Incontri di discernimento e solidarietà

Depositum charitatis- gennaio 2003

“Queste dunque le tre cose
che rimangono: la fede,
la speranza e la carità; ma di
tutte più grande
è la carità!” (1 Cor. 13,13)


Carissimi,
mentre con gli anni diminuisce la mia attività cresce l’attenzione contemplativa alla Chiesa che si misura con il mondo della globalizzazione.
Mi sembra che alcune caratteristiche della vitalità della Chiesa lascino oggi in ombra la sua essenza: la comunicazione spirituale nella fede, nella speranza e nella carità.
Ci sono tante iniziative ecclesiali a favore di chi ha più bisogno e per questo c’è una continua ricerca dei mezzi che si ritengono necessari per sostenerle.
L’unità della Chiesa, nelle sue grandi e piccole componenti o articolazioni, è un bene ricercato in larga misura dall’alto con norme e direttive.
Al tempo stesso c’è una forte tendenza ad accentuare la propria individualità, personale e di gruppo. Ai Corinti che dicevano “io sono di Paolo, io sono di Apollo” Paolo scriveva: “Nessuno ponga la sua gloria negli uomini, perché tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” (1 Cor. 3, 21).

La preoccupazione del successo, in tutte le sue versioni mondane, vecchie e nuove, è presente e ingombrante in tante iniziative ecclesiali.
Si scoprono e si propongono nuovi metodi e cammini per la diffusione della fede.
In tutto questo si palesa una crescente fiducia nella razionalità e nella possibilità di essere gestori della salvezza mentre si riduce lo spazio per una autentica comunicazione spirituale nella fede, nella speranza e nella carità.


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In questi ultimi tempi sto intensificando un’esperienza particolare che mi spinge a fare una proposta generale.
Si tratta del rapporto con l’Associazione S. Pancrazio che dal 1989 opera nel disagio di Cosenza Vecchia. Ho trovato in essa amici impegnati con spirito evangelico e, dopo un recente incontro estivo, ho scritto loro suggerendo di approfondire i doni dello Spirito con una riflessione sulla loro esperienza.
Sentendomi in gran sintonia spirituale ho provato ad avviare questa riflessione consapevole che essa avrà valore quando sarà approfondita e sviluppata coralmente da loro. Il mio vuole essere solo uno stimolo e un motorino di avviamento. Lo comunico anche a voi in vista di una proposta generale.




DEPOSITUM CHARITATIS

DELL’ ASS.SAN PANCRAZIO 21 AGOSTO 2002


Di che cosa c’è più bisogno che noi possiamo fare


Nella nostra esperienza dell’ associazione S.Pancrazio abbiamo fatto delle scelte che riteniamo conformi al Vangelo di Gesù Cristo.
Pensiamo sia utile ricordarle non per una compiacenza di noi stessi che ne sminuirebbe il significato, ma per una presa di coscienza più chiara che ci aiuti a proseguire e ci consenta di comunicare ad altri qualcosa che consideriamo un dono ricevuto.
Si tratta di facilitare una piccola tradizione, non per rimanere legati a forme del nostro passato, ma per essere meglio preparati a rispondere ai nuovi bisogni che ci si presenteranno in futuro. La tradizione bene intesa dispone all’ incontro con altre tradizioni vicine o lontane, incontro sempre positivo, anche quando mette in luce eventuali opposizioni, purché sia vissuto in umiltà e carità.
Ogni impegno per dar vita a una tradizione ci inserisce nella grande “tradizione di origine apostolica che progredisce nella Chiesa con l’ assistenza dello Spirito Santo” ( DV,8 ). La tradizione è l’ anima della Chiesa.
Si tratta di portare un contributo alla comunicazione profonda che è oggi particolarmente in difficoltà, anche fra quanti si professano credenti, nella società in cui stiamo vivendo.
Cerchiamo di creare un fondo, un deposito di carità. Nelle lettere pastorali ( I Tim., 6,20 e II Tim. 1,14 ) si raccomanda di “custodire il buon deposito”. Il termine “depositum fidei” ha avuto grande importanza nella vita della Chiesa ( v. L. Boujer, Dictionnaire théologique, Desclée, 1963, voce Dépôt de la foi).
Sempre a partire dalla nostra esperienza di vita, noi possiamo parlare di un nostro “depositum charitatis” pensando che ne possa nascere un non piccolo contributo alla crescita della tradizione di origine apostolica.
Una carta in cui formulare alcune esperienze di scelte fatte per amore del prossimo può essere di qualche utilità. Evidentemente è un sussidio che presuppone le esperienze vissute e già comunicate, soprattutto con testimonianze.
E’ una carta sempre aperta a ulteriori contributi da parte di tutti, senza ombra di segretezza né timore di critiche.
Non si tratta di uno statuto o di una regola. La cura di un “depositum charitatis” potrebbe essere una indicazione preziosa per quanti, comunità religiose e associazioni di laici, di accorgono di star smarrendo il carisma fondativo.
Ecco qualche spunto per avviare una ricerca sull’ Associazione San Pancrazio


a) I PICCOLI.

Molti cercano i grandi per aiutare i piccoli: noi cerchiamo i piccoli con la convinzione che sono loro che possono salvare anche i grandi.

b) GRATUITA’

Non farsi pagare dalle persone che si cerca di aiutare e non farsi pagare da altri a motivo di ciò che si fa per aiutare.
La gratuità va bene al di là della rinuncia a un contraccambio economico; riguarda ogni forma di compenso sul piano dell’ immagine, su quello affettivo, ecc. E’ come una discesa senza fondo, un distacco progressivo da tante cose che il nostro cuore desidera. E’ possibile solo nell’ amore che si fonda sulla contemplazione del mistero della persona e di Dio.
Ci sono tuttavia dei limiti nella gratuità che derivano da noi stessi ( quel che io posso fare ) e dal bene di coloro a cui ci rivolgiamo. Non possiamo, per esempio, non desiderare che il nostro affetto sia ricambiato: la gratitudine, infatti, è un bene fondamentale per tutti.
Non farsi pagare per quello che si fa cercando di aiutare gli altri: è il problema dei finanziamenti. Si tratta di andare contro una corrente, impetuosa e travolgente: tanti cercano in ogni modo dei finanziamenti per fare del bene senza accorgersi di quanto si rimane legati. Si coltivano innumerevoli compromessi senza accorgersi che si diventa tossico dipendenti.


c) IL COINVOLGIMENTO

Il coinvolgimento nei problemi degli altri è richiesto ed è la via alla pace tra i singoli e tra i popoli. Mantenere le distanze è un’ offesa in tante direzioni.
Essendo in più persone a cercare di aiutare gli altri ci si accorge ben presto:

  • che i loro bisogni sono molteplici e strettamente legati l’uno all’altro;

  • che per questo è necessaria una stretta collaborazione fra quanti si propongono di aiutare;

  • che in tal modo si inizia una v era comunità;

  • che l’ aiuto comunitario a chi è in difficoltà porta a vivere una comunità composta da quelli che aiutano e da quelli che vengono aiutati;

  • questa comunità integrata è il germe di una sana convivenza umana;

  • il punto di partenza è il bisogno dei più piccoli e il riconoscimento pienamente gratuito del loro valore, con l’ azzeramento di ogni senso di superiorità.


Questo coinvolgimento è sempre più necessario nella società attuale così frammentata nella globalizzazione.


d) L’ INCOMPRENSIONE E IL SUCCESSO

Non scegliamo l’ incomprensione, che è un fatto negativo, ma facciamo scelte pur sapendo che non saranno comprese. Sappiamo che saremo presi per matti ma non per questo ci tiriamo indietro.
Particolarmente dolorosa è l’ incomprensione di quanti, si dichiarino o meno cristiani, approvano le nostre opere ma suggeriscono moderazione e strane mediazioni nell’ amore del prossimo, a partire dai piccoli, con gratuità e coinvolgimento.
Cerchiamo il successo in tutto quello che facciamo, predisponendo mezzi adatti al fine, itinerari che conducano alla meta. Ma cerchiamo con attenzione che ogni mezzo sia adatto al fine. Così sperimentiamo una serie continua di insuccessi, che tali sono considerati dai più, ma che non ci fanno cambiare rotta quando sappiamo di aver fatto quello che era possibile per andare incontro a ciò di cui c’è bisogno.


e) LA COSCIENZA POLITICA

Mentre cerchiamo di aiutare i più piccoli ci sforziamo di comprendere le cause della loro condizione e scopriamo di giorno in giorno le ingiustizie che ci sono nel mondo.
Prendiamo in tal modo coscienza delle responsabilità nostre e di tanti altri che sembrano non esserne consapevoli.
Scegliamo per questo di aver sempre presente l’ obiettivo di una coscienza politica che si traduca nel modo di vivere e di operare.
Inseriti in un sistema, non ci si può dichiarare neutrali, tirarsi fuori a qualsiasi titolo. L’ attuale mancanza di coscienza politica, che da quelli che stanno bene nella società sembra spesso che si trasmetta anche a chi è meno favorito, è un male gravissimo, la cui cura sta certamente fra le cose di cui c’è più bisogno, e noi pensiamo di poter fare qualcosa.
Alla radice di questo male c’è anche un fatto culturale: il sequestro del termine politica da parte del potere e di chi lo gestisce. Politica uguale ricerca e gestione del potere. Fra le conseguenze, c’è l’assurda qualificazione della gestione del potere con la carità cristiana.
Tuttavia, pensiamo che la politica popolare, anche se negata, è quella che salva il mondo, come la gratuità nei confronti dell’ economia.


f) LA PRECARIETA’

Non è in sé desiderabile, ma l’ accettiamo come condizione di verità e di disponibilità a scegliere di fare ciò di cui c’è più bisogno.
La coscienza della precarietà è fondamento della verità sulla condizione umana e naturale. Si scoprono livelli sempre più profondi di precarietà fino all’ affidarsi pienamente a un Altro, al Padre.


g) UN AFFANNO CONTROLLATO

Il nostro cuore è inquieto finché non riposa nel Signore. Inquietudine e affanno sono inevitabili quando ci si apre al grido dell’ umanità.
Riconoscendo tuttavia i nostri limiti, dobbiamo controllare l’ affanno in modo che sia sostenibile.
Questo vale per l’ affanno personale e per quello della Associazione e di qualunque momento di impegno comunitario.


h) L’ ECCLESIALITA’

Sentendo parlare di ecclesialità, molti, che pur sono attratti da Gesù Cristo, provano un forte disagio. La Chiesa per loro non lascia trasparire Gesù Cristo.
Noi cerchiamo di essere Chiesa trasparente, liberandoci da quanto offusca la luce di Cristo, soprattutto dalla seduzione delle innumerevoli forme del potere, “tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede” (Ebr. 12,2).
Non rinunciamo alla qualifica “ecclesiale”, pur sapendo la reazione negativa che questa produce, perché sentiamo tutta l’ urgenza di contribuire alla riforma della Chiesa.


i) IL RAPPORTO CON LA PAROLA

E’ all’origine dell’Associazione San Pancrazio e continua ad alimentarla.


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La proposta generale


Rivolta a quanti vivono esperienze comunitarie di vita cristiana nelle parrocchie, nelle associazioni, nei movimenti, nei gruppi, anche tra quelli più piccoli e nascosti, nei quali non c’è mai la sola esecuzione di direttive date da altri, ma c’è sempre una qualche novità evangelica, frutto dello Spirito presente e operante in tutti.
La proposta
è di trovare del tempo, di impegnare delle energie interiori e con un interesse vivo mettere meglio a fuoco le scelte di fondo che si fanno per vivere la carità di Cristo.
Il fine di questa ricerca spirituale è quello di acquisire una maggior consapevolezza di quello che si sta vivendo e dei doni ricevuti per continuare a crescere nel cammino intrapreso, per comunicare ad altri offrendo la propria esperienza ed accogliendo la loro, cosa che risulta spesso molto difficile. L’autoreferenzialità, infatti, spinge talvolta a ritenersi l’unica esperienza viva di Chiesa.
Capire bene la nostra accoglienza e la nostra resistenza ai doni fatti dallo Spirito a noi e ad altri è particolarmente necessario per inserirsi nella tradizione apostolica.
“Questa tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la riflessione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro (cfr. Lc. 3, 19 e 51), sia con l’esperienza data da una più profonda intelligenza delle cose spirituali, sia per la presenza di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. La Chiesa, cioè, nel corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio” (dal N. 8 della Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione (DV 8) del Concilio Ecumenico Vaticano II).
Mi ha molto confortato nel ritenere questo passo una grande speranza per il futuro della Chiesa, il Padre Benedetto Calati. Mons. Luigi Della Torre mi rinviava spesso al “sensus fidei” e alla “gratia verbi” del popolo di Dio.
“Cristo, il grande Profeta …. adempie il suo ufficio profetico … non solo per mezzo della Gerarchia, la quale insegna in nome e con la potestà di Lui, ma anche per mezzo dei laici, che perciò costituisce suoi testimoni e li provvede del senso della fede e della Grazia della parola (cfr. Atti 2, 17-18; Ap. 19, 10), perché la forza del Vangelo risplenda nella vita cristiana, familiare e sociale”. (N. 35 della Costituzione dogmatica sulla Chiesa (LG) del Concilio Ecumenico Vaticano II).
In adorazione silenziosa accogliamo la tradizione apostolica, il Mistero Infinito di Dio rivelato in Gesù Cristo, nella sua morte e risurrezione, testimoniato dagli apostoli:


“Notte, tenebre e nebbia

fuggite: entra la luce,

viene Cristo Signore.

Il sole di giustizia

trasfigura ed accende

l’universo in attesa…”

(Inno di lode)


E questa tradizione apostolica progredisce per gli innumerevoli contributi

della nostra fede evangelica e gioiosa;
della nostra fede tormentata e inquieta;
della nostra ricerca affannata che talora ci fa pensare di avere smarrito la fede;
della nostra critica sincera che spesso nasce dalla tormentosa domanda:
come è possibile Dio Padre quando il mondo va per i fatti suoi e va tanto male?

Tutto concorre alla crescita della comprensione del Mistero Infinito, verso la pienezza della verità divina a cui tutti avremo contribuito.
Non spaventiamoci quindi di quelli che, pensando di possedere tutta la verità, disprezzano gli altri, di quelli che sembrano volerci esaminare continuamente sul programma intero, pronti a respingere noi e tutti gli altri.
Cerchiamo ed amiamo i pastori che ci guidano con un carisma sicuro di verità e non lasciamoci inquietare da quelli che appaiono distratti da seduzioni mondane, dimenticando di essere “ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio” (1 Cor. 4,1).


Un suggerimento è quello di raccogliere in ogni realtà ecclesiale le esperienze che si vanno facendo delle scelte di fondo con cui si cerca di vivere la carità di Cristo. Raccogliere su carta, non lunghi racconti edificanti, ma gli snodi fondamentali in cui ci sentiamo interpellati per la sequela di Gesù Cristo, per realizzare un piccolo “depositum charitatis” in cui trovare il senso più profondo della nostra vita in comune.
Una più intensa comunicazione spirituale di una fede libera e purificata nella carità e nell’umiltà, può essere di grande aiuto per la presenza della Chiesa nel mondo contemporaneo, sulla scia del Concilio. Una comunicazione di “deposita charitatis” per un arricchimento dell’unico “depositum fidei”.

Religiose e religiosi sono spesso onestamente impegnati nella riscoperta del carisma fondativo. Sembra debba essere questo, in primo luogo, un ritorno al passato. In realtà è un’operazione che comincia dal presente, anche se poi porta al passato e di nuovo al presente. E’ necessario infatti mettere a fuoco quello che si sta vivendo alla luce della Parola con vero discernimento evangelico. Nell’analisi delle situazioni interne ed esterne alla propria realtà ecclesiale, spesso si è presi da valutazioni mondane, con un discernimento che non si affida alla Parola e con orientamenti conseguenti, dall’alto e dal basso. La condizione per ritrovare le grazie del carisma fondativo è di porsi in stato di discernimento evangelico a partire da quello che stiamo vivendo, aperti a tutti gli appelli conseguenti alla conversione.
L’itinerario dal presente al passato e poi di nuovo al presente, è necessario per la vitalità spirituale di ogni impegno comunitario che abbia una sua storia, breve o lunga.
Ci incoraggia Paolo nella lettera ai cristiani di Filippi: “Ringrazio il mio Dio ogni volta che io mi ricordo di voi, pregando sempre con gioia per voi in ogni mia preghiera, a motivo della vostra cooperazione alla diffusione del Vangelo dal primo giorno fino al presente, e sono persuaso che colui che ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù” (Filippesi 1, 3-6).
In molte realtà ecclesiali, per esempio nell’Associazione San Pancrazio con cui mi sono incontrato, c’è un vero carisma fondativo anche se non è identificabile con i doni ricevuti da un fondatore in un tempo determinato. C’è una vera fondazione che si pone nel tempo, attraverso le esperienze individuali e convergenti di varie persone.
Come nel passato grandi fondatori hanno dato vita a correnti di spirito e di opere, così nel presente sembra si possa molto sperare nei doni che lo Spirito fa a chi è impegnato insieme nella ricerca e nell’azione. Forse ciò fa parte del progresso nella tradizione apostolica (DV 8) in tempo di globalizzazione e frantumazione.
Accenno nel modo più breve possibile ad alcune linee di ricerca in cui sono profondamente coinvolto, sperando di essere in ciò docile allo Spirito. Ho maturato non pochi pensieri che, per essere corretto e confortato, comunicherei volentieri a chi me lo chiedesse. Spero di fare un servizio utile da servo inutile.

E’ vero che per lo più non serve dire e che bisogna fare, per non cedere al verbalismo imperante e desertificante.
Ma c’è un fare che si realizza anche nel dire: la comunicazione spirituale.
Per questo, pur nella consapevolezza di valere meno di tutti quelli a cui mi rivolgo provo ancora a dire, a comunicare.

  1. Nella Chiesa che conta nel mondo scarseggia la comunicazione spirituale, che pure ne è l’anima.

Si parla molto dall’alto e si ascolta, non sempre molto, dal basso, ignorando per lo più la cattedra dei piccoli e dei poveri. Si parla e non mancano le attività, non di rado manageriali, ma scarseggia il silenzio adorante, senza del quale non ci può essere comunicazione spirituale.

  1. Ho suggerito ai membri di un’associazione, in cui riconosco grandi doni dello Spirito, di riflettere sulle scelte evangeliche che hanno fatto e fanno nel loro operare; non per compiacersi ma per ringraziare il Signore e per prendere meglio coscienza di quanto ancora loro manca. Senza raccontarsi e senza cercare norme e metodi nuovi per la vita spirituale, dovrebbero cercare di raccogliere il loro “depositum charitatis”, per non perdere per via lo spirito e per comunicare ad altri.

Se esperienze diverse di gruppi, associazioni e parrocchie mettessero a fuoco i loro “deposita charitatis” e li comunicassero fra di loro si aiuterebbe la crescita della circolazione spirituale che è l’anima della Chiesa. Lo scambio reciproco dei doni ricevuti dallo Spirito è la comunione più grande possibile fra gli uomini.

  1. Ho scritto a un Vescovo, di cui ho grande stima, suggerendogli di concentrarsi totalmente nel suo compito pastorale di ascolto, di guida e di conforto di tutti coloro che gli sono affidati, a cominciare da quelli che più soffrono, in modo da non avere più tempo per altri servizi che gli vengono richiesti sul piano culturale e politico, al di fuori della sua diocesi.

Penso sia sempre più urgente il servizio di pastori che aiutino ascoltando, ridando così spazio alla comunicazione di esperienze spirituali dal basso. Nate dalla fatica di vivere, con gioie e dolori, della stragrande maggioranza dell’umanità che non gode di privilegi e che non fa notizia.
Aiutare i pastori ad essere ministri dell’amore di Dio è compito di tutti i cristiani.
Ciò di cui la cultura e la politica hanno più urgente bisogno sono la sapienza e il “senso” che viene dal basso, non il “consenso” stimolato e raccolto dall’alto.

  1. Sto riflettendo con amici sulla vita consacrata.

Siamo all’inizio e ci sembra di intravedere prospettive luminose. Fra queste una scelta radicale di sequela del Signore, finalizzata a soccorrere le difficoltà estreme della convivenza umana (direi della politica se questo termine non fosse catturato dal potere). Per un impegno comunitario di questo genere più che delle norme sembra necessaria una profonda amicizia spirituale. E la consacrazione di base è quella del Battesimo.

  1. Ho proposto ad alcuni parroci, con cui mi incontro mensilmente da anni, di riflettere sull’orizzonte in cui cerchiamo di annunciare il Vangelo, specialmente nella catechesi e nella Messa. La difficoltà di tanti cristiani oggi si evidenzia nel rapporto con i musulmani, a riconoscere chi cerca il senso della vita e della morte in altre religioni, filosofie e prassi di vita, sembra dipendere anche da un orizzonte limitato in cui la Chiesa annuncia il Vangelo. Può confortarci l’impostazione conciliare della Dichiarazione “Nostra aetate” sulla relazione della Chiesa con le religioni non cristiane.

  1. Il servizio principale in cui concentro ancora le mie energie, sperimentando solitudine e profonde amicizie, è la riflessione alla luce della Parola, in particolare dell’Apocalisse, sul rapporto tra fede e politica per aiutare la Chiesa a liberarsi dalla seduzione del potere.


Con amicizia

 

P. Pio Parisi s.j.



Vi allego uno scritto di Giorgio Marcello sulle esperienze di collaborazione dell’Associazione San Pancrazio con alcune comunità religiose residenti in Calabria.





Schema di riflessione sulle esperienze di collaborazione dell’Ass. San Pancrazio

con alcune comunità religiose residenti in Calabria.


Abbiamo collaborato in particolare con due congregazioni di religiose che stanno sul territorio secondo modalità profondamente diverse. La prima (suore minime della passione) gestisce istituti di accoglienza per bambini e ragazze provenienti da contesti familiari e sociali difficili. La seconda (suore di maria bambina), presente in alcune regioni del sud Italia da poco più di venticinque anni, cerca di esprimere una presenza slegata dalla gestione diretta di opere proprie.

1. La congregazione delle suore minime è nata a Cosenza negli anni venti del secolo scorso. Sin dall’inizio, le suore di questa famiglia religiosa si sono occupate dell’infanzia abbandonata. Venivano accolti bambini e ragazzi che vivevano per strada, appartenenti a famiglie devastate dalla guerra e dalla miseria. Le prime case di accoglienza vivevano di sola provvidenza.
A partire dagli anni 50-60 in poi, le cose cambiano. Per effetto della erogazione di sussidi pubblici, prima, e delle rette, poi, le modalità di accoglienza si trasformano. Le case diventano istituti. L’impegno missionario sul territorio si muta in opera. Oggi l’istituzionalizzazione di centinaia di bambini nella nostra regione rappresenta un problema sociale ed ecclesiale.
Nel corso dei decenni. L’istituzionalizzazione progressiva del servizio dì accoglienza ha prodotto alcune conseguenze nella vita interna della congregazione, probabilmente legate all'aspetto più visibile della sua crisi, cioè il calo di vocazioni e l’innalzamento dell’età media:

  • la gestione del servizio ha assunto un carattere preminente su tutto il resto

  • ed ha comportato, tra l'altro, una perdita di radicamento nel territorio (con conseguente riduzione della capacità di lettura e interpretazione dei bisogni della gente più povera),

  • alla separazione dalla vita della gente, si accompagna anche la rottura dei legami interni; l’interazione tra le singole comunità che gestiscono servizi (peraltro simili) è quasi inesistente.

I fermenti più vitali di questo istituto religioso, destinato come tale a scomparire, si possono rintracciare in alcune interessanti esperienze missionarie, avviate da una decina di anni America latina.
In questi anni l'associazione ha collaborato con alcune di queste suore, cercando di ripensare insieme l’accoglienza di bambini e ragazzi nella nostra città, ipotizzando prima e provando a realizzare poi piccole esperienze di affido familiare e di de-istituzionalizzazione.

2. Quello delle suore di maria bambina è un istituto religioso nato nell’800 in Lombardia, caratterizzato sin dall’inizio da un forte impulso missionario. E’ presente, in alcune regioni del sud dalla metà degli anni 70, su esplicito invito di Paolo VI. Abbastanza decisivo è stato il ruolo di suor Eugenia Lorenzi, la prima responsabile della provincia meridionale. Essa ha infatti promosso la nascita di piccole comunità inserite, rinunciando alla gestione diretta di opere e servizi propri, disponibili a lavorare insieme a realtà già presenti sul territorio, scegliendo quindi la via del radicamento in mezzo alla gente, soprattutto in mezzo ai più piccoli e poveri. Nel corso degli anni queste religiose hanno portato avanti insieme a tanti altri (persone, famiglie, gruppi. associazioni) esperienze piccole, espressione però di un forte radicamento in mezzo alla gente, nonché di contenuti innovativi anche dal punto di vista del lavoro sociale.
La storia della nostra associazione si intreccia al percorso di questo pezzo di congregazione. Proprio suor Eugenia e stata una delle promotrici della sua nascita, tredici anni fa. Ed oggi un'altra suora lavora a tempo pieno con noi.

3. I percorsi di queste due congregazioni mi pare mostrino con chiarezza quali sono oggi i limiti e, nello stesso tempo, le potenzialità della presenza dei religiosi e delle religiose al sud, in un periodo dì evidente crisi della vita religiosa stessa.
Questa crisi spinge le congregazioni nel migliore dei casi, a ripensare la propria presenza apostolica, alla luce del carisma di fondazione, della storia dell’istituto o congregazione, e soprattutto dei bisogni della gente, soprattutto dei più poveri. E un esercizio fecondo. E potrà esserlo ancora di più se sarà portato avanti in ascolto della Parola, e sarà accompagnato dalla consapevolezza che il declinare (probabilmente irreversibile.) di queste forme storicamente determinate di vita religiosa non vorrà necessariamente segnare la fine della vita religiosa tout court.
Su questo punto, aggiungo ancora qualche piccolissima nota.
Il riferimento all’identità, al carisma della fondazione, può essere autentico o in autentico. E’ autentico quando permette di ritrovare la radice della vita cristiana (e, quindi, della vita religiosa). E in autentico quando distrae dall’essenziale, ed è sostanzialmente espressione di uno spirito proprietario nei riguardi della storia passata e dei doni ricevuti.
La parabola francescana della perfetta letizia, o della vera gioia (riportare, in tutto o in parte, il testo). Essa ci dice che una delle vie per ritrovare il senso della vita cristiana e della vita religiosa sta proprio nell’esperienza dell’identità disconosciuta, della fraternità negata. Si tratta di un’esperienza dolorosa e feconda, che ci radica nel mistero di Gesù, che è il mistero di un amore rifiutato che diventa principio della salvezza del mondo.
Dunque, la vera gioia non sta nella gloria dell’ordine, nella grandezza delle realizzazioni storiche, nella santità del fondatore, nello zelo missionario. La vera gioia sta nella scoperta di ciò che è essenziale: il Mistero Pasquale.

4. La vita cristiana e “in radice” vita di appartenenza al Signore e di comunione con la storia. Parlando della vita monastica, Dossetti qualche anno fa scrisse qualcosa che vale per tutti i cristiani, quale sia lo stato di vita scelto: “la vita monastica è per eccellenza sempre comunione non solo con l’Eterno, ma con tutta la storia, quella vera, non curiosa, non frantumata nella pura quotidianità, non cronachistica, la storia della salvezza: di tutti gli uomini e soprattutto la storia degli umili, dei poveri, dei piccoli, di coloro che non hanno “creatività” o sono impediti dall’esplicarla (e sono certo la maggior parte degli uomini) che sono dei ‘senza storia’. E quindi è anche comunione con quelli che non si vedono, che non si conoscono, che non si qualificano, ma veramente con tutti: gli ignoti, i morenti, i morti che sono al di là di ogni qualifica. E’ comunione che porta a cercare anche l’esilio in terre e popoli stranieri: non con la pretesa di portare qualche cosa (se non la silenziosa testimonianza di un amore gratuito) e tanto meno di ricavarne esperienze esotiche, ma con il desiderio soltanto della condivisione con lontani ed estranei, e quindi con quello che i Padri chiamavano il desiderio della xenitia, cioè appunto dell’essere straniero e ignorato, e comunque sempre in una condizione di inferiorità, in definitiva dell’essere privo di ogni valenza, di essere contato per nulla.”

5. Qual è il valore politico della vita religiosa? Quale cioè la sua rilevanza possibile per la polis?
Si può dire forse che la vita religiosa ha un significato profondo per la vita della città nella misura in cui essa ricopre le dimensioni che sono proprie della vita consacrata: i consigli evangelici, l’obbedienza, la castità, la povertà.

  • L’obbedienza, come vita spesa in ascolto della Parola, e come attenzione verso tutto e tutti, che si traduce nell’assunzione di concrete responsabilità, soprattutto nei confronti dei più piccoli e poveri. In questo senso, essa è il presupposto del radicamento.

  • La castità, vissuta non come fuga dal mondo o dalle relazioni, ma come radicale appartenenza al Signore e, nello stesso tempo, come tessitura di relazioni con la gente, vissute con la stessa intensità di un vincolo di parentela. In questo senso, la castità è esperienza viva di radicamento.

  • La povertà, intesa non solo come condizione socio-economica, ma come modo di guardare il mondo, e come modo di concepire e di vivere le relazioni. Nel primo caso, la povertà coincide con il “sentimento della piccolezza” di cui parla Paolo nella Lettera ai Filippesi, quando ci invita a considerare tutti gli altri superiori a noi stessi. Nel secondo caso, la povertà è quella di parla Francesco nella Regola non bollata, quando rivolgendosi ai suoi compagni li esorta ad esser “lieti quando vivono tra persone di poco conto e disprezzate, tra poveri e deboli, tra infermi e lebbrosi e tra i medicanti lungo la strada.



Giorgio Marcello