Incontri di discernimento e solidarietà
Depositum charitatis

27 dicembre 2006


Antifona



C'erano solo cinque pani e due pesci.

Gesù, dopo aver reso grazie, li distribuì a cinquemila uomini e quando furono saziati disse ai discepoli: raccogliete i pezzi avanzati (colligite fragmenta) perchè nulla vada perduto.


Nel cap. 6 del Vangelo secondo Giovanni Gesù moltiplica i pani e i pesci, parla della fede, dell'Eucaristia, del pane che è il suo corpo, della carità, raccomandando di raccogliere i frammenti.

Riempirono 12 canestri.


Noi ci proponiamo di raccogliere frammenti di carità, esperienze vissute, per inserirle nel grande deposito della carità che lo Spirito riversa sempre e dappertutto nei nostri cuori.


Ben altro che 12 canestri!


Raccogliere per comunicare, per assecondare la comunicazione nello Spirito.




* * *


Una mamma culla il bambino che piange,

un padre fatica per mantenere la famiglia,

uno studente studioso è inchiodato al tavolino,

un malato sopporta, un ansioso non si ferma:

ognuno superando sè stesso si apre agli altri, lo stesso Spirito anima le più diverse situazioni

di miliardi di persone.


"Lo Spirito del Signore ha riempito l'universo,

egli che tutto unisce, conosce ogni linguaggio"

(Sap. 1, 7).


Riconoscersi inseriti nella stessa corrente, nelle dinamiche del Regno, conforta, rende umili, dispone alla collaborazione.


Evidenziando i segni dello Spirito

Si scopre il disegno di Dio.












IL DEPOSITUM CHARITATIS


"Cristo Signore, nel quale trova compimento tutta intera la rivelazione del sommo Iddio (cfr. 2 Cor. 1, 20; 3, 16-4, 6), ordinò agli Apostoli che l'Evangelo, prima promesso per mezzo dei Profeti e da Lui adempiuto e promulgato di persona, come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale lo predicassero a tutti comunicando i doni divini" (D.V. n. 7).


"Questa sacra Tradizione dunque e la Scrittura sacra dell'uno e dell'altro Testamento sono come uno specchio nel quale la Chiesa pellegrina in terra contempla Dio, dal quale tutto riceve, finchè giunga a vederlo faccia a faccia, com'Egli è" (D.V. n. 7).


"Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito Santo; cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la riflessione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro (cfr. Lc. 2, 19 e 51), sia con la esperienza data da una più profonda intelligenza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. La Chiesa cioè, nel corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finchè in essa vengano a compimento le parole di Dio" (D.V. n. 8).


"Carissimi, noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perchè lo vedremo così come egli è " (1 Giov. 3, 2).


Ciò che viene trasmesso è anche chiamato "depositum fidei".

Paolo raccomanda a Timoteo: "custodisci il deposito, evita le chiacchere profane e le obiezioni della cosiddetta scienza, professando le quali taluni hanno deviato dalla fede" (1 Tim. 6, 20); "custodisci il buon deposito con l'aiuto dello Spirito Santo che abita in noi" (2 Tim. 1, 14).


Noi possiamo parlare di un "depositum charitatis".

E' l'immensa corrente che attraversa tutta la storia dell'umanità "dal giusto Abele fino all'ultimo eletto", come dicono S. Agostino e S. Gregorio Magno, il cui principio è sempre l'amore incarnato nel figlio dell'uomo.

Siamo chiamati ad essere inseriti in questa corrente vivendo l'amore del prossimo e prendendo coscienza delle scelte evangeliche che ci è dato di fare.

Riflettendo sulle nostre esperienze cerchiamo di riconoscere le scelte che abbiamo fatto che ci sembrano più conformi al Vangelo, quelle in cui abbiamo amato gli altri come Gesù Cristo ha amato noi. Consideriamo il nostro modo di vivere, le nostre azioni e soprattutto le nostre intenzioni. Molto spesso la misura del nostro amore è determinata dalla pazienza. Anche la gioia profonda, diversa dalla felicità, precede e accompagna l'amore genuino del prossimo.

Questo riflettere su noi stessi non è al fine di una vana compiacenza ma per cogliere come lo Spirito del Signore è presente e operante in noi.

Mettendo a fuoco la carità che è in noi potremo riconoscere quello che è presente in altri credenti e non credenti, e quindi la presenza in tutti dello Spirito di Dio che, come dice l'antifona della Messa di Pentecoste, riempie l'universo.

Come in ognuno di noi, così in ogni gruppo, associazione, movimento è presente un "depositum charitatis", opera dell'unico e medesimo Spirito che si manifesta in forme molto diverse, mai contraddittorie.

Il riconoscimento del bene che c'è in noi e nelle comunità cui apparteniamo ci aiuta a riconoscere i limiti del nostro amore: quelle zone, forse molto ampie, che sono ancora dominate dal ripiegamento su noi stessi e dalla chiusura agli altri. Siamo così aiutati a riconoscere il bene che condividiamo con altri e quello che altri realizzano e che a noi manca.

Il riconoscimento del proprio "depositum charitatis" ci spinge così alla comunicazione della carità, che è la cosa che più fa crescere la Chiesa e che è la vera sconfitta della conflittualità e la realizzazione della pace.


Comunichiamo quindi una speranza: inserirci nella tradizione apostolica che progredisce nella Chiesa raccogliendo esperienze di carità, vissute o incontrate. Le dimensioni e le esigenze della carità ("Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità, e conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perchè siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio" - Eph. 3, 17-19) appaiono sempre più grandi: ognuno cogliendone un frammento, e senza assolutizzarlo, può cercare di integrarlo con le esperienze altrui.

La carità è sempre un moto interiore collegato a fatti, situazioni, azioni e sopportazioni di vario genere, che nasce in virtù dello Spirito Santo, nell'ascolto di Dio che ci parla nelle Scritture, nelle tradizioni, nel mondo.

Partiamo dall'ascolto di Dio che ci parla per mezzo di Paolo nella prima lettera ai Corinzi ("La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta" - 1 Cor. 13, 4 -7) e nella lettera ai Romani ("La carità non abbia finzioni: fuggito il male con orrore, attaccatevi al bene; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. Non siate pigri nello zelo; siate invece ferventi nello spirito, servite il Signore. Siate lieti nella speranza, forti nelle tribolazioni, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell'ospitalità. Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite. Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un'idea troppo alta di voi stessi" - Rom. 12, 9 - 16).


Quel che ci proponiamo è di raccogliere e comunicare fra noi e ad altri, in forma chiara e comprensibile a tutti, le esperienze che abbiamo fatto cercando di vivere la carità ai nostri giorni, partendo da alcuni temi che sono stati oggetto centrale della nostra riflessione.

I diciannove punti su cui ci siamo soffermati, che possono ovviamente crescere e diminuire, non sono una scelta suggerita dai nostri "gusti spirituali" (sempre importanti e rispettabili in chiunque) ma un primo esito di una lunga ricerca di "discernimento alla luce della Parola della dimensione sociale della nostra esistenza".

Si tratta quindi di una ricerca secondo una linea ben marcata di lettura del presente storico in vista di un intervento.

Alcuni concetti sono stati fondamentali nella nostra ricerca: una certa definizione di laicità, il rapporto fra mistica e politica, che si fonda sulla convinzione che la vita cristiana è essenzialmente esperienza di Mistero, e i tanti altri che sono, almeno per ora, espressi e compendiati in quei punti.

Il Depositum charitatis, strettamente connesso al Depositum fidei, alla tradizione apostolica, a un recupero del primato della parola di Dio e dello Spirito santificatore, al tempo stesso è permeato dall'urgenza di far crescere la "coscienza politica popolare" in un momento tanto difficile.

Quindi la nostra ricerca ci appare un cammino di conversione, un intervento ecclesiale e politico, intendendo questi termini in modo molto diverso da quello corrente.

La sfida che ci sembra più ardua da affrontare è quella di non lasciarsi prendere dall'autoreferenzialità; dalla tentazione del protagonismo, puntando su qualcosa di nuovo e di diverso. Da queste tentazioni pensiamo che ci possa salvare solo lo sguardo fisso sul Signore autore e perfezionatore della fede.

L'iniziativa è sempre e solo di Dio, noi cerchiamo di narrarla.

La nostra fede ha bisogno di una Chiesa visibile in cui ci sia dato sacramentalmente di riconoscere la presenza dello Spirito santificatore.

Anche noi vorremmo poter dire quel che scrive S. Giovanni nella sua prima lettera (G. 1, 1 - 4).

Ma la visibilità è oggi spesso confusa con la grandezza delle strutture, con la bellezza dei riti, con la spettacolarità, con i raduni di massa.

Vorremmo ritrovare la visibilità nei piccoli, nei poveri, nei sofferenti, negli scartati.

Il Dio ebraico cristiano si rivela nella storia. Oggi possiamo incontrarlo cercando quello di cui, alla luce del Vangelo, c'è più bisogno: il Mistero rivelato nel Vangelo al di là dei valori e dei principi etici.

























I testi non altrimenti firmati sono di Pio Parisi




















IN NUCE



1. In primo luogo l’ascolto adorante della parola di Dio.


Le donne e gli uomini si innamorano.

I genitori amano i figli e viceversa.

L’amicizia anima il lavoro, la comunicazione, la comunione.

Ci si scopre appartenenti a tutta l’umanità come a un’unica famiglia.


Si è offesi e offensori,

sfruttati e sfruttatori,

traditi e traditori,

schiavi delle ricchezze,

si è in guerra.


C’è una sapienza umana che a diversi livelli ci guida in questa realtà piena di contraddizioni.

C’è una sapienza che non è di questo mondo, nè dei dominatori di questo mondo ... una sapienza divina, misteriosa. Questa è la sapienza che cerchiamo nell’ascolto adorante della parola di Dio.

La Messa è la sorgente e il compimento della sapienza divina, celebrazione di fede della morte e risurrezione di Gesù Cristo. La Messa è anche il momento della massima contraddizione fra l’immensità del Mistero e la nostra scarsa consapevolezza.


2. Spirito e strutture.


Capita spesso che ci poniamo il problema:

  • la scuola non va: dipende dalle strutture e dai docenti;

  • gli ospedali nel mezzogiorno funzionano meno che al nord: dipende dalle attrezzature e dai medici;

  • la società italiana è piena di guai: dipende dal governo e dalla coscienza popolare;

  • hanno costruito una nuova chiesa ma molti rimpiangono il parroco di prima.


“Lo Spirito è pronto ma la carne è debole” (Mc. 14, 38) dice Gesù a Pietro nell’orto del Getsemani.


Ci troviamo sempre di fronte a due fattori: le persone e il loro animo che possiamo chiamare spirito, le cose, le organizzazioni, le istituzioni che chiamiamo strutture.


Il sole è la causa della luce nella mia stanza ma se non ci fossero le finestre starei al buio. Lo Spirito, come il sole, è la sorgente della luce. Le strutture, come le finestre, sono condizioni necessarie.

Se si pensa solo allo spirito si rischia di rimanere nelle nuvole. Se si pensa solo alle strutture non si fa un passo avanti e dopo un momento di euforia ci si ritrova come prima.



3. La laicità come profezia.


La laicità è uno dei temi di cui più si discute e si scrive da parte di chi si professa cristiano e chi ha altri punti di partenza.

Abbiamo a lungo ricercato il significato della laicità ponendoci in ascolto della parola di Dio. Il risultato ci è apparso molto chiaro: la laicità è la profezia del popolo di Dio sul mondo, responsabilità dei credenti in Cristo, attesa operante di risurrezione. Ogni parola ha un forte significato.

La profezia non è, come spesso si pensa, la previsione di quello che accadrà, ma l’ascolto della parola che Dio ci rivolge nel Vangelo e in quello che succede nel mondo.

La laicità è quindi superamento di ogni chiusura nei propri recinti di idee come di intenti.

Pochi accettano questa definizione di laicità perchè si difendono nei loro confini.

(Lc. 10, 21-22).



4. Nessuno vive per sè stesso.


E’ un elemento fondamentale della storia della salvezza che contrasta con un modo di vivere e di pensare oggi dominante.

Farsi gli affari propri è un principio di saggezza popolare, in particolare romana, che può significare atteggiamenti assai diversi: dal rispetto per gli altri e per i loro problemi al ripiegamento su se stessi e sui propri interessi personali. Così il “privato” può significare cose assai diverse.

Quel che Dio ci ha rivelato e ci rivela è la sua presenza nel mondo per aiutarci a superare l’egoismo, la competitività, la sopraffazione.

Lo Spirito di Dio ci guida sempre e dappertutto verso la pace.

S. Paolo scrive: “dite ciascuno la verità al proprio prossimo perchè siano membra gli uni degli altri”; “portate i pesi gli uni degli altri e così adempirete la legge di Cristo”.



5. La salvezza mistero di povertà.


“Gesù Cristo da ricco che era si è fatto povero per noi” (2 Cor. 8, 9).


“Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Gesù Cristo, il quale, pur essendo di natura divina... spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo” (Fil. 2, 5).


Innumerevoli sono i modi della povertà: dalla mancanza dei beni materiali all’oscurità interiore di fronte al mistero della vita e della morte.

Così la seduzione delle ricchezze ci assale sotto le vesti più diverse, non di rado con l’apparenza di bene: denaro, potere, successo, gloria mondana, serena incoscienza, ecc.

Nel mondo siamo tutti piccoli, poveri, mortali; ma una cultura dominata dal mercato ci stordisce, ci illude, ci tradisce.

La Chiesa nella sua dimensione istituzionale è fortemente tentata di abbandonare la sequela del suo Signore povero.



6. La cattedra dei piccoli, dei poveri, dei sofferenti.


“Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei.... non fate secondo le loro opere, perchè dicono e non fanno” (Mt. 23, 1-2).


Il maestro interiore è lo Spirito Santo che opera in ognuno di noi e riempie l’universo. (cfr. Giov. 14, 25-26).


“Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: “ti rendo lode, Padre, signore del cielo e della terra, perchè hai tenuto nascoste queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli. Si, Padre, perchè così a te è piaciuto” (Lc. 10, 21-22).


Questa cattedra richiede la frequenza obbligatoria: non solo per i piccoli, ma con i piccoli, da piccoli.

Innumerevoli sono le altre cattedre: alcune necessarie, altre alternative, alcune contrarie.



7. Per capire, aiutare ed essere aiutati dai piccoli, dai poveri e dai sofferenti occorre radicarsi nelle loro realtà anche a costo di profondi cambiamenti nel nostro modo di vivere e di pensare; una vera conversione che comporta lo sradicamento da cose che forse abbiamo molto amato.


Cosa intendiamo con “radicamento” nella realtà dei piccoli, dei poveri e dei sofferenti?

  • “Stare” con loro e non solo visitarli o invitarli a casa nostra.

  • Ascoltarli e non solo insegnar loro come vivere.

  • Accoglierli aprendo loro le porte della mente e del cuore, sentendosi realmente fratelli.

  • Condividere i beni, le preoccupazioni, le speranze.

  • Comprendere i problemi sociali dalla loro prospettiva, quella di chi li vive sulla propria pelle.

  • Promuovere processi di cambiamento.


Per questo è necessario “uscire, come Abramo dalla propria terra”, con uno sradicamento che può essere molto doloroso: una vera conversione.



8. E' necessario patire per compatire e capire. Nel benessere è forte il pericolo dell'ottundimento delle coscienze e della responsabilità verso gli altri.


Non si capisce il senso più profondo di quel che siamo e di quel che accade a ognuno di noi e a tutti gli altri.

Si capiscono sempre di più tante cose ma rimangono gli interrogativi di fondo sulla vita e per lo più si cerca di non pensarci.

Siamo in fuga dal patire nonostante ci si ripresenti sempre come inevitabile.

Così siamo in fuga anche da noi stessi, in una specie di alienazione permanente.

Siamo in fuga dagli altri anche quando cerchiamo qualcuno con cui andare avanti.

Siamo in fuga dalla storia verso cui non ci sentiamo responsabili perchè non capiamo che senso abbia.

Cercando di accettare la inevitabile sofferenza ci apriamo agli altri, impariamo a compatire e cominciamo a capire e quindi a poterci impegnare.

La luce e la forza per compiere questo cammino viene dal mistero della passione, morte e risurrezione di Gesù Cristo.



9. Occorre liberare il concetto di politica dalla identificazione, estremamente riduttiva, con la ricerca e con la gestione del potere, ritrovando il primato della coscienza politica e della politica "nel basso" che ritesse i rapporti fraterni, dalla città di Caino verso la Gerusalemme celeste.


Quando si parla di politica oggi s'intende la ricerca e la gestione del potere.

Se ci si domanda quanto questa politica sia conciliabile con la vita cristiana, sequela del Cristo che per noi si è fatto povero, la risposta è negativa. Con questo non si esclude che ci siano cristiani seri impegnati, almeno per un certo tempo, nella gestione del potere, ma il discorso che basta fare tutto con spirito di servizio è una facile astrazione dalla realtà.

Il potere smorza la gratuità, la militanza ignora il radicamento.

Il Vangelo non è un'alternativa "di" potere, ma "al" potere.

C'è un'altra politica pienamente cristiana anche se poco riconosciuta come tale ed è quella che si svolge "nel basso" senza puntare all'alto ma ritessendo rapporti fraterni nella società frammentata e sfilacciata.

Questa politica, importante per la democrazia e la pace, è anche essenziale per la Chiesa chiamata ad annunciare e testimoniare il Vangelo.



10. Si dice che il cristiano nel mondo deve seguire e proporre i valori del Vangelo. Ciò implica una riduzione del vangelo ad etica lasciando in secondo piano l'annuncio del Regno, la rivelazione del Mistero infinito di Dio nel Mistero pasquale della morte e risurrezione di Gesù Cristo.


Il Vangelo, annuncio della Buona Novella, è rivelazione del Mistero di Dio in Gesù Cristo.

Non nega la legge di Mosè nè la legge naturale, ma la sorpassa con un'etica fondata sulla morte e risurrezione di Gesù. E' la scoperta del valore della povertà, della minorità, per fare spazio alla potenza salvifica di Dio che entra in ognuno di noi e nella storia mediante la nostra debolezza.

Riducendo il Vangelo ad un'etica naturale, a un insieme di valori, si ricade nell'impotenza della legge, quella di Mosè e quella naturale, e si nega la Grazia.

Nel mondo che si va globalizzando a partire dal mercato è sempre più urgente la testimonianza cristiana della gratuità.



11. Quando si parla di Chiesa si intende molto spesso la gerarchia e pochi altri considerati esponenti qualificati del mondo cattolico. Occorre tornare alla Chiesa popolo di Dio del Concilio Vaticano II.


C'è un diffuso e forse crescente interesse a sapere cosa pensi la Chiesa su varie questioni, dalla morale più personale a quella sociale e politica. Ma quando si parla di Chiesa si intende il Papa, i Vescovi, i preti, i teologi e qualche altro laico che frequenta i luoghi di culto e partecipa a iniziative promosse dall'alto, come il prossimo convegno di Verona.

Per trovare la vera Chiesa dobbiamo ovviamente porgerci in ascolto adorante della parola di Dio.

Ci aiuta grandemente quel che a detto il Concilio Vaticano II in due grandi costituzioni. La Chiesa si può comprendere a partire dalla contemplazione di fede del Mistero di Dio, che è Padre, Figlio e Santo Spirito.

La Chiesa poi è il popolo di Dio, presenza operante dello Spirito Santo che non ha confini da noi stabiliti.

Questo popolo è chiamato a partecipare al sacerdozio, alla regalità e alla profezia del Signore Gesù Cristo.

Questa partecipazione fa crescere la comprensione del Mistero rivelato, del Vangelo.



12. C'è una Chiesa del silenzio - diversa da quella di un tempo di oltre cortina - che non parla perchè non c'è chi l'ascolta e talvolta perchè ha timore di parlare; è chiesa anche chi non si professa cristiano ma vive nello spirito del Vangelo e si affida a Dio.


Si parla molto della Chiesa che parla.

Solo nel silenzio si scopre la Chiesa del silenzio.

La Chiesa che parla, dal Papa al più piccolo catechista è importantissima perchè annuncia il Vangelo.

Qualche volta sconfina e perde l'occasione di tacere.

La Chiesa del silenzio è presente in tutti quelli che fanno la volontà di Dio, amando il prossimo, sopportando le prove, portando i pesi gli uni degli altri.

Ci sono poi gli "scartati" che vengono impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale (1 Pt. 2, 5).



13. Il silenzio nella Chiesa è condizione per l'ascolto della Parola e per l'adorazione del Mistero: "Sta in silenzio davanti al Signore e spera in Lui" (Salmo 37).


Lo svolgersi della storia umana con continue accelerazioni intreccia innumerevoli progressi con immani catastrofi, causate dalla natura e più ancora dalla violenza degli uomini.

Siamo sostenuti, attraversati, innalzati e abbattuti, travolti da forze immense che non possiamo controllare.

Spesso non ce ne accorgiamo o ci adattiamo, non viviamo ma siamo vissuti. C'è una forza più grande che ci consente di resistere: il silenzio.

C'è un silenzio esteriore di cui sentiamo il bisogno nella città rumorosa.

C'è un silenzio interiore che s'impara interrompendo il flusso di pensieri e sentimenti. E' condizione essenziale per il vero ascolto del singolo che ci si presenta, della società in cui viviamo, del Mistero infinito che ci trascende e ci attraversa.

Una Chiesa che trascura il silenzio può anche crescere ma senza l'anima: è un sale che diventa insipido.



14. La gratuità. La crescita del volontariato è accompagnata spesso dal declino della gratuità.


Nella storia del lavoro sociale in Italia la comparsa dell'associazionismo volontario - intorno alla metà degli anni '70 - ha rappresentato un fatto di enorme importanza per il passaggio da una logica assistenziale a una prospettiva "politica" in senso ampio.

Si tratta di una grande realtà e di una ancora più grande speranza per il futuro.

C'è tuttavia un rischio ed una corrosione evidente già in atto: la perdita della gratuità.

E' un fenomeno collegato alla crescita quantitativa delle varie iniziative ed alla pressione di una cultura dominata dal mercato globalizzante.

L'immensa sfida a cui bisogna far fronte è quella di conservare ed accrescere lo spirito senza trascurare le strutture in cui necessariamente deve calarsi. Calarsi ma non per estinguersi.



15. Il servizio della comunicazione delle esperienze spirituali.


Lo Spirito di Dio riempie l'universo.

Ci è dato di riconoscere la presenza dello Spirito in tante scelte, in tanti comportamenti di singoli e di gruppi.

Quando le esperienze spirituali si incontrano si riconoscono ed entrano in risonanza con una sintonia spirituale immediata e confortante.

Molto spesso tuttavia le esperienze spirituali non si incontrano e sperimentano la solitudine e la tentazione di ripiegarsi e di rinchiudersi.

Ecco allora l'importanza di un servizio che faciliti la comunicazione fra esperienze diverse.

La condizione fondamentale di tale servizio è la gratuità, il non proporsi per un'affermazione personale.

Sembra questo un servizio particolarmente proprio dei pastori e sembra spesso carente; dobbiamo sentirci chiamati a collaborare con loro e anche in qualche modo a supplire.

Ogni cristiano dovrebbe avere il carisma dell'universalità per riconoscere l'universalità dei carismi, cioè che tutti hanno qualcosa di valido da comunicare.



16. Il superamento dell'autoreferenzialità e del considerarsi soggetto proponente della salvezza: da parte di singoli, di comunità, di movimenti e delle stesse realtà ecclesiali. Dio propone, le creature narrano la bontà di Dio e aderiscono alla sua iniziativa.


Autoreferenzialità è un termine che esprime bene la tendenza a riferire tutto a sè stessi: l'inizio, lo svolgimento e il fine di quello che pensiamo e facciamo.

E' quindi la negazione che Dio sia il vero protagonista della nostra vicenda personale, della storia dell'umanità, dell'evoluzione del cosmo.

E' una tentazione che cattura i singoli, le famiglie, le associazioni, le aziende, i partiti, gli organismi statuali, le entità religiose e pervade ogni ambito dell'esistenza.

Non va confusa l'autoreferenzialità con la ricerca di vie nuove per la fede come per la politica, che vanno ricercate nel discernimento dei segni dello Spirito.

Gesù nel deserto resistendo alle tentazioni del demonio rifiuta di porsi nella storia in modo autoreferenziale.



17. La resistenza e l'opposizione al dominio economico, politico e militare da chiunque teorizzato ed esercitato, specialmente nei confronti delle grandi concentrazioni.


Il potere che si diffonde e si diluisce può essere buono e necessario. Il potere si concentra sul piano economico, politico, militare, e causa squilibri, ingiustizie, violenze di ogni genere, in modo subdolo o manifesto e conclamato.

Molti non ci pensano, vivono più o meno tranquilli, acquiescenti, accettando e in qualche modo collaborando al male.

I mass-media in larga misura, gestiti da chi ha gran potere, anestetizzano le coscienze.

La religione, quando si impoverisce di fede e si arricchisce di riti e di osservanze, non inquieta nè stimola le coscienze nei confronti del grande disordine.

Ci sono minoranze profetiche che vivendo in ascolto della parola di Dio resistono e combattono con la non violenza.

C'è poi l'immenso popolo che non ha potere e che operando con gratuità e solidarietà rende meno ingiusto e disumano l'attuale "ordine mondiale".



18. Non dilapidare le esperienze di chi ci ha preceduto, specialmente di quelli non riconosciuti come testimoni, emarginati e scartati.


In ogni momento si presentano situazioni nuove per cui è necessario scoprire e imboccare vie nuove.

Chi ha qualche potere è facilmente portato a pensare che bisogna cominciare tutto da capo; ma questo può essere il modo più sicuro di ripetere gli errori del passato, dimenticando il bene realizzato.

Chi ci ha preceduto non sono solo quelli che hanno esercitato qualche potere. C'è il popolo immenso dei piccoli, dei poveri, di quelli che non hanno contato. E poi ci sono quelli che non sono stati riconosciuti, che sono stati emarginati, scartati. Far memoria di loro può essere un'opera di giustizia e ritrovare autentiche esperienze "profetiche" che indicano vie nuove per i tempi nuovi.




19. Aprirsi alle esperienze di altre religioni.


Aprirsi significa superare le chiusure: il mio, il tuo, il nostro, il vostro, ecc.

Queste chiusure ci sono a tutti i livelli: dal bene materiale di cui mi considero proprietario, alle mie conoscenze di persone e di scienze, ai miei successi, alle mie sofferenze.

L'apertura e la chiusura più grandi sono possibili nel modo di vivere l'esperienza religiosa. La religione è l'esperienza in cui la persona umana vive la sua più profonda intimità e si protende verso il Mistero infinito. E' quindi il momento in cui più ci si avvicina , come i sentieri che, partendo da punti anche distanti, si avvicinano salendo verso la stessa cima. Ma se proprio nella religione ci si contrappone si precipita in basso e si perde la vetta.

La vera religione unifica e ricompone l'umanità frammentata. La religione senza ricerca del Mistero crea schieramenti e conflitti.








































ESPERIENZE E RIFLESSIONI



1. In primo luogo l’ascolto adorante della parola di Dio e l’Eucaristia.


Nelle esperienze negative della nostra vita cerchiamo una risposta con la nostra scienza e sapienza umana. Ma c’è una sapienza divina che va accolta adorando. Ecco alcune situazioni negative.


Offesi

Viene da domandarsi chi è offeso.

I modi con cui si è offesi sono innumerevoli: vanno dalle parole sprezzanti rivolte a noi, ai nostri parenti e amici, ai giudizi negativi manifesti o occulti, quando si parla male di noi. Penso che per molti l’offesa più grande consiste nel fatto di non essere considerati: non conti nulla, se parli non ti ascoltano, è come se non esistessi.

Si è offesi a tutte le età, in particolare quando si è bambini e quando si è vecchi. Ma quando si è nel pieno delle forze il non essere riconosciuti per quello che si è e si potrebbe fare, è un’offesa più cocente.

Da offesi con facilità si diventa offensori, con un comportamento “uguale e contrario”: botta e risposta, e non si sa talvolta come e quando finisca.


Sfruttati.

La gran maggioranza delle persone. Ma c’è anche una tendenza molto diffusa a considerarsi sfruttati anche quando in realtà si è piuttosto sfruttatori.


Traditi.

Lo si è dalla controparte e quel che è peggio dagli amici. Si tratta talvolta di questioni molto piccole, che potrebbero quasi rientrare nel gioco, ma altre volte ci sono di mezzo affari molto grandi e addirittura l’orientamento di tutta la vita. Anche in questo caso capita che con la coscienza viva di essere traditi non ci si accorge di essere in qualche modo traditori, almeno di “aver tradito le attese…”.


L’elenco di situazioni negative che non mancano nella nostra esistenza potrebbe non finire mai. A che serve allora questo richiamo così elementare e affrettato? A riflettere su quali possono essere le nostre risposte, le nostre reazioni, specialmente quelle interiori: i pensieri e i sentimenti.

Ci sono reazioni spropositate: ricevo un colpo e rispondo con due, tre e… Ci sono reazioni che si basano su un principio di uguaglianza. Nel Primo Testamento si diceva “dente per dente, occhio per occhio”.

Ci sono risposte diversamente virtuose: lasciar correre per non amareggiarsi, per non complicare le situazioni e i rapporti, per timore di mettersi contro, ecc. Veramente virtuoso è il non rispondere per esercitare la virtù della pazienza, per promuovere una vera giustizia che si fondi sulla verità e anche sul rispetto per ogni persona.

La sapienza umana scopre e suggerisce innumerevoli atteggiamenti che partendo dai pensieri e dai sentimenti più interiori si traducono nelle parole, nelle opere e in tante invenzioni di una realtà che è sempre nuova.


C’è una sapienza che non è di questo mondo


S. Paolo dice che c’è “una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo che vengono ridotti al nulla… una sapienza divina, misteriosa” (1 Cor. 2, 6-7).

I sapienti di questo mondo sono importanti e vanno rispettati ma non sono in grado di capire la sapienza divina. Lo dice Gesù nel Vangelo: “Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli” (Lc. 10, 21).

Questa sapienza divina ci è stata rivelata con pienezza da Gesù, figlio di Maria e figlio di Dio.

Ed ecco che le reazioni a tutte le situazioni della vita, offesi e offensori, sfruttati e sfruttatori, traditi e traditori, cambiano profondamente perché vengono dalla sapienza divina.

La sapienza divina rivelata da Gesù non sostituisce quella umana ma la supera, non va in altra direzione ma va molto più avanti.

L’offeso, lo sfruttato, il tradito sa che Gesù, offeso in mille modi fino al tradimento di Giuda, in questo modo ci salva dal peccato e dalla morte. Lui è risorto e noi risorgeremo con Lui.

Le beatitudini annunciate da Gesù: “Beati i poveri… beati voi che ora avete fame… beati voi che ora piangete” (Lc. 6, 20-21) non sono comprensibili da una sapienza umana ma lo sono per la sapienza divina.

La stessa sapienza divina ci insegna a impegnarci con tutte le forze per aiutare gli offesi, gli sfruttati e i traditi e a far questo mettendoci dalla loro parte e pagando tutte le conseguenze.


E come possiamo lasciare entrare in noi questa sapienza divina che cambia tutta la nostra vita?

Con l’ascolto adorante della parola di Dio.

La parola di Dio: dove si sente? Dove si legge? Dove risuona? Dove si trova? Dappertutto, sempre, in mille modi diversi.

Cominciamo dal Vangelo, la Buona Notizia, che si trova nei quattro Vangeli scritti da Matteo, da Marco, da Luca e da Giovanni. Quanto aspettiamo qualche lettera amica che ci porti buone notizie. Ogni pagina del Vangelo è una lettera che ogni giorno ci arriva da chi più di ogni altro ci è amico, il Figlio di Dio e di Maria.

Rileggiamo, o almeno ricordiamo ogni giorno, nelle più diverse circostanze, una pagina del Vangelo.

Per questo è necessario far silenzio anche dentro di noi: finchè rimugino le mie idee, penso ai miei problemi, mi fermo sulle mie simpatie e antipatie, non ascolto quello che Dio mi comunica.


E il mio ascolto deve essere adorante. Questa parola dice tutto ma può non dire nulla. Adorare Dio che ci parla significa riconoscere, come sappiamo, che Lui è tutto per noi, e rendersi pienamente disponibili alla sua volontà. Gesù sul monte degli Ulivi “in preda all’angoscia” pregava “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia ma la tua volontà” (Lc. 22, 42).


Nell’ascolto adorante della parola di Dio la sapienza di Dio entra in noi e tutto quello che accade in noi e attorno a noi ci svela un significato nuovo, straordinariamente più bello … e tragico al tempo stesso.

L’ascolto adorante della parola di Dio è la fede e con essa la speranza e la carità.


C’è chi pensa che la fede sia un fatto tutto interiore, e chi ce l’ha beato lui, e chi non ce l’ha non ci può fare niente. L’importante è essere brave persone ed andare d’accordo.

Ma nella prima lettera dell’apostolo S. Giovanni leggiamo: “Tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede” (1 Giov. 5,4).

Qui nel vocabolario di Giovanni il mondo significa lo spirito che si oppone alla solidarietà, all’amore, all’insegnamento di Gesù. La vittoria poi non è la sconfitta dell’avversario, il predominio delle armi e della potenza economica.

La fede è quella forza dello Spirito che converte le menti e i cuori, li riempie della sapienza divina e opera la pace.

Si comprende quindi come il primo punto che orienta la nostra ricerca è la fede, è l’ascolto silente e adorante della parola di Dio, è quella sapienza divina che non sostituisce la sapienza umana ma rivela il significato più profondo di tutto ciò che è e che accade in ognuno di noi, nella storia, nell’evoluzione del cosmo.




Le parole che Dio ci rivolge e che impegnano la nostra fede sono innumerevoli e ogni giorno nuove, ma tutte si ritrovano in un’unica Parola, il Verbo:


“In principio era il Verbo,

e il Verbo era presso Dio

e il Verbo era Dio”

“E il Verbo si fece carne

e venne ad abitare in mezzo a noi”.

(dal prologo del Vangelo secondo Giovanni).


Il Verbo (o la Parola) è il Figlio di Dio e di Maria, Gesù Cristo.


Tutta la nostra ricerca può quindi essere considerata come un tentativo di realizzare quanto è mirabilmente proposto dalla Lettera agli Ebrei:


“Deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza

nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore

della fede” (12, 1-2).


Tutto converge in Cristo perché tale è il volere di Dio: “Il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Efesini, 1, 10).

E tutti i misteri della vita di Gesù convergono nel Mistero Pasquale, nella sua morte e risurrezione.



L'eucaristia

La Messa è la sorgente e il compimento di ciò che ci è rivelato: della parola che Dio ci rivolge nelle Sacre Scritture, nella tradizione e in tutto il creato; nel più interno del nostro cuore, nelle svolte della storia, nell'evoluzione del cosmo.

Dobbiamo tuttavia confessare che la Messa è anche il momento della massima contraddizione fra l'immensità del Mistero che si celebra e la scarsa consapevolezza di quanti ci partecipano.



Fede e religione


Sempre più spesso ci si accorge della necessità di distinguere la fede dalla religione.

Alle volte per religione e religiosità si intende la fede stessa e allora non ha più senso cercare la distinzione fra fede e religione.

Non di rado, tuttavia, ci si preoccupa della propria o altrui religiosità senza preoccuparsi che si tratti veramente di vita di fede.

Alcuni poi vivono una forte crisi di religiosità e non sono aiutati a scoprire che al fondo è la loro fede che cresce.

Per questo è opportuno e anche urgente distinguere la religiosità dalla fede.

Con S. Tommaso d’Aquino possiamo dire che la fede, con la speranza e la carità sono le virtù teologali, che cioè hanno per oggetto Dio stesso. Credo e la mia mente e il mio cuore escono da me, quasi si scordano di me per rivolgersi a Dio stesso, alla sua parola.

Quando nella preghiera, anche raccolta e insistente, tengo in primo piano ciò di cui ho bisogno e che chiedo per me o per altri, Dio solo sa quanto è un atto di fede, cioè di attenzione prevalente a Lui, e quanto è un ripiegamento su me stesso e sui bisogni di coloro per cui prego.

Ma è sopratutto nella preghiera comunitaria, che si esprime con dei riti, che la religiosità può svilupparsi senza che ci sia una vera crescita della fede. Celebrazioni solenni di Messe in occasione di matrimoni e funerali, magari di stato, rischiano di diventare delle grandi e accurate recite a soggetto religioso più che celebrazioni di fede del Mistero infinito di Dio che ci si è rivelato nel Mistero della morte e risurrezione di Gesù Cristo.


Le opere di misericordia, che un tempo avevano uno spazio molto grande nella catechesi, venivano proposte come “opere di religione” o come attuazione della virtù teologale della carità, intimamente legata alla fede e alla speranza. E oggi?

Similmente dobbiamo domandarci quanto il nostro impegno sociale, per una migliore convivenza umana sia mosso dalla carità di Cristo, in modo più o meno esplicito, e quanto sia determinato solo dal desiderio di una osservanza etica e religiosa. Solo Dio sa quello che c’è negli animi; ma noi non dobbiamo trascurare i discorsi con cui cerchiamo di stimolare e confortare l’impegno nostro e altrui.


Cosa significhi porre al primo posto la parola di Dio ce l’ha testimoniato Mario Castelli di cui ha scritto P. Pino Stancari : “Mario Castelli non era un biblista. Non ha mai dimostrato, comunque, di sentirsi per questo escluso da un contatto diretto e impegnativo con la Parola di Dio, costantemente letta, meditata, studiata, annunciata e interpretata. Più ripenso alle conversazioni avute negli anni, più leggo e rileggo le testimonianze scritte che ci ha lasciato nel corso della sua vita, e più mi rendo conto che la Parola di Dio è stata costantemente presente - anzi determinante - in tutta la sua ricerca e in tutta la sua attività di studioso e di ecclesiastico.

Si avverte in tutte le testimonianze di padre castelli la larghezza di un respiro che costantemente invita ad affacciarsi su orizzonti amplissimi: nello stesso tempo l'attenzione è sempre rivolta alla situazione storica concreta, con i suoi antefatti e le sue forme oggettive. Questa capacità di stare nella concretezza delle vicende umane, analizzate e scandagliate con tutti gli strumenti a sua disposizione, si coniugava per lui con l'abitudine a contemplare la storia intera, abbracciandola nel suo svolgimento sempre carico di sorprese e, alla fine dei conti, inafferrabile. Il soffio della Parola di Dio animava il respiro di padre Castelli: avviene così che la realtà spicciola, studiata nell'immediatezza più stringente, prenda luce nelle dimensioni dell'eterno e dell'universale.

Anche quando padre Castelli non cita la Parola di Dio, è percepibile l'intensità del respiro divino.

Parla dell'Italia, dell'Europa, di conflitti, di pacificazioni; parla di quel che è avvenuto negli ultimi secoli e di quel che sta avvenendo nell'epoca contemporanea; parla del secondo, del terzo e quarto mondo; utilizza la terminologia delle scienze umane e sociologiche, ma il respiro è ritmato sulla lunghezza d'onda di una Parola che viene prima ed è ultima: la Parola che permette e che instaura finalmente la misura definitiva". (Mario Castelli, Vangelo e politica, Scriptorium 2004, pp 9-10)













  1. Spirito e strutture


I

Cinque esperienze su cui riflettere.


  1. La realtà della scuola, anche fermandosi alla situazione italiana, appare grandissima e estremamente varia. Senza ignorare tutto quello che c’è di positivo, appaiono evidenti difficoltà ed elementi di crisi.

L’attenzione di quanti hanno, anche un minimo, a cuore questa realtà si rivolge a tanti aspetti che possiamo considerare strutturali: gli edifici, i sussidi scolastici, i vari interventi normativi. Ma l’attenzione e le diverse valutazioni si rivolgono anche alle persone, al loro animo, alla loro buona volontà: gli insegnanti e tutto il personale scolastico, gli studenti, i genitori ed ogni associazione che si interessa della scuola.


  1. In una trasmissione della radio ho sentito recentemente una persona che conta intervenire in un dibattito sulla diversità della sanità nel Nord Est e l’Emilia Romagna nei confronti della Calabria, con la seguente affermazione: si parla sempre di ospedali e di attrezzature carenti ma non si tiene presente che la mala sanità dipende dai medici, dagli infermieri e da tutto il personale sanitario.

Questo diceva quel personaggio, ma forse non sono pochi quelli che la pensano nello stesso modo.


  1. Capita spesso di sentire o di leggere, con delle sfumature diverse, giudizi positivi sul popolo italiano: brava gente…. Al tempo stesso si sentono e si leggono giudizi negativi su quelli che governano, quelli che contano sul piano politico, economico, culturale e religioso, e conseguentemente sulle leggi, sugli istituti, sulle opere che questi intraprendono.


  1. Quando c’era il parroco precedente era tutta un’altra cosa: ci si poteva parlare di tutto e lui ascoltava e aiutava come poteva. Adesso è stata costruita la chiesa nuova, ci sono varie iniziative e le persone che si accostano alla parrocchia sono notevolmente aumentate di numero, ma è difficile che il parroco ti ascolti.

A tutti i livelli della vita della Chiesa si ripresentano due realtà: le persone con il loro modo di vivere la religione e le istituzioni, le organizzazioni, i riti e le opere e coloro che ne sono responsabili.


  1. “Lo spirito è pronto ma la carne è debole” (Mc. 14, 38). Così dice Gesù a Pietro nell’orto del Getsemani dopo averlo esortato a non dormire e a pregare per non cadere in tentazione.

Lo spirito e la carne, è un’esperienza che facciamo in noi stessi, forse da quando dobbiamo alzarci dal letto al mattino fino a sera, nelle situazioni più diverse delle nostre giornate e nei diversi tempi della nostra vita.


Abbiamo accennato in modo molto semplice a cinque esperienze della nostra vita personale e sociale – se ne potrebbero indicare innumerevoli altre – per mettere in luce come si siano sempre due fattori: le persone ed il loro animo, che possiamo chiamare “spirito”, le cose, le organizzazioni, le istituzioni, che possiamo chiamare “strutture”.


C’è sempre chi fa più attenzione allo spirito e chi alle strutture. Noi stessi forse alle volte facciamo più attenzione a un fattore, altre volte a un altro.

Negli esempi che abbiamo fatto da un lato ci sono gli insegnanti, i medici, gli italiani, i cristiani e la nostra mente quando si sveglia, dall’altro lato la scuola, l’organizzazione sanitaria, lo Stato, la gerarchia ecclesiale, il nostro letto e la nostra pigrizia.

II


Una considerazione, una intuizione di fondo viene dal buon senso, dalla ragione e dai sentimenti quando serenamente ci aiutano a fare attenzione a quel che succede, a come vanno le cose.


Sia quanto chiamiamo spirito sia quanto chiamiamo strutture sono necessari. Nessuno dei due fattori può essere ignorato. Proviamo a guardare dentro di noi, al nostro benessere fisico e psichico, ai nostri rapporti con gli altri, al funzionamento della società, alla stessa ricerca di Dio, ritroveremo sempre la necessità dello spirito e quella delle strutture.


C’è tuttavia una differenza. Non va trascurata e dimenticata.

E’ una differenza che può apparire sottile, quasi un discorso astratto, buono per intellettuali, al di là del buon senso di tutti. Eppure si tratta di una differenza che se viene trascurata è causa di molte cose negative, come vedremo fra poco.

Lo spirito è la causa di tutte le cose umane, le strutture sono delle condizioni che in qualche modo sono sempre necessarie.

Un paragone può aiutarci a capire questa sottile e pur importante differenza.

In casa mia c’è molta luce di giorno e non serve l’elettricità. E’ una bella giornata e il sole illumina tutto. Ma se un maldestro costruttore si fosse dimenticato di fare delle finestre la mia casa sarebbe tristemente al buio anche in questa giornata di sole. Ecco, il sole è la causa della luce nella mia casa, ma le finestre sono una condizione necessaria.

Il sole e le finestre sono ugualmente necessarie ma non sono assolutamente la stessa cosa. Diciamo che il sole è la causa della luce e le finestre la condizione assolutamente necessaria.

Lo spirito, la causa, le strutture, la condizione; entrambe necessarie.

Una conseguenza di questa considerazione e intuizione di fondo è che in tutte le situazioni bisogna fare attenzione allo spirito e alle strutture, ed impegnarsi perché entrambe crescano, rispettando il rapporto fra la causa che è sempre la persona e le condizioni che possono essere di vario genere.




III


Quando non si tiene presente la condizione e l’intuizione di fondo, circa la necessità dello spirito e delle strutture, e della differente natura di causa, propria dello spirito, e di condizione necessaria, propria delle strutture, possono aversi degli effetti molto negativi.


  1. Ci può essere un’attenzione allo spirito che nasce da un vero desiderio di bene ma porta risultati negativi.

Quanti sbagli sul piano pedagogico!

Per esempio incoraggiare, stimolare o rimproverare e punire un adolescente, senza tener presente i cambiamenti propri di quell’età di transizione sul piano fisico, psichico, ambientale, ecc.

In genere proporre un’educazione troppo austera e moralistica senza la necessaria gradualità, o per altro verso lasciare una libertà a chi ha ancora bisogno di una sponda e di una guida.

Un caso particolare, che purtroppo ha un’estensione sempre più vasta, è la lotta alla droga tra proibizionismo e accompagnamento. Non disperare mai delle risorse dello spirito e al tempo stesso aver presente la forza attrattiva della droga quando diventa un fenomeno sociale.

Nel campo della politica l’attenzione alle persone raggiunge livelli altissimi per la ricerca del consenso, ma si tratta in larga misura non di aiutare a crescere, con giudizi personali che si fondino sulle esperienze, ma di portare a consentire alla propria parte, comunque, questo avvenga. (Rinvio al n. 9).

Nel campo dell’economia, tramite la pubblicità, si arriva al consumismo esasperato che distrugge le persone e la società.

Come resistere a tante minacce per lo spirito?

La forza più grande sta nel superare i propri limiti, nell’uscire da se stessi, incontrare l’altro, gli altri. In una parola che rimane irrinunciabile, anche se abusata e stracciata in molti modi, la forza più grande è l’amore.

L’amore fa crescere chi è amato e chi ama, fa crescere i piccoli, i grandi ed i vecchi (seconda e terza gioventù), l’amore fa crescere nella gioia e nel dolore, sostiene le aspirazioni più alte e conforta tutte le afflizioni, l’amore nasce dalla speranza e porta alla riuscita anche nella disperazione.

Con l’amore cresce la responsabilità, non tanto nel senso di preoccupazione di osservare una norma, quanto di attenzione ai bisogni dell’altro, degli altri, di tutta la società. Si impara ad ascoltare il grido che si leva da tutti i confini della terra come il grido del vicino.

Indispensabile aiuto alla crescita dello spirito è l’amicizia. Anche questo è un termine abusato ma non per questo va scartato. La vera amicizia è la comunicazione sincera delle proprie esperienze, è lo sforzo fatto insieme di capire quello che succede in noi e attorno a noi. Infine – ed è quello che dà senso pieno alla nostra esistenza terrena – l’amicizia è cercare di aiutare insieme quelli che hanno più bisogno: di che cosa c’è più bisogno che io, che noi possiamo fare.


  1. Ci può essere un’attenzione alle strutture che porta a trascurare lo spirito.

Per quel che riguarda l’avidità della ricchezza che porta a trascurare le persone rinviamo al punto 8.

Per la politica intesa abusivamente come ricerca e gestione del potere che porta ad ogni genere di strumentalizzazione delle persone rinviamo al punto 9.

Così per quanto riguarda le iniziative di volontariato con la spinta quasi irreversibile all’autoreferenzialità che fa svanire la vera attenzione alle persone rinviamo al punto 14.

Il problema del rapporto fra spirito e strutture è vivissimo nella Chiesa, nella vita religiosa e in ogni altra esperienza religiosa. Anche per questo rinviamo ad altri punti della nostra riflessione. (5, 16…).

In genere possiamo dire che occorre molta attenzione e discernimento per cogliere il rapporto fra le pur necessarie strutture ed il pericolo di mortificare le persone. A questo corrisponde anche l’attenzione esclusiva alle persone che può portare a trascurare il bisogno delle strutture, che sono condizione necessaria in ogni momento della vita umana.



E’ possibile che un pensiero sia doverosamente combattuto, stoltamente dimenticato e inconsciamente seguito. E’ quel che succede con il pensiero di Marx riguardo al rapporto fra spirito e strutture.

Un accenno brevissimo a un tema che andrebbe ripreso in considerazione per vivere il presente e alla luce del passato preparare un futuro migliore.

Per Marx la vita dello spirito, dal diritto alla cultura, fino all’etica e alla religione sono tutte conseguenze dell’economia, della crescita della produzione, del cambio dei rapporti fra i fattori della produzione, ecc.

Il suo pensiero è stato giustamente qualificato come materialista ma alla critica teorica è seguita, in modo veramente sorprendente, una prassi largamente conforme alla sua teoria.

In tutti i campi si è portati a pensare che per fare qualcosa di valido la prima cosa necessaria sono i mezzi finanziari..





IV


Cosa è lo spirito?

Tutti lo sanno. Non è facile definirlo, anzi forse è proprio ciò che non si può definire… eppure tutti lo sanno!

Innumerevoli sono le sue manifestazioni e quindi i termini con cui può essere inquadrato e quelli con cui una persona, un pensiero, un’azione, un’accettazione possono essere qualificate come spirituali.

Spesso consideriamo una manifestazione dello spirito il semplice buon senso, la ragionevolezza e tutta la gamma dei buoni sentimenti.

E’ spirito la sincerità con gli altri, che presuppone quella con se stessi. Quante volte cerchiamo di nasconderci dietro un dito.

La ricerca della verità e del bene in tutti i campi è talmente necessaria che chi pensa di essere arrivato fa sospettare di ingenuità, di superficialità e qualche volta di imbroglio.

Lo spirito è l’amore; siamo sempre a questo termine in mille modi abusato e squalificato, e tuttavia irrinunciabile.

Lo spirito quindi è gratuità, è dono anche se questo è oggi contestato e squalificato.

Certamente lo spirito è anche impegno serio per la giustizia ed equità in tutti i campi.


Ma è anche superfluo osservare, come suggerisce Gianni Mattioli, che l’individuazione delle strutture appropriate alle finalità è esso stesso atto di ricerca appassionata ed intelligente: insomma le strutture non sono contenitori neutri, da riempire con il nostro spirito illuminato, la scelta del contenitore è strettamente legata alla finalità che gli si vuol dare e bisogna chiedere allo Spirito che illumini fin dal momento in cui si progettano le strutture: è un pezzo della nostra responsabilità idearle, realizzarle, utilizzarle.


Spirito è anche pazienza e umiltà, nonostante che queste virtù siano oggi abbondantemente sottovalutate.

Non so bene cosa sia l’eroismo, termine tanto presente nella retorica, tanto usato anche nella Chiesa, non si sa con quali radici, se bibliche o omeriche..


Lo spirito e lo Spirito Santo

Ora proponiamo una via semplice anche se poco battuta. La via c’è e anche se è trascurata c’è la speranza che la si rimbocchi di nuovo decisamente.

Finora abbiamo parlato di spirito con la minuscola, pensando allo spirito che è nella creatura umana, in ognuno di noi come individui e come appartenenti a una comunità e a tutta la famiglia umana.

Ora propongo di rivolgere l’attenzione allo Spirito, che scriviamo con la maiuscola, lo Spirito Santo, cioè santificatore che ricordiamo con il Padre e il Figlio nel gesto familiare del segno della croce.

Riflettendo sullo spirito e sul suo rapporto con le strutture ci siamo accorti della sua grandezza, delle innumerevoli e straordinarie possibilità di cui è dotato e al tempo stesso dei suoi limiti, della precarietà e infine della sua caducità. Lo spirito dell’uomo si spegne.

L’equilibrio poi fra spirito e strutture non è sempre facile e agli abusi nel trascurare le strutture si sommano quelli contro lo spirito.

La definizione stessa di cosa sia lo spirito sfugge anche alle nostre possibilità pur essendo una realtà che tutti conoscono e riconoscono senza possederla con i loro ragionamenti e senza rinchiuderla in una definizione.

Proviamo a rivolgerci allo Spirito Santo che pure dovrebbe esserci noto e familiare fin da quando abbiamo imparato a fare il segno della croce.

Ma prima di fermarci a riflettere sullo Spirito Santo ci sembra estremamente importante mettere in luce un fatto tanto diffuso quanto singolare:

la via migliore è poco battuta.

Credendo – qualunque sia il tipo di certezza della nostra fede: luce, oscurità, pace, inquietudine – crediamo che Dio, Mistero infinito, si è rivelato in Gesù Cristo; per capire chi siamo e che cosa dobbiamo fare dovremmo partire dalla parola che Dio ci ha rivolto, quello che ha svelato di se stesso e di noi.

Andando subito al dunque, per capire cosa è lo spirito dovremmo partire dallo Spirito Santo, per capire chi siamo come persone dovremmo partire dalla rivelazione di un unico Dio in tre persone.

Nell’ultima cena Gesù dice:

“Queste cose vi ho detto quando ero ancora fra voi. Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto” (Giov. 14, 25-26).

“E’ bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore” (Giov. 16, 7).

“Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera” (Giov. 16, 12-13).


Lo Spirito Santo ci fa capire chi è Gesù, uomo pienamente realizzato, e quindi quale è la nostra condizione di uomini.

Tutta la storia della salvezza si svolge nel rapporto fra lo spirito e le strutture per opera dello Spirito Santo, fino all’incarnazione del Figlio di Dio nel seno di Maria e fino al Mistero Pasquale.






























  1. In ascolto della parola di Dio abbiamo compreso che la vera laicità è la profezia del

popolo di Dio sul mondo; ma questo concetto difficilmente trova spazio nel tanto parlare di laicità, anche fra quanti si professano cristiani.



La laicità è uno dei temi di cui più si discute e si scrive. Dal diverso modo di intendere questo termine dipendono scelte politiche, stili di vita e convinzioni, più o meno profonde, sul senso della propria esistenza personale e comunitaria.

Un elenco dei diversi modi di intendere la laicità sarebbe molto lungo con grande varietà e non poche coincidenze (assonanze) anche fra chi si professa cristiano e chi si rifà ad altre visioni della realtà.


Abbiamo ricercato a lungo il significato della laicità ponendoci in ascolto della parola di Dio e siamo arrivati – sviluppando un’intuizione iniziale – a un’affermazione, condivisa da due amici teologi, ma che non trova spazio nel dibattito corrente sulla laicità, nemmeno fra quanti si propongono di fare un discorso cristiano e di tradurlo nella loro azione.


La laicità è profezia del popolo di Dio sul mondo, responsabilità dei credenti in Cristo, attesa operante di risurrezione. Questa formulazione del Padre Mario Castelli può apparire alquanto complicata e difficile a capirsi. In realtà è difficile solo a metterla in pratica perchè richiede la conversione (Rm. 12, 1-2).

Se, anche con l’aiuto del Concilio, si è capito che la profezia è fondamentalmente ascolto della parola di Dio, che trasforma la mente, il cuore e tutta la vita, e che tutti siamo chiamati a partecipare alla profezia di Gesù Cristo, diventa comprensibile che la laicità, cioè il proprio del popolo di Dio, sia profezia.

Profezia “sul mondo” perchè tutto ciò che esiste e che accade nella nostra vita personale, nella storia dell’umanità e nella evoluzione del cosmo, è creato da Dio, da lui redento e santificato.


Laicità è quindi apertura, attenzione e amore verso tutti e verso tutto, superando tutti i recinti, tutte le divisioni e tutti i conflitti; è la piena universalità, la vera cattolicità. Superamento quindi del significato tanto restrittivo che ha preso il termine “cattolico”.

Laicità è quindi la vera identità del cristiano e della Chiesa, lievito che si scioglie nella pasta del mondo, sale fatto per conservare e dare sapore a tutto e non per riempire una saliera.


Attesa operante di risurrezione. “Abita la terra e vivi con fede”. Pienamente impegnati nella storia per andare verso “cieli nuovi e terra nuova”.


Questa accezione di laicità incontra grandi difficoltà ad essere capita prima ancora di essere accettata. Ma queste difficoltà nascono fra le persone “acculturate” che partecipano alle discussioni correnti. Le persone più semplici, o comunque più libere nei confronti dei dibattiti attuali – ne abbiamo incontrate non poche – non hanno difficoltà a scoprire la laicità che si fonda sulla parola di Dio.

Tale laicità è il vero superamento delle diverse forme di clericalismo, di integralismo e di fondamentalismo, e ovviamente di quel laicismo che è in larga misura speculare al clericalismo.

La promozione di una vera laicità si affida alla Parola, allo Spirito e ai piccoli a cui è dato di capire (cfr. Mt 11; Lc. 10).









  1. Nessuno vive per se stesso: è un elemento fondamentale della storia della salvezza che contrasta con un modo di vivere e di pensare oggi dominante.



Considero la rivelazione biblica in maniera ampia e globale, per quanto essa sia poi articolata e ricca di testimonianze che difficilmente possono essere sintetizzate in qualche formula o considerazione spicciola, come in questo caso.


Considerando globalmente la rivelazione biblica mi sembra di poter mettere a fuoco con animo sereno e con una convinzione onesta che nessuno vive per se stesso. Vivere per se stessi è lo stesso che fare della vita una vergogna, pericolosa, disgustosa, vergogna che già porta in sé una infallibile premonizione di morte e che in realtà è generatrice di morte.


Nessuno vive per se stesso: un discorso che viene da lontano, dall’inizio, urta contro un’opposizione aspra e violenta, prepotente e perversa. E’ esattamente la situazione nella quale si svolge la storia umana, in cui gli uomini si danno da fare per dare sostanza, contenuto, per essere positiva realizzazione nella propria vita, approfittando della vita altrui che viene sapientemente, qualche volta anche fastosamente, strumentalizzata.


Non è che le cose vadano sempre così, che tutti i passaggi siano sempre rigorosi e intransigenti. Ci sono sempre degli spiragli, degli spazi, delle cerniere che danno occasione propizia a altre intuizioni, interpretazioni, modalità di gestire la vita. Tutto questo in riferimento a quello che comunque rimane sullo sfondo come il criterio di riferimento, per quel che noi ora banalmente riusciamo a dichiarare, in base al quale Dio sin dall’inizio ha impostato il suo discorso: nessuno vive per se stesso.


Spuntano qua e là nel corso di tutta la rivelazione biblica, nel corso di tutta la storia della salvezza, segnali che rinviano esattamente a questa intuizione fondamentale, a questa intenzione originaria, a questa impostazione che dall’inizio è stata conferita da Dio come struttura portante alla creazione, alla creazione degli esseri viventi, alla creazione degli uomini e così via: nessuno vive per se stesso.


Tutta la storia della salvezza in realtà è esattamente la rivelazione di come Dio si dà da fare, a modo suo, per sbugiardare la vergogna della vita umana che si aggrappa a se stessa e diventa una sistematica, con varie gradazioni di responsabilità e di impegno a questo livello, pretesa di riferirsi a se stessi, di essere autoreferenziali. La storia della salvezza è la storia della liberazione da questa pretesa, è la storia dell’impatto con questa posizione che si arrocca in forme rigide, violente, intransigenti: il privato. La storia della salvezza è lo sbugiardamento, la vergogna del privato. Una vergogna disastrosa, corruttrice, invadente, pervertitrice. E questo non solo negli aspetti più empirici e direi più materiali, ma anche negli aspetti più interiori, anche nelle pretese di realizzare la vita umana in nome di cosiddetti valori di ordine morale e anche di ordine ascetico. Tutta la storia della salvezza va in questa direzione.

L’alleanza è impostata esattamente in questi termini. Prima le promesse ai patriarchi, poi tutta l’esperienza del popolo di Dio di tappa in tappa, fino al nuovo testamento che è il momento pieno e risolutivo di tutta la vicenda: nessuno vive per se stesso.


Vi è quindi a me sembra l'urgenza del discernimento di un privato vergognoso, ammalato, perverso, che tende, da parte sua, ad assumere una fisionomia salvifica, benefica, addirittura moraleggiante, valida come motivo di impegno sociale, di orientamento, come obiettivo da raggiungere nella gestione del mondo: il privato. Le questioni un po’ si imbrogliano. Quando poi ci sono di mezzo gli uomini di Dio che sono uomini anche loro, gli uomini di Chiesa, anche loro segnati internamente, radicalmente, coinvolti strutturalmente, come capita a tutti noi, nella esperienza della vergogna a cui pure ci si affeziona e di cui ci si avvale come se divenisse un ideale di riferimento, un valore di impegno, un valore da predicare, da annunciare, da testimoniare in tutte le organizzazioni collaterali alla comunità cristiana: il valore del privato, come addirittura se in esso si identificasse l’Evangelo.


Non mancano, naturalmente le persone in mala fede fra gli uomini di Chiesa, ma non mancano nemmeno le persone in buona fede che non hanno altro linguaggio, che non hanno altro criterio, che non hanno mai potuto prendere sul serio l’adeguato filtraggio di tutto il vissuto nell’ascolto della Parola di Dio. D’altra parte tutto l’apparato organizzativo del nostro mondo cristiano è sempre quasi predisposto ad evitare quel medesimo filtraggio e a strumentalizzare anche quello, a privatizzare anche l’uso e l’abuso della Parola di Dio, così come si è abituati a privatizzare il valore della vita, la vocazione alla vita, la responsabilità inerente alla propria vocazione alla vita, per cui ci si può isolare in una sottolineatura ed esaltazione anche generosa e appassionata del valore, che in realtà si riduce alla vergogna, del privato. Cose che sentiamo dire anche in questi giorni, che leggiamo sui giornali nostri, ma, per quello che capisco io, è la storia di sempre e non c’è da stupirsi di questo. C’è piuttosto, lo desidero per me stesso e vorrei essere aiutato, da trovare delle modalità più pertinenti, più corrette, più penetranti, in ascolto della Parola di Dio, per cogliere il nodo lì dove è e tagliarlo. E’ in questione il privato come valore, come ideale, addirittura come Evangelo, come normativa sociale, come riferimento teologico nella stessa responsabilità politica,


Nessuno vive per se stesso, nessuno lavora per se stesso, nessuno mette su casa per se stesso, nessuno gode della propria salute per se stesso, nessuno si ammala per se stesso, nessuno vive e muore per se stesso.


Questo discorso, ripeto, viene dall’inizio, e passa attraverso tutta la storia della salvezza.

C’è una potenza straordinaria in questa prospettiva che, a mio modo, sto sintetizzando: nessuno vive per se stesso.


E’ proprio l’Epifania di Dio, è il regno di Dio, è il Dio vivente che porta a compimento le sue promesse, che realizza la sua opera di salvezza, che fa vivere gli uomini finalmente rieducati: nessuno vive per se stesso.


Mi limito a citare un testo: Lettera agli Efesini, Cap. V, versetti 15-16, con solo una considerazione marginale: “Vigilate dunque attentamente sulla vostra condotta, comportandovi non da stolti ma da uomini saggi, profittando del tempo presente, perché i giorni sono cattivi.”


Questo accenno ai “giorni cattivi” non è espressione di pessimismo, che non è in nessun modo caratteristica di Paolo. Paolo sta qui citando il famoso salmo 49 versetto 6 “Perché temere nei giorni tristi, quando mi circonda la malizia dei perversi… l’uomo nella prosperità non comprende e non dura, è come gli animali che periscono… perché temere nei giorni tristi, nei giorni cattivi”. Paolo sta citando il salmo 49 in modo sfumato ma inconfondibile; una espressione del genere risuona immediatamente familiare nelle orecchie di chi ha un minimo di pratica della lettura biblica. Il salmo 49 parla dei giorni tristi non nel senso del disastro per cui bisogna venirne fuori con scelte di ordine moralistico, di rifiuto di chi sa quali motivi autoflagellatori e cose del genere. Allora devi rinunciare a mangiare qualche manicaretto che invece adesso possiamo permetterci e ne godiamo sanamente e sapientemente, comunitariamente e cose del genere. No, qui i giorni tristi di cui parla il salmo sono esattamente i giorni nei quali ci si arrabatta a vivere senza frutti in modo tale da soffocare la vita. Il salmo 49 non è un invito agli uomini, noi, visto che i giorni sono tristi tiriamoci, tiratevi indietro, abbandonate il fronte, imboscatevi in qualche angolo privato: no. Il salmo dice l’opposto: non temete i giorni tristi. Che i giorni siano tristi, che noi non sappiamo vivere, bene o male è una evidenza che emerge anche passando attraverso tutte le soluzioni che la logica o il valore del privato sembrerebbero favorire e addirittura garantire. Ebbene i giorni sono tristi: questa tristezza dei giorni cattivi va presa in considerazione, oggettivata, scrutata e attraversata. Nessuno vive per se stesso nel senso che anche la tristezza dei giorni cattivi ci riguarda. Siamo qui per parlarne e non per espellere da noi un problema che ci è estraneo, perché è esattamente un problema che ci è quanto mai familiare. A parte questo è proprio perché si tratta di vivere in pienezza che non possiamo prescindere nemmeno dai giorni tristi. Evidentemente quella rieducazione alla vita che per bontà del Signore ci sottrae alla logica del privato ci impone di misurarci con l’oggettiva concretezza e anche con l’invadente persuasività del privato.


Non ne veniamo fuori con un papocchio che sarebbe ancora una volta moralistico e quindi favorevole alle ricadute sempre pericolose, e più che mai pericolose nel privato. Sempre più pericolose perché sempre più sofisticate. Nel privato pastorale, ecclesiale, teologico, morale e così via.


Nel capitolo IV della Lettera agli Efesini il versetto 25, che lascio a voi come eredità: “Perciò, bando alla menzogna; dite ciascuno la verità al proprio prossimo, perchè siamo membra gli uni degli altri. Nell’ira non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira, e non date occasione al diavolo.” Che spunti l’ira qui è dato praticamente per scontato, però non tramonti il sole sopra la vostra ira. Dunque nemmeno la vostra ira potrà essere gestita autonomamente o rinviata in base a una programmazione privata. Versetto 28: “Chi è avvezzo a rubare non rubi più, anzi si dia da fare lavorando onestamente con le proprie mani, per farne parte a chi si trova in necessità.”. Questo versetto 28 è l’eredità che vi lascio. Non rubare, è uno dei precetti mosaici. Attenzione però: che vuol dire non rubare? Per Paolo il furto è relativo al lavoro. Fate attenzione, Paolo dice che rubare è lavorare disonestamente, in modo da non far parte del proprio lavoro a chi si trova in necessità. Guardate questa è una affermazione clamorosa, perché lavorare per se stessi è un atto disonesto.


Ma come: io lavoro per il mio giusto salario, per la mia famiglia, per la mia casa, per la mia pensione. E’ evidente che sono intenzioni più che mai rispettabili, sacrosante. Io sto forzando un poco i termini proprio per cogliere dov’è il nodo della questione che bisogna affrontare, quello da cui dipende il funzionamento di tutto il sistema. Noi perché lavoriamo, per chi? Succede che noi lavoriamo per il privato. Non sto rimangiandomi le osservazioni di poco fa per dire in termini moralistici: tu lavori per l’organizzazione dei vacanzieri, idolatri, cultori del privato e della spensieratezza, quindi tu sei un criminale; no, no. Magari fai lo sguattero o lavori alla reception e non ti pagano da mesi. Sei al servizio dei vacanzieri spensierati: non c’entra niente. Però il fatto è questo: Paolo lo dice con una disinvoltura di cui dobbiamo prendere atto: chi è avvezzo a rubare non rubi più, perché metti in piedi un lavoro che serve a rubare, a derubare, che serve a spostare il baricentro della vita umana in riferimento al privato, un lavoro funzionale al privato, a far sì che gli uomini vivano per se stessi; è esattamente un furto, una disonestà vergognosa .


E’ la condizione nostra; giochiamo in casa, non è che i giorni tristi siano altrove, scanditi da tempi che non siano esattamente i nostri.



Pino Stancari










  1. La salvezza è un mistero di povertà che non può essere disgiunto dall’attenzione ai poveri.



“La salvezza mistero di povertà” è il titolo di un libro prezioso di J. M.R. Tillard (ed. Queriniana 1969) nel quale l’autore sviluppa una relazione fatta durante la seconda sessione del Concilio, per il Comitato teologico della Chiesa dei poveri. Il Concilio non è arrivato a un documento sulla povertà che pure è stata molto presente in tutto il travaglio conciliare. Il dopo concilio per breve tempo ha continuato a riflettere su questo tema. Ora pare sia quasi scomparso mentre, grazie a Dio, si parla dei poveri. C’è quasi silenzio sulla povertà della Chiesa.


“Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre.” (Fil. 2, 5-11)


Il Mistero infinito in cui “viviamo, ci muoviamo e siamo” (Atti 17, 28) si è rivelato a noi nei misteri di Gesù, dal concepimento all’ascensione in cielo.


S. Pietro ci esorta: “Stringendovi a Cristo, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale” (1 Pt. 2, 4-5).


Tutti i piccoli, i poveri, i sofferenti del mondo sono un sacramento del Mistero infinito di Dio, del suo disegno di salvezza, di “ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Ef. 1, 10).


La fede in Gesù Cristo ci porta a rivolgerci a tutti i sofferenti della terra con una compassione che prolunghi quella infinita di Dio, lasciando trasformare la nostra mente, il nostro cuore e tutta la nostra vita, spogliandoci da ogni forma di falsa ricchezza.

La povertà è la via di ogni cristiano ed è anche la via regale della Chiesa.


La verifica della nostra povertà alla luce del Vangelo è un cammino lungo e arduo che ancora ci sta davanti. Cominciamo da un esame di coscienza personale e viviamo responsabilmente la nostra appartenenza alla Chiesa che nella sua dimensione istituzionale è ancora legata da immense ricchezze.


La preoccupazione della nostra povertà alla luce del Vangelo non può ridursi a un impegno ascetico, ma deve coinvolgerci nella povertà di tutti gli esseri umani, dei piccoli, dei poveri e dei sofferenti, liberandoci dalla illusione di dover essere ricchi per aiutare i poveri (2 Cor. 8,9).










  1. Non si esce dalle illusioni, dalle ingiustizie e dalla violenza se non si riscopre la cattedra dei piccoli, dei poveri e dei sofferenti.



Viviamo nella grande illusione di essere onnipotenti, di poterci salvare e realizzare da soli, mettendo insieme le nostre capacità umane. Affrontiamo i problemi personali e quelli della convivenza umana confidando solo sulle nostre capacità: scienza, tecnica, sapienza puramente umana e la politica, intesa come ricerca e gestione del potere.


Nonostante gli straordinari progressi conseguenti alla concentrazione degli sforzi sullo sviluppo delle capacità umane, crescono nel mondo le ingiustizie e le violenze. Cresce sopratutto la miserabile illusione di poter fare tutto: anche se qualche crepa nei vari sistemi comincia a dare l’allarme.

Mentre la Parola ci invita a riconoscere la sapienza e la potenza di Dio che si manifesta in tutte le sue creature, ci svela il Mistero del suo infinito amore misericordioso, entrando lui stesso nella nostra condizione, nella nostra fragilità e debolezza estrema.


Ecco allora la cattedra dei piccoli e dei poveri:


< In quel tempo Gesù disse: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare.»> (Mt. 11, 25-27).


< In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: «Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così a te è piaciuto. Ogni cosa mi è stata affidata dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare».> (Lc., 10, 21-22).



Come riconoscere e frequentare questa cattedra? Occorre liberarsi dal fascino e dalla seduzione di tante altre cattedre che si vanno moltiplicando e che, talvolta, tanto più si ergono in alto quanto meno hanno da insegnare. Non si deve disprezzare nessun insegnamento e nessuna cattedra ma tutto va vagliato passando per quella cattedra dei piccoli che ci dispone ad accogliere la sapienza di Dio.


La sapienza di Dio, che è stoltezza per gli uomini (cfr. 1 Cor. 2), non ci esime in alcun modo dallo sviluppare le nostre capacità umane e partecipare cordialmente allo sforzo umano nella ricerca del progresso e sopratutto della pace, nel superamento delle ingiustizie e delle violenze.

I piccoli cercano di unirsi per diventare grandi e poter competere: è una cosa ragionevole e buona. Ma la forza salvifica di Dio passa per l’unione dei piccoli quando si aiutano a vicenda a rimanere tali (cfr. L’appello ai piccoli e ai poveri).

Per frequentare con frutto la cattedra dei piccoli e dei poveri è necessario condividere la loro esperienza, radicarsi nella loro realtà, con una vera conversione (cfr. Rom. 12, 1-2).

Il teologo, considerato spesso il fondatore della teologia politica, Johann Baptist Metz, vede la speranza per il mondo globalizzato nell’ecumene dei sofferenti, cioè nel riconoscimento della salvezza che viene dai sofferenti; da parte di tutte le religioni monoteistiche e da tanti altri sforzi di pensiero e di cuore.

Il passo più immediato, più semplice e più arduo al tempo stesso, è quello di riconoscere in noi stessi la condizione di piccolo, di povero, di fragile, di peccatore, imparando, accettando, convertendosi e pregando.


7. Per capire, aiutare ed essere aiutati dai piccoli, dai poveri e dai sofferenti occorre radicarsi nelle loro realtà anche a costo di profondi cambiamenti nel nostro modo di vivere e di pensare: una vera conversione che comporta lo sradicamento da cose che forse abbiamo molto amato.


L’associazione di volontariato alla quale appartengo è impegnata da quasi venti anni nel tentativo di portare avanti una esperienza di radicamento sociale. Il gruppo opera dal 1989 nel centro storico di Cosenza. Si tratta di una piccola realtà, che vede coinvolti un centinaio di volontari in diversi ambiti di servizio: animazione di strada e sostegno scolastico in alcuni quartieri della città; accoglienza e accompagnamento di bambini e adolescenti, secondo le modalità dell’affido diurno, e delle loro famiglie; centro diurno aperto all’accoglienza di persone con handicap.

Quattro anni fa, l’Associazione ha promosso la costituzione di una cooperativa, che ha come obiettivo l’integrazione lavorativa di persone socialmente “svantaggiate”.

Queste attività coinvolgono quotidianamente centinaia di persone e famiglie. Esse, pur essendo molto diverse sul piano dei contenuti, della impostazione, della progettualità, presentano almeno due importanti caratteri comuni. Il primo è rappresentato dalle motivazioni di fondo: si tratta di attività che nascono da una esperienza di fede, che si nutre di ascolto della Parola di Dio. L’altro è costituito dal desiderio di radicarsi nel territorio e nelle situazioni di debolezza sociale incontrate e accolte lungo la strada.

Che cosa si intende per radicamento sociale, e cosa vuol dire concretamente perseguire questa prospettiva lavorando sul territorio? Per chiarire questo punto, la cosa migliore è forse quella di raccontare qualcosa sui primi passi mossi dall’associazione e sulle intenzioni e motivazioni che li hanno orientati.

Il gruppo originario era composto da un gruppetto di persone che provenivano da esperienze sociali, culturali ed ecclesiali molto diverse, e che avevano trovato un punto di incontro lungo un percorso di ascolto della Parola di Dio, così come proposto da un padre gesuita (p. Pino Stancari). Da questa esperienza è maturata l’intenzione di cercare una via di impegno sociale nel territorio, che ci mettesse nelle condizioni di sperimentare la compagnia dei “piccoli”. Decidemmo perciò di cominciare a lavorare nel centro storico della nostra città, occupandoci di bambini e adolescenti interessati dal fenomeno della “dispersione scolastica”, che vivevano cioè situazioni di marginalità scolastica o che erano addirittura scivolati fuori dalla scuola anzitempo. Facemmo questa scelta perché avevamo percepito che in quella parte della città il problema della dispersione scolastica era molto grave; e che l’abbandono scolastico precoce nella maggior parte dei casi preludeva all’ingresso di tanti ragazzi nei circuiti del lavoro nero e della microcriminalità. Da una ricerca condotta presso le scuole del centro storico, infatti venne fuori che circa la metà dei ragazzi nell’età dell’obbligo – in alcuni quartieri addirittura otto ragazzi su dieci – non riuscivano a prendere la licenza media. In base a considerazioni legate a questi dati di fatto, stabilimmo di prendere contatti con questi ragazzi, e con le loro famiglie. In questa fase, fu importantissimo l’aiuto dei parroci del centro storico, cioè di figure “radicate” e perciò “riconosciute” dalla gente, che permisero anche a noi di entrare in contatto con persone e ambienti. Il passo successivo fu quello di aprire in tre quartieri diversi altrettanti punti di accoglienza.

Da allora, accogliamo quotidianamente circa ottanta bambini e adolescenti. Facciamo cose molto semplici: la nostra è una attività di supporto scolastico e di accompagnamento, in senso ampio; ci sono poi attività di animazione di vario tipo, che si svolgono in un clima di famiglia allargata. Esiste un canovaccio di attività di sostegno scolastico e di animazione, che viene programmato e portato avanti con la continuità che è possibile; altre iniziative si programmano di giorno in giorno, in una dimensione di partecipazione comunitaria.

Il segno che sin dall’inizio ha contraddistinto questa attività, e che rappresenterà il tratto dominante anche delle altre iniziative associative, è appunto quello del “radicamento sociale”. In altri termini, nel tentativo di affrontare la questione della dispersione scolastica, non ci è parso di avere messo a punto un metodo di intervento particolarmente originale, né abbiamo mai pensato di poter utilizzare tecniche di insegnamento alternative rispetto a quelle della scuola. Anzi, abbiamo sempre cercato di collaborare con gli insegnanti, facendoci suggerire da loro cosa era più utile che noi facessimo con i bambini e i ragazzi dei nostri doposcuola. Il nostro lavoro di presenza sociale sul territorio è consistito innanzitutto nella scelta di “stare” in alcuni quartieri della nostra città, in compagnia di bambini e ragazzi che avevano – ed hanno ancora – enormi difficoltà di inserimento scolastico. Cominciando a lavorare con loro, ci rendemmo conto subito di una cosa importantissima. Ci accorgemmo, cioè, che il problema di fondo che avevamo non era quello di organizzare un doposcuola efficiente, collocando le competenze giuste al posto giusto. A questo proposito, risultò preziosissima l’esperienza fatta all’inizio del nostro lavoro con un gruppo di amici insegnanti che avevano scelto di aiutarci: il risultato di questa collaborazione fu fallimentare, perché la presenza di questi volontari così “qualificati” finiva con il riprodurre all’interno dei doposcuola le stesse dinamiche relazionali dalle quali i nostri ragazzi rifuggivano. Anche alla luce di questo iniziale fallimento, ci rendemmo conto che, per proporre ai ragazzi qualsiasi percorso educativo, quindi non solo il doposcuola, bisognava provare a coltivare con loro una relazione personale forte, tale da suscitare e alimentare la loro fiducia nei nostri confronti. Capimmo che si trattava di assumere tutto il peso di una relazione di amicizia con i ragazzi, di imparare a “prenderceli a carico”, crescendo nella disponibilità all’incontro, all’ascolto, all’accoglienza, all’accompagnamento. Allora imparammo a guardare i bambini e i ragazzi che incontravamo non come persone da aiutare, ma come figli o fratelli. Cominciammo a volergli bene e a sentirci sempre più responsabili nei loro confronti. L’esercizio di questa responsabilità esigeva cioè non solo l’attivazione delle nostre capacità analitiche, progettuali, operative; ma anche, e soprattutto, richiedeva la nostra disponibilità a volere bene. Per questa via, iniziammo a considerare i ragazzi come persone da “promuovere”, riconoscendo le qualità e i doni di cui tutti erano portatori, anche quelli più deprivati dal punto di vista socio-culturale; e a sperimentare la bellezza della loro accoglienza nei nostri confronti.

Nel corso degli anni, su questa attività di doposcuola si sono innestate altre iniziative, rivolte soprattutto alle famiglie dei ragazzi e ai loro insegnanti.

Sin dall’inizio, ci accorgemmo che ad ogni situazione scolastica difficile corrispondeva una situazione familiare abbastanza disgregata. L’esperienza ci ha insegnato che i problemi del disagio scolastico e quelli legati alla debolezza del tessuto familiare non possono essere tenuti separati. C’è bisogno di accompagnamento sia per i ragazzi che per le loro famiglie. Nel corso degli anni abbiamo sperimentato quanto sia difficile, e tuttavia necessario, accompagnare le famiglie in condizioni di vulnerabilità. È uno degli interventi “politici” di cui oggi c’è più bisogno, soprattutto nelle realtà periferiche.

Con gli insegnanti abbiamo sempre cercato un dialogo costruttivo, nel tentativo di raccordare il lavoro svolto dai ragazzi a scuola con quello pomeridiano da noi proposto. Tali contatti hanno dato luogo a sperimentazioni anche interessanti, e hanno contribuito non poco a fare abbassare drasticamente la percentuale di bocciati nelle scuole dei nostri quartieri, anche se in esse poco è cambiato sul piano dell’organizzazione complessiva.

In conclusione, credo che la scelta di “stare”, l’ascolto, l’apertura all’accoglienza e alla condivisione, lo sforzo di comprendere i problemi sociali a partire dalla prospettiva di chi li vive sulla propria pelle, il tentativo di promuovere percorsi di cambiamento sociale, possano essere considerati gli elementi essenziali dell’esperienza che ho cercato di raccontare, quelli che continuano a contraddistinguere anche gli altri percorsi associativi che si sono in seguito sviluppati. Sono questi, a mio avviso, i caratteri che orientano il lavoro sociale sul territorio nella prospettiva del radicamento.

Con l’aiuto di Pio Parisi, abbiamo imparato a riconoscere nell’azione di radicamento sociale una possibile via nuova di impegno politico nella città, scandito non dalla ricerca di potere ma dal bisogno di conversione al Vangelo.


Giorgio Marcello



8. E' necessario patire per compatire e per capire. Nel benessere è forte il pericolo dell'ottundimento delle coscienze e della responsabilità verso gli altri.


I


E’ questa una frase che mi affascina e mi respinge nello stesso tempo: tutti patiamo, il patire più che una necessità mi sembra, in primo luogo, qualcosa di connaturato con la stessa vita umana. La necessità mi si presenta quando cerco qualche cosa che dia un senso al patire. Mi domando: ma sono “capace” di patire? Sembrerebbe una domanda assurda: c’è bisogno di essere capaci, quando il patire appare come qualcosa di immediato e connaturato con la mia stessa persona: basta un dolore fisico o morale, una privazione, il timore stesso delle cose che possono accadere, che causano sofferenze e patimento... noi patiamo proprio perché siamo uomini.


Eppure il patire può comportare una partecipazione personale alla sofferenza, mia e quella degli altri, che può variare molto da caso a caso, da persona a persona e che penso rappresenti l’elemento che dà senso al dolore. Il patire ha bisogno di diventare qualche cosa che quasi ci “scava dentro”, al di là del dolore fisico o morale e, comunque, degli aspetti più immediati ed esteriori della sofferenza.


E’ come l’inizio di un percorso, della ricerca di qualche cosa che possa soddisfare le nostre esigenze materiali e spirituali; che colmi il vuoto che si viene a creare in noi stessi e che la sofferenza e le privazioni provocano nel nostro fisico e nella nostra anima.


C’è il patire personale, c’è il patire degli altri: “capire” il patire diviene un passo fondamentale per creare delle relazioni fra la propria condizione di sofferenza e quella degli altri. C’è il patire che rimane una esperienza puramente individuale ed il patire dolori, rinunce e sacrifici di chi pensa agli altri, offrendo il suo patimento con un ben preciso scopo a vantaggio e beneficio di altri.


Di fronte alla vastità e diffusione della sofferenza, mi si presenta una immagine che ci accomuna nel patire: è il “sangue”, il sangue che scorre, che si dirama in ogni direzione, che si assimila con le nostre stesse esistenze. Penso al mantello intriso di sangue del Cavaliere dell’Apocalisse: un segno che unisce il sangue umano e il Sangue divino di Gesù Cristo. Il sangue come Sorgente, non come macchia che si rapprende; il sangue che può lavare la nostra vita, togliere il peccato e le sofferenze.


Questo mi appare come un punto fondamentale, che dà un significato profondo alla “necessità” del patire: un patire non fine a se stesso, ma come conseguenza di un gesto di amore. Tante volte rifletto: “…che vi sia un patire nella Creazione stessa, nell’atto iniziale e nell’atto di ogni giorno che sostiene l’esistenza dell’umanità e dell’universo, nei “secoli dei secoli …” ?


Ma non bisogna piegarsi sul patire; esso non è il fine dell’esistenza, anzi può diventare la premessa al “gioire”, il prima e il dopo che si manifestano inscindibili negli eventi umani. Emblematica è l’immagine apocalittica, della donna vestita di sole, che riassume il senso del travaglio doloroso della umanità:


Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto.” (Ap. 12, 1-2).


C’è quindi nel patire, la premessa di un disegno divino complesso, che attraversa la realtà terrena e quella celeste, di un cammino travagliato e pieno di lotte che conduce, però, alla edificazione della nuova Gerusalemme, ove non vi è più pianto e afflizioni, ma gioia piena nell’essere in intimità con Dio.


Nell’intero percorso della storia umana scorre ogni giorno il sangue, certamente segno di sofferenza, ma anche di capacità di dono. Non è forse il sangue ciò che rimane di Babilonia e dello sprofondare del suo potere terreno? In questa città, dice l’Apocalisse… “fu trovato il sangue dei profeti e dei santi e di tutti coloro che furono uccisi sulla terra’’.


Dopo tanto patire, sconvolgimenti e lutti, sono questi i segni indelebili delle tante babilonie, simbolo di grandezze e di poteri, contrassegnati da lotte e sopraffazioni, a cominciare dalle guerre, che appaiono comportare tra le sofferenze più grandi, certamente le più visibili.


Cosa rimane delle distruzioni e morti di questi giorni della guerra israelo-libanese-hezbollah? Cosa si troverà al fondo di tutte queste strategie di difesa/offesa, di disegni politici di dominio, di scontro tra nazioni e potenze, di relazioni diplomatiche e furbizie, di paci calcolate per preparare altre guerre, di orrori di ogni genere? Cosa dobbiamo cercare? Bisogna piangere i morti, ma occorre ricordarsi che il sangue è segno di “vita”, attraverso la sofferenza.


Tutto questo sangue versato, non appartiene solo a questa realtà terrena, ma rappresenta il ponte che, attraverso il Sangue divino, si protende verso una realtà celeste. Per mezzo di questo sangue, umano e divino nello stesso tempo e, nella misura in cui ci sforziamo di capirne e condividerne il significato più profondo, sarà costruito il nuovo mondo della giustizia, della pace, della gioia e, soprattutto, dell’amore: non disegni di potere e di conquista dei grandi della terra, ma sangue dei santi e dei profeti e, in definitiva, dell’umanità, in quanto sofferente.


Vediamo in TV la sofferenza, ogni giorno, attraverso le immagini che ci giungono da paesi lontani o vicini, di persone affamate, sventurate, morti, bambini sottoposti a soprusi, delitti efferati, naufragi, …; certo siamo “informati”, ma la “conoscenza” della sofferenza è altra cosa: bisogna esserci passati dentro o almeno aver meditato quello che succede intorno a noi. Per chi soffre è importante essere capito, come è importante essere aiutato, non essere dimenticato o abbandonato. Occorre conoscere per compatire e per accostarsi agli altri, è necessario avere esperienza della sofferenza.

Nel mondo c'è molto "patire" ma poco "compatire": non si apre la porta all’altro. E, più c'è benessere - peraltro, a vantaggio di una parte minore della popolazione mondiale - più la porta rimane chiusa. Con che coraggio si può parlare di pace? Che senso ha, se non si trova la forza di aprire la porta.


Ma quale è la via? Noi da soli non siamo capaci di fare questo passaggio dal patire al compatire, per approdare ad una nuova vita.


Il fine della vita non è la sofferenza, anzi tutto il Vangelo è improntato alla speranza, alla realizzazione piena di ogni persona ed in definitiva alla gioia!


Mi sento tuttavia smarrito, pensando che al mondo siamo circa sei miliardi di persone, ognuno con i propri problemi esistenziali da portare avanti.


E’ un aspetto sul quale mi soffermo, che rappresenta uno scoglio per la fede, che crea momenti di grossa difficoltà. La domanda che spesso mi pongo è questa: io credo veramente a Gesù, quando mi parla di gioia, di fronte a tanta sofferenza?


A queste domande e a tante altre che mi pongo a volte in situazioni di sofferenza, mi rispondo con le parole di Pietro “da chi andremo Signore? Tu solo hai parole di vita eterna”.


Il non credente non ha la vita più felice, perché non crede: anche lui deve affrontare le tempeste della vita. Il credente non ha la vita più rosea perché crede, anche lui deve misurarsi con le sofferenze e le difficoltà della vita.

Vi è nel Capitolo 7° dell'Apocalisse la potente visione della moltitudine immensa, in piedi davanti al trono e davanti all'Agnello che proclama “La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all'Agnello”.

Viene spiegato a Giovanni che la moltitudine rappresenta coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello. Potremmo dire che in questa moltitudine si riconosce tutta l’umanità, che è passata attraverso il patire della esistenza e delle sofferenze della vita.

Nello stesso tempo, però, bisogna rilevare che si tratta di una moltitudine che non ha soltanto patito, ma ha “compatito”, proprio perché ha aperto la porta al Signore, si è lasciata lavare dal suo sangue ed ha “lavato” con esso la propria esistenza.


E’ attraverso questa strada che si gettano le premesse per costruire un “popolo” che non avrà più fame, né sete, né subirà altra sorta di privazioni o sofferenze, proprio perché è in intimità con Dio che è guida alle fonti delle acque della vita.

(Ap. 7, 16-17).


Il patire è destinato a finire: Gesù Cristo ci ha insegnato che attraverso di esso si può generare nuova vita, coinvolgendo anche coloro che sono causa del nostro patire. Si prepara la conversione del cuore, si passa ad una nuova vita.


Roberto e Teresa Giordani



II


Quella del benessere è una forma subdola di idolatria del nostro tempo che porta le persone, le famiglie, le stesse comunità cristiane a dimenticare che al centro della loro vita c’è nostro Signore Gesù Cristo, la sua incarnazione, passione, morte, resurrezione e ascensione al cielo.

Questa dimenticanza non avviene in un particolare momento, come atto isolato o improvvisato, ma è frutto di un percorso lungo in cui gradualmente il posto di Gesù viene occupato dalla rincorsa dei consumi, dalla esagerata ricerca della cura di sé, dal salutismo.

Tutta la Storia della salvezza è lastricata di tradimenti dell’Alleanza da parte del popolo eletto, per andare dietro agli idoli.

La signoria delle cose, in un’epoca di consumismo parossistico, prende silenziosamente il posto della signoria di Gesù, senza nessun bisogno di abiurare esplicitamente alla fede dei padri. Anzi, la fede stessa finisce per essere declinata in modo consumistico. Questo avviene, per esempio, quando le famiglie, con la complicità delle comunità cristiane, trasformano sacramenti come il battesimo, la cresima, il matrimonio in occasioni di ostentazione di benessere, di rastrellamento di regali costosi, di spreco di cibi, di indebitamento familiare.

Questa forma di idolatria è veicolata da potenti mezzi di informazione, dal mezzo televisivo in primo luogo.

Una progressiva deificazione del benessere e dei consumi è, al tempo stesso, occasione di scivolamento silenzioso e inconsapevole nella condizione di dipendenza dalle signorie di questo mondo. Ai grandi potentati economici che tengono soggiogata l’umanità attraverso forme inedite di sfruttamento del lavoro, di guerre, di riduzione in miseria di interi popoli, si rende culto incessante nei templi sfavillanti degli acquisti di beni e di servizi. Questa ininterrotta frenesia collettiva, annulla lo stesso spazio della festa, togliendo così senso al tempo dell’uomo.

Di chiaro segno idolatrico, infatti, è la progressiva cancellazione del “settimo giorno, come giorno in cui l’uomo, riposandosi, accetta che la propria vita non dipenda dal lavoro, dall’attività, ma sia ricevuta da Dio”(Donatella Scajola).


Gianfranco Solinas













































9. Occorre liberare il concetto di politica dalla identificazione, estremamente riduttiva, con la ricerca e con la gestione del potere, ritrovando il primato della coscienza politica e della politica "nel basso" che ritesse i rapporti fraterni, dalla città di Caino verso la Gerusalemme celeste.


I


Sono molti anni che mi sono posto il problema del rapporto tra vita cristiana e politica. La politica, come oggi si presenta nella sua esperienza concreta, sembra non aiutare i cristiani nel loro cammino di conversione, né tanto meno essa è in grado di accogliere chi è alla ricerca del bene comune. Insomma non credo di dire nulla di originale, né di particolarmente radicale, affermando che non vedo alcuna relazione propositiva tra fede cristiana e politica, anzi mi pare di scorgere, in molti casi, una netta contrapposizione tra queste due dimensioni della vita umana. E’ bene precisare che questo non vuol dire che chi è in politica non è (o non può essere) cristiano, i modi con cui lo Spirito del Signore giunge alla Umanità intera e agli individui sono un Mistero meraviglioso che non riusciamo a prevedere, né a comprendere.


Proviamo ora brevissimamente a riprendere alcune caratteristiche della politica.


I partiti politici hanno avuto una serie di trasformazioni per cui hanno perso gran parte della capacità di radicamento territoriale e di rappresentanza sociale, essi, inoltre, non sono più in condizione di suscitare militanza politica gratuita. Per altro verso tendono a migliorare tecnicamente i processi organizzativi necessari per la di comunicazione politica e sociale e ad assumere la natura di reti orientate all’acquisizione del consenso.


I singoli che accedono alla politica hanno bisogno di risorse economiche per usare i mezzi utili alla propaganda politica e di risorse relazionali per poter competere con altri. Le motivazioni che spingono le persone verso la politica sono prevalentemente: carriera, interesse, potere. In termini di vita cristiana si può dire che la politica offre opportunità di vita non sempre compatibili con la Parola, la ricerca di Dio e la compassione.


Le istituzioni, nel migliore dei casi, diventano dei luoghi dove la politica si esplicita come gestione del potere e regolazione degli interessi.


Il discernimento dovrebbe portarci a ritenere questa politica come una vocazione che non aiuta la vita cristiana. La domanda successiva è: esiste un altro modo di intendere e di vivere la politica, un modo che sia in grado di orientare verso la vita cristiana ?


Padre Pio Parisi in uno dei suoi contributi per le ACLI indicava tre elementi essenziali per la politica: l’ascolto (della Parola e degli altri), il discernimento (individuale e collettivo) e la compassione (partecipare alla Passione di Cristo, rendendosi partecipi della vita degli altri a partire da chi è ultimo). Questo modo di guardare ha una particolarità non indifferente: il cammino di conversione alla vita cristiana e l’esperienza politica sono la stessa cosa. L’elemento di maggior originalità è che la politica, per chi persegue una vocazione alla vita cristiana, è concepita come un luogo dove si assumono responsabilità riguardanti il mondo e la vita degli altri senza avere né perseguire alcun potere, politica come interesse universale gratuito.


Se la politica è così cambiata e richiama modi di pensare e rappresentazioni negative,vale la pena recuperare questo termine per indicare percorsi diversi da quelli che comunemente si intendono ?


Personalmente penso che valga la pena anzi che sia necessario, questo perché molta parte dei problemi della Chiesa e della vita cristiana sono gli stessi della Politica. La ricerca del potere riguarda la politica e la vita umana, riguarda lo Stato e nella misura in cui la Chiesa si presenta come organizzazione, struttura e gerarchia, riguarda anche lei. In verità questo bisogno di potere nasconde una mancanza di fede e di speranza nello Spirito. Aver presente questa precarietà permanente che accompagna la vita di tutti è essenziale per attutire il fascino del potere e per trovare la forza di affidarsi allo Spirito. Sostituire la debolezza al potere è il cammino della vita cristiana che come nel Mistero della Morte e della Resurrezione è anche salvezza per il mondo.



Pietro Fantozzi




II


Occorre liberare il concetto di politica dalla identificazione, estremamente riduttiva, con la ricerca e con la gestione del potere, ritrovando il primato della coscienza politica e della politica “nel basso” che ritesse i rapporti fraterni, dalla città di Caino verso la Gerusalemme celeste.

Solo se si passa attraverso questa “spoliazione” si può poi essere capaci di partecipare anche a quella fase della vita democratica che è la ricerca e la gestione del potere.

E’ evidente che il governo della Civitas, anche se si parte dalla comune finalità del servizio alla comunità dei cittadini, può tradursi in scelte diverse per la realizzazione delle condizioni migliori per tutti. A maggior ragione, poi, ci saranno proposte diverse a partire da ispirazioni diverse, da interessi contrapposti. Si tratterà di individuare e sostenere scelte caratterizzate, nel merito, dal loro contenuto di giustizia, di solidarietà, di libertà.

Si affermerà la scelta sulla quale si è realizzato il maggior consenso e questo è, in definitiva, il potere democratico ed è appunto gestione del potere la progressiva realizzazione della scelta su cui si è concentrato il maggior consenso.

Nella pratica tuttavia sappiamo bene che la ricerca del potere e la sua gestione difficilmente mantengono la semplice linearità sopra richiamata: progressivamente esse si trasformano in lotta per il potere e conservazione del potere, come affermazione di se stessi, della propria ambizione, dei propri interessi. Ed è conseguente a ciò anche darsi una falsa coscienza che ci tranquillizzi che ciò che facciamo per il potere lo facciamo per i nostri fratelli cittadini.

In tal modo, questa politica diviene separazione dagli altri e arbitrio.

Se si è capaci di mantenere la condizione dell’ascolto della Parola e una continua ed autentica immersione nei rapporti fraterni “nel basso”, con un’ autentica comunicazione con i piccoli e con i poveri, con uno stile di vita che non separi dal loro stile di vita, si può forse ridurre il rischio di un cambiamento profondo ed ipocrita del proprio rapporto con il potere, con la politica.


Gianni Mattioli












10. Si dice che il cristiano nel mondo deve seguire e proporre i valori del Vangelo. Ciò implica una riduzione del Vangelo ad etica lasciando in secondo piano l’annuncio del regno, la rivelazione del Mistero infinito di Dio nel Mistero Pasquale della morte e risurrezione di Gesù Cristo.



Ce lo diciamo che dobbiamo essere sinceri, onesti, giusti, fare il bene e fuggire il male.

In particolare quando pensiamo a come dobbiamo comportarci e vivere nella società ci diciamo che dobbiamo avere una condotta retta, assumere le nostre responsabilità, non lasciarci trascinare dalla corrente e al tempo stesso non rinchiuderci nei nostri interessi.

E’ bene che ci diciamo queste cose e tante altre e dovremmo mettere in pratica quello che la nostra mente e il nostro cuore ci suggerisce.


Ce lo dicono tanti altri: parenti, amici, maestri, con toni e soprattutto con animi molto diversi: ci sono quelli che ce lo dicono con semplicità e sincerità, testimoniando con la loro vita o confessando le loro incoerenze, più o meno frequenti ed estese.

Ci sono quelli che fanno bei discorsi (predicano bene e razzolano male) senza profonda convinzione, per sola retorica, per interessi personali che possono essere i più diversi.

Ce lo dicono alcuni cristiani che si professano tali, appartenenti o meno alla gerarchia ecclesiale, in nome del Vangelo ed è una bella cosa.

C’è un discorso che potremmo dire ufficiale: i cristiani nel mondo devono affermare e proporre i valori del Vangelo. Quindi vengono indicati e spiegati questi valori: la persona, la famiglia, il lavoro, la vita, la solidarietà, la sussidiarietà, ecc…. Ed ecco che viene proposta la dottrina sociale della Chiesa. Si sente autorevolmente dire che tale dottrina è il Vangelo per i nostri giorni. Ho sentito, da fonte considerata autorevolissima, affermare che l’Enciclica sociale “Centesimus annus” era un’ottima catechesi per adulti.

Ma tutto questo che ci viene detto e raccomandato, e che può essere una ottima cosa, non è il Vangelo.

Come sarebbe che non è il Vangelo quanto ci viene proposto per vivere bene e liberarci dal male? E il guaio principale non sembra spesso consistere nel fatto che ci si professa cristiani e ci si comporta in modo scorretto, che ci si presenta puliti quando si è gravemente corrotti?

Il Vangelo non ci dice di essere onesti perché non è un insegnamento di morale, un trattato di etica sociale.

E’ molto, infinitamente di più e sotto certi aspetti anche di meno (ma questo va spiegato bene e cerchiamo di farlo).

Il Vangelo non è in primo luogo un insegnamento di morale come ce ne sono stati altri di grandi filosofi.

Il Vangelo è in primo luogo la rivelazione della buona novella, dell’unica splendida notizia che Dio c’è, è Padre, dona il suo Figlio, nell’Amore che è lo Spirito Santo.


“Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito”

(Giov. 3, 14)


“Gesù… dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine”

(Giov. 13, 2).


Ridurre il Vangelo a un insegnamento morale è privarlo della buona notizia, cioè negarlo. E questo è quanto avviene con una frequenza impressionante specialmente quando si dice che il cristiano nel mondo, in particolare in politica, si rifà ai principi morali, ai valori del Vangelo.


Chi accoglie il Vangelo rimane senza una morale?

Ne ha una incomparabilmente superiore, soprannaturale, che non sostituisce quella naturale.

Ci libera dall’assolutizzazione dei suoi precetti (Rm) e solo in questo senso si può dire che è meno di un trattato di morale.

Il Vangelo ci dice “la legge fu data per mezzo di Mosè, la Grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Giov. 1, 17).

S. Paolo nella Lettera ai Romani spiega che la legge, qualunque legge anche quella morale, mette in luce le nostre trasgressioni, la nostra impotenza e ci spinge in tal modo alla disperazione, mentre è la fede nell’amore di Cristo che ci trasforma, ci converte “non conformandosi alla mentalità di questo secolo, ma trasformando, rinnovando la nostra mente” (Rm. 12, 1-2).

Chi accoglie il Vangelo ha una morale incomparabilmente superiore e soprannaturale.

E’ la morale dell’amore, la partecipazione all’amore con cui Dio ci ama in Gesù Cristo, è “la carità che lo Spirito infonde nei nostri cuori” (Rm. 5, 5).

E’ la morale che ci impegna a rispondere a tutto ciò di cui c’è più bisogno e che noi possiamo fare, dilatando il nostro cuore alla compassione universale e radicale con cui Dio ci ama e che infonde in noi verso tutte le creature.

E’ la morale che ci dichiara responsabili verso tutto il mondo. Siamo chiamati alla sequela di Gesù Cristo nella salita verso Gerusalemme. Cioè verso la sua morte in Croce e la sua risurrezione.

La morale del discorso della montagna (Mt. 5-7), delle beatitudini, della povertà che è il cuore del mistero della salvezza del mondo, diventa comprensibile e realizzabile individualmente ed ecclesialmente.






























11. Quando si parla di Chiesa si intende molto spesso la gerarchia e pochi altri considerati esponenti qualificati del mondo cattolico. Occorre tornare alla Chiesa popolo di Dio del Concilio Vaticano II.


Quando si parla di Chiesa alle volte si pensa alle mura, molto più spesso a delle persone. Quali?

Il Papa, i Vescovi, i preti, le suore, alcuni laici particolarmente impegnati con i preti nelle parrocchie, nelle associazioni e... sullo sfondo, quelli che la domenica vanno alla messa.

Tutti gli altri, in Italia gran parte della popolazione, non vengono in mente quando si parla di Chiesa, anche se sono battezzati.

Si parla di Chiesa intendendo queste realtà, con simpatia e con antipatia, e talvolta non manca una certa visceralità, sia nei discorsi positivi che in quelli negativi.

Ma il problema di fondo è un altro: il concetto di Chiesa è molto sfocato, quando non è del tutto falso.


Dovremmo risalire alla sorgente: cosa pensa e vuole Dio riguardo alla Chiesa, cosa dicono le Sacre Scritture e la Tradizione.


Una via più facile è quella di rifarci al Concilio Vaticano II, in particolare alla Costituzione dogmatica sulla Chiesa “Lumen Gentium”.

Nel primo capitolo si sviluppa il tema del “Mistero della Chiesa”. Nel secondo del “Popolo di Dio”. Nel terzo de “La costituzione gerarchica della Chiesa e in particolare l’apostolato”. Nel quarto “I laici”, nel quinto “La vocazione universale alla santità nella Chiesa”. Nel sesto “I religiosi”. Nel settimo “l’indole escatologica della Chiesa peregrinante e sua unione con la Chiesa celeste”. Nell’ottavo “La Beata Maria Vergine, madre di Dio, nel mistero di Cristo e della Chiesa”.


La Chiesa Mistero e la Chiesa popolo di Dio: questo è il discorso fondamentale su cui si basa tutto il testo.

La Chiesa è Mistero, sacramento del Mistero infinito di Dio che ci si è rivelato in Gesù Cristo.

La Chiesa è popolo di Dio. Quali sono i confini reali di questo popolo? Quelli “dell’amore di Dio riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo” (Rm. 5,5).


Come rinnovare e rafforzare la nostra esperienza ecclesiale.

Un tempo era diffuso un forte radicamento ecclesiale fondato in primo luogo sull’educazione familiare e parrocchiale. C’era in primo piano il rapporto con la gerarchia, il prete, il vescovo e il Papa. C’era la dottrina cristiana e in particolare quella sociale che salvavano dal materialismo ateo. La fede era confortata dalla dottrina, dalla gerarchia e dalla grande organizzazione ecclesiale.


Oggi il pensiero della Chiesa dovrebbe suscitare in noi in primo luogo un sentimento profondo del Mistero di Dio che si manifesta in ogni creatura, in ogni donna e in ogni uomo e nella Pasqua del Signore, ucciso e risorto.

Pensando alla Chiesa dovremmo cogliere con ammirazione e stupore la pazienza, la fatica, la solidarietà e la gratuità diffuse nel popolo di tutto il mondo per opera dello Spirito inviato dal Padre e dal Figlio.

Il volto dei piccoli, dei poveri e dei sofferenti, il sorriso dei bimbi e la gioia di quanti si amano sono sacramenti ecclesiali di Gesù Cristo, figlio di Dio e di Maria.

Dei Verbum

8. Pertanto la predicazione apostolica, che è espressa in modo speciale nei libri ispirati, doveva esser conservata con una successione ininterrotta fino alla fine dei tempi. Gli apostoli perciò, trasmettendo ciò che essi stessi avevano ricevuto, ammoniscono i fedeli ad attenersi alle tradizioni che avevano appreso sia a voce che per iscritto (cfr. 2 Ts 2,15), e di combattere per quella fede che era stata ad essi trasmessa una volta per sempre. Ciò che fu trasmesso dagli apostoli, poi, comprende tutto quanto contribuisce alla condotta santa del popolo di Dio e all'incremento della fede; così la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede.

Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio.

Le asserzioni dei santi Padri attestano la vivificante presenza di questa Tradizione, le cui ricchezze sono trasfuse nella pratica e nella vita della Chiesa che crede e che prega. È questa Tradizione che fa conoscere alla Chiesa l'intero canone dei libri sacri e nella Chiesa fa più profondamente comprendere e rende ininterrottamente operanti le stesse sacre Scritture. Così Dio, il quale ha parlato in passato non cessa di parlare con la sposa del suo Figlio diletto, e lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce dell'Evangelo risuona nella Chiesa e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti alla verità intera e in essi fa risiedere la parola di Cristo in tutta la sua ricchezza (cfr. Col 3,16).”


































12. C’è una Chiesa del silenzio – diversa da quella di un tempo di oltre cortina – che non parla perchè non c’è chi l’ascolta e talvolta perchè ha timore di parlare; è chiesa anche chi non si professa cristiano ma vive nello spirito del Vangelo e si affida a Dio.


Quanto si parla della Chiesa che parla?

In silenzio si scopre la Chiesa del silenzio.


La Chiesa che parla è la Chiesa gerarchica: il Papa, i Vescovi, i preti, i teologi, i catechisti, ma anche la mamma e la nonna che insegnano le prime preghiere ai figli e ai nipotini.

La Chiesa parlando ci annuncia il Vangelo, la buona notizia. Ci aiuta ad ascoltare la parola di Dio, a scoprire il Mistero infinito che ci si è rivelato in Gesù Cristo.

La Chiesa che parla trasmette quel che gli apostoli hanno visto e ascoltato e testimoniato, secondo il mandato di Gesù, fino agli estremi confini della terra.

Ascolto, ammirazione, venerazione, stupore e gratitudine dovrebbero crescere in noi nei confronti della Chiesa che parla.


Al tempo stesso dobbiamo riconoscere che non tutte le parole pronunciate come membri appartenenti alla Chiesa, dalle più alte gerarchie ai più piccoli fedeli, sono sempre annuncio del Vangelo, comunicazione della sapienza divina.

Non mancano parole di sola sapienza umana che rischiano talvolta di essere piuttosto insipienza.

A cominciare da noi stessi che ci accorgiamo spesso di aver perso una buona occasione di tacere.

Oggi molto si parla della Chiesa che parla. E’ un argomento certamente importante ma che si presta a critiche e a sermoni spesso scontati.


Poco si parla della Chiesa che non parla. D’altra parte è nel silenzio che si scopre la Chiesa del silenzio. Eppure penso sia questa la più grande speranza per la pace nel mondo e per la maggior gloria di Dio.


Parlerò quindi un poco della Chiesa del silenzio presumendo forse di aver sperimentato personalmente un poco di silenzio.

Ho incontrato tanti cristiani che non si dichiarano tali, non perchè vogliano nascondersi, ma perchè il loro impegno a vivere coerentemente la fede nel Signore li rende umili e silenziosi, per quel che riguarda la loro identità cristiana. La loro adesione alla volontà di Dio, nelle consolazioni e anche nelle più amare desolazioni, è reale nella quotidianità e nei momenti di svolta della vita. La loro liturgia, cioè la loro adorazione in spirito e verità è feriale, pur essendo profondamente pasquale.

Ne ho incontrati tanti ma penso fossero rappresentanti di una moltitudine infinita, tutti raggiunti dallo Spirito che riempie l’universo. Una meravigliosa Chiesa del silenzio.


Tanti non si dichiarano cristiani, ma seguaci di altre religioni, di altre filosofie, agnostici ed atei. Eppure in loro sono manifesti, visibili, i segni della presenza dello Spirito: solidarietà, gratuità, umiltà... amore. Non sono Chiesa?

Chi può stabilire i confini della Chiesa silenziosa, i recinti che stabiliscono chi sta dentro e chi sta fuori?

Sono operazioni possibili e doverose a livello della dottrina e delle intelligenze, ma non del cuore. Cristo è il cuore del mondo.


Ho incontrato poi tante pietre vive scartate dai costruttori. Per questo mi sono legato a quanto dice Pietro nella sua prima Lettera: “Stringendoci a lui (il Signore), pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale” (1 Pt. 2, 4-5).


Mi meraviglia che nel documento preparatorio del prossimo Convegno ecclesiale di Verona quattro puntini abbiano sostituito “rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio”. Si è scartata la pietra scartata.


Sono pieno di fiducia che le tante pietre scartate dagli uomini nella società civile come in quella ecclesiale siano veramente il materiale di costruzione del Regno, e anche la pietra angolare della Gerusalemme che fin da ora scende dal cielo.


Infine quando nel silenzio cerco di stare davanti al Signore e sperare in lui (Salmo 37) pensando alla Chiesa mi appare la moltitudine dei piccoli, dei poveri, dei sofferenti, di tutti i mortali assunti dal Signore nella sua passione, morte e risurrezione e canto:


“Notte, tenebre e nebbia,

fuggite: entra la luce,

viene Cristo Signore.

Il sole di giustizia

trasfigura ed accende

l’universo in attesa.

Con gioia piena ed umile,

tra i canti e le preghiere,

accogliamo il Signore.

Salvatore dei poveri

la gloria del tuo volto

splenda su un mondo nuovo!

A te sia lode, o Cristo,

al Padre e al Santo Spirito,

oggi e sempre nei secoli. Amen.

























13. Il silenzio nella Chiesa è condizione per l’ascolto della Parola e per l’adorazione del Mistero: “Sta in silenzio davanti al Signore e spera in lui” (Salmo 37).



Ammirati, affascinati, spaventati e sedotti. Consideriamo la potenza degli uomini. Continue novità della scienza e della tecnica, possibilità di comunicare sino a poco tempo fa inimmaginabili. Novità nella cultura, conoscenza delle forze che hanno attraversato la storia dell’umanità e l’evoluzione cosmica. La forza irrefrenabile della globalizzazione e dei media travolge le persone, le amicizie, le comunità.

La crescita della potenza umana, con gli innegabili aspetti positivi, produce anche catastrofi a catena.


Chi può resistere?

In questo frangente, ciò che può apparire come il segno dell’estrema debolezza e dell’ultima resa, il silenzio, può essere la forza vincente.


C’è un silenzio che è solo passività: non ho più voce in capitolo, mi hanno ridotto al silenzio, non ho più nulla da dire. Ma c’è anche il silenzio di S. Agostino di fronte al Mistero della Trinità: “vox silet, mens deficit” (la parola tace e la mente viene meno).


E’ necessario distinguere un silenzio esteriore ed uno interiore. In mille modi sentiamo il bisogno di silenzio esteriore quando siamo storditi dai rumori e dal chiasso della città. Qualche volta cerchiamo lo stordimento per non pensare.

Per altro verso ricordo che dopo la lettura della Parola e l’invito a fare tre minuti di silenzio, la responsabile di un gruppo si alzò in piedi e immediatamente disse: “per rompere il ghiaccio dico io qualche cosa”. Così ruppe il silenzio.


Molto più importante è il silenzio interiore.

Se riusciamo un pochino a guardare quello che succede dentro di noi ci accorgiamo che è un susseguirsi e un accavallarsi di pensieri e sentimenti: i sogni, le cose che devo fare, le simpatie e le antipatie per le persone e le cose. Quando ascolto qualcuno spesso penso alle critiche che gli vado facendo dentro di me e che esternerò appena sarà possibile.


E’ difficile analizzare cosa sia il silenzio interiore ma lo si può capire in quanto è la vera realizzazione dell’ascolto: l’attenzione piena a ciò che ci viene manifestato ed a chi si rivolge a noi.

C’è l’ascolto di chi mi parla, di chi non mi parla più, di chi non ha mai parlato. Ci sono innumerevoli movimenti, anche appena percettibili, che manifestano quello che pensa e avrebbe da dire chi mi sta davanti.

E quando uno è immobile come una statua giustamente ha diversi motivi di preoccuparsi. Quanto ci sarebbe da ascoltare se riuscissimo a fare un po' di silenzio interiore!

In silenzio davanti al mondo, quello reale, con la sua bellezza e la sua tragicità, e non quello che mi viene raccontato con le immagini o con le parole. In silenzio davanti al mondo capisco qualcosa di più di chi sono e di quali sono le mie responsabilità.


“Sta in silenzio davanti al Signore e spera in lui”. E’ l’atteggiamento del religioso, contemplativo che ha percorso un lungo cammino ed ha capito quel che più conta. Ma è anche l’atteggiamento del piccolo, del povero, dello scartato, di chi ha molto faticato e sembra non aver concluso nulla: “Beati i poveri in spirito, perchè di essi è il regno dei cieli” (Mt. 5, 3).

In silenzio davanti al Signore, ricordando quello che lui ci ha rivelato e che abbiamo recepito con le poche parole della mamma o del catechista o con le splendide elaborazioni della teologia. Una luce fortissima a partire da quello poche o molte parole; una luce che ci porta ad ammirare, a lodare, a ringraziare, ad adorare; una luce che illumina la nostra miseria senza spaventarci nè avvilirci, e le miserie degli altri; una luce che svela il senso della storia nostra personale e quella dell’umanità perchè l’agnello immolato si degni di aprire il libro e rompere i sette sigilli (Apoc. 5).

Così di fronte alle forze immense dell’umanità si riesce a difendere la persona, a salvare l’amicizia, a mettere le basi di una convivenza nuova.

Così si scopre che il regno di Dio avanza dappertutto per l’azione dello Spirito, che la Chiesa, comunità che ascolta la parola di Dio, è più universale (= cattolica) di quel che sembra e i cieli e la terra nuova ci sono “già e non ancora”.












































14. La gratuità. La crescita del volontariato è accompagnata spesso dal declino della gratuità.



Le organizzazioni che si impegnano nel lavoro sociale possono essere di tanti tipi. Ci sono, ad esempio, i gruppi, informali, le associazioni di volontariato, le cooperative, le imprese sociali, i consorzi. Si tratta di strutture che presentano livelli di complessità organizzativa molto diversi tra loro. Considerate complessivamente, le realtà citate costituiscono quell’ambito sociale eterogeneo individuato con il termine “terzo settore”, così definito per distinguerlo dalla sfera pubblica e dal mercato.

Nell’ambito del terzo settore, le associazioni di volontariato sono quelle che si distinguono in quanto presentano come carattere preminente quello della gratuità. Un gruppo di volontariato è considerato tale, anche in base alle leggi statali che disciplinano questa organizzazione, se la maggior parte delle persone che in esso opera lo fa a titolo gratuito, senza percepire cioè alcuna retribuzione.

In altri termini, il paradigma che prevale nelle organizzazioni di questo genere è quello del dono. Si interviene sul territorio cercando di anteporre i bisogni altrui a quelli propri, senza chiedere nulla in cambio.

Nella storia del lavoro sociale in Italia, la comparsa dell’associazionismo volontario – intorno alla metà degli anni ’70 – ha rappresentato un fatto di enorme importanza, sia dal punto di vista culturale, che da quello delle pratiche sociali.

Sul piano culturale, il volontariato ha contribuito in modo decisivo a cambiare il modo di intendere il lavoro sociale, suggerendo l’abbandono dell’assistenzialismo e della beneficenza tradizionali e l’assunzione di una prospettiva “politica” in senso ampio. In altri termini, queste organizzazioni pongono in evidenza il fatto che il lavoro sociale deve avere come obiettivo prioritario non tanto gli interventi sui singoli bisogni, così come essi si presentano, pensati con una logica discendente, da chi ha di più a chi ha di meno, ma la individuazione e la rimozione delle cause che determinano l’insorgere dei bisogni stessi.

Sul piano operativo, questi gruppi si sono segnalati sin dall’inizio per la capacità di intercettare bisogni che fino a quel momento non erano stati neanche considerati tali (le tossicodipendenze, le diverse forme di handicap fisico e psichico, l’abbandono dei minori negli istituti, ecc.), sperimentando interventi spesso assai innovativi.

Per questa loro capacità di innovazione, molte associazioni di volontariato nel corso del tempo si sono profondamente trasformate, diventando organizzazioni sempre più complesse, e rischiando così di perdere di vista la dimensione della gratuità, che del volontariato costituisce, come abbiamo visto, l’elemento essenziale.

È accaduto che nel corso del tempo il contributo di queste organizzazioni è divenuto sempre più importante. Intervenendo su bisogni di cui nessuno si era mai occupato prima, tali gruppi – nati spesso come compagini informali – sono stati capaci di mettere in piedi servizi nuovi ed efficaci a beneficio di persone in difficoltà. L’esigenza di dare stabilità e continuità a questi servizi ha favorito la trasformazione dei volontari in operatori retribuiti, e il passaggio progressivo delle associazioni da forme organizzative semplici a forme via via più complesse.

In forza di queste trasformazioni, il volontariato è cresciuto dal punto di vista della capacità di intervenire efficacemente sui bisogni. Si è invece indebolita la sua dimensione politica, ovvero la sua capacità di interpretare in profondità la natura dei bisogni sociali, di alimentare la consapevolezza delle cause dei bisogni e il coinvolgimento di un numero sempre più ampio di persone, di svolgere una funzione di stimolo nei confronti delle istituzioni.


L’associazione di volontariato di cui faccio parte, e che opera da circa venti anni, ha assunto come orientamento la gratuità sin dall’inizio. Ci siamo andati convincendo che la nostra associazione esiste proprio per favorire il riconoscimento, l’accoglienza e il sostegno di vocazioni all’impegno solidale e gratuito. All’inizio del nostro cammino associativo, alcuni di noi difesero con energia la scelta della gratuità, e ciò determinò la fuoriuscita dal gruppo di persone che aspiravano invece alla costituzione di una cooperativa sociale, in modo da poter trasformare l’impegno sociale in un lavoro retribuito. Eravamo convinti che la dimensione della gratuità fosse strettamente connessa alla prospettiva del radicamento sociale, che orientava la nostra ricerca. Ritenevamo, cioè, che per radicarci nel territorio e nelle relazioni con le persone incontrate sulla strada, doveva essere chiaro che volevamo innanzitutto accogliere ed essere accolti, senza che vi fosse per noi alcun vantaggio in termini economici. L’esperienza fatta nel corso degli anni, ci ha confermato che il fatto di non percepire alcuna retribuzione per le attività svolte ci ha enormemente favorito nelle relazioni con le persone con cui avevamo scelto di vivere.

La scelta della gratuità è stata poi determinante anche nel rapporto con le istituzioni con cui abbiamo avuto a che fare. Operiamo in un contesto segnato da situazioni di profondo degrado sociale e istituzionale. Si tratta di un dato di realtà di cui non è facile rendersi conto se non si vive in Calabria. In un ambiente in cui le istituzioni sono così degradate, lavorare in gratuità costituisce forse l’unica possibilità di interagire con esse in modo libero, creativo e critico.

Per queste ragioni, abbiamo sempre cercato di evitare di stipulare convenzioni per le attività che nel corso degli anni abbiamo avviato sul territorio.

Pur essendo rimasta una piccola realtà, anche la nostra associazione deve oggi fare i conti con le questioni connesse ad una certa crescita organizzativa. Ed anche al fatto che alcuni volontari possano individuare nelle attività in cui sono coinvolti una via di possibile realizzazione anche professionale.

Capita cioè di constatare anche nella nostra esperienza come la dimensione del dono e la logica dell’organizzazione e del servizio tendano ad entrare in tensione.

Come comporre queste due dimensioni, in modo che non si indebolisca la spinta verso il radicamento e la ricerca di una prospettiva politica?

Si tratta di una domanda difficile, a cui non è facile trovare risposte pronto uso. L’impressione è che la tensione tra spirito e strutture sia ineliminabile, e che prima o poi affiora in ogni organizzazione, quale che sia il suo grado di complessità.

La consapevolezza di questa tensione alimenta, nelle associazioni di volontariato più consapevoli, il bisogno di aiutarsi a tenere vivo il riferimento alle motivazioni originarie; e anche la necessità di trovare e sperimentare forme di discernimento comunitario, che aiutino a resistere alle derive che vogliono sospingere il volontariato verso il mercato.


Giorgio Marcello





















15. Il servizio della comunicazione spirituale.


Una generazione loda all’altra le opere tue…

Perpetuano il ricordo della Tua grande bontà

E cantano la Tua giustizia…


La comunicazione fondamentale che ci è stata fatta è l’evangelo: il grande annuncio, che Dio è amore e ama tutti i suoi figli, e tutti chiama ugualmente alla salvezza ricambiando il suo amore e amandosi vicendevolmente.

C’è un legame misterioso di solidarietà fra gli uomini, ben espresso nella figura del Corpo mistico di Cristo, per cui ogni “buona opera”, cioè ogni atto d’amore, per quanto nascosto e noto solo al Padre che scruta nell’intimo dei cuori, torna a vantaggio di tutti, di tutta l’umanità senza confine, cui quel Corpo si estende, come anticipazione del Regno. È il legame espresso nel dialogo di Abramo con Dio, che per riguardo a pochi (sempre di meno!) giusti è disposto a perdonare l’intera città.

È chiaro dunque che è ogni atto d’amore, col suo valore assoluto e ridondante, ad alimentare in primo luogo il depositum charitatis.

Ma ci sembra che l’accrescersi di tale deposito, come di quello della fede, non possa prescindere dal precetto di “predicare”, cioè far conoscere a tutte le genti i doni divini.

La prima forma di comunicazione è, evidentemente e imprescindibilmente, la propria vita, che deve essere, come è detto nella prima lettera di Pietro, “bella”: e infatti siamo chiamati in ogni momento e in ogni circostanza alla riflessione e alla conversione.

Alla base di questa c’è l’ascolto della Parola, l’esperienza della nostra fragilità, inadeguatezza e impotenza, del fatto che nulla può venirci da noi stessi (“maledetto l’uomo che confida nell’uomo”), e che tutto è un dono, e che è nella catastrofe che può trovarsi la salvezza: “bella” è dunque la vita di chi riconoscendosi ”peccatore, nato nel peccato”, in piena sincerità riconosce e non nasconde i propri naufragi e quanto, d’altra parte, ha ricevuto.

Il precetto di profumarsi quando si digiuna non impone il segreto sulla propria vita spirituale, ma semplicemente colpisce l’ostentazione orgogliosa. L’esempio e il paradigma della comunicazione di esperienze è piuttosto l’irrefrenato inno del Magnificat: “Grandi cose ha fatto (anche in me, di me e per me, come in ciascuno, di ciascuno e per ciascuno di noi) il Signore!”.

Ci sono esperienze personali, anche umanamente valide, che esauriscono in sè la propria utilità, o capacità di dare soddisfazione. Socrate, aspettando la morte cui era stato condannato, si faceva insegnare a suonare il flauto, e agli stupiti discepoli che gliene chiedevano la ragione rispose “Perchè imparare qualcosa che si ignora è bello”. Ci può essere un valore generale nell’esortazione a imparare, ma l’utilità satisfattiva di quell’insegnamento, di quella lezione di flauto, era riservata solo a Socrate.

Ci sono anche, all’estremo opposto, esperienze talmente straordinarie di incontro diretto con Dio, faccia a faccia, che possono essere solo riferite come avvenute e nei loro effetti, ma non “comunicate” nella loro sostanza, inesprimibile perchè trascendente l’umano. Ne è esempio lo scritto sulla “notte mistica”, che Pascal portò poi tutta la vita sul cuore, cucito nel suo giubbetto, e che quando viene letto non riesce a rivelare se non appunto un effetto, lo sconvogimento della mente e dell’anima. Quel che conta per noi non è quello scritto, non sono le disarticolate parole sull’ineffabile, ma la “nuova vita” di Pascal dopo la “notte”.


Si è visto in quanti sensi si possa parlare di “spirito”. Le esperienze spirituali che sia nel loro valore assoluto che in quanto comunicate riguardano, e accrescono, il depositum charitatis sono quelle che riguardano l’opera dello Spirito, o, per meglio dire, sono opera dello Spirito.

L’ascolto di tante e diverse esperienze spirituali porta a riconoscere delle costanti ultime: “ero smarrito e ho udito il richiamo di Chi mi continuava a cercare”, “credevo di fare, di dare qualcosa, e invece ricevevo”.

Il racconto di ogni esperienza spirituale, spogliata di ogni individualismo senza perdere la propria particolarità e unicità, è la narrazione di un’opera di Dio, di un dono ricevuto. E ogni dono d’amore è, di per sè, traboccante e comunicativo, suscita il bisogno di farne partecipi gli altri: i discepoli di Emmaus non appena hanno riconosciuto il Signore tornano indietro di corsa, di notte, per raccontarlo a tutti.

C’è un’esigenza di restituzione, come la chiama Olivero, o forse meglio di condivisione, del dono: “se ho un frutto e non lo divido: marcisce; se ho del tempo e non lo spendo bene: lo spreco; se ho un pensiero bello e non lo condivido: è perso per sempre”.

Comunicare un’esperienza dell’operare dello Spirito in noi è a sua volta in sè un atto di amore: te lo dico perchè anche tu possa sperimentare la gioia e ammirare la gloria delle opere di Dio.

Si sperimenta così la natura diffusiva della carità: anche chi riceve il racconto riceve un dono d’amore. Ne deriva il valore di comunicare non solo quanto si è direttamente sperimentato, ma anche quanto si è appreso (e che ha comunque operato in noi). Mi sembra significativo il precetto di Gesù ai discepoli, dopo che egli aveva distribuito alla folla i pani e i pesci moltiplicati, e tutti si erano saziati, di “raccogliere i pezzi avanzati, perchè nulla vada perduto”. Tutto deve essere raccolto, e nulla va sprecato.

Il deposito di carità si alimenta anche con la conoscenza, la condivisione, la memoria, lo scambio.

È in questo, mi sembra, il senso del servizio della comunicazione, del suo possibile inserirsi nella circolarità dell’azione dello Spirito.


Presupposto (oltre che fine) della comunicazione è naturalmente l’ascolto: che a sua volta è fatto dell’ascolto della Parola, e della chiamata che essa ci rivolge, dell’attenzione agli altri (al “prossimo”) e a ciò che avviene nel mondo, dello sforzo di discernimento e di lettura della realtà alla luce della Parola ascoltata. Per rifarsi alla parabola del Seminatore, solo se il seme ha dato frutto si può comunicare un’esperienza spirituale, altrimenti si parlano parole, si ripetono teorie, si fa, al massimo, cultura: ma sul piano dello Spirito si resta nella sterilità. Ricordo il protagonista di un romanzo giapponese che scriveva celebrati libri sul balletto classico occidentale, ma solo per averne letto, senza averne mai visto uno.


Di una comunicazione spirituale autentica sembra invece aver bisogno un mondo in cui alla crescita esponenziale dei mezzi di comunicazione (nella parte di mondo in cui si verifica, e che è quella in cui viviamo) fanno spesso riscontro non la crescita delle relazioni ma il chiacchericcio vuoto, la disinformazione per eccesso di informazioni non correlate e non verificabili, l’isolamento che genera disperazione.

In uno scritto-proposta dell’agosto 2002 rivolto alla Associazione San Pancrazio di Cosenza (pubblicato l’anno successivo da Scriptorium in Lettere agli amici) padre Pio Parisi avanzava il suggerimento “di raccogliere in ogni realtà ecclesiale le esperienze che si vanno facendo delle scelte di fondo con cui si cerca di vivere la carità di Cristo”, di “raccogliere su carta, non lunghi racconti edificanti, ma gli snodi fondamentali in cui ci sentiamo interpellati per la sequela di Gesù Cristo, per realizzare un piccolo “depositum charitatis” in cui trovare il senso più profondo della nostra vita in comune”, di “una comunicazione di “deposita charitatis” per un arricchimento dell’unico “depositum fidei””. E continuava osservando, fra l’altro, che “è vero che per lo più non serve dire e che bisogna fare, per non cedere al verbalismo imperante e desertificante”, ma che “c’è un fare che si realizza anche nel dire: la comunicazione spirituale”; che “nella Chiesa che conta nel mondo scarseggia la comunicazione spirituale, che pure ne è l’anima”, perchè “si parla molto dall’alto e si ascolta, non sempre molto, dal basso, ignorando per lo più la cattedra dei piccolo e dei poveri”, “si parla e non mancano le attività, non di rado manageriali, ma scarseggia il silenzio adorante, senza del quale non ci può essere comunicazione spirituale”; che “se esperienze diverse di gruppi, associazioni e parrocchie mettessero a fuoco i loro “deposita charitatis” e li comunicassero fra di loro si aiuterebbe la crescita della circolazione spirituale che è l’anima della Chiesa. Lo scambio reciproco dei doni ricevuti dallo Spirito è la comunione più grande possibile fra gli uomini”.


Nel 2004, riflettendo sulla crisi della democrazia, è parso, allo stesso Pio Parisi e a un gruppo di amici romani, di poter individuare una dimensione profonda di tale crisi proprio e ancora nella mancanza di comunicazione, che impedisce di conoscere la realtà nella sua concretezza; e che fosse quindi urgente aiutare la circolazione di idee ed esperienze sicuramente molteplici e profonde ma per lo più e per vari motivi ignorate e scartate da chi ha il potere sui mezzi di comunicazione.

Comunicazione e mezzi di comunicazione sono, tipicamente, nel rapporto spirito – strutture: senza apparecchio ricevente quel che è trasmesso via radio non può essere ascoltato, ma se manca la trasmissione l’apparecchio tace ed è inutile. E lo stesso apparecchio può ricevere e fare udire i più disparati messaggi, così come dal mezzo più elementare, la bocca umana, può uscire di tutto. Se ne ricava in genere che i mezzi in quanto tali sono neutri rispetto ai contenuti, ma ciò è vero fino a un certo punto. È esperienza comune che alcuni mezzi (primo fra tutti quello televisivo) comportano di per sè una posizione di maggiore passività nel destinatario del messaggio, prestandosi così più di altri a un indottrinamento diretto o indiretto che sfrutta l’abbassamento del livello di coscienza critica: e che si tratta in genere proprio degli stessi mezzi su cui, per motivi tecnici ed economici, solo pochissimi hanno il dominio come autori, selezionatori o censori del messaggio da trasmettere.

Oltre all’evidente problema di democrazia, che impone di operare sulle strutture politico-sociali, ne deriva, sul piano personale del singolo, l’opportunità di operare una scelta nel senso di preferire i mezzi più facilmente accessibili. E' chiaro che non si tratta di porre regole e preclusioni assolute (ho visto in televisione, anche se raramente e per lo più fuori orario, cose ottime sotto ogni aspetto, e nulla di ciò che esiste va rifiutato di per sè), ma vi è certamente, in genere, un’esigenza di coerenza tra mezzo e messaggio. Gesù ha scelto la povertà anche di mezzi, e quella di avvalersi delle schiere angeliche è una delle tentazioni cui si è opposto.


Ancor più che sui mezzi si deve poi riflettere sui modi della comunicazione. La condivisione di un dono d’amore può attuarsi solo in spirito di gratuità e amicizia (che è a sua volta un sacramento della carità), in sincerità, umiltà e mitezza. Ricordiamo l’immagine dei “Due campi” di S. Ignazio: Lucifero su una grande cattedra, con grande strepito, e dall’altra parte Gesù con i suoi su un prato, in un’atmosfera di dolcezza.

Lo Spirito del Signore “tutto unisce”, facendo superare ogni particolarismo ed egoismo, ogni ripiegamento su sè stessi, a livello personale, di gruppo, di religione. Il “diavolo” è “colui che divide”, che suscita l’egoismo e l’illusorio desiderio di autoaffermazione e del potere.

È estranea all’Evangelo la presunzione (che è una tentazione ricorrente) di poter trasmettere un messaggio positivo con la lusinga, la prevaricazione e l’intimidazione, con l’imposizione di regole invece che con lo stimolare la crescita della coscienza politica, nel senso proprio di responsabilità verso il prossimo nella concretezza della convivenza umana.

La via dunque è quella povera della compassione e della rinuncia a tutte le innumerevoli forme di potere egoistico che ci siamo procurati e su cui abbiamo costruito la nostra personalità e le nostre relazioni.


Nel 2005, su una traccia sempre più dettagliata proposta ancora da padre Pio Parisi allo stesso gruppo di amici romani, si è cercato di approfondire in dieci punti l’importanza, il significato, le condizioni e le modalità del servire la comunicazione di esperienze spirituali.

La traccia iniziale, che ne è anche un compendio, ed è un programma, va qui riportata per intero:


Proponiamo di servire

la comunicazione di esperienze spirituali

escludendo ogni forma ed operazione di potere

in piena gratuità

accogliendo il Vangelo

pur nella complessità contraddittoria

per la difesa e la crescita della persona

come intervento politico

come servizio ecclesiale.

  • Servire la comunicazione fra singole persone e gruppi, intendendo per comunicazione la manifestazione, che si auspica reciproca, di ciò che realmente si è, ed il dono di ciò che si ha. Tale comunicazione è difficile per la tendenza a ripiegarsi sui se stessi e su quelli che vengono considerati spesso i propri interessi, e per un modo di pensare, e di non pensare, supportato da alcuni nuovi mezzi di comunicazione il cui uso può ostacolare gravemente la comunicazione. Cerchiamo di favorire la circolazione di esperienze più che raccogliere opinioni.

  • Servire la comunicazione di esperienze spirituali. Esperienze e non solo elaborazioni di pensiero e discorsi che non coinvolgano radicalmente la vita. Spirituali dando a questo termine, che può avere innumerevoli significati, quello di superamento dei confini e dei recinti dei propri interessi materiali e anche morali, perseguiti in vista di un vantaggio personale o di gruppo.

  • Escludendo. In questo servizio ci proponiamo di servire la comunicazione di esperienze spirituali e non di negare altre forme d’impegno. Escludiamo nel senso che lasciamo fuori dal nostro servizio, ma non disconosciamo altre proposte; la nostra non è esclusiva, totalizzante o in contrapposizione.

  • Ogni forma ed operazione di potere. Anche il termine potere può avere innumerevoli significati, qui lo intendiamo come dominio sugli altri e anche come condizionamento di singoli, di gruppi e di istituzioni sul piano politico, culturale, religioso e non come aiuto alla crescita della coscienza, che è ciò che più ci sta a cuore. Il potere viene escluso nel servizio che proponiamo come obiettivo o meta da raggiungere, come senso del nostro progettare e del nostro agire.

  • In piena gratuità. L’uso del termine “gratis” è molto riduttivo ed evoca una forma di propaganda commerciale, di promozione di un prodotto. Per noi “gratuità” è il dono disinteressato di ciò che si è, senza nessuna pretesa o semplice attesa di un compenso e di un riconoscimento.

  • Accogliendo il Vangelo di Gesù Cristo nel suo contenuto essenziale, non riducibile a valori etici, rivelazione del mistero di Dio: “Deus charitas est”.

  • Nella complessità contraddittoria cioè piena di contraddizioni che sperimentiamo in primo luogo in noi stessi e che è presente in tutto il tessuto dell’esistenza umana. Ci proponiamo di aiutare la comunicazione di ciò che è più valido in ogni persona e in ogni gruppo per favorirne la crescita.

  • Per la difesa e la crescita della persona e dei rapporti interpersonali in tutti i campi: famiglia, lavoro, impegno civile e religioso.

  • Come intervento politico. Stando al modo corrente di intendere la politica, come ricerca e gestione del potere, quanto proponiamo può sembrare attinente alla crescita spirituale, alla conversione personale, ma privo di valenza politica. Considerando invece la politica come l’impegno per la costruzione della “polis” cioè della convivenza umana la nostra proposta va al cuore della politica stessa. E’ quindi una proposta di conversione importante in rapporto al problema stesso della democrazia.

  • Come servizio ecclesiale. Considerando la Chiesa come popolo di Dio animato dallo Spirito nell’accoglienza del Vangelo, abbiamo fiducia che quanto ci proponiamo ci inserisca in questa corrente che è la storia della salvezza. La Chiesa come istituzione con la sua essenziale struttura gerarchica ci appare particolarmente bisognosa di aiuto per superare le difficoltà di pensare e vivere in pieno la sua presenza nel mondo a partire dal Mistero Pasquale. Tale aiuto pensiamo con il Concilio che possa venire da tutto il popolo di Dio, dal suo ”sensus fidei ” e dalla sua “gratia verbi” per cui tutti sono chiamati a partecipare al sacerdozio, alla regalità e alla profezia di Gesù Cristo.



Lo sviluppo di questi punti è stato pubblicato pro manuscripto, a cura di Giovanni Bianchi, nel volume “Abita la terra e vivi con fede – Discernimento comunitario della dimensione sociale alla luce del Vangelo“ e si trova sul sito internet della Associazione Maurizio Polverari www.incontripioparisi.it, e non sembra ci sia qui nulla da aggiungere.

Il servizio della comunicazione presuppone l’ascolto (il silenzio adorante e l’attenzione), si attua nella gratuità, è finalizzato, in spirito di umiltà e carità, e nella speranza, alla crescita del Regno (che è e che viene), attraverso l’apertura e la consolazione e stimolando la presa di coscienza e la resistenza.

Che sono tutti temi dei vari punti nei quali si articola questa riflessione sul depositum charitatis.


Massimo Panvini







































16. Il superamento dell'autoreferenzialità e del considerarsi soggetto proponente della salvezza: da parte di singoli, di comunità, di movimenti e delle stesse realtà ecclesiali. Dio propone, le creature narrano la bontà di Dio e aderiscono alla sua iniziativa.



I


  1. sembra che l’autoreferenzialità sia la regola d’oro per sopravvivere nella società frammentata, per garantirsi una buona posizione, fare carriera, affermarsi, guardare al futuro. Ai bambini, spesso figli unici, si insegna in famiglia, fin dai primi anni, a soddisfare tutti i capricci, a considerarsi al centro dell’attenzione, a schivare ogni responsabilità verso gli altri. Significativa, in questo senso, l’affermazione di una madre di famiglia intervistata sull’avvenire dei figli: mi aspetto che siano sempre i primi e che trovino lavori che fanno guadagnare molto.


  1. in recenti articoli e saggi si parla dei gruppi di volontariato come di soggetti assai meno innovativi del passato nelle risposte ai bisogni delle persone in difficoltà e scarsamente impegnati ad educare giovani e adulti al senso di responsabilità verso gli altri. Molti di tali gruppi risultano piuttosto orientati a mettere al centro se stessi ed a procurarsi visibilità, finanziamenti e convenzioni.


  1. le ultime campagne elettorali hanno messo in luce, in Italia, una conflittualità esasperata tra i partiti ed una personalizzazione dello scontro che non ha eguali nei decenni passati e che ha messo in ombra idealità politiche e progetti per il bene comune.


  1. nell’intervista ad un magistrato, pubblicata nel 2006, emergono profili di mafiosi che mettono Dio a loro servizio e che trovano preti cattolici disposti ad assecondare il loro bisogno religioso, al di fuori di qualsiasi orizzonte di conversione e di assunzione di responsabilità sociale.


  1. congregazioni religiose e nuovi movimenti ecclesiali sembrano mettere sempre più di frequente in primo piano se stessi, nel loro rapporto con Dio e nella ricerca di affermazione delle loro opere. Una suora, in un incontro recente, parlava di forte resistenza dei superiori ad ogni concreta forma di condivisione del carisma con laici aperti al confronto e alla cooperazione e di un ritorno a forme di governo più centralizzate.


  1. la stessa chiesa–istituzione difficilmente viene percepita a servizio del popolo di Dio e della comunione. Appare più preoccupata di procurare vantaggi alle proprie strutture e di imporre a tutti i suoi principi morali con la forza impositiva della legge civile.


Questi spunti possono essere di aiuto per comprendere quanto è diffusa e radicata oggi la spinta a organizzare il senso e il fine della vita a partire da se stessi, da desideri e pulsioni personali e di gruppo, da bisogni di dominazione, da ragioni di autoconservazione o di supremazia. È una tentazione che cattura persone singole, famiglie, aziende, associazioni e movimenti, partiti politici, organismi statuali ed entità religiose e che pervade ogni ambito dell’esistenza.

Gli stessi cammini di fede, a livello personale e collettivo, possono deviare verso questa forma di idolatria che oggi chiamiamo autoreferenzialità.

La stessa Chiesa, nelle sue scelte e nei suoi organismi, è tentata a mettere al centro se stessa, a trasformare la sua missione in una strategia di sapore aziendale, a dimenticare che il suo compito essenziale è quello di mostrare all’umanità il volto di Cristo e, attraverso esso, l’amore misericordioso del Padre.


II


L’agire autoreferenziale, nella vita delle persone e delle organizzazioni, non va confuso con l’autentico bisogno di liberarsi da condizionamenti e dipendenze di ogni genere, per poter esprimere appieno quelle qualità e carismi che il Signore dona a tutti, perché concorrano alla costruzione del Regno.


Nel faticoso travaglio della storia, l’azione dello Spirito suscita incessantemente scelte di vita, intuizioni, cambiamenti, nuove sensibilità che aprono orizzonti inediti al cammino dell’umanità.


Le nuove frontiere della pace, dell’interculturalità, del dialogo tra le religioni, della valorizzazione delle differenze di genere, della difesa dell’ambiente, ne sono una evidente testimonianza.


Maturano consapevolezze inedite circa la dignità della persona, il bisogno insopprimibile di una sua vita relazionale significativa, l’esigenza che il lavoro umano venga liberato da nuove forme di schiavitù indotte da un’economia sempre più globalizzata, la possibilità che tutti i popoli e gli Stati possano sviluppare le loro culture e le loro economie, sottraendosi al giogo di imperialismi vecchi e nuovi.


Su queste frontiere ogni passo in avanti offre a persone, gruppi sociali, popoli interi, opportunità di riconoscimento, di autorealizzazione, di crescita delle speranze di vita, di convivialità delle differenze.

Il rischio di imboccare strade autoreferenziali si ha quando persone e organizzazioni, pur collocandosi all’interno di questi percorsi di liberazione e di promozione umana, li piegano al raggiungimento di propri progetti di potere, visibilità, successo, accumulazione, supremazia.

Ciascuno può andare a rileggere le disillusioni vissute nel coinvolgimento in percorsi di rinnovamento rivelatisi col tempo ambigui e illusori e, se non bara con se stesso, è sollecitato a riconoscere anche di avervi contribuito in proprio. Un vero cammino di liberazione parte solitamente di qui.



III


Il superamento dell’autoreferenzialità si rende possibile man mano che si fa esperienza della presenza di Dio nella storia dell’uomo.


Si tratta di una scoperta che non si può fare da soli. È possibile solo se ci si lascia prendere per mano dal Signore Gesù che, con la sua vita, con la sua morte in croce e con la sua resurrezione, restituisce alla storia umana il suo significato più autentico. Potremmo riepilogare la vita di Gesù come un radicale e definitivo rifiuto a porsi nella storia in modo autoreferenziale (il racconto delle tentazioni nel deserto lo evidenzia in maniera esemplare).


Questo ri-orientamento dell’esistenza è reso possibile dalla gioiosa scoperta di un Dio che amorevolmente si fa vicino alle sue creature, che suggerisce e accompagna un cammino di popolo in cui ci si accoglie reciprocamente, ci si sostiene nelle difficoltà, ci si perdona l’un l’altro per gli errori commessi, ci si accoglie nella diversità di fedi, culture e opinioni.


Al centro di questo cammino c’è l’ascolto della Parola del Signore, cui siamo chiamati ogni giorno a livello personale e comunitario così che possa illuminare ogni passo della nostra vita.

La Parola del Signore si manifesta nella Scrittura, nelle persone che si incontrano e negli avvenimenti quotidiani, nella comunicazione reciproca delle meraviglie che il Signore suscita in ciascuno di noi, nella misura in cui non poniamo resistenza alla sua iniziativa e ci apriamo alla Speranza.


Gli incontri con i piccoli, i poveri, i sofferenti rappresentano le occasioni privilegiate di ascolto del Signore e della sua Parola incarnata nella storia.

Allorché le nostre esistenze distratte e autocentrate si lasciano sorprendere e ri-educare da tali incontri, iniziano a destabilizzarsi tutti quei progetti “salvifici” con i quali ci si è a lungo illusi di sanare i guai del mondo e di diffondere la stesso annuncio del Vangelo.


Il Card. Ballestrero, in un’intervista del 1997, alla vigilia della sua morte, affermava: “In questo trapasso storico abbiamo più bisogno di essere fedeli e pazienti che protagonisti. Abbiamo più bisogno di essere credenti che sapienti. Abbiamo più bisogno di essere poveri che ricchi. La nostra fatica odierna, la nostra sfida è ancora quella di credere che non abbiamo qui la nostra dimora permanente e che proprio la nostra provvisorietà di beni, di strutture, di identità riflessa incontra l’avvenire di Dio”.


Gianfranco Solinas

































17. La resistenza e l'opposizione al dominio economico, politico e militare da chiunque teorizzato ed esercitato, specialmente nei confronti delle grandi concentrazioni.


Sono soprattutto i nostri modi di pensare, i nostri atteggiamenti, i nostri pregiudizi, che ci impediscono di rapportarci con le persone in modo autentico, di fecondare gli altri e di farci fecondare dal ‘depositum charitatis’.


Ciò avviene già nei riguardi del prossimo con cui entriamo in contatto quotidianamente ma più ancora nei riguardi degli esseri umani che ci sono lontani per collocazione geografica, economica, culturale, religiosa o politica.


Occorre superare i nostri atteggiamenti e i nostri pregiudizi (che dipendono dal nostro egoismo, dalla posizione che occupiamo nel mondo - economica, geografica, culturale... - nonché dalla pressione dei mezzi di comunicazione di massa).


Un resistenza esplicita e consapevole deve essere fatta prioritariamente contro la televisione e le altre ‘agenzie’ di informazione - che tendono ad omologare noi stessi e il popolo nel suo complesso ai modelli offerti dalla ricchezza e dal potere, o per meglio dire dai ‘poteri’, spesso contrapposti tra loro.


Occorre resistere sia alle lusinghe di un potere sia a quelle di un altro potere ad esso avverso: in realtà di un unico potere.


Un primo passo necessario per aprirci all’umanità consiste dunque nel ricercare una conoscenza il più possibile oggettiva e corretta della situazione attuale. Oggi è facile procurarsi enormi quantità di informazioni di ogni genere (per esempio tramite Internet) ma serve una grande saggezza per discernere, acquisire e comprendere le informazioni giuste.


Come sottolineato nell’Appello agli Europei, uno sforzo sincero di comprensione per aprirci all'umanità intera ci mette in primo luogo di fronte ad enormi disuguaglianze economiche. Vediamo che i beni disponibili sul Pianeta si concentrano in una minoranza di paesi e, all’interno di questi paesi, negli strati sociali privilegiati.


In una situazione in cui non poche persone sono così povere da non poter disporre neanche delle calorie quotidiane necessarie e dell’acqua potabile, tutto ciò che si possegga, e che vada al di là dei mezzi essenziali di sostentamento, dovremmo considerarlo rubato, o in prestito per essere usato in favore degli altri. Invece la filosofia dominante del neo-liberismo spinge chi ha molto ad accrescere la propria disponibilità di beni, con conseguenti smisurate e perniciose concentrazioni di ricchezza e di potere.


I ricchi hanno molto più potere - oltre che economico, anche politico e militare - dei poveri. Di qui una loro maggiore responsabilità nella creazione, nel mantenimento e dell'aggravamento di un ingiusto stato di cose di cui, per la 'globalizzazione' del mondo, tutti in realtà sono in qualche misura responsabili.


Mente i ricchi/potenti divorano la gran parte delle risorse materiali disponibili nel mondo, contribuendo in proporzione al degrado dell'ambiente, ai poveri è preclusa la speranza di usufruire largamente delle risorse a causa dell'accaparramento che ne fanno i ricchi ma anche perché il loro progresso economico – secondo i ‘modelli di sviluppo’ tracciati dai ricchi - comporterebbe una crescita della degradazione ambientale sufficiente a produrre una catastrofe ecologica globale.


La libertà e la democrazia sono per lo più un privilegio dei ricchi/potenti. I ricchi/potenti godono anche in larga misura del bene della pace e della stabilità, necessarie ad un esercizio ottimale delle attività economiche. (*)


Tutto avviene all'interno di un sistema dinamico che ha una sua provvisoria solidità derivante dall'integrazione di molteplici fattori di equilibrio, come, ad esempio, le regole economiche dettate dalle grandi imprese e gli interventi, anche militari, dei governi più forti. Non è difficile vedere nell'ordine prodotto da tali strumenti un'ingiustizia 'disumana'.


Se è evidente il dovere morale di resistere a tutto questo, soltanto pochi fra gli esseri umani riescono a prendere una chiara coscienza di tale dovere. Per costoro non è facile trovare la forza e i modi per ottemperarvi in modo coerente ed efficace.


Un primo dilemma di chi vuole ‘resistere’ concerne l’eventuale uso della violenza.


Da una parte costatiamo che la violenza genera violenza in una catena senza fine e che gli strumenti bellici hanno ormai raggiunto un potere distruttivo totale, dall’altra assistiamo all’affermarsi, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, dell’etica universale dei diritti umani e della solidarietà.


Nei rapporti tra gli individui e tra i gruppi umani, la forza del diritto deve perciò sostituire la violenza e la sopraffazione. Ciò impone chiaramente di connotare con un carattere di non violenza la doverosa opposizione nei riguardi delle concentrazioni di ricchezza e di potere.


Nel mondo soltanto alcune minoranze, a volte dette ‘profetiche’, si impegnano per ‘resistere’. In tali minoranze, assai frammentate, a volte scarseggiano coesione, perseveranza e chiarezza sulle azioni da intraprendere e sui mezzi da usare (a fronte della coerente efficienza dei ricchi/potenti). Pensiamo per esempio alle vicende dei pacifisti e dei ‘no global’.


Tuttavia, anche se minoritario, è tutt’altro che trascurabile l’impatto di queste minoranze ‘profetiche’. Pensiamo per esempio al lavoro silenzioso di milioni di persone che operano con gratuità in favore delle vittime delle violazioni dei diritti umani, dei piccoli, dei poveri e dei sofferenti in tutto il mondo, specie nelle situazioni più difficili e degradate e nelle zone di guerra. E’ questo un diffuso e prezioso lavoro ‘politico’ che rende meno ingiusto e disumano l’attuale ‘ordine mondiale’.


Giuseppe Lodoli

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(*) Le aree geo-politiche dei ricchi/potenti sono assediate da poveri che le minacciano con ondate migratorie disordinate, con l'instabilità politica e militare, col terrorismo, con l'incremento demografico. I governi dei ricchi/potenti intervengono per mantenere tali minacce al disotto di un certo livello, facendosi aiutare da coloro che governano i poveri. I poveri sono vittime delle dittature, delle guerre, dei genocidi, delle migrazioni forzate, della fame, delle malattie, delle catastrofi naturali. Ai dittatori - salvo eccezioni - si consente ogni arbitrio verso i poveri a condizione che mantengano una notevole deferenza nei riguardi dei ricchi. Ma un lento acuirsi dell'ingiusto 'ordine mondiale' - con l'aumento della forbice economica tra ricchi e poveri e del degrado ambientale - non è neanche la peggiore delle prospettive per l'umanità. Avvenimenti piccoli o grandi, od anche insignificanti, possano innescare da un momento all'altro una qualche catastrofe planetaria - cataclisma ecologico o guerra nucleare solo per fare due esempi - capace di scardinare il sistema mondiale. Confidando che la probabilità di una catastrofe planetaria si mantenga abbastanza bassa, i ricchi/potenti ritengono di poter mantenere l'equilibrio attuale (e i propri privilegi) per un certo numero di decenni. (Vedi: Appello agli Europei)



18. Non dilapidare le esperienze di chi ci ha preceduto, specialmente di quelli non riconosciuti come testimoni, emarginati e scartati.



Fare memoria dell’esperienza di chi ci ha preceduto è un esercizio rilevante della carità. Siamo dentro la logica della tradizione, del saper far vivere oggi ciò che l’esperienza di fede ha prodotto ieri. Perché non vada disperso ed entri a far parte, come energia vitale e feconda, del depositum charitatis.

Il fare memoria è atto costitutivo della fede cristiana e, prima ancora, della fede ebraica. Il ricordare nella fede non si limita a rendere presente simbolicamente chi non c’è più. Il fare memoria per eccellenza è la consacrazione eucaristica: e qui il Mistero Pasquale diventa attuale ed efficace, si compie qui ed ora, nel cuore della comunità che vive nella storia.

Fare memoria dei testimoni non riconosciuti è un atto di carità ancora più prezioso. Non solo perché cerca di rendere giustizia a quelle persone ma perché accoglie nella comunità risorse spirituali di cui era stata privata. È dunque un atto di carità verso l’intera comunità ecclesiale.

Nella mia testa, tanto tempo fa, si è formata una convinzione semplice. La carità è l’amore efficace; l’amore che sa diventare concretamente accoglienza e condivisione.

Ogni uomo ha nel suo cuore la capacità d’amare. Nella luce della fede riconosci che l’amore è il dono più grande del Creatore; è la facoltà che ci rende davvero uomini e figli di Dio.

Se ami davvero Dio ami anche il passante derubato e ferito lasciato sul ciglio della strada e ti fai suo prossimo. E sai anche riconoscere come fratello degno di benedizione e di lode chi compie gli stessi gesti senza viverli nella fede. Ami l’uomo diversamente credente che agisce allo stesso modo. Ami tutti gli esseri umani, anche quelli che non riescono a scegliere la logica dell’amore, anche i nemici. E cerchi sinceramente di camminare con loro, di condividere le loro gioie e le loro fatiche.

Di testimoni anonimi e respinti, nella mia vita non breve ne ho incontrati e conosciuti molti: centinaia e centinaia. E per certo so che, nel nostro paese, se ne possono contare molti di più. Fare memoria di loro vuol dire ricreare, qui ed ora, condivisione e compagnia: vuol dire potersi tenere realmente per mano, con quanti hanno fatto esperienza prima di noi, ed ora possono, con noi, com-patire la nostra piccolezza, il nostro sentirci inadeguati nel difficile cammino che ci impegna nel mondo e nella storia.

Evocare la comunione dei santi, può probabilmente apparire sproporzionato, almeno nel senso che normalmente si dà a questo concetto. Eppure di questo si tratta, se per santi non si intendono soltanto eroici asceti, donne ed uomini capaci di compiere miracoli e ufficialmente riconosciuti come tali, ma quella grande moltitudine di cristiani che hanno cercato di vivere con sincerità la loro fede e sono rimasti anonimi: a volte per umile scelta; spesso perché rifiutati e relegati ai margini da un’istituzione ecclesiastica che tende a riconoscere solo chi gli assomiglia.

Molti di quelli che ho incontrato erano donne ed uomini che non stavano nei monasteri e nelle chiese ma stavano nel mondo da semplici cristiani. Cercavano di vivere, spinti da una coscienza e da una passione per l’uomo illuminate dalla fede, l’impegno per la giustizia come dimensione ineliminabile della carità. E questo li metteva fatalmente in contrasto con un’istituzione ecclesiastica troppo vicina ai poteri del tempo per essere disposta ad ascoltare chi “gridava oppressione e ingiustizia” e a condividere concretamente le loro sofferenze e le loro lotte.

Furono sospettati e spesso pubblicamente accusati di disobbedienza e di peccato per aver cercato di prendere sul serio – magari con qualche ingenuità e qualche forzatura ideologica, ma con cuore sincero – i criteri essenziali della vita cristiana così chiaramente enunciati in Matteo 25: “avevo fame e mi avete dato da mangiare… avevo sete e mi avete dato da bere…”.

La loro colpa, spesso, è stata solo quella di aver precorso i tempi nel praticare il pluralismo delle scelte politiche. Quel pluralismo che oggi, se non proprio del tutto acquisito, è quantomeno legittimo e tollerato.

Molti di questi semplici cristiani, duramente contrastati ed emarginati da benpensanti, parroci e vescovi, hanno purtroppo finito con il sentirsi estranei nella loro chiesa. Una lacerazione che ha ferito in profondità il loro cuore e che ha privato la chiesa di energie preziose. Di alcuni so con certezza che hanno continuato a vivere anche pubblicamente la propria fede nonostante la contro-testimonianza ricevuta dall’istituzione. Non pochi, però, sono entrati nel silenzio.

Di questa moltitudine di cristiani, pochi si curarono di discernere la sincerità della loro fede e del loro cuore. Dissentivano dalla linea ufficiale dell’istituzione ecclesiastica e tanto bastò.

Chissà perché una misura così arcigna e severa non è quasi mai usata nei confronti dei tanti cristiani che – contravvenendo in modo clamoroso ad ogni logica evangelica – anziché dalla passione per la giustizia sono mossi dalla passione di accumulare con ogni mezzo ricchezze e poteri. Una cosa so di certo: l’amore di Dio è davvero grande e misericordioso.

Ecco: di tutti questi testimoni non riconosciuti è giusto fare memoria. E personalmente mi riferisco a persone che ho incontrato nelle Acli, nei Cristiani per il socialismo e nelle Comunità di base e, prima ancora, nel partito comunista: come tanti altri posso rendermi, nel mio piccolo, testimone della sincerità della loro fede e delle loro intenzioni di condivisione e di giustizia.

Non posso tuttavia fare memoria di loro senza accomunarli a tanti altri fratelli che ho incontrato. Fratelli nella passione per la solidarietà e la giustizia che non si riconoscevano cristiani ma operavano con amore per l’uomo, donando molto di sé.


Franco Passuello



































19. Aprirsi alle esperienze di altre religioni.



“Un poeta, guardando questa pagina, si accorge subito che dentro c’è una nuvola. Senza la nuvola, non c’è la pioggia; senza la pioggia, gli alberi non crescono; e senza gli alberi non possiamo fare la carta. La nuvola è indispensabile all’esistenza della carta. Se c’è questo foglio di carta, è perché c’è anche la nuvola. Possiamo allora dire che la nuvola e la carta intersono. [...] Guardando più in profondità in questa pagina, vedremo anche brillare la luce del sole. Senza la luce del sole le foreste non crescono. [...] Continuiamo a guardare: ecco il taglialegna che ha abbattuto l’albero e lo ha trasportato alla cartiera dove è stato trasformato in carta. [...] C’è altro: i genitori del nostro taglialegna. Guardando in questo modo, comprendiamo che la pagina che stiamo leggendo dipende da tutte queste cose. [...] Nel foglio di carta è presente ogni cosa: il tempo, lo spazio, la terra, la pioggia, i minerali del terreno, la luce del sole, la nuvola, il fiume, il calore. Essere è in realtà inter-essere. Non potete essere solo in virtù di voi stessi, dovete inter-essere con ogni altra cosa” (Thich Nhat Hanh, Essere pace, pp.14-15).


Aprirsi. Aprire i confini. Togliere la separazione tra noi e l’altro. Porre fine all’illusione della nostra autosufficienza. Il nostro essere accanto a quello degli altri esseri. La nostra esperienza accanto a quella di altri. Necessariamente accanto. Perché impossibile separare. Impossibile trincerarsi dentro un “solo nostro”. Talvolta ritenuto giusto. Più alto. Più completo. Ma ugualmente non bastante. Perché accanto a noi c’è altro. Che si esprime con altre parole, in altri concetti, dentro altre sensibilità. Che ha accolto ed accoglie una diversa rivelazione e che si relaziona con essa tramite diverse modalità di fede. L’io, il tu, il noi, il voi. Il mio, il tuo, il nostro, il vostro. Separazioni. Giuste distinzioni, probabilmente. Ma che non dovrebbero diventare matrici di trincee. Tracciato di zone da difendere. Ognuno nel proprio ambito, nella propria cultura, nella propria religione, nella propria esperienza di fede, nel “proprio”, nell’“io”, nel “mio”. Con lo sguardo confinato.

E invece guardarsi. Reciprocamente guardarsi. Conoscere gli uni dagli altri. Imparare gli uni dagli altri. Per essere “corpo”. Un solo corpo. Il corpo dell’umanità che anela al divino e che accoglie il divino. Ogni porzione di umanità anela e accoglie con modalità che non sono dell’altra. E guardare all’esperienza dell’altro, cercare di comprenderla, aiuta a ricomporre l’armonia del corpo dell’umanità. Sempre troppo smembrato, sempre troppo frammentato. L’esperienza religiosa dice la profondità di ogni parte. La sua comunicazione con il Fondamento, l’Origine, il Terreno, il Fine. Rivela a partire da cosa/chi si è, in cosa/chi si è e per cosa/chi si è. Come si è, come ci si muove, cosa si cerca. Scambiarsi sguardi di comprensione, a questo livello, unifica e ricompone. Il religioso dovrebbe ricomporre le fratture. Riunificare quanto tende a separarsi. Siamo divisi dentro di noi, divisi da ciò che ci circonda, divisi dal divino: Padre Bede Griffiths elencava queste tre separazioni come matrice del “peccato”. Ogni peccato è divisione e separazione. L’esperienza religiosa è l’unica in grado di ricomporre. Di rimetterci in relazione con la profondità di noi stessi, con ciò che ci circonda e col divino. Ed è a partire da questa unificazione che dobbiamo ricreare terreni di incontro. Non di scontro. Né di indifferenza. O di incomprensione. Ciò che l’esperienza religiosa è in grado di ricomporre, l’uomo non lo rismembri. Ci si incontri su quel livello. Su quella profondità. Confrontando i diversi modi di sentire il divino, e se stessi e il circostante in relazione a lui. Senza condanne. Senza rifiuti. Senza giudizi rispetto all’altro. Consapevoli, invece, che il confronto con quell’esperienza ci rivela dell’altro la sua più grande profondità. Ciò che è alla base del suo essere, del suo cercare, del suo ricevere. Del suo stare in relazione con la Sorgente.

E allora qualche porzione di questo corpo smembrato dell’umanità forse potrà cominciare a ricomporsi. E aprirsi sarà davvero aprirsi alla possibilità di consapevolmente inter-essere e inter-sentire.


Antonia Tronti



Riflessioni sui primi tre punti


di Giulio Cascino


Premessa


"Io so che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio" (Romani, 7, 18-19). La contrapposizione indicata da S. Paolo non è quella tra intelligenza e volontà ("capisco" il bene, ma "desidero" il male); si tratta di qualcosa di più radicale: anche di fronte al bene capito e voluto come tale, esiste una mia inabilità a realizzarlo. Sembrerebbe una visione sull'uomo totalmente pessimistica, ma sappiamo che non è così, perchè la nostra debolezza e fragilità, i nostri fallimenti, sono il luogo in cui la potenza di Dio opera la salvezza. Trovo questa rivelazione intimamente legata a quella "teologia della catastrofe" della quale ci ha parlato Pino Stancari in questi due anni in cui abbiamo letto con lui il libro di Isaia.

Parto da qui per due ragioni: anzitutto perchè la mia debolezza è la prima esperienza - quella più autentica tra quelle che posso offrire in questa nuova comunicazione che Pio ci propone; in secondo luogo perchè penso che, in un itinerario di riflessione su quel che succede nel mondo e di ricerca di ciò che è possibile fare per vivere la carità, non sia possibile prescindere dalla concreta condizione dell'uomo, che è quella di creatura limitata, debole e capace di sbagliare anche quando capisce dove è il bene e vorrebbe compierlo.

Fatta questa premessa, cerco di esprimere in estrema sintesi ciò che, almeno in questo momento, mi pare importante evidenziare sui primi tre punti.


Primo punto.


Ascolto della Parola di Dio ed Eucaristia sono l'inizio, ma anche il termine, l'alfa e l'omega; il presupposto, ma anche l'obiettivo, del percorso di discernimento e di conversione che viene tracciato.

Applico quanto ho detto nella premessa: non si tratta solo di capire l'importanza dell'ascolto della Parola e della Eucaristia e di voler realizzare quanto si è capito. Occorre lavorare molto sulle nostre limitate capacità, sugli stili di vita e sulle condizioni ambientali che ostacolano entrambe le cose. Penso, ad esempio, che a livello individuale sarebbe utile riprendere e diffondere la pratica degli Esercizi spirituali ignaziani, anche per recuperare in qualche modo la dimensione del silenzio. A livello più ecclesiale, mi sembra che, vivendo a Roma, occorrerebbe rivolgere più attenzione alla realtà delle parrocchie romane, cercando di valorizzare esperienze di ascolto della Parola del tipo di quella che Pino Stancari propone, e di stimolare e favorire una diversa partecipazione all'Eucaristia domenicale, momento centrale e fondante della vita delle comunità di credenti nei territori.


Secondo punto.


Nel rapporto tra spirito e strutture mi sembra importante avere costantemente presente ciò che è il fine e ciò che è il mezzo. Le strutture sono strumentali alla crescita dello spirito, non sono mai il fine. Anche nel linguaggio comune lo "spirito" indica l'essenza, l'anima, ciò che caratterizza l'identità di qualcuno o di qualcosa (lo "spirito" di un'organizzazione, di un'iniziativa, di un progetto...). Purtroppo, frequentemente si commette l'errore di trasformare il mezzo nel fine, con l'immancabile conseguenza che il fine - quello autentico - viene sacrificato, tradito, spesso del tutto annullato. Succede nel lavoro, quando si scambia l'efficienza con l'efficacia; succede nella politica, quando il potere (il mezzo) diventa l'unico obiettivo (scompare il progetto); succede nell'esperienza religiosa, quando il rito e il precetto sostituiscono la fede. Il fariseo fa bene tante cose buone; potremmo dire che è "efficiente", ma non coglie l'essenza; il pubblicano combina un sacco di guai, ma è "efficace" ("... tornò a casa sua giustificato, a differenza dell'altro...". Luca, 18, 14).

Tutto ciò non significa sottovalutare le strutture, ma assumere un preciso criterio di discernimento sulla loro validità: la loro funzionalità alla crescita dello spirito è la misura della loro utilità/necessità.


Terzo punto.


L'idea di laicità come "profezia del popolo di Dio sul mondo" ha il pregio di discostarsi dalle usuali definizioni che si incaricano di dire ciò che la laicità "non è" (confessionalismo, clericalismo, integralismo, dogmatismo, ideologismo). Occorre, però, prendere atto che essa non viene compresa con immediatezza e sarebbe, quindi, utile sforzarsi di riformularla conservandone l'essenza. Provo a declinare così quell'idea: la fede in Dio creatore dell'universo e protagonista della storia genera come dirette conseguenze l'amore appassionato per il mondo (cfr. "Gaudium et spes"), l'assoluto rispetto della sua oggettività (in quanto uscito dalle mani di Dio e non dalla mente umana) e l'interesse e l'impegno per la vicenda umana (segnata, anche nei suoi passaggi più fallimentari, dalla presenza dell'opera redentrice di Dio). Il credente, per definizione, è "eccentrato" e "sur-centrato" (per usare espressioni di Teilhard de Chardin); è l'uomo che ha posto il baricentro della sua esistenza non dentro, ma fuori e sopra di sè. Sono i fondamenti religiosi di una laicità intesa come opzione di coscienza e come presa di posizione culturale sul mondo caratterizzate da due essenziali attitudini, strettamente legate tra di loro: sul piano spirituale, quella di mettere in discussione sè stessi e non gli altri (il pubblicano); sul piano culturale, quella di essere costantemente in ricerca, proprio perchè il centro dell'interesse è al di fuori di sè stessi. Una definizione del genere è lontana da alcuni significati che la parola ha avuto nel tempo, soprattutto in Italia a causa della questione romana (laico = chi si oppone al potere temporale della Chiesa). Ha il pregio di avvicinarsi al significato che il termine ha assunto nel linguaggio corrente (quando oggi si dice: "esaminiamo quel tal problema in modo «laico»", si vuol dire: "prescindiamo dalle pre-convinzioni che abbiamo; cerchiamo di vedere le cose come stanno nella loro oggettività, senza piegare la realtà a sistemi pre-confezionati; non escludiamo pregiudizialmente alcuna soluzione, ecc....).























TESTIMONIANZE



Essere là dove più profondo è il bisogno


di Suor Eugenia Lorenzi



Premessa


Non so esprimere quando e come in me si è formato il senso del radicamento nella realtà…

Se mi soffermo, sia pur velocemente, a esaminare quanto c’è di innato e quanto hanno influito la riflessione sulle situazioni, le lettura sulla realtà del mondo – piccolo e grande -, la meditazione della Parola di Dio negli anni della mia formazione (famiglia, contesto sociale, parrocchia, vita consacrata, missione) avverto con stupore che sono sempre stata affascinata dal “mistero del Dio incarnato”, che entra nel nostro mondo, nella nostra realtà di uomini peccatori che hanno travolto e sconvolto la creazione.


Lo Spirito Santo – così recita sant’Ireneo nel trattato “contro le eresie” – è disceso anche sul Figlio di Dio, divenuto figlio dell’uomo, abituandosi con lui

a dimorare nel genere umano

a riposare tra gli uomini

ad abitare nelle creature di Dio

operando in essi la volontà del Padre”.


Da Figlio dell’uomo ha imparato a vivere da uomo. facendosi compagno di viaggio di ogni uomo e donna, condividendo tutto, tramite il peccato, di cui si è caricato, portandone il peso, soprattutto insegnandoci l’amore che salva.

Così il senso del “radicamento”, nutrito e guidato spiritualmente da persone che mi hanno accompagnato, si è espresso, per grazia di Dio, in intuizioni, in gesti, in comportamenti, in decisioni spesso immediati, quasi intuitivi, ma penso provocati e orientati dalla presenza dello Spirito, che opera sempre nella storia dell’umanità e in quella di ogni singola persona.


Due sono le linee-programma che mi guidano per tutta la vita: “Essere là dove più profondo è il bisogno” (Bartolomea Capitano, la Fondatrice della mia Congregazione) e “Niente di ciò che è umano mi deve lasciare indifferente! (Autore latino del II secolo a.C.).


Tento di richiamare, velocemente, alcuni tratti della mia lunga vita, per ricuperare alcuni fatti che mi hanno orientato, fin da ragazzina, a tenere lo sguardo attento alle realtà che vivevo e alle persone con le quali condividevo la vita:

  • per esempio, alle compagne di scuola che apprendevano faticosamente, che nel gioco non riuscivano mai a vincere, che spesso non portavano a termine gli studi, per situazioni familiari pesanti…

_ alle alunne nei pochi anni di insegnamento ( 15 ): il Signore mi ha messo nella situazione di esercitare un aspetto fondamentale della carità: l’attenzione a ogni singola alunna, perché fosse aiutata a maturare, facendoli crescere, tutti i talenti che Dio le aveva dato come dote, alla sua nascita.

Questa attenzione – coltivata a lungo – mi ha permesso di trasmettere la “passione per Dio e per l’uomo”, attraverso “una relazione personalizzata” con parecchie e che dura tuttora anche se richiede tempo, energie, vita.


La vera attenzione è piena di rispetto, di amore paziente, umile, gratuito, come ho spesso letto e meditato nella descrizione che Paolo ne fa, parlando della carità (cfr. 1 Cor. 13, 3-7) e che Simone Weil traduce così: “ogni volta che facciamo vera attenzione, distruggiamo una parte di male in noi stessi, perché il male è un allontanarsi dalla presenza di una fonte segreta e cristallina che fluisce in noi e in ogni creatura, a cui l’attenzione ci fa tornare, ci immerge e ci vivifica”.

Farsi “attenzione” è stato per me – ed è tuttora- un impegno di vita anche se faticoso ed esigente: con un Dio che si spoglia della sua onnipotenza e si fa carne, con un Dio che non è mai e con nessuno indifferente e distratto, ma sempre estremamente presente e attento.

E’ un esercizio di “radicamento” che ci permette di imitarlo! Specialmente verso chi è “più piccolo, più povero”.


E vengo agli anni del servizio dell’autorità (1970-1991)

al Nord (Lombardia)

al Sud (Calabria, Sicilia, Basilicata)


Il mio non è stato quasi mai un servizio di immersione nelle “realtà concrete” di vita, nelle quali ho visto impegnate tante consorelle -la nostra Congregazione di Suore della Carità è tutta fondata sulla carità1, carità che si esprime nelle opere di misericordia- ; ma si è svolto prevalentemente:

  • nell’accoglienza delle sorelle in difficoltà al Nord (per motivi istituzionali);

  • nell’attenzione al loro vissuto, ai talenti ricevuti da Dio e “trafficati”: professionalità, dedizione intelligente e gratuità;

  • nel tener conto delle realtà nuove in cui inserirle, dando fiducia e sostegno;

  • nell’informarmi e nell’informare costantemente, sporcandomi le mani, provocando e denunciando;

  • nel coordinare presenze-competenze-risorse così che imparassero a lavorare “in rete” a livello pastorale, intercongregazionale, laicale, sociale, istituzionale.


Le persone incontrate – in tutti questi anni di servizio – sono profondamente scritte nella “memoria del cuore”, con loro ho condiviso fede-preghiera-riflessione-studio-fatiche, da tutte ho ricevuto benevolenza, stima, sostegno, accompagnamento; da loro ho imparato ad adeguarmi al ritmo e allo stile di vita della gente dekl Sud, ad apprendere saggezza, gratuità e a trasmettere questi valori a molte suore di varie Congregazioni che – dal Nord (avendo fatto un forte richiamo) si sono trasferite al Sud – dopo l’esperienza di un mese di “vacanze missionarie intercongregazionali”, a ciò inventate e poi proposte e accettate.

Ho potuto così assistere, accompagnandole, ad un “radicamento” che definisco “miracolo di carità”.


Raccogliere alcuni fatti di cui sono stata “responsabile” mi è difficile, perché andrebbero collocati nella “realtà” non facilmente descrivibile; ma ci provo.


Siamo in Calabria, negli anni ’70 e ’80: immergermi nel tessuto mafioso della illegalità, della complicità, del “male” – tanto da sentirmelo addosso e da essere invitata ad espiarlo con Lui – mi ha fortemente provocato!

Oltre alla “mafia” grossa (dalla faida, all’handrangheta) avvertivo, e toccavo con mano, una mentalità diffusa di delega, di sottomissione (soprattutto a livello politico e nel campo della Vita consacrata femminile), di adeguamento forzato che mi sollecitava a reagire e ad aiutare a reagire! Contemporaneamente però accostavo persone splendide, pulite, intelligenti, gratuite che mi conquistavano e mi offrivano aiuto, incoraggiamento, stima.


Vorrei documentarmi con la descrizione di alcune situazioni affrontate:


Serra Aiello (Calabria): “Comunità Giovanni XXIII”!

Comprende circa 600 handicappati gravissimi e gravi, provenienti da tutta la regione, senza possibilità di recupero.

Dopo l’esperienza di una “vacanza missionaria”, interiormente provocata da una situazione che esprimeva solo pura assistenza fisica, decido di offrire una piccola comunità di tre suore, cui si uniscono due di un’altra Congregazione; una era zia del fondatore della comunità per handicappati, un carismatico, in un certo senso, ma con il quale era difficile collaborare.

Le Suore prestano un servizio che sa di “miracolo” per l’attenzione che offrono a ogni ricoverato, una attenzione attraversata dal rispetto e dall’accoglienza amorevole, paziente, gratuita.

Mi propongo di offrire una possibilità di ricupero, attraverso una mia consorella, direttrice della “scuola per infermiere professionali” all’Ospedale di Paola (a pochi chilometri da Serra Aiello); ma una “amministrazione mafiosa” (credo in buona fede!), un non intervento da parte del Vescovo (di Cosenza) da cui dipendeva la “Comunità Giovanni XXIII”, rendono impossibile la presenza e il servizio “prezioso e insostituibile” delle suore… Prima di “ritirarci” ci sottoponiamo a un discernimento con persone autorevoli e competenti e ci confrontiamo tra noi, sul piano della fede e della carità, intensificando la preghiera e riflessione… Ma arriviamo, con molta sofferenza, alla decisione di lasciare… Non la sentiamo però una sconfitta…. La dedizione offerta per un decennio, accompagnata dall’amore quotidiano, rimane sempre.


Catona (Reggio Calabria): “Casa del sorriso” che accoglie “minori” che hanno alle spalle famiglie disastrate! E’ gestita dalle Suore Orsoline di Somasca, venute dal nord; una della comunità svolge un servizio pastorale, dedicandosi alla preparazione ai Sacramenti: 1.a Comunione e Cresima.

Dato il contesto fortemente mafioso, insiste, in modo particolare, sul tema del “perdono”, come atteggiamento fondamentale da coltivare!

Fabio, un bambino intelligente, che capisce al volo il valore e il senso del perdono, si alza e dice: “io non potrò fare la 1.a Comunione”; e alla Suora che, fuori classe, gli chiede il perché, risponde: “mia madre, ogni mattina, mostrando a noi (7 fratelli) un fazzoletto intriso di sangue, fa giurare che vendicheremo nostro padre”.

La Suora rimane sconvolta! Mi telefona e mi chiede come comportarsi.

Ci preghiamo su e ci consultiamo… Scatta dentro di me una proposta da fare a Fabio, una proposta che mi costringe a fare un “salto nella fede”, convincendomi che la potenza dello Spirito “fa miracoli”.

Telefono alla Suora dicendole: “chiedi a Fabio se personalmente accetta di perdonare, non vendicando il padre … se sì … preparalo alla Comunione”. E il miracolo avviene!


Castelvetrano: siamo in Sicilia occidentale, provincia di Trapani: è un grosso centro, di 35.000 abitanti.

Vi arrivo nel novembre del 1972 con 4 suore-caposala, professionalmente pronte a entrare all’Ospedale che, dopo due visite (maggio-settembre) con il Consiglio provinciale, mi era sembrato, e di fatto lo era, un “lazzaretto”.

Fin dall’inizio del servizio, il Direttore sanitario ci aveva chiesto anche “l’organizzazione del personale” con la seguente motivazione: tra loro si odiano e potrebbero anche farsi del male!

Per 10 anni abbiamo tentato di fare opera di mediazione e di promozione nel tentativo di lasciare a degli infermieri “preparati” il ruolo organizzativo; ma le reazioni erano sempre di tipo negativo.

Negli incontri di preghiera con le suore e nel confronto sulla situazione generale dell’Ospedale, il problema emergeva sempre ed era necessario arrivare alla soluzione: nominare responsabile Rubino, uno dei più anziani e preparati.

Ma una notte, dalla nostra “casa-baracca”, si sentono due colpi secchi: le suore accorrono e trovano Rubino, e il ragioniere che l’aiutava, immersi in una pozzanghera di sangue, freddati in due secondi.

Mi trovavo a Partanna (a 16 chilometri da Castelvetrano) e avvisata, accorro costernata e profondamente distrutta: mi sentivo responsabile di quella strage… tanto più che gli altri infermieri mi dicevano: ce l’aspettavamo!

Di quelle due morti non si è mai scoperto l’assassino: questa è la mafia!

Le suore riprendono il servizio con coraggio indomito, aiutando anche me a superare, nella fede, il senso di colpa perché – dicevano – era un passo che dovevamo fare.

Dopo qualche mese mi raggiunge la notizia, in Calabria, che gli infermieri, aiutati dalle suore, erano arrivati a sfilare per la città, con la compostezza di un “vero sciopero”: era la loro sfida e la loro risposta alla mafia!


Palermo – quartiere Zen: “Oasi verde”: è una villa che raccoglie handicappati gravi; ma allo Zen – di cui le due suore si prendono cura – c’è di tutto: malavita, droga, prostituzione, case fatiscenti che spesso vengono demolite dai ragazzi di strada, compresa la Chiesa-baracca.

Ma le due suore, fortemente motivate e con una carica eccezionale di carità, resistono: dapprima collaborano con la polizia poi, su richiesta dei ragazzi stessi, se li fanno amici; coinvolgono perfino anche me con il Ministro dell’Interno, che viene personalmente a visitare lo Zen, ed è preso a sassate…

Eppure, dopo qualche anno, passo dallo Zen e vedo una partita di calcio tra i ragazzi di strada –aiutati dalle suore - e alcuni detenuti, in premio!

Conclusione: il male è vinto dal il bene: la preghiera, l’attesa paziente, la comunicazione spirituale tra noi, la carità paziente hanno la rivincita… e la lode al Signore diventa quotidiana.


Dopo l’esperienza del Sud-Italia mi è richiesto un altro servizio: come rappresentante dell’USMI (Unione Superiore Maggiori Italia) dovevo collaborare con la Caritas italiana e la Migrantes.

Gli orizzonti si allargano nella conoscenza della realtà e nella preghiera: sono gli anni (’90) dell’emergenza: per la caduta del comunismo tutta l’Europa dell’Est è in ginocchio e bisogna soccorrerla: Romania, Abania, Bulgaria, Croazia e Bosnia soprattutto; e della migrazione italiana e immigrazione.

I viaggi all’Est e all’Ovest si moltiplicano:

  • per essere vicina alle Suore italiane che sono accanto ai nostri emigrati (Svizzera, Francia, Germania, Belgio, Inghilterra, Canada):

  • per aiutare le Congregazioni italiane disponibili a scegliere, a valutare e ad insediarsi nei territori più disastrati, anche dalle guerre in corso nei Balcani.

Personalmente sono mossa dai due “motti”già richiamati:

  • essere là dove più grande è il bisogno

  • niente di ciò che è umano deve lasciarmi indifferente


Gli episodi che mi hanno coinvolta, in questi anni. sono decine e decine; mi soffermo su alcuni:


Bucarest (Romania): è la prima città, in assoluto, della quale prendo contatto, subito dopo la caduta del dittatore (Ceausescu): con il cuore gonfio osservo attentamente i sontuosi palazzi del Regime e i sobborghi semidistrutti, a 100 metri di distanza, che rivelano una povertà indescrivibile, dove la miseria, la fame, l’incomunicabilità, provocata dalle intimidazioni, la reticenza palpabile, specie nei giovani, ti bloccano.

Ascoltare, piangere con loro, rimboccarsi le maniche, aprire il cuore, osservare il più possibile, cercando di creare un minimo “di rete”, ha costituito il mio impegno dei primi anni.

Presa visione di buona parte della Romania è scattata da parte di parecchie Congregazioni, e prima fra tutte la mia, la decisione di dare una mano e il cuore, per creare “comunità di inserimento” per soccorrere le realtà più difficili: ospedali, Istituti per bambini, Aids, handicappati abbandonati, scuole materne ecc…

La Vita Religiosa, in Romania, nonostante il carcere, è sopravissuta nell’anonimato. L’ho incontrata subito: una Vita Religiosa provata nella fede, diventata, a contatto con il fuoco della sofferenza, “oro puro” che mi costringeva a un continuo confronto con me stessa, con la mia fede debole e a intermittenza, con la realtà della nostra vita religiosa, imborghesita e ripiegata su se stessa.

Tutto era una sfida a uscire da noi stesse per diventare “il buon samaritano” del Vangelo.

E la Vita Religiosa italiana l’ha colta.


Prozor e Bugoino: al centro della Bosnia… presidiato dai carri armati “Unifor” e da soldati di 13 nazionalità!

Sono ospite, per due giorni, presso l’anziana madre (quasi 90 anni) di Suor Genoveva, conosciuta in un Convegno, da me organizzato nel 1992 a Lussemburgo, per le Suore in emigrazione nell’Europa dell’Ovest e al quale ho voluto fossero presenti 8 Suore dell’Est: bosniache, albanesi, polacche, romene, perché, attraverso le loro testimonianze, prendessimo parte alla loro ripresa.

Per una serata ascolto il suo racconto, incentrato sull’aiuto ad alcuni italiani, ritenuti “fascisti”, quindi in pericolo di vita… senza minimamente richiamare quanto lei stava vivendo e soffrendo… Cogliere la sua fede profonda, coltivata da tutta la sua famiglia per tutto il periodo della lunga tragedia e la preghiera condivisa, alla fine, come saluto di ringraziamento, è stato uno dei momenti più forti della mia vita.

Rientrando a Kisehiak, attraverso l’enclave che i soldati americani avevano scavato per creare uno spazio di fuga, mi sono imbattuta in un piccolo cimitero fresco di tombe appena scavate (forse in giornata!): imbruniva e brillavano solo quei 300 lumini che parenti o amici (forse anche gli americani) avevano acceso, perché gli “uccisi” sentissero le loro presenze… insieme alle nostre lacrime.


Sarajevo: volevo arrivarci a qualsiasi costo, con una determinazione che poteva sembrare cocciutaggine ma che, in realtà (almeno così mi sembra, anche a distanza di anni) voleva essere una presenza di partecipazione a un dolore incolmabile!

Sr. Liberia, una piccola suora chiamata “Madre Teresa di Sarajevo” ha ben capito che ero pronta ad affrontare con lei le granate dei serbi, che erano sul monte Igmar ed è venuta personalmente a prelevarmi e a farmi poi da guida, perché potessi vedere tutto quello che potevo poi comunicare.

Su un territorio di 200 metri, al centro di Sarajevo, mi imbatto nella Cattedrale cattolica, nella Moschea e, più in là, nella Sinagoga! In una città, dove la convivenza era di casa, perché è scoppiata tanta barbarie?

E’ una domanda che, per molto tempo, mi sono portata “dentro” con inquietudine e sofferenza!

Case distrutte, e cimiteri strapieni di tombe di cristiani e musulmani che si sono a vicenda massacrati, mi riempiono l’anima di tristezza e mi provocano a una preghiera silenziosa che raccoglie la sofferenza delle persone che incontro.

Per la festa di San Camillo partecipo alla Celebrazione Eucaristica presso il “campo” del nostro contingente accampati nella Sarajevo alta; mi sento poi chiamata per nome dal Cappellano che pure io riconosco… Mi racconta della dedizione e della passione dei nostri soldati per i bambini di Sarajevo, rimasti orfani di padre… Fanno a gara per portarli con loro in Italia perché possano dimenticare, almeno per due mesi, gli orrori della guerra che li ha, forse, irrimediabilmente feriti.


Mostar: è una città spaccata in due, letteralmente distrutta nella parte orientale, diventata un cimitero a sinistra e a destra delle strade che l’attraversano: le percorro pregando, consolando silenziosamente i parenti che sostano impietriti; era tutto ciò che potevo fare.

Ma a Mostar, nelle visite che insieme organizziamo con un Padre guanelliano, Padre Giancarlo Pravettoni, nasce e si concretizza l’idea di una struttura di recupero per bambini devastati fisicamente e psicologicamente dalla guerra; il terreno, per la costruzione è scelto là dove vi potranno accedere sia bambini cristiani che musulmani: è un segno ecumenico che invita alla riconciliazione e alla pace!

Nasce l’”Associazione pro Bosnia” sostenuta da Congregazioni maschili e femminili che, con il loro contributo economico, danno vita in sei anni (posa della 1° pietra nel 1995 e inaugurazione a settembre 2001) al “Centro di ricupero” diventato ormai punto di convergenza per cure prolungate e momenti di ritrovo per le famiglie sia cristiane che mussulmane.

E’ gestito da suore bosniache, preparate per tre anni nelle nostre strutture del Nord, con personale specializzato e seguite poi per altri due anni sul posto



Attualmente: già dal 1997 ho preso contatto diretto con i carcerati di Regina Coeli, Rebibbia e altre carceri del Lazio visitandoli quando vengono trasferiti.

La motivazione: esercitarmi in un’opera di misericordia con tutta la mia capacità di attenzione, di accoglienza, di comunicazione…acquisite nel tempo!

Mi è affidato come compito – dal Cappellano – la preparazione ai Sacramenti (Battesimo, Cresima, 1° Comunione) dei detenuti che ne fanno richiesta.

Dopo i primi contatti, avverto le difficoltà che dovrò affrontare, data la loro subcultura non solo religiosa, la distanza di anni dai Sacramenti ricevuti, la difficoltà mentale di apprendere o di ricordare anche le verità fondamentali.

Devo trovare modalità adatte a ciascuno,

coniugare la loro vita (ascoltandoli)

con la fede ricevuta nel Battesimo,

ma sepolta dagli anni e

da un vissuto difficile e tormentato.

Decido di partire dal Vangelo e dalle preghiere fondamentali (Segno della Croce, Padre Nostro, Ave Maria, Credo) per aiutarli a ricuperare

il senso della vita,

la loro dignità di figli di Dio,

il senso del peccato e il valore del perdono,

soprattutto far loro sentire la presenza del Cristo Risorto nella loro vita,

come compagno fedele.


Compito arduo, che mi ha richiesto - e mi richiede in continuazione - di rivedere il mio personale rapporto con Cristo, con la Chiesa, con i Sacramenti.

Un grande aiuto mi è dato proprio dai detenuti: sono provocata a pregare con loro e per loro; insieme ci sosteniamo a vivere la fede, l’attesa nella speranza di una liberazione spirituale e fisica, e la carità-solidarietà da vivere tra loro con gesti concrenti di fraternità e di umanità.

Ho constatato e constato che esiste tra loro la capacità di comunicare i contenuti di fede, di consolazione, di mediazione, attraverso l’esercizio dell’ascolto e dell’accoglienza.


Coniugare vita e fede è il compito che loro, i detenuti, e io ci proponiamo negli incontri – spesso personalizzati – di catechesi, cui restiamo fedeli, nonostante i momenti difficili delle relazioni familiari (che seguo, nel limite del possibile) e dei processi giudiziari.











La cattedra dei piccoli, degli umili, dei miti



  1. Alcuni maestri


  • - Anni settanta a Torre Angela, una borgata alla periferia sud-est di Roma; le case sono state costruite dagli stessi abitanti, senza piano regolatore e senza permessi; spesso le donne impastavano la calce ed i mariti tiravano su i muri aiutati dai figli; è un quartiere oggi condonato, siamo 50.000 persone, i primi insediamenti sono stati di famiglie del centro-sud d’Italia, oggi siamo di 64 nazionalità. Le case erano costruite secondo il numero dei figli, una palazzina di due piani era normalmente per una famiglia di quattro figli.


  • Siamo nel 1975, incontriamo un pensionato, pensionato a causa della silicosi contratta nelle miniere di carbone in Belgio; la sua pensione non basta per mantenere i 4 figli agli studi ed ogni tanto è costretto a fare qualche giornata come manovale, si chiama Angelo, ha affittato una parte della casa ad una famiglia, che però da alcuni mesi non può pagare l’affitto; giunge Pasqua, Angelo, ateo e profondamente anticlericale, va dal macellaio e compra un abbacchio, lo fa dividere in due e metà lo porta alla famiglia insolvente dicendo: “E’ Pasqua anche per voi”.


  • Tra gli anni 50’ e 80’ vicino a Largo Preneste (via Prenestina) c’è un borghetto, una favelas, nel tempo di maggiore affluenza vi abitano 4.000 famiglie, circa 16.000 persone, i capi famiglia sono quasi sempre manovali o muratori provenienti dal sud d’Italia. Le casette dovevano essere costruite in una nottata, tutte le mattina passavano i vigili, trovavano questo nuovo “fungo”, ma se aveva il tetto ed un letto non poteva essere demolito, faceva il verbale e se la famiglia non aveva da pagare c’era una settimana di carcere; quando il capo famiglia non poteva lasciare il lavoro, nella casa si faceva trovare la moglie che così passava una settimana come detenuta, però poi avevano il diritto di abitare la casetta e finalmente il ricongiungimento familiare era avvenuto; le case erano molto, molto povere, però pulite, piccole e a volte nei letti si dormiva a turno, ma dignitose; le fontanelle comunali erano il centro di aggregazione ed il rifornimento di acqua normalmente riguardava le donne; c’era un’unica strada in terra battuta che attraversava il borghetto e percorribile dalle macchine, tutti gli altri vicoli erano sempre frequentati da tanti bambini e dagli anziani seduti alle porte delle case. Se appariva evidente l’umidità delle case, ancora più evidente era la grande accoglienza a chi passava.


Nei primi anni 60’ ci viveva anche Rosolina con la sua famiglia, un marito gravemente malato e dei figli. Viene una coppia a chiederle dei soldi per gravi motivi; Rosolina accoglie, ascolta, poi va nel cassetto e consegna la somma richiesta. Appena usciti i richiedenti, il marito domanda a Rosolina: “ti ricorderai che erano gli ultimi?”. “Si, ma noi potevamo farne a meno, avevo appena fatto la spesa”. L’indomani arriva il postino e porta un vaglia postale con soldi ormai dimenticati di un infortunio sul lavoro.


Sono realtà non frutto di un’ingenuità, ma di chi cerca di guardare oltre il vantaggio immediato. C’è una generosità naturale che è dono di Dio e che genera uno sguardo puro, uno sguardo nuovo che vede il volto dell’altro.


  • Ero in Brasile di passaggio e mi raccontavano di un sindacalista a cui avevano sparato perché difendeva ad oltranza i diritti dei contadini; giunge la moglie mentre era moribondo e le dice: “per i figli non ho da raccomandarti nulla… ma non abbandonare i contadini nella loro lotta”. La moglie la mattina continua ad andare al mercato per campare la famiglia e la sera aiuta i contadini nella loro lotta.


Condividendo la vita dei più poveri, ci trovavamo spesso in mezzo a tempeste ed a nebbie fitte… ma poi si aprivano squarci di luce e di pace. Non è la tranquillità di chi ha trovato una risposta a tutto, ma di chi trova la forza di vivere contro ogni speranza, di chi, profondamente segnato, lascia che il suo cuore e la sua intelligenza vengano radicalmente scalzati nelle proprie sicurezze.

Povertà è anche capacità di rimanere in alcuni casi senza parole, senza certezze e saper comunicare questa nostra condizione.


  • Una donna di Asmara (Eritrea) aveva una famiglia molto povera ed era stata aiutata a lungo da una famiglia benestante; dopo un certo tempo, la donna povera si presenta dalla benestante con un cesto: una gallina e delle uova; la famiglia benestante le dice: “no, non ti privare di queste cose”; la donna povera risponde: “lascia anche a me, benché povera, la gioia di poter fare un regalo”.


  • Meheretù, un giovane pastore analfabeta diceva: “Vivete senza paura, non parlo di quelle piccole, con queste dobbiamo imparare a convivere, ma di quelle grandi, perché impediscono ai doni di Dio di raggiungerci”.


Non si tratta di immaginarsi una realtà desiderata, ma in uno sguardo attento, approfondito, non fermarsi solo sugli elementi negativi, invece da ciò che incontriamo saper trarre lo stimolo per riattivare il positivo in noi e attorno a noi.

Ci sono però delle barriere che creiamo con i nostri lavori:

  • F., commerciante d’oro per dentisti, quando viene con la sua valigetta d’oro da noi a Torre Angela o a Tor Bella Monaca, naturalmente ha uno sguardo ben diverso con le persone ed è guardato in modo diverso



  1. La Chiesa quando è scandalo


  • Quando il re David, dopo essersi costruita una grande reggia, vuole costruire un grandioso tempio, Natan, il profeta, dapprima risponde: “Fa quanto desideri in cuor tuo, perché Dio è con te”, ma poi nella stessa notte fu rivolta questa parola di Dio a Natan: “Non mi costruirai la casa per la mia dimora. Difatti io non ho abitato in una casa… passai da una tenda all’altra” (1 Cr. 17, 4-5).

  • Non vidi alcun tempio in essa perché il Signore Dio, l’Onnipotente e l’Agnello sono il suo tempio (Ap. 21, 22).


Quando dentro Roma passiamo vicino a qualche bella villa, facilmente scopriamo poi la targa sul cancello d’ingresso: “povero istituto di…”, “servi del…”, “piccole ancelle di…”

Quante volte la costruzione di una chiesa è stata la conseguenza di traffici illeciti personali o di gruppo? Piuttosto che restituire a coloro a cui è stato rubato, si dedica al santo di turno…


  • P. Balducci: “Prima ero figlio di poveri, vivevo con quello che la natura ci donava, e poi, improvvisamente, ho fatto il voto di povertà per entrare in convento e da allora non mi è mancato più nulla. Quando si entra in convento non si abbandona un bel niente, anzi, si trova un mondo bene organizzato e strutturato”.


Se le comunità cristiane mantenessero strutture povere o s’impegnassero a liberarsi dalle strutture, avremmo meno potere ma più forza, più credibilità. Non un condizionale, ma un presente possibile ci viene offerto.



  1. Gesù Cristo, la condizione di minore


Quando Pilato, durante il processo, sembra fare l’occhietto a Cristo, Cristo tace, lo ignora, non s’illude pensando che l’alleanza con il potente di turno servirà alla sua causa; quella di Gesù è una strada percorsa fin dall’inizio della sua vita, poi nel deserto (vedi le tentazioni), poi verso Pietro (che vuole preservarlo dalla morte) e ancora adesso è una strada che non cerca e non si illude del potere.

Se pensassimo di poter fare più cose per gli uomini avendo più denaro e più potere, sarebbe stata una fesseria quella di Cristo di farsi uomo; “Cristo non sarebbe stato molto più utile se fosse restato in cielo?” (2 Cor. 8,9). Se Cristo si è fatto uomo, dovremmo essere aiutati a pensare che non è il potere delle ricchezze a sanare le nostre miserie. Se l’Onnipotente ha preso la fragilità della nostra carne, ha scelto e vissuto nell’impotenza, non è forse per mostrarci la strada?

Sulla croce ha condiviso la condizione dell’ultimo degli uomini, morire sulla croce era la peggiore infamia, per di più completamente nudi, per gettare il massimo disprezzo sul morente. Per noi è importante non solo la croce, ma il crocifisso sulla croce, perché se è vero che la fede cristiana ha contemporaneamente presenti morte e risurrezione, la risurrezione è la condizione finale di ogni uomo e donna, ma non cancella la morte; la crocifissione è il ricordo continuo dell’infame, del disprezzato, del folle … compagno per sempre di tanti altri infami, disprezzati, folli, ed è proprio il crocifisso a darci l’opportunità di guardare ai piccoli, ai poveri, con occhi totalmente diversi da quelli del mondo e solo passando attraverso questa condivisione piena, che è annientamento di quei punti di riferimento che aiutano la nostra identità, proprio in questa condizione, si dischiudono orizzonti incredibili… già, qui, adesso, riceviamo la risurrezione.


Ci può essere un desiderio di umiltà, conseguenza della voglia di sfuggire a ciò che dobbiamo affrontare, ma l’esempio di Gesù è ben chiaro, di fronte a ripetute aggressioni non teme lo scontro, ma uno scontro non affrontato per il potere, ma nel servizio dell’altro.

La condizione di minore, più che cercarla, occorre essere pronti ad accoglierla: viene da sé per chi segue il Signore. “Sorgente di vita, aiutami ad accoglierla, come la terra accoglie la primavera”.

E’ cosa davvero buona avere dentro il nostro pensare l’icona della lavanda dei piedi.

Lc. 1, 45-55: “Ha guardato la mia miseria e non mi ha disprezzata… grandi cose ha fatto in me il Signore… ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi”.

Lc. 18, 22: “Una cosa ancora ti manca: vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli, poi vieni e seguimi”. Non dice: “affida alle mie mani le tue ricchezze e Dio te ne sarà riconoscente”; queste ricchezze accumulate hanno soffocato la Chiesa e creano l’illusione che possano essere il lasciapassare per l’eternità. Quanto siamo più credibili quando invitiamo a distribuire direttamente le ricchezze ai poveri per rialzarli dalle loro miserie.

Non siamo proprietari delle ricchezze, ma amministratori, ciò che abbiamo tra le mani ci è stato a volte consegnato dai genitori, ma è proprietà del Signore per i poveri.



  1. Beatitudini e la vera letizia


Lc. 6, 20-26: “Beati voi poveri

perché vostro è il regno di Dio…

Ma guai a voi, ricchi,

perché avete già la vostra consolazione…”


L’impostazione paradossale delle beatitudini è intenzionale, essa riflette un’opposizione al giudizio del mondo.

La giustizia che egli esercita non è concepita come un arbitrato tra due parti, ma come la protezione del debole contro il forte. E’ la consolazione di Gesù verso il compagno di strada, dentro ci vedi la carezza del fratello, ma anche la forza della giustizia di Dio.

Umiltà, cioè mitezza, è una disposizione sostanziale dell’anima che non cambia a secondo che uno si trova di fronte a Dio o in faccia al prossimo, di fronte al forte o al debole.

Povertà, mitezza e umiltà sono compagne inseparabili come troviamo ne “La vera letizia” di Francesco d’Assisi (v. Fonti francescane, pag. 183)2 e nel “Privilegio di S. Chiara” (v. Fonti francescane, pag. 2451)3






  1. Non solo con loro, ma come loro, dei loro.


    1. Schemi mentali e considerazione umana

Spesso siamo intrappolati nei nostri schemi mentali, nelle abitudini sociali. Il saper condividere la vita dei poveri, la loro ricchezza e la loro fragilità, il dover rimanere, a volte molto a lungo, sospesi nel vuoto delle decisioni o delle possibilità, permette di scoprire profondità inaspettate, risposte che in alcuni casi stordiscono, ma ci rendono liberi; saranno i poveri stessi, a cui ci siamo avvicinati con tutte le migliori intenzioni, saranno loro a mostrarci la strada. Allora la povertà non ci apparirà più un obbligo morale, un impegno, ma il dono necessario per cogliere il cuore della vita, la mano che ci viene tesa per tirarci fuori dal nostro isolamento.

Chi cerca continuamente di rimanere sulla cresta dell’onda della considerazione umana, inevitabilmente viene risucchiato nel sonno mortifico del perbenismo, chi prova il peso di essere rigettato dagli uomini, può più facilmente arrivare a ciò che è essenziale.

Ho assistito ad un dialogo tra M., ingegnere e padrone di una fabbrica ed un operaio.

M.: “Io sono molto più democratico di voi, ho rifiutato che nella mia fabbrica ci fosse un operaio che dovesse pulire il bagno di tutti, ma tutti dovevano pulire a turno il bagno”.

L’operaio: “Chi pulisce il suo bagno”.

M.: “Che c’entra questo? Io sono l’ingegnere”.


Credo che sia necessario per ognuno di noi di liberarsi dagli schemi mentali e faccio un esempio: sarebbe importante che tutti pulissimo a turno le scale del proprio condominio, non per risparmiare, ma per scoprire la dignità di ogni lavoro. Vedi anche l’esempio di Gandhi.


    1. Una fede adulta può parlare di povertà senza giustizia?

Occorre contemporaneamente saper rispondere al reale bisogno del singolo e sviluppare uno sguardo generale sulle cause.

“Se aiuti i poveri dicono che sei un santo, se ti chiedi del perché sono poveri ti dicono che sei un comunista” (Camara).

Il messaggio cristiano non è contro i ricchi, ma contro i loro privilegi.

Troviamo un’indicazione, un invito: “Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati”.

E’ più unico che raro ascoltare nelle nostre chiese una parola efficace sulla giustizia, sul diritto al lavoro, sul rispetto di chi lavora.


      • Mi, 6, 3 – 6-8: “Popolo mio che cosa ti ho fatto? In che cosa ti ho stancato?

Rispondimi. Con che cosa ti presenterò al Signore, mi prostrerò al Dio altissimo? Mi presenterò a lui con olocausti, con vitelli di un anno? Gradirà il Signore le migliaia di montoni e torrenti di olio a miriadi? Gli offrirò forse il mio primogenito per la mia colpa, il frutto delle mie viscere per il mio peccato? Uomo ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio”.

      • Gaudium et Spes, 76: “(La Chiesa) non pone la sua speranza nei privilegi offertili

dall’autorità civile. Anzi essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni.

      • E. Zolli, Prima dell’alba: “Francesco fa comprendere che la proprietà è… un furto. Non è la proprietà di cui uno si trova in possesso a costituire un furto, ma la proprietà che non viene adoperata, spontaneamente, per obbedienza alla voce del cuore, per lenire le sofferenze altrui”.

“Fratello, dobbiamo restituire il maltolto a questo poveretto, dice Francesco, perché è suo. Noi l’abbiamo avuto in prestito sino a quando non ci capitasse d’incontrare uno più povero” (pag. 250).



Non può esserci un approccio vero alla fede se non interrogandosi sulla povertà, sui poveri, sulla giustizia e se questo non è fatto all’inizio del cammino, non può non essere fatto in una fede adulta e non può essere fatto una volta per tutte. Saremo capaci di ripensare l’attuale sistema economico prima che avvenga il tracollo generale? Se aspettiamo la rottura della diga, la strada sarà quella di un’emergenza disperata; se invece saremo capaci di ricercare con serietà e preparare già oggi alternative, se accetteremo di mollare tutti gli ormeggi… potremo leggere nell’immensità del Suo piano.



    1. Condivisione e speranza

Che cosa blocca tanti adulti ad una vita realmente povera: la responsabilità nei confronti dei figli. Ma se i figli ricevono con abbondanza economica dai genitori, non per questo sono incoraggiati verso ciò che è essenziale, verso le verità fondamentali dell’esistenza e tutte le loro energie saranno, così spesso, consumate per ciò che è vanità.

Se invece avranno imparato dai loro genitori ad amministrare le risorse per ridare forza ai poveri, avranno una guida per ciò che conta.

Di fronte a tanti orrori che vivono tanti poveri, dov’è la liberazione?


      • la povertà di chi è sui “gommoni della disperazione”;

      • di chi è incarcerato dai vari potenti;

      • di chi vive senza acqua potabile;

      • di chi non ha più casa ma vive da sempre nei campi profughi;

      • di chi vive sotto un telo di plastica in mezzo al gelo nelle periferie urbane;

      • di chi ha una testa che sfugge totalmente al proprio controllo…

Quale fede vivere? Tramandare verità imbalsamate, destinate alla morte o scendere nel campo delle ossa inaridite (Ez. 37) e cogliere quel soffio dello Spirito capace di ridare vita, contro ogni logica e speranza?

Mi pare fondamentale, in mezzo a tante miserie, non perdere la capacità di vedere le alternative di vita che sono già faticosamente costruite attorno a noi:


      • associazioni che ridanno dignità a figli e genitori;

      • gruppi che cercano alternative di lavoro a chi era stato fuori dai “centri abitati”;

      • cooperative di lavoro per chi era avviato nel vortice delle dipendenze;

      • famiglie che scelgono di condividere una vita povera con i poveri;

      • persone che fanno volontariato nei vari campi;

      • persone che fanno volentieri il proprio impegno quotidiano;

      • profeti capaci di parlare contro l’usura dei popoli…






  1. L’uso delle ricchezze


      • Gv 12, 2-8: “… Maria allora, presa una libbra di olio profumato di vero nardo,

assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo dell’unguento…”


Questa pagina così delicata e preziosa, ci aiuta a capire che le cose sono per l’uomo e in particolare per colui che vive la condizione di minore e possono diventare il segno di un amore gratuito.


      • P., nata e cresciuta in una favelas brasiliana, ora, dopo 20 anni di monastero, è per motivi di studio di canto e cetra in Germania e per i suoi studi sono necessari viaggi e studi costosi. L’abadessa tenta di sviluppare quel potenziale per un bene comune. Ciò che valorizza realmente una persona, valorizza il mondo.




Lorenzo D’Amico



P.S. Le idee di queste pagine non hanno un rigore logico e forse alcune righe sembrano contraddire altre; ciò che mi sta a cuore è mostrare la complessità e la ricchezza di una realtà che sta segnando la mia esistenza ed il desiderio profondo di chi scrive è che queste pagine non paiano parole di chi insegna, ma di chi ha scoperto un tesoro: l’inizio di una liberazione.


























Cosa fare della mia vita...

Una lettera di Giorgio Marcello


Carissima L.,


ti ringrazio molto per il biglietto, che non ho ricevuto al primo invio, come hai potuto tu stessa constatare.

Hai aperto il tuo cuore ad una comunicazione trasparente di pensieri e sentimenti profondi, e tutto ciò rappresenta un fatto tutt’altro che banale.

Ora sento di non poter evitare di fare altrettanto, per quel che ne sono capace. E si tratta di capacità ridotte.

Provo a comunicarti qualcosa circa i pensieri, i sentimenti, le speranze che orientano la mia vita, da circa un ventennio a questa parte.

Si tratta dei contenuti essenziali di una ricerca che è, al tempo stesso, personale e comunitaria.

Avevo poco più di venti anni, quando ho cominciato a chiedermi, in modo risoluto, cosa fare della mia vita. È stato un periodo travagliato, ma fecondo. Sentivo dentro di me una grande aspirazione (nel senso di “desiderio imprecisato di cose grandi”), ma nessuna ambizione particolare. Facevo molta fatica a seguire un percorso di studi universitari scelto senza convinzione, e per cui non avevo il minimo interesse. Avvertivo un senso di insoddisfazione, un tarlo che mi rodeva la testa e il cuore.

Non è facile definire cos’è una vocazione, anche quando ci si riferisce alla propria. Si tratta, peraltro, di una parola che utilizzo con una certa cautela, anche per via dei fraintendimenti che essa può generare. Nella mia esperienza, la ricerca di un filo conduttore che potesse unificare e dare senso alla vita è passata, sostanzialmente, attraverso l’incontro con persone concrete, veri e propri compagni di strada, senza i quali non avrei saputo dove andare. Trovo che la parola “compagnia” sia bellissima: viene da cum-panis. È proprio spezzando il pane dell’amicizia e della fraternità con questi compagni di strada che la ricerca di senso in cui ero impegnato si è incarnata in un percorso concreto di vita.

L’incontro con Pino Stancari, ad esempio, è stato determinante. Grazie a lui, ho scoperto la bellezza e la centralità della Parola nell’esperienza cristiana. Di fronte alle Scritture continuo a sentirmi sempre arrancante, un po’ come quella donna che cerca di toccare almeno il lembo del mantello del Maestro. Tuttavia, il riferimento alla Parola è divenuto centrale nella mia vita. Essa va occupando uno spazio interiore sempre più ampio, imponendosi come criterio di fondo alla luce del quale guardare il mondo.

Un altro incontro fondamentale è stato quello con Piero Fantozzi, con cui sin da subito abbiamo condiviso l’idea per cui l’ascolto della Parola e quello dei poveri rappresentano le due facce di un’unica medaglia, le due dimensioni di un unico percorso interiore. Sulla base di questa convinzione, alla fine degli anni ’80 decidemmo di promuovere la costituzione di un gruppo di volontariato, allo scopo di vivere una esperienza di radicamento sociale nei quartieri del centro storico. Un altro amico gesuita, Pio Parisi, ci ha aiutati ad interpretare la dimensione “politica” di questa esperienza di lavoro sociale. Dove per politica si intende non la competizione per la conquista e la gestione del potere, ma lo sforzo tessere legami comunitari, soprattutto là ove le relazioni sono più frammentate o, addirittura, interrotte.

Lungo questo percorso, ho incontrato anche tante persone in condizioni di marginalità sociale. Mi riferisco soprattutto a quei bambini e adolescenti che ho provato ad accogliere e ad accompagnare, insieme a tanti altri volontari. Qualche anno fa, il cardinale Martini – citando Dostoevskij – scriveva che la bellezza è l’amore che condivide il dolore. Ho avuto il grossissimo privilegio di cogliere qualche frammento di questa bellezza, tutte le volte in cui mi sono sentito io stesso accolto da coloro che cercavo di accogliere.

La vicinanza a tanti “piccoli” mi ha consentito di atterrare, dopo aver planato alla ricerca di un approdo possibile. È stato un po’ come entrare in quella pagina finale del Vangelo di Luca, dove si parla dei discepoli di Emmaus. Sono due viandanti, come noi, che hanno assistito ai fatti di Gerusalemme, nel corso dei quali il loro Maestro è stato ucciso. Mentre ritornano a casa, nella luce del tramonto, si imbattono in un terzo viandante, che fa un pezzo di strada con loro. Sono delusi e senza forze. Sono così ripiegati su se stessi, da non accorgersi che quello sconosciuto è proprio il loro Maestro. Lo riconoscono solo nel momento in cui si siedono attorno alla mensa, nell’atto di spezzare il pane. Cum-panis, appunto. È una pagina straordinaria. Come ai due discepoli, capita anche a noi di cercare il Maestro e di non trovarlo, di sperimentare una distanza più che una vicinanza, di avvertire il morso – spesso insopportabile – della solitudine e del non senso. Anche a noi, come a loro, succede però, di tanto in tanto, di riuscire a riconoscerlo sul volto delle persone che incontriamo lungo la strada, soprattutto di quelle più provate dalla vita. E quando questo accade, la gioia e la consolazione sono veramente grandi.

“Camminando s’apre il cammino”, così dicono in Brasile. Camminando nel senso che ho provato a raccontarti, si è definita una specie di “vocazione” (se l’uso della parola non è abusivo, in questo caso) all’impegno sociale e politico di alcuni di noi, vissuto a partire dalla domanda seguente: quali sono i bisogni più urgenti che condizionano la vita della città (intesa in senso ampio, come polis), e di quali possiamo provare a farci carico?

Questa unica vocazione si è esplicitata in associazione attraverso percorsi diversi. La diversità riguarda non solo gli ambiti di intervento, ma anche il modo di porsi di fronte ai bisogni sociali e di interpretarli, nonché la scelta dello stato di vita. Molti hanno consacrato le loro vite nel matrimonio, qualche altro si è sentito spinto a cercare un rapporto più intimo con il Signore Vivente. Per esprimere il senso di quest’ultima scelta, prendo in prestito un passo di uno scritto di Simone Weil, che così recita: “Come la vita religiosa è ripartita in ordini corrispondenti a specifiche vocazioni, così la vita sociale dovrebbe apparire come una organizzazione di vocazioni distinte, tutte convergenti in Cristo. E in ciascuna di esse dovrebbero esserci alcune anime totalmente dedicate a Cristo come può esserlo un monaco; in questo modo coloro che si sentono di dedicare la propria vita esclusivamente a Cristo si troverebbero nelle condizioni di non dover scegliere automaticamente gli ordini religiosi”.

È questo il modo in cui cerco di vivere. Con gioia e con fatica. Anche l’impegno di ricerca e di insegnamento universitari si inscrive all’interno di questa “vocazione politica”.

Qualche altra parola su questo punto. Se “vocazione” è la direzione di marcia verso la quale ci sembra di essere spinti, essa non è qualcosa che si possiede, ma è scelta continua, è dono gratuito che si riceve ogni giorno. Man mano che il tempo passa, mi sento sempre più inadeguato, contraddittorio, arrancante. Al tempo stesso, avverto sempre più chiaramente di essere come accolto, ospitato dal dono ricevuto, perché esso mi supera e mi contiene. Fatica e gioia, come ti dicevo.

Ti chiedo scusa se non riesco ad comunicare con sufficiente chiarezza, ma non è facile per me esprimere queste cose. Ci sono momenti in cui il peso della solitudine e della stanchezza sembra insostenibile. Nulla sembra avere più senso, e la tentazione di ripiegarsi su se stessi diventa irresistibile. Sono momenti in cui si avverte con più forza il bisogno di essere riconosciuti e accolti, di condividere il pane dell’amicizia e della fraternità.

E allora provo a stare in equilibrio tra senso di solitudine ed esperienza di relazioni fraterne, assai dense, di cui vivo, e a cui mi appoggio come a un sostegno di cui non potrei mai fare a meno. Sui volti delle persone che incontro, e in tutto quello che accade, cerco il Signore, sicuro solo della mia precarietà e della sua misericordia.


Ti ringrazio per avermi dato la possibilità di comunicarti le cose a cui tengo di più. Sarei felice di sapere cosa ne pensi.

Ti porto nel cuore, come persona assai cara.

A presto.

Giorgio



Il volontariato come esperienza di preghiera, povertà e politica

di Giorgio Marcello



L’associazionismo volontario può essere una preziosissima opportunità di ricerca di vie nuove per vivere il Vangelo nell’impegno sociale e politico. Tra i gruppi di volontariato che partono da motivazioni di fede, ve ne sono alcuni che si propongono, attraverso il loro operato, di ricercare una sintesi tra preghiera, povertà e politica. L’orientamento di tali gruppi non è tanto quello di distribuire le proprie energie in congrue dosi di preghiera, povertà e politica, bensì quello di scoprire in profondità i tre momenti, in modo tale che non siano distraenti l’uno nei confronti dell’altro, ma si richiamino e si fondano in un’unica offerta a Dio e al prossimo.

Un percorso del genere è possibile solo se radicato sull’ascolto della Parola di Dio. Quanto più seriamente ci si pone in ascolto, tanto più forte si avverte l’esigenza di un ascolto “maturo”, che si esprima attraverso l’accoglienza della Parola e l’accoglienza dei fratelli, soprattutto dei più piccoli e poveri. Questo ascolto, inoltre, illumina il bisogno – e nello stesso tempo costituisce il fondamento – di una coscienza politica diffusa e popolare. Si tratta della consapevolezza (e della esperienza) di un legame profondo che stringe ognuno di noi a tutti gli altri, ai vicini e ai lontani, agli amici e ai nemici, alle generazioni passate e a quelle future. Questo legame, che nasce dalla comune appartenenza al Signore Risorto, ed ha la stessa forza di un vincolo di parentela, è immediatamente costitutivo di una responsabilità (personale e comunitaria) nei confronti di ogni altro uomo. La Chiesa tutta è chiamata a vivere questa responsabilità e - nella Chiesa – ogni credente, nella misura della vocazione che ha ricevuto.


Nell’esperienza di tanti gruppi che operano sul territorio, la ricerca di una sintesi tra preghiera, povertà e politica si è tradotta in una scelta di radicamento in contesti di povertà e degrado, vissuta come cammino di conversione e, nello stesso tempo, come impegno politico, ossia come partecipazione alla vita della città, con uno stile di gratuità.

La gratuità non rappresenta un espediente puramente strategico: intesa come valore che orienta il lavoro sociale, essa equivale all’esercizio di un “potere di rinunzia”. Questa espressione, usata qualche anno fa da A. Costabile in un suo libro4, è tratta da alcune pagine di Corrado Alvaro. Sono le pagine in cui lo scrittore calabrese ricorda il gesto di una povera donna che, in una stazione sperduta della nostra regione, gli si fece incontro per aiutarlo a portare i bagagli. “Quando misi mano al portafoglio – racconta Alvaro – mi disse: Grazie non ne ho bisogno, l’ho fatto per rispetto di Voi, e la sua veste era tutta una toppa…”. Per Alvaro il “potere di rinunzia” è quel valore che una tradizione antica ha segnato nel cuore dei calabresi e di tutti i meridionali, e che per secoli ha espresso la sintesi tra senso religioso e vita sociale nel sud.

L’esercizio della gratuità come potere di rinunzia è dunque un modo di stare al mondo, e di concepire e vivere le relazioni interpersonali, che affonda le sue radici in una tradizione antica, che la compagnia dei piccoli ci aiuta a recuperare, disponendoci a coglierne il valore.

È un modo di stare al mondo che consiste nel ricercare l’essenziale, ovvero “ciò che conta, che resta, che lega oltre le dimensioni del contingente, nell’azione personale come pure nelle relazioni sociali e nei conflitti per la vita”5. Questo particolare tipo di potere si esprime nel desiderio di custodire l’essenziale nell’interiorità, anche a costo di perdere esteriormente di visibilità e di spessore (in una società in cui l’immagine è fondamentale), o di rinunciare a ricoprire ruoli qualificati (in una società in cui l’appartenenza a un ruolo è principio indiscutibile di riconoscimento: il ruolo fonda l’identità personale). E si manifesta, inoltre, nel bisogno di donare, senza chiedere nulla in cambio.

La gratuità come potere di rinunzia è anche un modo di concepire e di vivere le relazioni tra persone che consiste, fondamentalmente, “nell’anteporre l’accoglienza dell’altro ai propri bisogni”, rinunciando a qualsiasi condizione di forza.

Per accogliere veramente bisogna essere poveri, come la donna di cui parla Alvaro. Proprio questo è il punto: sembra che la capacità di accogliere cresca nella misura in cui la disponibilità all’accoglienza matura in povertà interiore.

L’esercizio della gratuità come potere di rinunzia, rappresenta una via evidentemente alternativa alle “logiche mercificate ed utilitaristiche dello scambio, della differenza, della dipendenza, dell’assistenza, che poggiano inevitabilmente su relazioni di potere”6.

Chi lavora in situazioni di emarginazione sa benissimo che, in contesti simili, è possibile operare e realizzare anche buoni interventi con un metodo tutto centrato sui principi dell’efficienza e della razionalità organizzativa: a partire, cioè, da una posizione di forza. È evidente, però, che chi opera così con l’intenzione di aiutare gli altri rischia di stabilire con essi relazioni verticali, dall’alto verso il basso, da chi ha di più a chi ha di meno; relazioni che riproducono lo schema abituale del comando7. Inoltre, chi lavora in situazioni di debolezza e di marginalità sperimenta che gli è chiesto sempre più di rinunciare ad ogni condizione di potere, ed a privilegiare l’ascolto, l’accoglienza, la condivisione, la relazione personale diretta. Tutto ciò senza minimamente trascurare di portare fino in fondo il peso delle responsabilità assunte nei confronti di altri, ma nella consapevolezza che il buon esito del lavoro compiuto (cioè il mutamento auspicabile nei contesti in cui si opera) è totalmente gratuito, non è programmabile, né è immediatamente connesso all’esercizio delle migliori capacità analitiche, progettuali, operative. Non si vuol dire che il lavoro gratuito sia la modalità di intervento sociale automaticamente più coerente con il Vangelo, ma che, in una fase segnata da grandi trasformazioni del lavoro sociale (vedi tutto il dibattito sul terzo settore, sull’economia sociale, sulla “professionalizzazione” del volontariato) ci pare necessario sottolineare – con le parole e, per quel che possiamo, con le opere – l’importanza della gratuità (come potere di rinunzia) quale contenuto povero ed essenziale di ogni forma di lavoro sociale, come di qualsiasi tipo di impegno nel mondo; e quale via per provare a vivere la sintesi tra preghiera, povertà e politica.


Si avverte spesso, nell’impegno di tanti gruppi e associazioni che operano nei nostri territori, che quando si opera sul terreno della marginalità e del disagio sociale, inevitabilmente si apre una tensione tra razionalità organizzativa e fedeltà al vangelo, tra spirito e strutture, che può dilatarsi fino ad assumere i caratteri di una irriducibile contraddizione. Questa tensione può aprirsi quando ci si muove per far fronte alle varie e articolate esigenze connesse alla cura e all’accompagnamento dei piccoli e dei deboli di cui ci si è fatti carico; o, più semplicemente, quando ci si organizza per dare stabilità a piccole esperienze di servizio vissute in gratuità. In ogni modo, essa è presente, anche se con diversa intensità, nelle grandi organizzazioni come nelle piccole associazioni, e attraversa tanto le persone quanto le strutture. E non risparmia neppure la Chiesa. L’attenzione ai poveri e l’urgenza di fare tutto il possibile per aiutarli ha spinto alla ricerca di efficienza, specialmente sul piano economico, e così si è cominciato a ragionare con le categorie mondane perdendo il contato con la Parola di Dio, con le dinamiche del regno, con il Mistero della salvezza, che è Mistero di povertà”8.

Bisogna allora prendere coscienza di questa tensione, che può diventare contraddizione imbarazzante, e affrontarla: non si può far finta che non vi sia, né si può pensare di eliminarla con rimedi volontaristici. Questa fatica però è sostenibile se si riparte dalla povertà evangelica, quella cioè di cui si può parlare solo alla luce del Mistero di Gesù che salva il mondo attraverso la debolezza estrema. Dire che la Chiesa “ha bisogno della povertà è un’affermazione altrettanto ovvia quanto quella riguardante il bisogno di preghiera. Eppure oggi mentre si parla molto dei poveri, cosa senz’altro positiva, raramente si sente parlare della povertà. La sensibilità spirituale del Concilio e degli anni immediatamente successivi per questo tema si è quasi spenta”9.

Per la povertà vale quanto si diceva all’inizio a proposito della responsabilità. L’invito alla povertà, cioè, vale per ogni cristiano, che è chiamato a viverla nei limiti della vocazione che ha ricevuto. Essa, infatti, non è una misura umana, ma una condizione che si può scoprire e accogliere come dono solo nella preghiera di ascolto, che è “adorazione silenziosa di Dio, presente e operante nel mondo” e, nello stesso tempo, “attenzione al mondo trasfigurato dal Mistero Pasquale”10.

Attraverso l’ascolto impariamo a renderci conto che non siamo protagonisti ma ospiti in questo mondo, tenuti in ogni momento ad assolvere il debito di un “amore vicendevole e verso tutti”. La consapevolezza di questo debito è la radice della coscienza politica, di cui si è detto.


Preghiera, povertà e politica, dunque. La ricerca di una sintesi tra questi tre momenti nell’agire volontario, ci sembra una valida indicazione di percorso per i giovani; e poi per quanti vivono un’esperienza di lavoro sociale a partire da motivazioni di fede; e, infine, per la Chiesa tutta, chiamata a spendersi e a disperdersi nel mondo, come il lievito nella pasta.



































I poveri, i piccoli, i sofferenti, nostri maestri


di Maria Teresa Tavassi


I piccoli, i poveri, i sofferenti, i cosiddetti “ultimi”, coloro che “non hanno voce”, sono in diverse occasioni coloro attraverso i quali Dio vuole trasmettere il suo messaggio. Vuole interpellare, vuole sconvolgere le certezze, se soltanto si è attenti a un ascolto profondo, che riesca a fare emergere, da richieste di aiuto e di elemosina, ciò che va alla radice delle loro attese. Ma chi sono questi piccoli, poveri, sofferenti? Ognuno di noi ha esperienza di incontri diretti con alcuni di loro, in differenti ambiti e contesti. Se penso alla mia esperienza in Caritas Italiana, a contatto con persone colpite da gravi malattie, a zone di emergenza per catastrofi naturali e guerre, a paesi poverissimi del Sud del Mondo, a profughi costretti a fuggire, ritrovo volti e insegnamenti che rimangono nel tempo. Sono tanti e spesso, nel ricordarli, si è portati a parlare di numeri, centinaia, migliaia, milioni, ma dietro a ogni numero ci sono persone, volti, famiglie, sguardi di dolore che interpellano.

Bambini gravemente malati di cancro ricoverati in reparti specialistici di ospedali con accanto mamme e genitori affranti e che si interrogano sul senso del dolore nei piccoli, giovani colpiti da Hiv/Aids nelle Case Famiglia, profughi del Sud Est Asiatico, nel periodo tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli ‘80, ma anche immigrati e profughi alla ricerca di un asilo in altri paesi, famiglie isolate in villaggi poverissimi che per fare curare i loro bambini devono percorrere a piedi 5/10 chilometri con i piccoli in spalla per arrivare al più vicino dispensario, su strade sterrate, bambini malnutriti e senza medicinali, persone rimaste senza famiglia e senza casa, in villaggi o paesi distrutti dal terremoto…

Sono proprio queste persone e queste presenze accanto a noi a parlarci di Dio o a parlarci con la voce di Dio. Sono spesso loro i nostri maestri. Questo messaggio, che il Concilio ci ha trasmesso nella Gaudium et Spes, nella Lumen Gentium e in altri documenti, è stato ripreso poi dalla Chiesa Italiana nel 1976, che nel primo convegno ecclesiale “Evangelizzazione e Promozione Umana” ha riflettuto su questi temi, ascoltando coloro che in prima persona erano impegnati in questo delicato ambito. E il convegno ha restituito alla “chiesa - popolo di Dio in cammino” e in ricerca il mandato di evangelizzare, ricordando che la carità è di per sé evangelizzazione, che la gente è più attenta ai testimoni che ai maestri, come ricorda l’E.N., che i poveri devono essere riportati al centro dell’attenzione della comunità, che una comunità che non si prende cura di essi tradisce il mandato del suo Signore, che la invia a recare il lieto annuncio ai poveri, ai sofferenti, a guarire i malati, sanare le piaghe, annunciare la liberazione.

Il punto di riferimento per noi è Cristo, il Liberatore, che non ha disgiunto la vita di preghiera da quella del servizio, che prima di ogni momento importante ha pregato e la preghiera stessa lo ha portato a sanare e a farsi prossimo a ogni creatura, peccatrice, straniera, sola, vedova, donna. E da ognuno di essi ha indicato ai suoi discepoli un insegnamento. Le donne straniere non possono essere trascurate, quando si accontentano delle “briciole” cadute dalla mensa dei figli; la vedova che dà uno spicciolo, tutto ciò che aveva, dà più di chi offre un grande contributo, che costituisce il suo superfluo; la persona vale più del giorno di festa, se la sua sofferenza le impedisce di vivere una vita degna ed è necessario aiutarla a rialzarsi dalla sua situazione; di fronte a un uomo percosso, derubato e lasciato per strada, la persona straniera che si lascia interpellare, “perde” tempo, cambia programma per aiutarlo e se ne fa carico fino a quando non ha interessato altri e “fino al suo ritorno”, è questi più prossimo del ministro del culto che si affretta a scansarlo per andare, forse, a eseguire le prescrizioni della legge.

Ascolto. Una parola oggi difficile. Sembra a tutti noi di vivere nella società della comunicazione, attraverso i mezzi più moderni e sofisticati, ma spesso non riusciamo a comunicare, siamo isolati gli uni dagli altri, viviamo in solitudine e non sappiamo più ascoltare. Specialmente le persone “lontane” dalla cerchia di familiari, amici. E tra queste, i poveri, gli emarginati, i “diversi”, i malati, quelli per i quali Gesù è venuto, ha proclamato il lieto annunzio.

    Sono soltanto alcuni esempi, presi dai Vangeli. Ma dalla vita di ognuno di noi ne possiamo ricavare altri, perché il Signore continua a parlare e il Vangelo è scritto, con Lui, da ognuno di noi.. Proviamo a coglierne alcuni.

Nel terremoto del Friuli, nel maggio 1976, molti volontari, obiettori di coscienza in servizio civile, religiose e religiosi hanno voluto lavorare con la chiesa locale nell’individuare i bisogni, nel rilevare risorse personali e del territorio, nel cercare di tracciare linee di impegno. Si è lavorato in piccole équipes, di sacerdoti, religiose, volontari. Persone e famiglie avevano perso tutto. Dopo anni di fatica, duro lavoro, fare l’esperienza di non avere più niente e dover ricominciare di nuovo. Era una esperienza durissima, condivisa da tanti. In quei momenti ci si interrogava come mai il Signore, il Padre, poteva permettere questa sofferenza. La ribellione della gente era forte. Inizialmente le persone colpite sembravano rifiutare Dio e non accogliere neanche coloro che arrivavano da ogni parte d’Italia per dare loro una mano. Non volevano lasciare i luoghi in cui erano vissuti, anche se le case erano pericolanti. Pensavano di farcela da soli. Poi, il secondo terremoto, nell’autunno dello stesso anno, mise tutti in ginocchio. La popolazione cominciò a rendersi conto che non poteva farcela da sola, che doveva accettare di abbandonare quei luoghi, che doveva affidarsi a quelle persone venute da lontano, a quel lavoro comune, che univa volontari e istituzioni, chiesa locale, amministrazioni locali e governo centrale. Poco per volta l’atteggiamento cambiò.

La vicinanza dei volontari, di sacerdoti, di religiose che vivevano accanto a loro, in tenda, in piccole comunità intercongregazionali, degli obiettori di coscienza, che non erano imboscati, come qualcuno credeva, ma giovani “in servizio” dalla mattina alla sera… dovevano dire loro qualcosa. I gemellaggi, proposti dalla Caritas Italiana, con rapporti stabili fra chiese locali anche lontane e parrocchie, fecero nascere una fiducia nuova, un bisogno di incontro e di relazione che oggi, a distanza di 30 anni continua. La celebrazione del trentennio del terremoto e di ciò che è stato ricostruito dal terremoto, in persone e in case, è stato vissuto quest’anno, 2006, in maggio come un avvenimento di società civile e di chiesa, di città e di chiese sorelle, che la popolazione ha voluto ricordare con gratitudine e affetto, insieme a tanti amici venuti da lontano per essere ancora insieme.

Anche per volontari e operatrici/tori sociali ci sono stati momenti di buio, di dolore, di incertezza. Il cammino era faticoso e lungo e solo ora si può dire che il Signore non si è manifestato nel terremoto, né nella tempesta, ma in un vento leggero che ha parlato all’orecchio di tanti e ha fatto comprendere che soltanto la vicinanza a fratelli e sorelle in quei momenti difficili poteva fare intravedere l’amore di Dio e attraverso di loro poteva manifestare che Egli c’era, non aveva voluto colpire le persone, ma aveva permesso tutto questo perché esse lo scoprissero dentro di sé, e accanto a sé, in chi si era fatto prossimo, gente semplice e umile, operai e impiegati, famiglie, anziani…


Nel 1979-1980 i campi profughi della Malaysia e della Thailandia si sono riempiti di profughi, i popoli delle barche, costretti a fuggire da VietNam, Laos e Cambogia a causa della situazione politica. La gente viveva in minuscole baracche; vi erano bambini e giovani soli, poche persone anziane e disabili, diverse famiglie allargate, che si erano aperte all’accoglienza di piccoli senza più genitori…. Capanne spoglie, coperte da foglie, cartoni e lamine… In questa tragedia, che si leggeva negli occhi della gente, costretta a fuggire in minuscole barche e che spesso avevano dovuto abbandonare in mare i propri cari morti nella traversata o che erano partiti di notte in due o più imbarcazioni di parenti e amici ed erano approdati da soli. Rottami di barche che arrivavano dopo giorni su una spiaggia bianchissima, dove le palme arrivavano fino al mare, creando un evidente contrasto tra la bellezza della natura e la tristezza della situazione! Tutto metteva a confronto vita e morte, bellezza e tristezza.

Eppure, ciò che colpiva, in questa gente, specie in una piccola isola tailandese disabitata, dove molti vietnamiti avevano trovato rifugio, era la cura impiegata nel costruire piccole baracche abbattendo alberi della foresta e utilizzando rottami di barche; l’attenzione al voler ricomporre le famiglie “allargate” ad altri piccoli; la laboriosità nel voler ricostruire un ambito sociale, con piccole botteghe di un metro per uno, come l’orologiaio, il ciabattino, il panificio, che sfornava ogni mattina piccoli pani per la popolazione dell’isola; e, in particolare, l’amore dimostrato nel costruire, sul punto più alto dell’isola e con il materiale più pregiato che avevano trovato, vicini uno accanto all’altro, gli edifici del loro culto, la chiesa cattolica, il tempio buddista, la cappella per i riti animisti. Ogni mattina la chiesa cattolica, all’alba si riempiva di famiglie, con bambini che partecipavano in silenzio alla messa, adulti che chiedevano al Signore di riuscire a farcela e a ritornare un domani nelle loro terre, che ringraziavano perché altri popoli li avrebbero accolti e per la nostra presenza lì con loro.

Nella tragedia e nella disperazione della diaspora questa gente insegnava al mondo intero la dignità, il senso della famiglia, la voglia di ricominciare, la gratitudine, la spiritualità vissuta come dimensione essenziale della vita.

Il loro arrivo in Italia, in piccoli gruppi, l’inserimento nelle diocesi, che avevano trovato alloggio e lavoro per ogni nucleo, è stato ancora motivo di ammirazione profonda per tutti coloro che si sono impegnati in questo progetto. Erano persone che avevano tanti valori da comunicare e da condividere con gli italiani, incamminati verso la strada del consumismo, della separazione tra fede e vita. Hanno insegnato il culto delle persone anziane, criticando le “case di riposo”, e affermando che i vecchi non hanno bisogno di “riposo”, ma di vivere in famiglia, di respirare amore e di dare amore e sapienza alle nuove generazioni. Avevano perso tutto… tranne i valori fondanti della vita, che volevano mantenere, trasmettere ai loro figli e condividere con chi li accoglieva.


Accanto a questi esempi più dettagliati, alcuni altri se ne possono trarre dalla vita quotidiana, a contatto con le persone che soffrono, sono emarginate, malate… e la cui vita insegna qualcosa.

Un giovane brasiliano, malato di Aids, messo ai margini nella società per la sua malattia e per le sue tendenze omosessuali, più volte deriso, ha vissuto con dignità la sua situazione e la malattia fino in fondo, preoccupato di non fare male a nessuno; in punto di morte ha confessato ai volontari che l’avevano seguito di “avere combattuto la buona battaglia, … di avere mantenuto la fede” e ha detto di essere riconoscente a coloro che l’avevano accompagnato nel suo difficile cammino.

Una giovane donna irachena musulmana, rapita e liberata dopo 22 giorni di prigione e violenze psicologiche, ha ringraziato Dio che si è fatto presente a lei attraverso amici e amiche cristiani che l’hanno accolta qui in Italia; ha chiesto a sua madre, in Iraq, di pregare per questi nuovi amici e amiche di un’altra religione e ha chiesto a noi cristiani di pregare l’unico Dio per i suoi rapitori, che sicuramente “non sanno quello che fanno”.

Una donna nigeriana cattolica, vittima della tratta di esseri umani per sfruttamento sessuale, dopo avere denunciato le persone che l’hanno portata sulla strada a avere subito ogni sorta di mortificazione e violenza, e ricatti nei confronti della famiglia in Nigeria, si è sposata e ha voluto ringraziare Dio per il bene della famiglia che le ha donato, con un voto, un pellegrinaggio a Roma, dal Nord Italia.

Alcune donne immigrate musulmane chiedono a chi le accoglie, religiose o volontarie o giovani del servizio civile cattoliche “chi te lo fa fare?”, “perché con noi?”. Il gruppo di donne, che frequenta un laboratorio artigianale al mattino, dopo avere messo in ordine la povera casa, magari in una ex scuola occupata, nel periodo di Ramadan, digiuna dall’alba al tramonto, torna alla sua abitazione, stanca per preparare finalmente il cibo di fine giornata… e ha il tempo per prostrarsi in preghiera nella Moschea vicino casa o in qualsiasi altro luogo, più volte al giorno, dando esempio di coerenza nel praticare la sua fede.


Frasi, comportamenti, atteggiamenti… che portano a interrogarsi, che spingono a riflettere, a cambiare, che insegnano che il Signore si manifesta in queste persone, che vuole dire qualcosa attraverso loro. Vuole indicare una strada diversa di ascolto di Dio e del prossimo, di amore di Dio e del prossimo. E’ importante non rimanere sordi alla Sua voce, ascoltarlo, chiedere nella preghiera di fare i nostri orecchi attenti alla Sua voce, essere disposti a cambiare, se necessario, programmi, tempi, orari per non lasciare inascoltata la sua voce; esibire non tanto le nostre certezze, quanto il cammino di ricerca da fare insieme; non avere la risposta sempre pronta, ma avere anche il coraggio di dire che si può riflettere, ascoltare in silenzio il Signore che parla attraverso persone e avvenimenti, oltre che nella Parola e nell’Eucaristia. Regolare la propria agenda sulle domande di chi non ha voce. Come nell’insegnamento di don Tonino Bello, che ha saputo vivere, anche da vescovo, accanto alle persone, che ha ascoltato i poveri, che ha accolto nella sua curia, contemporaneamente, persone illustri, invitate a fare una relazione a un importante convegno, e la famiglia di sfrattati, senza casa, che non sapeva dove andare. Erano per lui maestri gli uni e gli altri e ognuno aveva qualcosa da dire a sé e alla porzione del popolo di Dio, affidato alla sua cura nella chiesa locale.


Vorrei riportare alcuni suggerimenti sul perché i poveri sono i nostri maestri; li colgo da citazioni evangeliche, tratte da un piccolo libretto, scritto anni fa da don Luigi Di Liegro, l’amico dei poveri, che tanto tempo della sua vita ha dedicato a servirli, nella Caritas diocesana di Roma, che per loro trovava sempre tempo, di giorno, di notte, per ascoltarli in profondo; lui, figlio di emigrati, che avevano sofferto tanto per il rifiuto e l’emarginazione, aveva fatto il suo orecchio attento alla voce dei “senza voce” (*).

  • Beati i poveri, che attendono tutto dal Signore, che non contano su nessun altro, che sanno che la loro voce non è ascoltata…; ma il Signore parla loro (Lc 6, 20-23; Mt 5, 12).

  • Sono i soggetti del Regno (Mt 25, 31-46).

  • I pagani saranno giudicati non per la loro fede, ma per il loro comportamento nei confronti dei poveri (Mt 25, 31-46).

  • Gesù si riconosce in ogni povero, sofferente, malato, oppresso, esiliato… (Lc 10, 25-37).

  • Ai poveri il Padre rivela i misteri del Regno (Mt 11, 25-26).

  • Beati gli affamati, afflitti, peccatori, infermi, bambini (Lc 6, 21-23; Mt 9, 12-13; Mt 10, 42; 18, 1-4).

  • Sono come pecore senza pastore (Mt 9, 36).

Il non ascoltare i poveri impoverisce i singoli e le comunità. Fa mancare loro qualcosa della Parola di Dio. La Parola cresce con la vita, l’esperienza delle persone, specie dei piccoli, dei semplici, dei poveri attraverso i quali Dio si manifesta e si identifica.



(*) Luigi Di Liegro, Vangelo e vita, Roma, editoriale italiana, 1987.



















IL GRIDO CHE SALE



Urbino - Monastero di S. Chiara

Avvento/Natale 2006


Carissimo p. Pio, buon Avvento! Buon Natale!


Ti auguro una gioiosa, orante "attesa" dell'Evento più sconvolgente della storia del mondo: il Natale del Signore!


E fu sera e fu mattina! Un altro giorno, un altro ancora! E Tu vieni e anch'io vengo. Vieni presto Signore Gesù!


Siamo nell'"attesa" del Suo Ritorno


Che possiamo anticipare con il desiderio e la supplica: vieni, presto!


Penso che la preghiera nella chiesa dovrebbe proprio essere questa: vieni, Signore, vieni presto!

E non è allontanamento dalla storia degli uomini, ma un entrare nel suo centro più profondo, dove si riuniscono: tutte le oscurità e tutte le luci e dove si scopre che anche negli sconvolgimenti del Male e del peccato, il grido che sale, consapevole o no, è solo: vieni presto Signore Gesù.


Suor Chiara Patrizia




























TESTI DI RIFERIMENTO


Pio Parisi, La coscienza politica, pro manuscripto, Roma, 1975, (una piccola parte è riprodotta in La ricerca di Dio e la politica);

Mario Castelli, Saverio Corradino, Pio Parisi, Pino Stancari, Dialoghi sulla laicità, Città Nuova Editrice, 1986, ristampato da Rubbettino, Soveria Mannelli, 2002;

Mario Castelli, Saverio Corradino, Pio Parisi, Pino Stancari, La laicità difficile, Morcelliana, Brescia, 1991;

Mario Castelli, Pio Parisi, Francesco Rossi De Gasperis, Pino Stancari, Dal profondo - Laicità e grazia nell'impegno sociale e politico dei credenti, ed. CENS, Milano, 1993;

Mario Castelli, Saverio Corradino, Pio Parisi, Pino Stancari, Per un catechismo della laicità, ed. CENS, Milano, 1995;

Pio Parisi, La cattedra dei piccoli e dei poveri, ed. AVE, Roma, 1995;

Mario Castelli, Laicità come profezia, a cura di Pio Parisi, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1998;

Pio Parisi, La ricerca di Dio e la politica - Discernimento comunitario della dimensione sociale alla luce del Vangelo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2000;

Pio Parisi, Lettere agli amici, Scriptorium, Cernusco sul Naviglio, 2003;

Mario Castelli, Vangelo e politica - scritti spirituali 1993-1997, a cura di Pio Parisi, Scriptorium, Cernusco sul Naviglio, 2004;

Pio Parisi, Mistero e coscienza politica, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005;

Pio Parisi, Abita la terra e vivi con fede, pro manuscripto, Roma, 2006 (contenente Appello agli europei, Democrazia e conversione e Servire la comunicazione, insieme ad altri testi, tutti reperibili all'indirizzo web della Associazione Maurizio Polverari: www.indes.info);

Lorenzo D'Amico e Pio Parisi (a cura di), La vita consacrata, Scriptorium, Cernusco sul Naviglio, 2006.


















INDICE


Antifona p. 1

Il depositum charitatis 2

In nuce 5

Esperienze e riflessioni

1. In primo luogo l’ascolto adorante della parola di Dio (Pio Parisi) 12

2. Spirito e strutture (Pio Parisi) 16

3. La laicità come profezia (Pio Parisi) 21

4. Nessuno vive per sè stesso (Pino Stancari) 22

5. La salvezza mistero di povertà (Pio Parisi) 25

6. La cattedra dei piccoli, dei poveri, dei sofferenti (Pio Parisi) 26

7. Radicarsi nelle realtà dei piccoli (Giorgio Marcello) 27

8. E' necessario patire per compatire e capire (I,Roberto e Teresa

Giordani; II, Gianfranco Solinas) 29

9. Ritrovare il primato della coscienza politica e della politica "nel basso"

(I, Piero Fantozzi; II, Gianni Mattioli) 33

10. L'annuncio del Regno non si riduce a etica (Pio Parisi) 35

11. Tornare alla Chiesa popolo di Dio (Pio Parisi) 37

12. E' Chiesa anche chi non si professa cristiano ma vive nello spirito del

Vangelo e si affida a Dio: Chiesa del silenzio (Pio Parisi) 39

13. Il silenzio nella Chiesa è condizione per l'ascolto della Parola e

per l'adorazione del Mistero: "Sta in silenzio davanti al Signore e spera in

Lui" (Salmo 37) (Pio Parisi) 41

14. La gratuità. La crescita del volontariato è accompagnata spesso dal declino

della gratuità (Giorgio Marcello) 43

15. Il servizio della comunicazione delle esperienze spirituali (Massimo Panvini) 45

16. Il superamento dell'autoreferenzialità e del considerarsi soggetto proponente

della salvezza (Gianfranco Solinas) 50

17. La resistenza e l'opposizione al dominio economico, politico e militare

da chiunque teorizzato ed esercitato (Giuseppe Lodoli) 53

18. Non dilapidare le esperienze di chi ci ha preceduto, specialmente di quelli

non riconosciuti come testimoni, emarginati e scartati (Franco Passuello) 55

19. Aprirsi alle esperienze di altre religioni (Antonia Tronti) 57

- Riflessioni sui primi tre punti (Giulio Cascino) 58

Testimonianze

Essere là dove più profondo è il bisogno (Suor Eugenia Lorenzi) 60

La cattedra dei piccoli, degli umili, dei miti (Lorenzo D'Amico) 66

Cosa fare della mia vita... (Giorgio Marcello) 73

Il volontariato come esperienza di preghiera, povertà e politica (Giorgio Marcello) 75

I poveri, i piccoli, i sofferenti, nostri maestri (Maria Teresa Tavassi) 78

Il grido che sale (Suor Chiara Patrizia delle Clarisse di Urbino) 82


Testi di riferimento 83




1 Cfr. Carta di Fondazione

2 DELLA VERA E PERFETTA LETIZIA

Un giorno il beato Francesco, presso Santa Maria degli Angeli, chiamò frate Leone e gli disse: "Frate Leone, scrivi". Questi rispose: "Eccomi, sono pronto". "Scrivi - disse - quale è la vera letizia".

"Viene un messo e dice che tutti i maestri di Parigi sono entrati nell'Ordine, scrivi: non è vera letizia. Cosi pure che sono entrati nell'Ordine tutti i prelati d'Oltr'Alpe, arcivescovi e vescovi, non solo, ma perfino il Re di Francia e il Re d'lnghilterra; scrivi: non è vera letizia. E se ti giunge ancora notizia che i miei frati sono andati tra gli infedeli e li hanno convertiti tutti alla fede, oppure che io ho ricevuto da Dio tanta grazia da sanar gli infermi e da fare molti miracoli; ebbene io ti dico: in tutte queste cose non è la vera letizia".

"Ma quale è la vera letizia?".

"Ecco, io torno da Perugia e, a notte profonda, giungo qui, ed è un inverno fangoso e così rigido che, alI'estremità della tonaca, si formano dei ghiacciuoli d'acqua congelata, che mi percuotono continuamente le gambe fino a far uscire il sangue da siffatte ferite. E io tutto nel fango, nel freddo e nel ghiaccio, giungo alla porta e, dopo aver a lungo picchiato e chiamato, viene un frate e chiede: "Chi è?". Io rispondo: "Frate Francesco". E quegli dice: "Vattene, non è ora decente questa, di andare in giro, non entrerai". E poiché io insisto ancora, I'altro risponde: "Vattene, tu sei un semplice ed un idiota, qui non ci puoi venire ormai; noi siamo tanti e tali che non abbiamo bisogno di te". E io sempre resto davanti alla porta e dico: "Per amor di Dio, accoglietemi per questa notte". E quegli risponde: "Non lo farò. Vattene al luogo dei Crociferi e chiedi là".

Ebbene, se io avrò avuto pazienza e non mi sarò conturbato, io ti dico che qui è la vera letizia e qui è la vera virtù e la salvezza dell'anima".


3 PRIVILEGIO DI S. CHIARA

Gregorio Vescovo, servo dei servi di Dio, alle dilette figlie in Cristo Chiara e alle altre ancelle di Cristo, viventi in comune presso la chiesa di San Damiano, nella diocesi di Assisi, salute e apostolica benedizione.

E’ noto che, volendo voi dedicarvi unicamente al Signore, avete rinunciato alla brama dei beni terreni. Perciò, venduto tutto e distribuitolo ai poveri, vi proponete di non avere possessioni di sorta, seguendo in tutto le orme di colui che per noi si è fatto povero, e via e verità e vita.

Né, in questo proposito, vi spaventa la privazione di tante cose: perché la sinistra dello sposo celeste è sotto il vostro capo, per sorreggere la debolezza del vostro corpo, che con carità bene ordinata avete assoggettato alla legge dello spirito.

E, infine, colui che nutre gli uccelli del cielo e veste i gigli del campo, non vi farà mancare né il vitto né il vestito, finchè nella vita eterna passerà davanti a voi e vi somministrerà se stesso, quando cioè la sua destra vi abbraccerà con gioia più grande, nella pienezza della sua visione.

Secondo la vostra supplica, quindi, confermiamo col beneplacito apostolico, il vostro proposito di altissima povertà, concedendovi con l’autorità della presente lettera che nessuno vi possa costringere a ricevere possessioni.

Pertanto a nessuno, assolutamente, sia lecito invalidare questa scrittura della nostra concessione od opporvisi temerariamente.

Se qualcuno poi presumesse di attentarlo, sappia che incontrerà nell’ira di Dio e dei beati apostoli Pietro e Paolo.

Dato a Perugina il 17 settembre, l’anno secondo del nostro Pontificato.


4 A. Costabile, Il potere di rinunzia, CENS, 1998.

5 Ibidem.

6 P. Fantozzi, Introduzione a A. Costabile, op. cit.

7 ibidem.


8 P. Parisi, La ricerca di Dio e la politica, Rubbettino, 2001.

9 Ibidem.

10 Ibidem.