Incontri di discernimento e solidarietà

Un dialogo dei piccoli dopo l’11 settembre 2001



Sto in silenzio nel mondo


Da aprile del ’99 non ho più l’incarico per l’accompagnamento spirituale delle Acli. Da circa 35 anni i miei superiori s.j. mi hanno lasciato una singolare libertà. Per questo sono stato e sono impegnato a ricercare ciò di cui c’è più bisogno al mondo che io possa fare, e ad intervenire: cerco di ascoltare il Signore nelle Scritture e in tutto quello che capita a me, e soprattutto all’umanità e alla Chiesa.
Senza clausure: cercando di non nascondermi nulla, e di vivere una piena laicità fondata sulla Parola di Dio. Sono piuttosto tentato di nascondere me stesso per paura di troppo grandi responsabilità.
La mia porta è aperta in particolare ai più di 40 studenti fuori sede con cui vivo, la finestra del mio spirito cerca di essere aperta a quel che succede nel mondo: eventi, problemi e in particolare alle povertà, alle ingiustizie e alle violenze. Vivo così “cum timore et tremore” per il mistero di ogni persona e per il Mistero infinito di Dio.

Non sono pienamente libero ma è questa una condizione che da tanto tempo vado cercando.
Le tradizioni arricchiscono di valori, le canalizzazioni fanno scorrere parole che non lasciano nulla. Non è sempre facile rimanere fuori dalle canalizzazioni senza incorrere in un ripiegamento su se stessi che chiuda ai valori delle tradizioni.
Oggi la società è caratterizzata da un sistema di canalizzazioni, di condotte forzate, che non aiutano a crescere. I canali televisivi hanno una parte importante e in qualche modo sono il simbolo di tante altre canalizzazioni.
Sono canali i discorsi di persone che si ascoltano, che parlano per sé, per farsi largo, per avere una base, senza nulla lasciare e donare. Esse sono spesso ascoltate perché non interpellano le coscienze e non responsabilizzano.

Islàm significa sottomissione, e musulmano sottomesso. Sottomissione quindi è un termine fondamentale per i credenti in Allah. Ad un certo tipo di mentalità cristiana invece “sottomissione” suona male: il sottomesso è un dipendente, una personalità poco sviluppata, un soggetto scarsamente responsabile. Ma anche per i cristiani quando si parla di sottomissione a Dio tutto cambia: servire a Dio è regnare; il “cliente di Dio”, ottima definizione del povero in Spirito, è il solo libero di non farsi cliente di nessun altro.
Il guaio è che spesso ci sentiamo artefici, protagonisti, gestori della vita spirituale nostra e altrui, ignorando lo Spirito santificatore che opera in noi inviato dal Padre e dal Figlio.
Sia fatta la tua volontà.

Finché parlo, anche solo dentro di me, non ascolto, soprattutto non ascolto il grido del mondo e contemporaneamente, o di conseguenza, non ascolto Dio e viceversa se non ascolto Dio non ascolto il mondo. Il circolo di ascolto di Dio e del mondo invece non è vizioso ma mistico.
Per questo cerco di stare in silenzio, favorito in qualche modo da una società che mi azzittisce qualche volta anche mediante chi conta nella Chiesa (ho scritto in proposito “Stà in silenzio davanti al Signore e spera in Lui” del settembre 2000).

Ho i miei interessi, i miei amici, il mio gruppo, il mio progetto… e gli altri mi interessano in funzione delle scelte che faccio: negli affari, nella politica, nella pastorale. È questo un sistema diffuso ed efficientissimo perché punta ad obiettivi precisi su cui ci si concentra, e il resto è come se non esistesse. Ma questa è anche una violenza generale, spesso non percepita e per questo più grave. Le persone ignorate sono come calpestate.
È un sistema che penetra in ognuno di noi ma non raggiunge quel fondo di noi stessi che è l’apertura agli altri, il cuore vivo da cui partire per un cambiamento dei nostri rapporti, un cuore capace di riconoscere e stupirsi, di amare e servire, mettendo in crisi il nostro modo di vivere e le strutture stesse della società.

Ognuno è un volto, degli occhi, uno sguardo… un abisso… una storia irripetibile di cui non posso in alcun modo accettare la morte come la fine di tutto.
Tutti poi formiamo un’unica realtà fatta di popoli, di piccoli e piccolissimi, stretti da legami più profondi di quelli che siamo soliti riconoscere fra parenti, amici e militanti della stessa parte.

Al di là di ciò che determina l’attrazione fisica e i legami affettivi c’è una bellezza in ogni donna e in ogni uomo che spinge nel più intimo della nostra coscienza a volere il loro bene ed accogliere con tristezza la loro estrema fragilità; ognuno è una porta aperta sul mistero (vedi “La fede. Lettera a un giovane amico”, gennaio 2001).


Due popoli credenti


La mia attenzione cerca di rivolgersi ai popoli cristiani e musulmani che credono in Dio. In realtà sono loro che prendono la mia attenzione e mi coinvolgono. Quando mi rivolgo a Dio immediatamente penso a loro. Se penso ai grandi della terra sono subito portato a cambiare l’oggetto del mio interesse e mi rivolgo a loro. Incontrando le persone a cui sono maggiormente legato mi sento come rinviato a tutti i popoli credenti. In tutte le esperienze di vita e di morte si presentano in primo piano nella mia coscienza loro, i popoli dei piccoli che credono in Dio.
Sono i piccoli di cui non si parla, e la loro fede in Dio è oggetto forse di molte discussioni ma scarsamente provoca stupore ed ammirazione.

Al di là di quelli che si dichiarano formalmente credenti e cristiani e che sono oggetto delle nostre statistiche sui “praticanti”, penso di scorgere un popolo immenso di persone che affrontano la vita nelle gioie e nelle difficoltà, con un riferimento interiore a Gesù Cristo e con l’invocazione a Maria “adesso e nell’ora della nostra morte”.

Non lasciandomi coinvolgere in tanti discorsi correnti sui musulmani, sulla loro religione e in particolare sul fondamentalismo cerco di amare come sorelle e fratelli quanti, anch’essi numerosissimi, vivono e muoiono nel nome di Allah e nell’adesione piena alla sua volontà che chiamano sottomissione. Riconosco come uno dei peccati più gravi della mia lunga vita l’essermi così scarsamente interessato di loro ( vedi “Appello agli umiliati”, gennaio 2000).

Sono questi due popoli numerosissimi. La loro fede è incompiuta, forse appena abbozzata, spesso nascosta e contraddetta da discorsi e comportamenti negativi ma non per questo meno reale.
È questa una valutazione azzardata, ma in qualche modo necessaria, per la quale occorre distinguere la fede dalla religiosità. La fede di ognuno è conosciuta e valutata solo da Dio. Da parte nostra è sempre incompiuta e appena abbozzata in quanto può sempre crescere (“credo Signore, aiuta la mia incredulità”); è sempre un evento soprannaturale nei cui confronti le nostre misure sono radicalmente inadeguate. Circa la religiosità possiamo rilevare una maggiore o minore maturazione anche se innumerevoli sono le sue forme e i suoi itinerari. La religiosità che possiamo, e in qualche modo dobbiamo, rilevare è quella che si manifesta esteriormente; la religiosità interna rimane spesso nascosta, in particolare non possiamo capire come pregano i piccoli se non siamo anche noi tali.
Le contraddizioni nei discorsi e nei comportamenti sembra che in larghissima misura possano ricondursi alle mancanze di attenzione e di rispetto per gli altri, ma anche in questo occorre ricordare sempre che i nostri rilievi sono esteriori.
Come cristiani siamo estremamente tentati di giudicare il prossimo riguardo alla religiosità, alla fede e a quella singolare qualifica che chiamiamo “buona volontà” (vedi “Lettera a P. Benedetto Calati”, Pasqua 2000).


La comunione con la fede di tutta l’umanità

Liberandomi dalle catene che stringono il cuore e la mente nell’esercizio sciagurato del giudizio mi apro al riconoscimento di un’immensa moltitudine di piccoli cristiani e musulmani; al tempo stesso e per la stessa libertà ritrovata mi apro alla fede di tutte le genti. Particolari vicende storiche ci spingono oggi ad aprirci all’Islàm e questo ci aiuta a ritrovare quell’apertura universale per cui la Chiesa si definisce cattolica.

L’incontro con singole persone che soffrono – per quel poco o molto che riusciamo a non essere ripiegati su noi stessi o ad evadere con discorsi e con azioni, anche quelle rivolte ad aiutare gli altri – ci spinge alla considerazione di tutti quelli che soffrono e la tristezza ci invade. Ci accorgiamo che il mondo grida incessantemente ed entriamo in quel grido. Ci accorgiamo anche della pazienza infinita, specialmente di quelli che non si compiacciono, esteriormente ed interiormente, della loro bravura e non puntano all’esercizio delle virtù in grado eroico.

Riconosciamo la pazienza infinita e che la storia è viva ed è ben diversa da quella raccontata dagli immensi poteri mediatici.
La compassione di Dio entra un po’ alla volta in noi trasformando il nostro cuore di pietra (vedi “La fede. Lettera a un giovane amico”, cit.).


Cristo è risorto. È veramente risorto

La speranza è Dio che si è rivelato in Gesù Cristo nella sua passione e morte, nella sua resurrezione e ascensione al cielo. Egli è il sole di giustizia che trasfigura ed accende l’universo in attesa.
Vox silet, mens deficit.
Adorazione silenziosa, la vita eucaristica e la Messa sul mondo.
Viviamo sperando che i tempi duri passino presto e le ore liete non passino in fretta. La nostra esistenza terrena è intessuta di piccole e grandi speranze che ci consentono di continuare a vivere. Ma prima o dopo, presto o tardi, matura la consapevolezza che quanto ci sostiene e costituisce il fascino dei nostri giorni su questa terra ha una fragilità radicale, tutto si guasta per una insufficienza interna al nostro essere e di tutta la realtà di cui facciamo parte.
Giovanni, l’autore dell’Apocalisse, piange molto perché l’angelo annuncia che non c’è nessuno in cielo, in terra e sotto terra che possa aprire il libro chiuso con sette sigilli che contiene il senso della storia e che sta saldamente nella mano destra di Dio. Ma ecco un vegliardo, rappresentante di tutta l’umanità, che annuncia che Gesù Cristo morto e risorto apre il libro chiuso e svela, o meglio dà il senso, a tutta la storia, quella nostra individuale e quella dell’umanità. È la salvezza universale!
Siamo al capitolo 5 che è il cuore dell’Apocalisse, libro conclusivo della Bibbia, che racchiude la speranza cristiana. Oggi malauguratamente il termine apocalisse ha preso il senso di catastrofe. C’è tuttavia la grande speranza di un ritorno pieno della Chiesa all’Apocalisse. La speranza quindi è Dio che si è rivelato in Gesù Cristo e nel mistero pasquale (vedi “Lettera a P. Benedetto Calati”, cit.; “Lettera al Card. Tettamanzi”, agosto 2001).


La speranza per la storia

Oggi c’è una speranza per la storia, per i giorni pochi o molti che siano di ogni persona umana.
La speranza è Dio.
C’è poi la speranza che accada qualche cosa che manifesti la presenza di Dio nella nostra vita personale.
È oggi diffusa, specialmente in alcuni movimenti spirituali, la certezza che Dio risolve tutti i problemi della nostra vita quotidiana. Non intendo giudicare queste esperienze che tuttavia non appaiono esenti dal rischio di una privatizzazione di Dio al nostro servizio, o come diceva Bonhoeffer di una concezione di Dio come “tappabuchi”.
La speranza che vorrei comunicare è che tutte le ore delle nostre giornate, con le gioie e le sofferenze che sperimentiamo, siano illuminate e confortate dalla certezza che non solo noi ma tutte le donne e tutti gli uomini, il mondo e l’universo sono nelle mani di Dio. Allora i problemi, anche quelli non risolti, diventano prove che causano piccole o grandi crisi di crescita nella fede.
A ciò si collega la speranza che il mondo delle immagini che sempre più ci cattura e dissecca le nostre capacità di autentiche relazioni retroceda e ci sia ridata la comunicazione con il mondo reale e quindi la capacità di compatire e di capire. È una speranza per tutte le persone in tutte le situazioni.
La speranza per la storia non è diversa da quella per tutte le persone: è la speranza di eventi che cambino il corso della storia con nuove culture, nuovi sistemi e nuove istituzioni in cui sia più manifesto il regno di Dio e la vittoria di Cristo nel mistero pasquale.

La speranza è la comunione di fede del popolo che crede in Gesù Cristo e di quello che è sottomesso ad Allah.
Questo è l’oggetto e il motivo della mia speranza.
Non si tratta del confronto fra due teologie e due morali, né della convergenza nell’impegno sociale per la giustizia e la pace, cose peraltro della massima importanza. Non si tratta degli accordi di potere politico, economico o religioso.
La speranza sta nella comunicazione della fede del popolo nella vita quotidiana, nei rapporti di lavoro, nella vicinanza di abitazione, nelle gioie e nelle feste, nei tempi e nei luoghi della sofferenza.
In un paesino in cima a una montagna ero seduto accanto a un anziano che si lamentava di molti guai. L’interlocutore, un giovane maghrebino musulmano gli ripeteva: se non credi in Dio crolla tutto.

E’ un evento splendido.
Lo splendore della comunicazione della fede è percepito solo nella fede dagli occhi del cuore illuminati dall’esperienza della bontà infinita di Dio che si manifesta nella sua misericordia. Chi si rallegra ragionevolmente dei buoni rapporti fra cristiani e musulmani non è detto che colga sempre lo splendore soprannaturale dell’evento.

Evento che rivela la grandezza di Dio e di tutta l’umanità.
La progressiva scoperta della grandezza dell’universo ed in esso di quella dell’uomo, di ogni singola persona, dei popoli e della storia, ci esalta e ci abbatte al tempo stesso perché percepiamo quanto siamo piccoli e come è effimera la nostra esistenza.
Ma l’esperienza della comunicazione nella fede fra cristiani e musulmani ci mette in contatto con la grandezza di Dio che è al di là di ogni altra grandezza e che tutte le salva nella loro fragilità.

Evento certo anche se misterioso.
Evento certo della certezza della fede nella rivelazione di Dio: il libro dell’Apocalisse rivela il senso della storia come cammino verso la Gerusalemme celeste che scende dal cielo La certezza di questo evento è anche confortata dall’esperienza delle nostre profondità minacciate: un baratro è l’uomo e il suo cuore è un abisso (v. Salmo 64,7).
Questo evento certo è un mistero e come tale sfugge alle critiche e non può essere da noi posseduto e gestito.

Evento di cui non abbiamo informazioni circa i tempi, i modi e la portata.
Non ci è stato rivelato, non ci è dato fare previsioni né ci sono segni dei tempi rilevabili da saperi umani. Solo nella fede possiamo cogliere l’evento che è stato che è e che sarà.
Hanno poco senso i nostri progetti e le nostre programmazioni, i piani pastorali con cui tentiamo di gestire una salvezza che viene da Dio. Forse oggi, domani o fra un secolo; in modo vistoso e clamoroso o nascosto e silenzioso; coinvolgerà direttamente tutti o solo una parte più o meno piccola e tutti gli altri indirettamente. Certamente è evento di portata universale.

La mancanza di informazioni non importa perché ha un valore eterno.
La comunione di fede fra diversi popoli credenti ha valore eterno, avviene nel tempo ma entra nel definitivo, è la carità che non avrà mai fine, è la Gerusalemme celeste.

E’ la comunione nella fede, è un valore per tutti i popoli, per tutte le sorelle e tutti i fratelli.
La comunione di fede fra cristiani e musulmani apre la via alla comunione più universale fra tutti gli uomini credenti, anche se nei modi più diversi, che non di rado consistono nella ricerca. L’importante è spezzare il cerchio che ci tiene chiusi nella convinzione di essere i soli a credere come si deve.

Questa speranza è certa ed è confortata dall’esperienza del cuore provato che cerca Dio.
Il cuore provato non rivela ma dispone ad accogliere la rivelazione in spazi che crescono con le prove, si colmano e si dilatano con la luce rivelata. Nelle prove infatti si cerca Dio anche quando in superficie ci si chiude in se stessi o si va in altra direzione o si dispera.

Nelle prove si vive la massima aggregazione.
Ogni speranza aggrega e disgrega al tempo stesso, ogni speranza dilata il cuore e contemporaneamente si contrappone o lascia in secondo piano le speranze degli altri.
Questa speranza dell’incontro di fede fra cristiani e musulmani aggrega in modo universale perché spezza i legami più forti che ci rinchiudono in noi stessi.

Eppure questa speranza è tentata in mille modi dalla seduzione del potere, dall’imperialismo, dal terrorismo, dal consumismo.
Questa speranza è con la fede un dono dello Spirito che abita nella fragilità fisica e psichica per cui è una speranza che va continuamente riconquistata.
La pressione esterna ci spinge in direzione di ben altre speranze umane; in particolare per quel che riguarda il rapporto tra cristiani e musulmani la speranza mondana pensa a vittorie o sconfitte, a terrorismi e imperialismi, a dinamiche economiche che azzerano i valori personali e culturali. Soprattutto domina la grande seduzione del potere.


Un appello e un intervento


Ora un appello che vuol essere un intervento nella svolta storica che stiamo vivendo.
Un appello che vorrebbe essere nominale, non per dichiarazione di voto, ma per una comunicazione personale, guardandosi in faccia dalla profondità dell’io a quella del tu. Un appello ad una scelta di vita pur nella consapevolezza che in tanti casi non cambierà nulla in chi vorrà tuttavia in qualche modo riceverlo.
Un intervento per stare in mezzo a quello che accade, non come arbitro ma come chi è coinvolto in tutte le parti, esposto a tutti i rischi, senza possibilità di fuga, senza protezioni di sorta, senza poter guardare con distacco da lontano, senza chiusure in piccoli mondi protetti, fossero pure profumati di incenso e di candele.
Nella svolta storica che stiamo vivendo, che è la stessa ed unica trasformazione che mi investe sia con il vicino di casa che chiede ascolto e che mi assorda con la televisione a tutto volume, sia con le immense vicende economiche, politiche, militari e religiose che si intrecciano su scala planetaria.

Un appello da parte di chi non ha nessun titolo né autorità Dio può servirsi anche di strumenti privi di valore.
Vorrei rivolgere un appello a nome di tutti i piccoli e di tutti i poveri, di chi non ha voce in capitolo ed è emarginato… ma non ho alcun titolo per rappresentarli.
Non ho titoli culturali, economici, politici, morali, religiosi, di grandi sofferenze e di martirio. Non ho alcun potere né purtroppo so godere della libertà di non averlo.
Nullità quindi e nudità, eppure mi sembra di aver capito qualcosa che devo comunicare con l’appello che supplica e scongiura. Anche di questo Dio può servirsi.

Appello alla Chiesa, popolo di Dio, istituzione gerarchica, presenza operante dello “Spirito del Signore che ha riempito l’universo, Egli che tutto unisce, conosce ogni linguaggio, alleluia” (vedi “Lettera a P. Benedetto Calati”).

Appello a liberarsi dalle illusioni: una la tentazione una l’illusione.
Alla tentazione dominante corrisponde l’illusione del potere. Illusioni sono rappresentazioni errate della realtà che ci fanno comodo o ci spaventano: sogni ed incubi ad occhi aperti.
La nostra vita interiore è un continuo intreccio di illusioni e di ritorni alla realtà. Andiamo dicendo che il nostro è il mondo delle conoscenze, che significa tante cose diverse, e delle immagini.
Liberarsi dalle illusioni è un’impresa senza fine ed è l’atto più radicalmente rivoluzionario.
Liberarsi dalle illusioni sul piano religioso è la vera laicità, fondata sulla parola di Dio ed è adesione all’invito del salmo: Sta’ in silenzio davanti al Signore e spera in lui. Come il potere è la radice di tutte le tentazioni così lo è anche di tutte le illusioni.

Ecco alcune tentazioni ed illusioni: gestire la salvezza propria e altrui, possedere la verità, esercitare il potere buono, il dominio, essere una forza sociale, un’alternativa di potere non al potere, confidare nella organizzazione e nella managerialità, ritenersi superiori a chicchessia, ritenere la propria religione superiore alle altre, cercare una mediazione culturale come riduzione del Vangelo e della sua radicalità, cadere nel verbalismo che sostituisce i fatti con le parole, cercare la competizione come conflitto e non come tendere insieme verso la stessa meta (vedi “La pietra scartata”, 2001).

Cum-petere.
Competizione significa in genere gara e conflitto ma risalendo al significato etimologico può voler dire “tendere insieme verso la stessa meta”, anche collaborando e senza alcuno spirito di concorrenza o di rivalità.


La contemplazione


Appello a concentrarsi nella contemplazione esercizio della fede speranza e carità.
Si tratta del ritorno urgente della Chiesa all’Apocalisse.

Per una conversione continua della vita cercare piccoli itinerari di piccoli.
Necessità di abbattere e demolire le nostre costruzioni culturali, ideologiche, teologiche, organizzative, di potere che intralciano la conversione del cuore che ovviamente include quella della mente. Necessità quindi di avviare una riflessione sul valore del dissociarsi, del dare le dimissioni, di accettare l’emarginazione.
Forte oggi anche la tentazione di grandezza: grandi imprese rivolgendosi ai grandi in una situazione di grandi mali. A grandi mali grandi rimedi, ma il Signore Gesù non l’ha pensata così. La potenza salvifica di Dio entra nel mondo attraverso la piccolezza.

Una regola? Un itinerario? Una via?
Vien da pensare a tutte queste possibilità ma l’essenziale è aiutarci ad accogliere il Vangelo che è rivolto a tutti (vedi “Sta’ in silenzio davanti al Signore e spera in Lui”, settembre 2000).


Appello al dialogo fra cristiani e musulmani


Appello a cercare il dialogo fra cristiani e musulmani.
Un passaggio importantissimo verso un dialogo fra credenti e non credenti per la pace universale in tempo di globalizzazione è il superamento di legami particolarmente stretti e mortificanti causati sia da tutto quello che c’è in comune, sia da una storia tragicamente piena di incomprensioni e di violenze.
Il termine dialogo può significare un rapporto più o meno profondo; è bene accompagnarlo con altri termini: condivisione, comunicazione… fino a una vera comunione delle menti e dei cuori (vedi testi riportati in appendice di Borrmans nn.1-2).

Dialogo a diversi livelli.
I vari livelli o possibilità di dialogo vanno tenuti ben presenti mettendo a fuoco le diversità che ci sono fra loro e al tempo stesso gli stretti legami. È forte il rischio di rimanere bloccati a un livello ignorando gli altri, anche quelli che possono essere più importanti. Oggi la grande tentazione è di lasciare in secondo piano il dialogo della fede che invece è il fondamento di tutto il resto (vedi Borrmans n.2).

Dialogo politico per gli equilibri del potere.
Intendendo la politica nel significato disgraziatamente corrente di gestione del potere, il dialogo politico appare chiaramente necessario, altrimenti c’è la guerra, e al tempo stesso insufficiente.
Purtroppo i politici sono spesso tentati di onnipotenza e quindi di fiducia nelle armi e nel loro uso. Basta pensare a quel che succede in Palestina per la ripresa del dialogo tra Palestinesi e Israeliani.

Dialogo culturale e religioso teologico.
È importante tener ben distinto il livello religioso da quello della fede. Il livello religioso come fatto essenzialmente culturale è di grande importanza ed è quello in cui maggiormente si impegnano gli studiosi e quelli che più contano nella gestione seria del potere. Il rischio è quello di assolutizzarlo riducendo la fede a dottrina e dimenticando il privilegio dei piccoli (cfr. Matteo 11,25-27 e Luca 10,21-22).

Dialogo per la giustizia nel mondo.
Dialogo in vista dell’azione in comune per aiutare quelli che sono maggiormente nel bisogno. In quanto è un dialogo in funzione dell’azione per la giustizia, per la pace e per la carità ha un’importanza primaria. Il rischio è di sentirsi come singoli, come parti e tutti insieme protagonisti della storia, dimenticando la dipendenza da Dio. Il vescovo don Tonino Bello a conclusione di una giornata di dibattiti sulle possibilità di pregare insieme fra credenti in Dio di diverse religioni, celebrando l’Eucarestia disse che c’era una cosa che tutti potevano fare insieme senza pericolo di confusioni: aiutare gli immigrati più poveri.

Dialogo di fede: cose spirituali con linguaggio spirituale
Nel mondo che cambia acquista un’importanza sempre più grande il rapporto della Chiesa, popolo di Dio, con l’Islàm e i musulmani.

Un’attenzione crescente, da parte di coloro che contano e nei discorsi della gente comune, è rivolta ai problemi che tale rapporto pone sul piano politico, in particolare il terrorismo e la sua repressione, e sul piano culturale e religioso. Ma questa attenzione, certamente necessaria, sembra lasciare in secondo piano ciò che più conta per chi cerca di leggere la storia alla luce della fede nel Mistero del Signore morto e risorto: la fede in Dio dei piccoli, cristiani e musulmani 1.

Due immensi popoli credono in Dio, vivono la gioia e affrontano le fatiche della vita e il mistero della morte sperando in Dio, accettando la sua volontà, a Lui pienamente sottomessi 2 .
Quando si pensa a questa immensa moltitudine di piccoli, lo si fa, nel migliore dei casi, per vedere in che modo essi vanno aiutati e guidati, dimenticando che a loro è dato di capire il regno di Dio. Chi crede alla “cattedra dei piccoli e dei poveri?” 3
Il salmista ammonisce: “L’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono” (Sal. 49, 21)

Nel mondo che cambia la speranza teologale, in Dio e nella realizzazione del suo disegno di amore, porta a rivolgersi ai piccoli, ai poveri e ai sofferenti 4 ed alla fede che è in loro, cercando di accoglierla e di favorirne la comunicazione.
Quando parliamo di dialogo fra le religioni siamo portati a pensare al dibattito culturale e teologico, sempre strettamente legati agli schieramenti politici e ai giochi di potere.
Ci sono poi i gesti coraggiosi del Papa sul piano del digiuno e della preghiera, altamente significativi che andrebbero da tutti condivisi cordialmente.
Ma la cosa più importante è la comunicazione fra i popoli credenti nella quotidianità, “nelle gioie e nelle speranze, nelle tristezze e nelle angosce dei poveri e soprattutto di quelli che soffrono” (G.S. 1)

Come, dove e quando ciò può accadere? Un’occasione che sta diventando sempre più frequente e importante è il lavoro.
Si tratta di indicare una via, di tracciare un sentiero, piccolo e nascosto agli occhi del mondo, di aprire un varco, forse tra i rovi, per una comunicazione sulla fede. E’ un servizio prezioso per la Chiesa che crede nell’umiliazione della croce
5 ma è sempre tentata dal potere, come il suo Signore nel deserto (Luca 4, 1-13; vedi anche Borrmans nn.7, 8, 9).

Presupposto fondamentale al dialogo con i musulmani è la fede dei cristiani in Gesù Cristo Signore della storia. Per questo è urgente un ritorno della Chiesa all’Apocalisse.
Non mancano certo degli studi molto belli su questo libro conclusivo del Vecchio e del Nuovo Testamento, ma a livello della pastorale siamo talmente in ritardo da accettare tranquillamente e condividere l’uso, diffusissimo in questi tempi, del termine apocalisse per indicare solo la catastrofe, mentre l’Apocalisse è il libro della speranza per la Chiesa perseguitata.

Al fondo c’è il fatto che pensando e parlando dell’impegno dei cristiani nel mondo si afferma che essi si rifanno ai principi e ai valori del Vangelo, quasi che esso si riducesse ad un manuale di etica. La Buona Notizia, la pace in terra agli uomini che Dio ama (Lc. 2,14), il kerigma, è che il Figlio di Dio si è fatto uomo, è morto e risorto per la salvezza universale (vedi “Dialogo con Franco Augruso”, 2001; vedi anche Borrmans nn. 3, 4,5).


Comunione nella fede

Aprirsi ed accogliere l’aiuto che viene dall’Islàm.
L’aiuto può consistere in uno stimolo e in un esempio. L’ostacolo più grezzo a questa apertura sta nel pensare che noi cristiani abbiamo tutto. L’ostacolo più raffinato è quello di pensare che nel Vangelo c’è tutto senza tener presente che in noi di Vangelo c’è ancora molto poco e che la Tradizione apostolica cresce pian piano nella Chiesa (vedi Dei Verbum n.8).

Aprirsi al mistero trascendente di Dio.
Dio certamente è al di là di tutto quello che possiamo conoscere e possedere. Il rapporto dei cristiani con Gesù Cristo non è esente dal rischio di una deriva idolatrica quando si dimentica che la sua umanità è sacramento e rivelazione del mistero infinito di Dio (vedi Borrmans n.6).

Vivere la piena sottomissione a Dio facendo in tutto la volontà di Dio.
Sottomissione e accettazione in tutto e per tutto della volontà di Dio e purificazione da ogni illusoria autonomia e dalla perversa tentazione di servirci di Dio.

Unire fede e impegno nel mondo.
Nell’esperienza sentita da tanti cristiani della separazione fra fede e impegno nel mondo, può aiutarci quella profonda identificazione fra fede, cultura e politica caratteristica dell’Islàm, senza per questo disconoscere i rischi gravissimi del fondamentalismo dal quale saremo noi stessi liberi nella misura in cui accetteremo la salvezza che Dio opera attraverso l’assunzione della nostra debolezza, la kenosis.

Ritrovare il primato dello Spirito sulle strutture.
Il problema costante per i cristiani è il rapporto fra carisma e istituzione: il prevalere delle istituzioni genera clericalismi di vario genere di cui l’ultima versione sembra essere quello manageriale. La riacquisizione del primato dello Spirito può essere stimolata e aiutata dall’esperienza profondamente diversa del mondo musulmano.

Fede morale e ascetica.
Nell’itinerario della condizione spirituale cristiana, che consiste essenzialmente nell’esercizio delle virtù teologali, si presenta il pericolo di distrazioni politiche, culturali, morali e persino ascetiche. Possiamo ricevere un forte stimolo dalla diversa esperienza dei musulmani in particolare dei loro mistici (sufi).

Affidarsi pienamente a Dio in tutti i momenti della vita e nella morte.
Atteggiamento fondamentale per la fusione delle esperienze di fede dei cristiani e dei musulmani.

Annientarsi nell’esperienza del Mistero.
Alle impressionanti affermazioni di alcuni mistici musulmani sull’annientarsi nei confronti di Dio possiamo trovare una corrispondenza nell’affermazione di Paolo: Non son più io che vivo ma è Cristo che vive in me, e nella “kenosis” (Fil 2,5-11).


Conclusione


La vita cristiana e quella musulmana come mistica popolare e politica, impossibile senza la comunione nella fede fra cristiani musulmani ebrei e tutte le donne e gli uomini nel mondo.
In silenzio davanti a Dio e al mondo, scorgendo le moltitudini che vivono nella gioia e nel dolore, animati dall’esperienza di Dio, di Abramo, di Mosè, di Gesù Cristo e del Corano, esercitati nella pazienza e nella solidarietà, desiderosi di fare il bene e pentiti del male fatto, o del bene non fatto, con o senza espliciti riferimenti religiosi intravediamo la comunione di spiriti che deriva da un unico Spirito. Questo non è un vertice del pensiero umano ma un dono dato ai piccoli.
Le moltitudini, anche quelle che appaiono più misere e trascurate, si illuminano come il grande soggetto della storia, storia spirituale, storia salvata.
Guardando in silenzio queste moltitudini e lo Spirito che le unifica cogliamo il Mistero: tutti, anche se nelle forme più diverse, fanno esperienza del Mistero, tutti sono mistici e questa è la realtà più grande che c’è in ognuno, in tutta l’umanità in cammino per innumerevoli vie.
È la mistica popolare e politica che c’è, va riconosciuta ed assecondata nella sua crescita (vedi Borrmans n.10).


Riporto dei passi del libro di Maurice Borrmans, Orientamenti per un Dialogo tra cristiani e musulmani, Pontificia Università Urbaniana, 1991. In questo libro ho trovato un grande aiuto ad aprirmi all’Islàm con speranza evangelica. Ne consiglio vivamente la lettura integrale.


Dialogo religioso

  1. Anche se la parola dialogo è troppo alla moda o si presta ad ambiguità (tanto che alcuni le preferiscono il termine di condivisione o di incontro), essa vuole qui designare un modo di essere e di agire che rifugge dall’isolamento, si preoccupa sempre dell’altro e considera la relazione col prossimo un elemento costitutivo della persona. Dialogare dovrebbe dunque essere il desiderio profondo di ogni credente serio e onesto (p.39).

  1. Il dialogo tra cristiani e musulmani può e deve essere considerato una delle dimensioni essenziali della vita degli uomini e delle donne di fede nei numerosi paesi in cui vivono, lavorano, amano, soffrono e muoiono. Molti cristiani preferirebbero forse limitarsi a una tranquilla indifferenza lasciando ciascuno alle sue abitudini, ai suoi pregiudizi e alla sua buona fede: la storia tuttavia ha dimostrato che questo tipo di atteggiamento mantiene ciascuno nell’ignoranza del prossimo e favorisce i malintesi, i sospetti e i conflitti. Alcuni cristiani mostrano oggi un interesse particolare, o privilegiato, per l’Islàm e le sue realizzazioni storiche, rischiando di disconoscere le sue dimensioni religiose, quelle stesse che permettono a coloro che le vivono di fare l’esperienza di Dio e di renderne testimonianza (p. 157).

  1. Solo in seguito a un rinnovamento nella conoscenza e nella stima dei musulmani, i cristiani possono tentare una valutazione evangelica e teologica dell’Islàm: esso non è forse la religione monoteista, di tipo profetico, che ha dei rapporti ancora mal definiti con la Tradizione ebraico-cristiana ed in cui il modello abramico della fede e della sottomissione a Dio è esaltato fino nelle sue implicazioni ultime? (p.158).

  1. Il dialogo tra cristiani e musulmani dovrebbe considerare seriamente quali sono le convergenze religiose possibili, perché sarebbe un peccato che l’incontrarsi e il condividere le esperienze si limitassero ai soli valori temporali di questo mondo. Di fatto, ci sono dei valori superiori in cui è impegnata l’avventura spirituale dei credenti e in cui gli uni e gli altri scoprirebbero di avere molto da spartire sul piano dell’esperienza religiosa che ne fanno. D’altronde, la fede di ognuno, proprio spingendosi fino a questo, conosce una forte purificazione e un reale approfondimento, nella misura in cui essa incontra la fede dell’altro “in verità”: cristiani e musulmani si situano allora sul piano superiore di una “emulazione spirituale” che non può che renderli più vicini gli uni agli altri. Nella loro doppia fedeltà alle tradizioni religiose che li alimentano, essi possono conoscere una speranza comune, quella di vedere Dio illuminarli infine sulle convergenze spirituali che li attendono, prima che egli non li informi, un giorno, “di ciò intorno a cui ora sono discordi” (Corano 5,48).
    Strada facendo, cristiani e musulmani sono così invitati a sviluppare il loro dialogo sui quattro livelli essenziali della comunicazione tra gli uomini. Essi hanno il compito di vivere la generosità del “dialogo dei cuori”, in cui gli uni e gli altri sanno condividere “come fratelli” il coraggio del “dialogo della vita”, affinché si dispieghino i loro sforzi per la promozione dei valori umani di cui Dio solo è l’ultimo garante; l’audacia del “dialogo della parola”, che si fa discorso su Dio e sull’uomo nello stesso tempo; e, infine, il coraggio del “dialogo del silenzio”, in cui Dio parla direttamente al cuore di ciascuno degli interlocutori. È nel silenzio, infatti, che comincia e che si compie ogni vero dialogo, poiché nel “silenzio della fede” ognuno può scorgere quale è il destino eterno dell’altro (pp. 159-160).

  1. Il dialogo perderebbe tutto il suo senso se l’interlocutore cristiano limitasse la sua fede a dei principi generali e se sopprimesse i dogmi che divergono dalle affermazioni coraniche. Nel dialogo, il musulmano dovrebbe poter incontrare un cristiano nella pienezza della sua vita spirituale e nella totalità del suo credo, così come il cristiano è invitato a comprendere e ad amare il musulmano nella totalità del suo culto e nella pienezza della sua fede. Questa è una esigenza di verità e di realtà, poiché è in gioco l’onore stesso di Dio (p.54).

  1. È forse a questo livello superiore dell’approccio al Mistero che gli uni e gli altri sono chiamati a dialogare di più, poiché venti secoli di vita cristiana e quattordici secoli di vita musulmana rappresentano un capitale unico di esperienze religiose e di ricerche mistiche in cui la santità degli uomini deve essere considerata il primo dono che Dio ha fatto loro (p.92).


Dialogo nella vita

  1. Sia che appartengano alle grandi masse rurali dei paesi in via di sviluppo o al nuovo mondo dei lavoratori dell’economia moderna, i Musulmani degli ambienti popolari hanno in comune l’attenzione ad una pratica tradizionale e ad una fede comunitaria in cui sono vissuti alcuni dei valori religiosi dell’”uomo biblico”. Fedeli a Dio e agli antenati, legati ai riti e alle abitudini, spesso conservatori in campo familiare e sociale, essi sanno esprimere la loro esperienza religiosa attraverso tratti di saggezza, in cui confluiscono molti versetti coranici e hadit profetici. Sovente appartengono ancora al mondo delle confraternite religiose, che li inquadrano e li educano sul piano della fede, della vita sociale e politica, o anche economica. Coloro che appartengono alle numerose diaspore del lavoro, in altri paesi musulmani o in Europa e in America, vivono dolorosamente delle situazioni di esilio o delle “detribalizzazioni alienanti”. Anche se in apparenza condividono largamente la condizione delle classi lavoratrici e la realtà delle lotte sindacali, soprattutto quando sono giovani, essi riescono a non dimenticare nulla dei valori religiosi della loro patria di origine e accolgono con gioia ogni possibilità di riunirsi in comunità religiose dotate di un luogo di culto o di insegnamento.
    Sia che appartengano al mondo tradizionale che a quello moderno, questi Musulmani “silenziosi” saranno spesso i primi interlocutori del dialogo: sempre sensibili ai valori di fede e di preghiera, di lavoro e di azione di grazia, di ospitalità e di generosità, di pazienza davanti alla sofferenza e di rassegnazione davanti alla morte, divenuti ormai consapevoli degli ideali di dignità, di libertà, di uguaglianza e di fraternità, come al messaggio delle beatitudini, essi sono in grado di sviluppare, al livello stesso del loro linguaggio, un dialogo che non sia semplicemente quello del lavoro o del vicinato, ma anche quello della fede vissuta, della sofferenza assunta, dell’amicizia ricercata e della morte trascesa” (pp. 31-32).

  1. C’è infine un livello più specificamente religioso in cui si deve ricercare il dialogo tra credenti, per animare meglio il tipo di comunicazione precedente e aiutarlo a raggiungere il grado più elevato: è quello in cui la fede degli uni e degli altri spiega e chiarisce il loro approccio di Dio. Infatti, non ci si potrebbe mai accontentare di un dialogo che evitasse per paura, o rifiutasse per principio, ogni scambio in materia propriamente religiosa. Questo dialogo è lo sbocco naturale e la normale conseguenza dei dialoghi precedenti, soprattutto se intende restare un “dialogo di vita tra credenti”. Attraverso la varietà delle parole e dei linguaggi e, a volte, anche le divergenze riconosciute e accettate, un tale scambio al livello della fede può permettere agli uni e agli altri di apprezzare di più il loro patrimonio comune nel cammino verso Dio, e di chiarire quali sono le domande essenziali che attendono ancora, da lui, una risposta. Si verifica, allora, la condivisione dei valori di fede, che può essere il “dialogo della salvezza” di fronte al mistero di Dio che resta ineffabile.
    Se ci sono, dunque, diversi luoghi di dialogo in cui ogni credente è chiamato a divenire solidale coi suoi fratelli di altre tradizioni religiose, esistono anche dei momenti di grazia e degli avvenimenti privilegiati in cui le persone dimenticano facilmente le loro appartenenze diverse per comunicare solo gli stessi valori e gli stessi sentimenti. È il caso dei grandi momenti della vita umana che sono la nascita, il matrimonio, la sofferenza, l’agonia e la morte. Chi non crede che le feste, reciprocamente celebrate con auguri, visite e regali, possano essere un mezzo potente di incontro regolare e di dialogo ripetuto? Così cristiani e musulmani dimostreranno di essere animati da questo spirito di dialogo sapendo accogliere e vivere pienamente questi momenti privilegiati, in cui i cuori battono all’unisono e in cui gli spiriti conoscono gli stessi pensieri. Lo Spirito di Dio sa allora eliminare molti ostacoli tra gli uomini e ricordare loro quale è la propria fraternità essenziale: ritrovarsi “fratelli nella fede in Dio”, in seno ad un mondo indifferente o ateo, per rendere insieme testimonianza di Dio e dell’uomo (pp. 42-43).

  1. Cristiani e musulmani, chiamati a conoscersi nella loro autenticità e a rendere reciproca testimonianza della loro fedeltà, devono adattarsi gli uni agli altri, inventare dei gesti che favoriscano l’unità e collaborare ovunque si sentano impegnati a difendere gli stessi valori. Non si insisterà mai abbastanza sull’arricchimento che il dialogo può apportare quando si sa lavorare fianco a fianco, mangiare insieme alla stessa tavola, sopportare con solidarietà le stesse sofferenze e gioire insieme delle stesse feste in una condivisa allegria. È in questa quotidiana comunione dei valori più umili e più profondamente umani, che cristiani e musulmani possono aiutarsi reciprocamente a rispondere meglio alle domande essenziali sul mondo, sull’uomo e su Dio ….
    Allora forse, i credenti delle due parti potrebbero vivere meglio e affermare il loro progetto sull’uomo e la loro relazione con Dio. Questo suppone il coraggio di una costante revisione di vita e una maggiore attenzione all’altro. Ma richiede anche che ciascuno riduca al minimo, presso il suo interlocutore, la sofferenza di essere mal conosciuto, mal compreso e male accetto. Riconoscendo ad ogni individuo e alla sua comunità i meriti che hanno e le virtù che gli sono proprie, il dialogo ha la possibilità di raggiungere una complementarietà superiore (pp.46-47).


I piccoli

  1. Ci si riferisce, qui, al dialogo della vita, a tutti i livelli e con tutte le sue componenti, poiché non si può certo limitare l’incontro dei cristiani e dei musulmani alle riunioni degli specialisti o alle visite dei capi di comunità. Il dialogo abbraccia tutte le forme dell’esistenza e si svolge in ogni luogo in cui musulmani e cristiani vivono, lavorano, amano, soffrono, e anche muoiono insieme. Infatti la specificità del dialogo non è nel suo oggetto, ma in questo modo di essere e di agire che è accoglienza dell’altro. Ascolto della sua parola e accettazione del suo diverso modo di essere. Non occorre, quindi, essere un intellettuale, un fine teologo e nemmeno un credente molto avanzato nelle vie della santità; è necessario e sufficiente essere un uomo di fede e di speranza, di buona volontà e di carità effettiva. Tutti sono dunque chiamati al dialogo, poiché tutti sono istruiti da Dio e interpellati dal suo Spirito che spesso interviene mediante l’esempio o la parola dell’”altro”, come avvenne sulla via di Gerico per un certo ferito che fu soccorso non da un sacerdote o un levita, ma da un samaritano qualunque che poi fu chiamato ”buono” (pp.40-41).






1 Mt. 11, 25-27 “In quel tempo Gesù disse: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te.”

2 “La Chiesa guarda anche con stima i Musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche nascosti, come si è sottomesso Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano tuttavia come profeta: essi onorano la sua Madre Vergine Maria, e talvolta pure la invocano con devozione. Inoltre attendono il giorno del giudizio quando Dio retribuirà tutti gli uomini risuscitati. Così pure essi hanno in stima la vita morale e rendono culto a Dio soprattutto con le preghiere, le elemosine e il digiuno.

Se nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorte tra cristiani e musulmani, il Sacrosanto Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà” (Dichiarazione sulla relazione della Chiesa con le religioni non cristiane del Concilio Vaticano II, Nostra Aetate, n. 3).

3 Pio Parisi, “La cattedra dei piccoli e dei poveri”, AVE, 1995

4 J.B. Metz, Il Regno, dicembre 2000, “Religione e politica nell’epoca della globalizzazione”.

5 Fil. 2, 5-11: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Gesù Cristo, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre”.