della fractio panis, ha perso le troppe incrostazioni teologiche che me la rendevano lontana; ora la sento davvero più mia e posso spezzare il pane con più gioia e con più semplicità di cuore.
Per accostare il mistero della fractio panis come sacramento, non solo pasquale, si può partire da un'esperienza che forse ognuno di noi ha vissuto specialmente nelle grandi amicizie, nei grandi affetti, negli incontri con quelle persone che hanno segnato la nostra vita. Quando ritroviamo dentro di noi queste presenze sacre, ci accorgiamo che una vita si riassume spesso in un gesto, in una parola, in un'ora, in un momento, talvolta anche in un oggetto, che diventano riassuntivi di tutta un'esistenza. A volte basta un tratto di una persona: è come un colpo di sonda che va nel profondo di quello che c'è nel suo cuore: riassume tutto, rivela tutto, coglie quel mistero che è nel cuore di ognuno di noi, quell'interiorità profonda, che rischia di non emergere mai, di restare mistero. Ognuno di noi ha nella sua vita dei frammenti sacri, delle "eucaristie naturali", dei momenti di luce: parole, gesti momenti, che sono diventati sorgenti della nostra vita, a cui torniamo, che abbiamo bisogno di ritrovare. Queste eucaristie naturali fanno parte di noi; una vita priva di esse è povera, una povertà triste, senza ricordi.
L'eucaristia è una struttura fondamentale dell’uomo: è la trasparenza di un mondo interiore, di una realtà profonda, di una vita dello spirito che, invisibile agli occhi, traspare in un momento, in un gesto che la riassume e che la rivela. Ce la portiamo dentro come sorgente benedetta a cui torniamo ad attingere, che ci alimenta, che è forza e benedizione.
La vita è fatta di eucaristie, di sacramenti: il primo sacramento che incontra il bambino è il sorriso negli occhi della madre: un grande sacramento. Non c'è amore, amicizia grande senza sacramenti, non ci sono sacramenti senza amore.
Lo cose non sono più soltanto cose: si caricano di significati, diventano segni, veicolano un mondo di valori, un modo di sentire la vita. Tutto si arricchisce, cresce. È vero che il “Verbo si fa carne”; ma è anche vero che la carne, nel sacramento, si fa Verbo.
Non c’è esperienza più vicina a quella religiosa di quella dell’alta poesia, che accoglie la bellezza, la rende luminosa, la fa trasparire. La ricettività, l’accoglienza del mistero delle cose sono attitudini di fondo che accomunano l’alta poesia e lo spirito religioso. Dio è in questa linea: non lo si raggiunge attraverso i ragionamenti, ma attraverso i sacramenti. Il più alto è la santità.
Ogni vita ha una sua eucaristia, sopratutto le vite più ricche, più intense. Un’eucaristia è pura, è alta se dietro c’è una vita pura e alta; è tragica, squallida, povera se dietro c’è una vita squallida, tragica, povera.
I trenta denari di Giuda sono una terribile eucaristia, un terribile segno come quello di Caino. E chi non se la ritrova dentro? La lavanda delle mani di Pilato è una squallida eucaristia, l’eucaristia della viltà. Al contrario la lavanda dei piedi di Gesù è un’altissima eucaristia, come stupenda di pura bellezza è quella dello spezzare il vaso di profumo di Maria di Magdala, così essenziale che Gesù dirà che dovunque sarà annunciata la buona novella, sarà anche detto di questo gesto, perché essenza pura del suo vangelo.
Un'altra splendida eucaristia è narrata nella pagina del Manzoni sul pane di padre Cristoforo: pane del perdono, dell’umiliazione, che padre Cristoforo consegna a Renzo e a Lucia, dicendo: “Lo consegno a voi. Fatelo vedere ai vostri figli. Dite loro di perdonare sempre, di perdonare tutto”.
Anche nella vita di Gesù il pane è sacramento: il gesto dello spezzare il pane scandisce tutta la vita del Cristo. E' così abituale e frequente in Gesù, che gli Evangelisti ne sottolineano gli elementi essenziali: Gesù –scrivono- prese il pane nelle sue mani, levò gli occhi al cielo, lo benedisse, lo spezzò, lo distribuì. In questi verbi c'è tutto un modo di accostarsi alle cose. Questo gesto diventa il gesto di Gesù, tanto che i discepoli “lo riconobbero nello spezzare il pane”- come annotano i Vangeli.
I momenti essenziali della vita di Gesù, le grandi orientazioni (il deserto), le grandi scelte (la condivisione con i pubblicani, con i peccatori, con il mondo dell'esperienze sbagliate) trovano nel giovedì santo la loro pienezza di significato.
Il pane che Gesù prende nelle sue mani nell’ora più alta, quella del giovedì santo, non è azzimo: è anzi ricchissimo di segni, di stigmate, di impronte. Gesù non cancella né inventa niente: si inserisce nel tessuto di gesti che ha ricevuto, nella continuità di parole e di tradizioni.
In questo pane c'è un simbolo cosmico: c'è il mistero della creazione come miracolo, come gioia di esistere, come dono e mistero di Dio. Gesù coglie le cose con lo sguardo di un nuovo Adamo e legge il mistero di Dio nella creazione
C’è nel pane una misteriosa legge della vita: la vita nasce da un apparente morire. Gesù, nel chicco di grano, che il seminatore ha seminato, che ha rotto la dura crosta e che ora germoglia, ha colto questa legge: la vita non muore, si trasforma; passa da forma a forma: c’è una trasformazione, non una cancellazione.
Nel pane si esprime, si riassume, tutto il mistero dell’uomo. È il pane della virile fraternità, della comunione profonda con il compagno (cum-pane), che significhiamo spezzando insieme il pane nella gioia o impastandolo con le lacrime del dolore. È il pane della responsabilità: che si guadagna con il sudore della fronte per sé e per la gente di casa. È il pane della libertà, guadagnato e consumato da uomini liberi, mentre il pane della schiavitù è quello di cui ci parla l’Esodo, mangiato da uomini asserviti e senza letizia . È il pane della conoscenza, del sapere, della scienza.
Questo pane viene dalle profondità della storia religiosa. Si pensi al senso universale dell'ospitalità: quando un uomo ha condiviso con un altro uomo pane e sale, nasce un'amicizia, che ha l'assolutezza delle cose assolute. C'è qualcosa di Dio nell’ospite.
Questo pane viene dalle profondità della storia e della spiritualità biblica. Si pensi a Melchisedech, immagine dei vertici della religiosità pagana, che offre pane e vino ad Abramo e lo benedice. Si pensi allo stesso Abramo che presso la sua tenda accoglie in un convito tre ospiti divini, immagine di una trinità donatrice di vita.
Si pensi ancora al pane della Pasqua ebraica: pane azzimo, della grande notte della libertà; pane dei pellegrini, che non trovano mai patria, immagine dell’uomo che sconfina sempre, mai sazio (guai ai sazi!), che è sempre sulla riva ulteriore, che non pianta mai le tende.
C'è il pane di Elia: pane di sfiducia, di scoramento; quando sono caduti tutti i significati della vita, un tocco sulla spalla - una stupenda eucaristia - gli fa ritrovare un vigore nuovo: “e col vigore di quel pane camminò quaranta giorni e quaranta notti” ( 1Re, 19,8).
Il Signore ha raccolto tutti questi succhi biblici, non ha cancellato niente. Questo pane, non azzimo, ma ricco di tutte queste presenze, di questo spessore umano, converge nelle sue mani; Gesù ne farà il suo pane, vi aggiungerà il suo segno, e sarà anche il segno "della sua presenza tra voi e con voi", del suo vangelo, del Regno di Dio sognato, scoperto, vissuto insieme ai discepoli.
Lo spezzare del pane diventerà il segno nel quale i discepoli lo riconosceranno presente e lo accoglieranno come forza, come benedizione, come dono dello Spirito in loro, per sostentare il loro cammino.
Gesù nel pane vede il simbolo più compiuto del mistero, del suo essere, della sua missione, del significato della sua vita donata, tanto che, nel discorso di Giovanni, dopo 1a moltiplicazione dei pani, arriva ad identificarsi con il pane:"Io sono il pane della vita, chi mangia del mio pane ha in sé la vita" (Gv 6,48; 53).
Nel giovedì santo, quando i discepoli si guardano attorno smarriti e si domandano: “Cosa faremo senza di te?” Gesù, consapevole che l'uomo non può appoggiarsi su di sé, dice: “Io sono il pane della vita, senza di me non potete far nulla” come scrive il Vangelo di Giovanni ( Gv, 6, 35; 15,5) Gesù con queste parole vuole dirci: “nella misura in cui voi sarete tesi a vivere il vangelo e a consumare in voi l'esperienza che io ho fatto con voi, non sarete soli. Io sono con voi. Il segno della mia presenza con voi e tra voi sarà questo pane spezzato, in questa consonanza di cuori e di tensioni.” Il pane diventa dunque il segno della sua presenza tra i discepoli, con loro, in loro.
L'Eucaristia è il segno della totalità della vita di Gesù e di tutto l’ evangelo. Noi distinguiamo tra la mensa della Parola da un lato e quella del pane, dall'altro. Invece c’è un'unica mensa, perché Gesù fa corpo con il suo vangelo. Distinguendo fra i due momenti, facciamo del sacramento del pane, un rito magico e conchiuso in se stesso e della presenza di Gesù una presenza materializzata.
Nell'eucaristia troviamo tre momenti della vita e dell’esperienza di Gesù:
la gioiosa scoperta del Regno di Dio, del senso divino dell'esistenza e della vita;
il venerdì santo, l'oscurarsi del senso divino delle cose, della vita;
la gioia della Pasqua, la gioia del Logos, del Signore che risorge.
La gioiosa scoperta del Regno di Dio, del senso divino dell'esistenza e della vita.
La fractio panis è il momento di gioiosa scoperta del Regno dei cieli; va ricollocata nella totalità della vita di Gesù per essere ritrovata nella totalità della vita di ognuno di noi e nella totalità della storia della Chiesa.
Noi vorremmo capire tutto di Gesù, ma la conoscenza del mistero di Gesù è il frutto della nostra esperienza e della nostra umanità più matura, la si può raggiungere al termine di un cammino, non la si coglie all'inizio.
Ciò che ha guidato i discepoli è stato un oscuro intuito; essi hanno sentito che nella vicenda di Gesù si è espresso qualche cosa di essenziale e di assoluto sul destino dell'uomo. È in Gesù che essi avvertono come si siano compiute le attese dell'uomo, è in Gesù che si chiarifica il mistero dell’essere, è in lui che colgono la possibilità di vivere il quotidiano in maniera diversa e più grande. I loro occhi hanno visto attraverso Gesù qualcosa di Dio, il senso divino delle cose, dell’esistenza, della vita di ogni creatura e di ogni frammento della creazione.
Quando l'uomo interroga il profondo di se stesso, cosa cerca? Lo esprime per tutti noi l'invocazione, la preghiera di Filippo: “Mostraci il volto del Padre” (Gv 14, 8). In Gesù c'è la trasparenza del volto del Padre; è il mistero che ha un volto, un volto buono. Se v'è un volto buono, allora la vita ha un volto divino e tutto può avere senso, pace, grazia, consistenza.
L'ultima frontiera delle cose si gioca qui. O sono vere le voci che vengono dall'esperienza del vangelo di Gesù: il mistero ha un volto, un volto buono, il volto del Padre; o sono vere le voci che salgono dalle profondità oscure e allora il mistero rivelerebbe il nulla, il non senso, il vuoto, l’assurdo, il male. Non c'è altro.
L’Eucaristia è proprio l’attingere, l’accogliere, contro le voci oscure che ci portiamo dentro, l’evidenza del Regno di Dio, di un senso divino della vita e delle cose, di un divino che si cala nel quotidiano più quotidiano. Toccate dalla luce, le cose sono trasfigurate, mostrano una profondità diversa. Non c'è più nulla di insignificante; tutto è grande, tutto è grazia. Questo è quello che i discepoli avevano percepito attraverso Gesù. L'eucaristia è il segno di questa scoperta del Regno.
Gesù, nella vigilia della sua pasqua, comunica questo senso alto e divino dell’esistenza, queste divine speranze. Sono tutte intatte nel suo animo, mai così forti e chiare come in quel l'ora.
Dirà: "Non sono mai solo: io e il Padre siamo una cosa sola. Ho lasciato il Padre, sono venuto nel mondo; ora lascio il mondo e torno al Padre" (Gv 10, 30; Gv 16, 28).
Questa è l'ora della chiarezza, della trasparenza di Dio, E' l'ora luminosa, è l'esperienza dei vertici.
2) Il venerdì santo, l'oscurarsi del senso divino delle cose, della vita .
Poi verrà l'altra ora - e nella Messa noi celebriamo, viviamo anche questo - l'ora del venerdì santo, delle tenebre, dell'oscurarsi del senso divino della vita e delle cose.
È il Logos crocifisso, irriso, calpestato. “Era notte”, come scrive l’evangelista Giovanni ( Gv, 13, 30 .) - e mai notte fu più notte.
Gesù aveva aiutato i discepoli a cogliere Dio nel fiore, nella spiga, a percepire la presenza nascosta che veste la creazione di bellezza, di grazia. E i discepoli avranno detto: “Abbiamo toccato il fondo del mistero delle cose, della vita. Abbiamo capito”. Invece dovranno fare anche l'esperienza degli abissi, non solo quella dei vertici. Non si è mai compiutamente uomini finché non si fa questa dolorosa esperienza della notte. Quando camminando si è inghiottiti nella notte, quando si attraversa il versante notturno dell'esistenza, “la notte oscura”; allora si è rotti, spezzati, inghiottiti, frantumati. Nel venerdì santo questo sperimenteranno i discepoli, perché è morto il grande amico, Gesù, certo, ma anche e soprattutto perché è andato in frantumi con lui tutto il suo vangelo, essendo Gesù e il suo vangelo una cosa sola. Le chiarezze, le realtà sante, il Regno che i discepoli avevano scoperto, tutto il mondo che Gesù aveva portato e che essi avevano vissuto con lui: tutto è franto, è spezzato, è in frantumi.
Noi siamo i discepoli di questo Maestro. È qui il tragico del venerdì santo. Qui è la notte più cupa della disperazione, qui confluiscono le voci di Giobbe, di Geremia, del Qoelet che ci parlano della realtà come esperienza del vuoto, del nulla, del non senso, dell’assurdità demenziale delle cose, eco di una disperazione che sale da questo mondo profanato.
I discepoli vivono, dunque, il sacrificio della croce come lo spegnersi, l'offuscarsi nelle loro coscienze del senso divino delle cose, della vita, dell'umano. Dio rimane assente, lontano: è l’esperienza atea, che pure è un momento dell'esperienza cristiana. Non si arriva alla Pasqua senza passare attraverso l’ateismo. Gesù stesso è senza Dio in quel momento: “Padre, perché mi hai abbandonato?” È proprio lo sperimentare il mistero senza volto.
La Messa fa, infatti, memoria del venerdì santo, dell’oscurarsi del Logos divino che continua nella storia, come continua il martirio: Gandhi, Luther King, Romero sono solo alcuni nomi degli immolati. Ci sono poi le immolazioni nascoste, quotidiane, calvari non visibili, che vengono vissuti in tutte le case. Ma le parole ultime di Gesù sono: “Nelle tue mani colloco il mio spirito, il mio vangelo, il senso della mia vita, il mio tutto”. Nel Cristo sulla croce traspare il modo di amare sconfinato di Dio .
Il momento della peggiore oscurità, dell'assenza di Dio, diventa così il momento più alto dell'epifania di Dio. Vedere Dio nel fiore era facile, ma sulla croce lo vedono solo in due: il buon ladrone e il centurione. Sulla croce c'è la grande rivelazione: il Logos, Dio, è amore. Il crocifisso è la pura trasparenza di Dio, è il puro sì, è l'amen. Gesù sulla croce ha accolto, ha penetrato il mistero di Dio.
3) La gioia della Pasqua, la gioia del Logos, del Signore, che risorge.
Come si passa nell’esperienza dei discepoli dalla notte oscura del venerdì santo, dalla disperazione cupa alla gioia cosmica, all’esultanza della Pasqua in cui i discepoli "erano pieni di gioia e di Spirito Santo", come scrive Luca negli Atti (Atti,13,52) ?
Qualcosa di molto profondo si è imposto ai discepoli, li ha penetrati, li ha sconvolti. I Vangeli ce lo comunicano parlandoci delle apparizioni di Gesù risorto. Come leggerle? Sono realtà oggettive? O sono immagini, icone, attraverso le quali si vuole comunicare qualcosa di profondo, di sconvolgente che è avvenuto dentro di loro? A mio parere, infatti, le apparizioni e i vangeli stessi sono appunto come delle icone. L'icona non si preoccupa tanto dell'oggettività fisica, ma coglie lo spessore interno dell’avvenimento, il volto interiore, la verità più profonda.
Attraverso le icone delle apparizioni i discepoli tentano, dunque, di dire come da uomini spezzati, senza speranza, senza luce siano divenuti pieni di gioia. Cercano di esprimere l’evento che li ha rimessi in piedi, che li ha ricostituiti.
Il passaggio dalla morte all'Ascensione e alla Pentecoste è il tempo che i discepoli hanno impiegato a interiorizzare questa illuminazione. Sono passati da una religione di ricordi, di memorie, alla esperienza interiore della presenza del Cristo Risorto .
È una presenza mutata, diversa, nello Spirito, non più nella dimensione della carne. I discepoli hanno percepito questo senso fortissimo della presenza di Gesù, questo restare di Gesù fra loro e con loro. Ormai sanno che non lo perderanno più e che la vita non muore.
Se nel venerdì santo Gesù muore e il vangelo va in frantumi, la Pasqua è la trasparenza del Logos, è il permanere di tutti i valori. Allora è vero che l'ultima cifra delle cose è luce, amore, senso; è vero che c'è un Padre, che veniamo dal Padre e torniamo al Padre; che il dolore non è inutile, che ritroveremo in Dio tutto quello che credevamo perduto.
Quando avevano scoperto il Regno di Dio, i discepoli vedevano la luce sul volto di Gesù; dopo la Pasqua questa luce si è interiorizzata in loro. Questo è il grande fatto pasquale: le grandi realtà del Regno di Dio si sono interiorizzate, sono diventate costitutive dell'essere dei discepoli. Ormai possono andare nel mondo: la luce è dentro di loro.
Morte, resurrezione, ascensione, discesa dello Spirito Santo sono, dunque, un'unica esperienza macinata dentro di loro. Quando, infatti, i discepoli hanno tentato di dire questo indicibile della loro esperienza, che Gesù cioè è il vivente, che il vangelo è vero e che siamo chiamati a costruire il Regno portando Gesù dentro di noi, hanno espresso questa loro comprensione in tante icone. Così quando hanno capito che non avrebbero più potuto trattenere Gesù nelle carne e che Cristo li precedeva nel cammino verso il Padre e verso una vita piena hanno tradotto questa intuizione nell’icona dell’Ascensione, mentre quando hanno interiorizzato la presenza di Gesù e del vangelo hanno comunicato questa esperienza nell’icona della Pentecoste.
Noi siamo in un cammino progressivo verso la luce. La Messa è anche l’anticipo nel sacramento di questo mondo in cui tutto sarà luce e noi saremo consumati nella luce. Ma è dentro l'esperienza di Cristo e di coloro che comunicano alla sua vita che nasce la 1uce. Anch'io voglio consumarmi in quel grande fuoco in cui si è consumato Gesù e in cui si sono bruciati Giovanni, Paolo, Francesco...
Gesù ha consumato la sua vita: adesso tocca a noi compiere la sua esperienza; nella misura in cui la vogliamo compiere, Egli è dentro di noi e con noi. Non saremo soli a vivere questa divina esperienza della luce.
Allora le parole che ripetiamo nella Messa : “Fate questo in memoria di me” non si riducono a rinnovare un rito, ma vogliono dire: “Vivete la vostra vita come io l’ho vissuta, vivete questa esperienza di luce; fate della vostra vita un dono, diventate pane l'uno per l'altro”. Questo è l'eucaristia: vivere in noi la divina esperienza di Gesù, la scoperta del Logos, il passaggio attraverso l'offuscarsi della luce, attraverso il dolore e la sofferenza, per poi conoscere l'esperienza della Pasqua.
Dio ci conceda di fare l'esperienza di Emmaus, di approdare a questo gioioso trasparire della presenza del Signore risorto.
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1 Sintesi delle relazioni tenute da don Michele Do a Pallanza, nel fine settimana del 27-28 marzo 1982, testo non rivisto dal relatore, ma rivisto e sistemato da Clara Gennaro