Incontri di discernimento e solidarietà
 
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SI FECE PICCOLO

Inno cristologico Fil 2,5-11

 

in una comunità orante

La nostra riflessione si concentrerà ora sulla lettera di san Paolo ai Filippesi, in particolare sul famoso inno cristologico di 2,5-11. Si tratta di prendere contatto con la lettera ai Filippesi, nel suo complesso, con qualche indicazione di ordine introduttivo. A detta di alcuni interpreti qualificati della lettera ai Filippesi, l’inno cristologico proverrebbe da un contesto liturgico, nel quale una assemblea orante già ha elaborato propri strumenti di preghiera, e tra di essi anche un inno come quello che qui Paolo riporta nella lettera. L’autore di questo inno è Paolo, o qualcun altro? Gli studiosi che si occupano di queste cose disputano tra di loro. Quello che sembra certo è che l’inserimento dell’inno in questa pagina della lettera ai Filippesi necessariamente rinvia al contesto vivo e orante di una intera comunità che affronta la responsabilità della propria vita cristiana e della propria testimonianza evangelica. Abbiamo a che fare non soltanto con la parola di Paolo che si rivolge ai destinatari di questa lettera, abbiamo a che fare con un richiamo esplicito e commovente a tutta una chiesa, che si raccoglie e si riconosce nella comune celebrazione di un mistero. Questo mistero costituisce il senso e motiva costantemente lo slancio di una testimonianza resa di giorno in giorno, di luogo in luogo, sulla scena del mondo e nella storia degli uomini. Questa chiesa in preghiera è una chiesa consacrata alla testimonianza evangelica, è una chiesa che si realizza e si consuma in questa appartenenza la mistero di Cristo, morto e risorto, disceso e risalito, immolato e trionfante, il Signore Gesù.

in un momento drammatico un atteggiamento paradossale

Quando Paolo scrive questa lettera si trova ad Efeso e scrive ai cristiani della chiesa di Filippi in un momento che appare drammatico. Paolo è in carcere. Non è una situazione nuova per Paolo, ma la carcerazione ad Efeso nell’anno 55 dopo Cristo assume una particolare gravità. Non è un fenomeno che possiamo considerare transitorio, occasionale, come altre volte nella vita di Paolo. Quello che in quell’anno avviene ad Efeso, per cui Paolo dovrà sostare in carcere alcuni mesi, comporta per il nostro apostolo un’esperienza di particolare drammaticità. Lo stesso Paolo ci farà intendere, nel corso di questa lettera, che si è presentata a lui la prospettiva di una condanna a morte, Paolo la prende in considerazione come una ipotesi realistica. E’ vero che non sarà condannato a morte, uscirà da quel carcere, proseguirà nei sui viaggi, come lui stesso spera, ma la situazione è gravissima.

Paolo in carcere ad Efeso nell’anno 55: «Desidero che sappiate, fratelli, che le mie vicende si sono volte piuttosto a vantaggio del vangelo». 1,12 . Una affermazione quanto meno sconcertante e per di più percepiamo una vibrazione affettiva, una commozione di contentezza. Come può mai essere Paolo così lieto e intraprendente nel momento in cui sta soffrendo le pene del carcere, in una situazione di oppressione, di miseria, di svuotamento, di sconfitta, di solitudine? Questo sconcerto è riproposto in lungo e in largo in tutto il testo della lettera ai Filippesi. Dice il nostro apostolo: dal momento che sono carcerato, tutto questo torna a vantaggio dell’evangelo, l’evangelo prospera, l’evangelo esprime la sua inesauribile fecondità, l’evangelo cresce proprio perchè sono in catene per Cristo. Prosegue al v. 13: «al punto che in tutto il pretorio e dovunque si sa che sono in catene per Cristo». Non sta scherzando, Paolo, è proprio così, è incatenato. Questo suo essere stretto dalla morsa delle catene coincide per lui con l’essere più che mai coinvolto in una testimonianza per la crescita dell’evangelo. «In tal modo la maggior parte dei fratelli, incoraggiati nel Signore dalle mie catene» (v. 14). Le catene sono motivo di promozione della testimonianza evangelica, affidata ai fratelli. Paolo precisa queste cose in una comunità in cui ci sono conflitti anche amarissimi, ci sono coloro i quali sono insofferenti nei suoi confronti, che vorrebbero rimproverarlo, contestarlo, che considerano Paolo come figura pericolosa. Eppure, malgrado tutto, il fatto che Paolo sia in catene per coloro che gli hanno dimostrato simpatia e per coloro che sono insofferenti nei suoi confronti, costituisce un’occasione decisiva per sollecitare tutti a crescere, a maturare al servizio dell’evangelo. Paolo di questo è convinto in modo inequivocabile: è così. Un uomo in catene è intimamente convinto di essere stato condotto a sperimentare in misura traboccante la fecondità dell’evangelo. Paolo qui non sta fingendo, non sta recitando, non ha nessuna ragione per dire le cose in modo un poco scenografico, non c’è ipocrisia, per nulla!

Paolo parla di queste cose perché si è reso conto che è il contenuto essenziale di tutta la sua predicazione evangelica, di tutta la sua testimonianza di vita ed è esattamente l’unico contenuto di cui vale la pena parlare.

una lettera senza contenuti

Per altri versi la lettera ai Filippesi è una lettera senza contenuti. Il suo contenuto coincide con la testimonianza semplice e appassionata di Paolo: nel momento in cui non ho più niente da dire, l’evangelo corre, cresce, prospera. Paolo è desideroso che i fratelli lo sappiano e sappiano che lui è contento.

Paolo parla di queste cose con i cristiani di Filippi. Vi è stato qualche anno prima, nel 49 dopo Cristo, nel corso del secondo viaggio missionario, una volta entrato in Europa. La prima evangelizzazione di Paolo a Filippi coincide con il primo impatto serio, stimolante per Paolo, con un nuovo ambiente, una nuova realtà culturale: l’Europa. Paolo è un asiatico, viene dall’Oriente, non è abituato a quelle situazioni che sono così provocatorie per lui e che dovrà invece affrontare l’una dopo l’altra, con serietà e anche con sorpresa. Filippi è la città nella quale Paolo sosta, nel suo viaggio missionario, dopo aver attraversato il mare che separa l’Asia dall’Europa. L’impatto con quella città resterà sempre memorabile. Ne abbiamo un riscontro in Luca, negli Atti degli apostoli , al capitolo 16. Filippi è la città simbolo di una frontiera culturale che Paolo ha voluto attraversare dal momento che si è affidato all’evangelo. E’ un vangelo che non soltanto Paolo annuncia, predica e testimonia nel corso dei suoi viaggi missionari, ma che lo precede, che lo trascina, che lo coinvolge nell’obbedienza ad un mistero di gratuità, di misericordia, di salvezza. L’evangelo ha costretto Paolo ad affrontare una realtà che forse aveva anche immaginato a distanza, di cui forse aveva sentito parlare, ma che risulta alla resa dei conti, per lui, nuova, sconcertante, fastidiosa, sorprendente. Una frontiera culturale: Filippi, l’Europa, l’Occidente.

Paolo dovrà subirne molteplici danni, di cui il racconto di Luca negli Atti degli apostoli ci dà conto. A Filippi si è formata una comunità di discepoli che è cresciuta nel corso degli anni, pochi, ma sufficienti per dare una fisionomia sempre più vivace e intraprendente a questa chiesa con cui Paolo resterà sempre in contatto affettuoso, amichevole. Quello che non avviene con altre grandi chiese del Nuovo Testamento, avviene tra Paolo e la chiesa di Filippi. Paolo da Efeso, dove si trova in carcere, scrive a questi cristiani della chiesa di Filippi. In realtà non ha niente da dire. Di solito, quando Paolo scrive una lettera ha un motivo: una necessità pastorale, un insegnamento teologico da precisare. La lettera ai Filippesi ci dà l’impressione che non ci siano motivi per scrivere.

In realtà un motivo riusciamo a intravederlo: i cristiani di Filippi, legati a Paolo da tanti motivi, sono preoccupati perché hanno saputo che si trova in carcere. Carcere vuol dire grande solitudine. Attorno a lui ci sono altri cristiani, ma c’è polemica in quella chiesa, ad Efeso, per cui Paolo è abbandonato. E’ vero, lo stesso Paolo sta dichiarando che proprio così cresce l’evangelo. Epafrodito dovrebbe occuparsi di Paolo e Paolo lo rimanda indietro. Epafrodito nel frattempo si è ammalato e invece di dargli aiuto ha combinato guai. Ha bisogno lui, il povero Epafrodito, di essere aiutato, sostenuto, di essere incoraggiato. Povero Epafrodito: doveva essere motivo di conforto per Paolo prigioniero e, invece, si è trovato con il mal di pancia. Paolo scrive la lettera ai Filippesi per consegnarla a Epafrodito come biglietto di accompagnamento. Quando Epafrodito si ripresenterà a Filippi con la coda fra le gambe, potrà dire: "è successo questo e quest’altro, ma Paolo mi ha sostenuto, mi ha accompagnato. È lui stesso, Paolo che mi incaricato di svolgere questo servizio". C’è un motivo, dunque, ma non è un motivo serio, pastorale, teologico, a cui siamo abituati.

una comunicazione di sentimenti

La lettera è dominata da una comunicazione di sentimenti. La lettera ai Filippesi in certo modo potrebbe esaurirsi in una teologia dei sentimenti, è una estetica teologica quella a cui Paolo si presta in questo scritto. Il contenuto della lettera sta nella testimonianza di una relazione sentimentale. Un’espressione del genere potrebbe lasciarci imbarazzati, potrebbe apparirci poco adatta a intendere la figura di Paolo e la sua metodologia apostolica. Fatto sta che la lettera ai Filippesi rimane quella che è. Paolo scrive per esprimere dei sentimenti e per dichiarare che nella comunione dei sentimenti trova conferma la sua attività missionaria. Si rivolge ai Filippesi perché è convinto di poter contare sulla loro partecipazione sentimentale. Offre i propri sentimenti, si affida ai sentimenti di questi cristiani di Filippi. Siamo inseriti in un circuito sentimentale che dà pienezza, intensità, passione alla nostra comunione di cristiani. Qui è il punto.

Paolo dichiara che nei sentimenti è costituita la comunione dei credenti, la comunione dei discepoli del Signore Gesù. Quando noi parliamo di sentimenti non sempre sappiamo bene di cosa stiamo parlando. Il linguaggio paolino va preso in considerazione nella sua oggettività, nel suo dato letterario. E’ lo stesso Paolo che parla di sentimenti. Sentimento non come atteggiamento svenevole, proiezione sdolcinata, fuga evanescente in una stratosfera astratta, che sta al di là, al di sopra, al di fuori della nostra esistenza umana. Quella di Paolo è l’esistenza di un cristiano che fa appello ai sentimenti, proprio ai sentimenti altrui. E sono sentimenti che si radicano nella sua carne, nel suo vissuto, nella sua storia, nelle sue catene, perché questa è la situazione di fatto in cui Paolo, come noi sappiamo, si trova a Efeso.

Il sentimento è inteso da Paolo come modo di approccio alla realtà, modo di stare nel mondo, di sentire e nello stesso tempo di ragionare e discernere. E’ un modo di interpretare e un modo di orientare il cammino della vita, di dare valore alle diverse esperienze che man mano vengono recepite. Il sentimento è un approccio alla realtà dove è implicato il tutto di una esistenza umana: nella sua sensibilità, nei suoi pensieri, nei suoi desideri, nelle sue aspettative; tutto ciò che nel vissuto di un uomo diventa criterio di riferimento, valore in base al quale discernere i tempi e i luoghi, per prendere posizione e farsi riconoscere dagli altri. Paolo propone a noi una sua testimonianza autobiografica che è intrisa di sentimenti, proprio fusa in un crogiolo di sentimenti. Se noi avessimo l’immagine di un Paolo teologo sofisticato o tecnico esigente e rigoroso della pastorale, o intelligente operatore del dialogo con le istituzioni di questo mondo, quale che sia l’immagine che noi abbiamo di Paolo, dobbiamo fare i conti con la lettera ai Filippesi. Nella sua carne di carcerato Paolo è un sentimentale e il sentimento è il suo modo di essere aperto alla relazione con il mondo vicino e lontano, nelle cose, negli eventi, le persone.

Nel cap. 2 Paolo sta sviluppando alcune considerazioni esortative: ha parlato di sé, della sua condizione di carcerato, ha già dichiarato fin dall’inizio come tutto questo risulti più che mai opportuno, benefico per la crescita dell’evangelo; ha già fatto accenno alla densità, intensità dei suoi sentimenti fin dall’inizio della lettera. Ricorre a più riprese in questo testo il verbo phronein, che qualche volta la nostra bibbia traduce con "pensare", altre volte con "sentire". In 1,7: «E` giusto, del resto, che io pensi questo di tutti voi», è il verbo phronein. «E` giusto, del resto, che io senta questo di tutti voi, perché vi porto nel cuore, voi che siete tutti partecipi della grazia che mi è stata concessa....». Il verbo phronein ritorna adesso a più riprese. Paolo sta sviluppando considerazioni parenetiche: «Se c'è pertanto qualche consolazione in Cristo, se c'è conforto derivante dalla carità, se c'è qualche comunanza di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione» (2,1) C’è qualcosa da dirci tra di noi, qualcosa da riconoscere come patrimonio comune, c’è un accordo di sentimenti tra di noi? E’ un’ipotesi che viene data per scontata: certo che c’è un accordo di sentimenti tra di noi! Il mistero della carità di Dio si è rivelato a noi proprio in modo tale da confermare questa comunanza, questa comunanza di sentimenti. E questo malgrado le distanze, le diversità culturali, malgrado gli scherzi delle situazioni nel variare dei tempi e degli spazi. Se c’è, e c’è, un accordo di sentimenti, «rendete piena la mia gioia» (2,2a). Paolo fa appello ai Filippesi perché rendano traboccante la sua gioia, gioia che è già è in lui, che già vive. Dice questo nel momento in cui sta rinviando Epafrodito. E come i Filippesi renderanno piena la gioia di Paolo? «Con l’unione dei vostri spiriti» (2,2b). Qui compare il verbo phronein: « con la stessa carità, con i medesimi sentimenti» (2,2c). Nello stesso versetto ritorna due volte in forme verbali diverse. «Rendete piena la mia gioia». E’ questa comunione di sentimenti che viene auspicata e invocata da Paolo. Per questo esorta i Filippesi: perché tra me e voi c’è una comunicazione di sentimenti. «Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso, senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri» (2,3-4).

il criterio dell’umiltà

Qui Paolo ci fornisce una indicazione determinante per quanto riguarda la comunanza di sentimenti su cui sta insistendo con tanto impegno. Si tratta di lasciarsi educare e di crescere e di contribuire alla educazione altrui perché tutti crescano, nella "umiltà", dice la nostra bibbia. In greco è tapeinophrosune. La tapeinophrosune è la piccolezza, ma, più esattamente ancora, è il "sentirsi piccoli", è il "pensarsi piccoli", è il sentimento della piccolezza. Non è una fuga evanescente dal mondo in una nuvola rosacea, ma un approccio al mondo che è immersione nel mondo, che viene filtrato dalla piccolezza.

Quando in italiano si dice "umiltà", spesso si fraintendono tante cose. Umiltà è una virtù ambigua, qualche volta. Qui l’umiltà non è la virtù di chi si trattiene in un ambito circoscritto, che sarebbe la sua cosiddetta piccolezza. L’umiltà, qui, è esattamente un approccio al reale, alla storia, impegno culturale. L’umiltà è il sentimento ispiratore della cultura. «Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso». Il problema è il rapporto con gli altri, con l’altro, con il mondo, con la storia. Io non sono umile perché mi sono rannicchiato in me stesso, non è quella l’umiltà di cui sta parlando Paolo. La piccolezza di cui parla è un apprezzamento del dono altrui: ciascuno consideri gli altri come superiori. E’ uno dei grandi insegnamenti di s. Francesco di Assisi. Francesco parlava di minorità. E’ un modo di entrare in rapporto con la realtà, là dove il dono altrui viene gratuitamente elargito, dove sempre e comunque c’è un dono per te, dove sempre e comunque tu sei chiamato a essere presente con tutta la tua responsabilità e con tutto il tuo impegno di obbedire al dono altrui.

Riguardo all’umiltà ci sono ambiguità possibili, così come con la minorità, l’obbedienza ecc. Ma tali ambiguità non possono esimerci dall’impegno di accogliere in pienezza l’invito di Paolo: «rendete piena la mia gioia». Non c’è altro modo per rendere piena la gioia di un carcerato come Paolo, se non nella condivisione della piccolezza, che, come testimonia Paolo, è esattamente il modo di accogliere la sovrabbondante ricchezza della misericordia di Dio: «ciascuno consideri gli altri superiori a se stesso».

per una cultura della piccolezza

Proprio qui potremmo concentrare la nostra ulteriore ricerca per quanto riguarda la cultura della piccolezza. La cultura della piccolezza significa esattamente cultura dell’accoglienza, del dono altrui apprezzato, ammirato, ricevuto, coltivato, valorizzato. "Fate obbedienza": è l’insegnamento di s. Francesco di Assisi, fate obbedienza ad ogni creatura, fino alla morte.

Non è una poesia, è una metodologia evangelica, è un sentimento ispiratore di cultura. Povertà è metodologia di approccio al reale, in tutte le sue componenti, in tutti i suoi aspetti. "Condividete i miei sentimenti", dice Paolo in carcere ad Efeso, in una situazione di piccolezza che fa di lui un obbediente ad ogni dono che gli è riservato, perché in tutto sempre e comunque c’è un dono. Senza cercare il proprio interesse, ma quello altrui.

E qui si inserisce il nostro inno, dal v. 5: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù». E’ un salto improvviso: non si tratta più di sentimenti condivisi tra cristiani, ma si tratta di condividere i sentimenti di Cristo. Cristo è considerato in quanto sentimentale, perché essere dotato di sentimenti fa tutto con il suo essere nella carne. E se il Figlio di Dio è nella carne, è dotato di sentimenti. Il suo essere nella carne fa si che noi siamo in comunione con lui.

Paolo sta rilanciando ai Filippesi il cantico liturgico preso da questo slancio così intrattenibile, perché è questa la situazione che egli sta vivendo. Nella sua realtà di carcerato si è reso conto come non mai prima di allora di essere in comunione con i sentimenti di Cristo. Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù.

la discesa

Ed ecco l’inno. Leggiamo il testo in due strofe, vv. 6-8 e vv. 9-11, che si compongono di tre versi ciascuna.

La prima strofa descrive un movimento in discesa, la seconda strofa un movimento di risalita.

Cristo Gesù: il soggetto è lui, «il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio» (2,6). Questo itinerario nella discesa viene descritto da Paolo non soltanto nei suoi aspetti di ordine fisico ( una discesa verso il basso), qui sono in questione i sentimenti. Questa discesa è una discesa nel sentimento: è il suo modo di sentire, è il suo modo di entrare in contatto, è il suo modo di entrare nel mondo, è il suo modo di stare dentro alla storia degli uomini. Questo è il sentimento di Cristo. E dunque, vedete, «non ha considerato suo diritto di conquista la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini». Qui spogliò traduce il verbo kenoun, svuotò se stesso.

«Svuotò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini». Si è venuto a trovare in una posizione servile, nella posizione dell’obbediente, di chi porta il carico, di chi è sottoposto. «Svuotò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini»: questo è il suo modo di stare la mondo, di fare cultura nella storia degli uomini: «Svuotò se stesso, assumendo la condizione di servo»: il servo che valorizza, che è preoccupato di valorizzare ogni iniziativa nella quale è coinvolto, per la quale è convocato. Questo è il suo servizio.

Nel terzo verso della strofa: «apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce». Questa aggiunta «e alla morte di croce», che rompe il ritmo, fa in realtà da perno nella composizione dell’inno e segna la svolta: è il punto di arrivo del movimento in discesa e il punto di partenza della risalita: la croce in quanto abbassamento, in quanto innalzamento, la croce in quanto prostrazione e in quanto esaltazione. E’ il perno attorno a cui tutto qui si sviluppa.

In questo verso l’umanità di Gesù è "umiliata", così traduce la nostra bibbia; in greco è usato il verbo tapeinoun, prima si era incontrato il sostantivo tapeinophrosune, "la piccolezza", il sentimento della piccolezza. E quindi "rimpicciolì se stesso", potremmo tradurre così. La piccolezza qui assume in sé la durezza del rifiuto, la pesantezza dello schiacciamento, il disgusto della condanna: «facendosi obbediente fino alla morte», morte di croce.

La strofa ci consente di rievocare la pagina dell’antico racconto biblico in cui leggiamo di quello che avviene nel giardino là dove Adamo e la compagna cedono alla tentazione del serpente perché vogliono essere come Dio. E adesso siamo dinanzi al rivelarsi di Dio mediante il Figlio che non ha voluto essere come Dio, si è fatto Adamo, si è fatto uomo, in modo da non voler essere Dio. Piccolo, obbediente, fino a subire la morte. Nel suo modo di valorizzare il dono che è in ogni creatura di questo mondo, ha subito la morte, ha subito il rifiuto, la condanna e il fallimento fino alla croce. E’ il servo allora nel senso messianico del termine, così come già preannunciato dal profeta Isaia.

la risalita

Nella seconda strofa c’è il ribaltamento della prospettiva. Cambia anche il soggetto, il soggetto è Dio. «Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome». Lui è disceso, Dio l’ha esaltato. Nel suo discendere fino alla morte, e alla morte di croce, Dio l’ha innalzato. Quel suo discendere è già innalzamento. Quel suo modo di essere svuotato in mezzo a noi e per noi, quel suo modo di essere piccolo al punto da obbedire alla nostra cattiveria umana che lo uccide, è già il suo trionfale innalzamento regale, perché «Dio lo ha esaltato dandogli il nome che è al di sopra di ogni altro nome». Il nome che Dio gli ha dato è il nome di Kurios, Signore. Dio gli ha dato il suo nome, Dio ha dato il suo nome a quel Figlio che è stato rifiutato come un verme inchiodato alla croce. «L'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome», il nome di Signore. In quel suo svuotamento noi riceviamo la rivelazione del Signore, in quel suo rimpicciolimento la Signoria di Dio. Come avviene questo? In forza del fatto che noi siamo chiamati a condividere i suoi sentimenti. E’ quello che Paolo sta sperimentando in prima persona nel carcere di Efeso, sul punto di essere condannato a morte. «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono di Cristo Gesù». E’ l’inno che Paolo sta citando: «perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra» (2,10). Noi lo chiamiamo per nome, lo chiamiamo Gesù. Chiamare qualcuno per nome implica in tutta la rivelazione biblica una relazione di vita. Noi usiamo comunemente questo linguaggio: "Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo", "Nel nome di Gesù", "Nel nome del Signore", "Nel nome di..." in relazione di vita con..., in rapporto a... Nel nome di Gesù in quanto siamo coinvolti nel suo modo di sentire, in quanto siamo ridotti in quella condizione di piccolezza che ci consente finalmente di condividere i sentimenti di Cristo, il suo modo di stare al mondo, il suo modo di stare nella storia, il suo modo di ergersi come Signore e re. E’ proprio nel "nome di Gesù" che, prostrati in adorazione, noi siamo ormai abilitati a ergerci per glorificare Dio nostro Padre.

«E ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre» (2,11). Questo rapporto di cuore con cuore, di vita con vita, di sentimento con sentimento, tra noi e Gesù, nella adorazione per cui siamo prostrati dinanzi al Kurios, già ci solleva in una comunione che glorifica il Padre. Noi siamo in grado attraverso questo itinerario di discesa e di salita di sperimentare quale vincolo di comunione ci stringa nella relazione con tutto l’universo. Ogni creatura nei cieli, sulla terra, sotto terra. Questa è l’ispirazione biblica remota, ma poi prossima, più che mai prossima, del cantico delle creature. Come può s. Francesco di Assisi cantare in quel modo tutte le creature in cielo, sulla terra, sotto terra, di ieri di oggi di domani, qui e dappertutto? Il buio la luce, la fatica il riposo, la vita la morte? Ogni ginocchio si pieghi nei cieli, in terra e sotto terra e ogni lingua proclami.

nel nome di Gesù, il Signore

C’è qui tutto l’universo con i suoi rumori, con il suo linguaggio, la varietà delle componenti, le voci ma anche i silenzi. Qui è più che mai opportuno ritornare a Is 45,23 ("Lo giuro su me stesso, dalla mia bocca esce la verità, una parola irrevocabile: davanti a me si piegherà ogni ginocchio, per me giurerà ogni lingua") e al salmo 19. Resta vero che proprio in quanto con Paolo anche noi siamo invitati ai sentimenti di Cristo Gesù che scopriamo di essere, nel nome di Gesù, cittadini del mondo, interpreti della storia umana e della sua evoluzione culturale a gloria di Dio Padre.

Nel nome di Gesù anche noi ci prostreremo, adoreremo il Signore e saremo insieme con Paolo testimoni gioiosi di una cultura di grazia e di redenzione, di conversione e di salvezza degli uomini per tutte le creature e per la storia intera.


Lectio divina


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La povertà 1997-98