Incontri di discernimento e solidarietà
 
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1997-1998 - LA POVERTA’

IL VESTITO

la nudità come trasparenza

Il tema della povertà interseca il cammino della rivelazione biblica in ogni sua tappa. Si può cominciare ad affrontarlo analizzando un aspetto che può apparentemente risultare periferico o addirittura estraneo al tema che abbiamo individuato: il vestito.

Il secondo racconto della creazione (Gen. 2) descrive come il Signore Dio plasma l’uomo dal fango della terra e poi soffia su di lui. L’uomo è un essere vivente e la donna viene presentata all’uomo dopo essere stata plasmata dalla costola estratta dal suo fianco. «Allora l’uomo disse: "Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta". Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne. Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna» (Gen. 2,23-25). Questo testo costituisce una introduzione essenziale alla nostra ricerca; quanto andremo scrutando attraverso diversi altri testi biblici ci ricondurrà puntualmente a Gen. 2,25. C’è la nudità dei progenitori. "Tutti e due erano nudi". Così si chiude il racconto della creazione. Questa nudità non è soltanto l'ultima notizia presente nel testo biblico sulla creazione dell’uomo; è anche una ricapitolazione di tutto il racconto. E' come se la creazione dei progenitori raggiungesse qui la sua visibilità più matura: sono nudi. Non è un dettaglio, ma una definizione della condizione creaturale che caratterizza i progenitori: creature, nudi in quanto creature, nudi in quanto interlocutori di Dio. L'Onnipotente ha preso l'iniziativa di intrattenere un dialogo con tutte le realtà create, un dialogo che assume una consistenza specialissima nell'incontro diretto a tu per tu e che assume un rilievo sacramentale là dove la creatura umana diventa essa stessa dialogo interpersonale: l'uomo e la donna, l'uomo e l'altra persona. Tutti e due erano nudi.

Questa nudità ricapitola l'essenziale dell’essere l’uomo creatura di Dio, ma anche tutto quel che riguarda l'essere uomo in relazione con il mondo. E’ una relazione trasparente, che conferma quella piena integrazione a cui allude il racconto. La nudità dell’uomo costituisce la promessa di un impegno, vale come premonizione di un contatto che consentirà alla creatura umana, nella sua nudità, di realizzarsi in continuità con tutte le altre creature di questo mondo. L'uomo è nudo.

Garanzia luminosa e benefica di una relazione senza intralci, senza scompensi, senza fraintendimenti. Erano nudi, non ne provavano vergogna.

Questa nudità è un valore, non è una menomazione, o un motivo di disagio e di fallimento. E' il valore della creatura umana aperta al dialogo con il creatore.

la nudità come vergogna

Questo dato viene posto all'inizio di tutto. Il racconto che segue in Gen. 3 ci costringe ad un passo in avanti nella nostra ricerca. In Gen. 3 leggiamo il racconto della caduta, del peccato, della ribellione. La misura che il creatore ha assegnato alla sua creatura è infranta. «Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi. Intrecciarono foglie di fico e sene fecero cinture». Il peccato fa tutt'uno qui con l'apertura degli occhi di entrambi i progenitori: si accorgono di essere nudi, di avere vergogna. "Intrecciarono foglie di fico e se fecero cintura". La nudità deve essere nascosta. Quella nudità che era prospettata come ricapitolazione di ogni valore adesso diviene un motivo di disagio, di tribolazione, di turbamento.

La vergogna allude a una disarticolazione di tutto l'equilibrio della creazione. Quell'equilibrio è drammaticamente infranto. E' la relazione della creatura umana con il creatore che viene adesso avvertita come problematica, faticosa, angosciante. La relazione con il mondo perde la trasparenza originaria, ma è soprattutto la relazione interpersonale che è compromessa. E' come se la creatura ripiombasse nello stato di solitudine in cui si trovava, quella solitudine di cui il creatore si era preso cura. «Non è bene che l'uomo sia solo. Gli voglio fare un aiuto che gli sia simile» (Gen.2,18). Adesso la creatura umana ritorna allo stato di solitudine, ma in modo ben più sconvolgente. Si può dire che soltanto adesso si determina l'esperienza della solitudine, nel senso di un fallimento che scava amarezza, risentimento, cattiveria nel cuore. L'uomo è solo. Non è un dato semplicemente di ordine empirico. Quella solitudine di cui si era preso cura il creatore, di modo che l'uomo non fosse più solo, ma uomo e donna, adesso gli si è incisa nell'intimo. E’ uno scompenso che condiziona tutto il suo essere, il suo vivere, il suo relazionarsi con Dio, con il mondo e con l'altra persona umana.

Si accorsero di essere nudi. Questa nudità è ora disgustosa; costringe l'uomo a constatare la sua realtà di creatura fallita, di creatura che non ha risposto alla propria vocazione. E’ una nudità che dev'essere nascosta. Per questo "intrecciarono foglie di fico e ne fecero cinture". Si vestono. Il vestito è il modo inventato dagli uomini per fuggire dalla vergogna. E' un modo per mettere riparo a quel disastro di cui fanno esperienza in maniera ineludibile; esperienza che deve essere coperta, ignorata. Lo strumento è piuttosto artigianale: una cintura confezionata con le foglie del fico. E tuttavia questa è soltanto la prima testimonianza di un tentativo che avrà ben altri riscontri, provocherà ben altri effetti, si esprimerà con un linguaggio tecnologico ben più geniale, fino a esprimere la capacità più raffinata di inventare soluzioni che dovrebbero sottrarre l'uomo alla vergogna. Il vestito che l'uomo si fabbrica ha questo scopo. Tutta la storia umana potremmo leggerla come evoluzione dell'abbigliamento: l'uomo si veste, si copre, si nasconde, nasconde quella nudità, fa la storia perché deve venire a capo di quel problema, ignorandolo, nascondendolo, rimuovendolo.

Tutta la rivelazione biblica è questa faticosa ricerca di un vestito. Il peccato deve essere risanato ignorandolo: il vestito, il cibo, la casa. C’è soprattutto tra il vestito e la casa dell'uomo una relazione interiore. Il vestito è una casa ridotta a misura del corpo e la casa è un vestito che assume la fisionomia di un modo di vivere, di interagire con gli equilibri dell'universo e della società umana. Il vestito, la casa, il cibo. Anche Gesù nel suo insegnamento, in alcune occasioni, fa riferimento a queste realtà: vi preoccupate di come mangiate? vi preoccupate di come vestite (cfr. Mt 6,25-34)? vi preoccupate della casa in cui abitate (cfr. Gv 14,2.23)? E' un unico grappolo di situazioni, di strutture esistenziali: il mio vestito e la mia casa; il cibo che mangio, con cui mi alimento e mi sostengo; il mio modo di relazionarmi, il mio modo di essere nel mondo e di essere coinvolto nella società umana, il mio modo di stare nella storia. Tutta la storia umana è organizzata per fabbricare quel vestito, quella casa, quel cibo.

Il linguaggio biblico non parla di povertà e di ricchezza in termini astratti, ma ci aiuta a entrare direttamente nel cuore della questione, partendo dalla concretezza di una situazione: il mio vestito.

la nudità come dominio

Questa pretesa di nascondere la nudità che accompagna fin dall’inizio l'esperienza del peccato allude a un atteggiamento che nel corso della storia umana assumerà ben altra fisionomia, quella di conquistare il mondo, gli altri. Se Adamo ed Eva si rivestono è proprio per evitare le conseguenze desolanti che sono proprie della solitudine nel rapporto interpersonale. Chi rimane nudo soccombe, dunque bisogna vestirsi per conquistare il mondo, per conquistare gli altri. Il vestito è lo strumento primigenio di cui l'umanità si dota per reagire alla propria nudità vergognosa: la si esclude coprendola. Il modo di coprire la nudità diventa il modo di ristabilire relazioni, non più secondo l'equilibrio originario, ma come strumento di conquista. Il vestito che l'uomo nel peccato si fabbrica diventa espressione di un atteggiamento di conflitto nei confronti del creatore. Non si può ancora dire che sia direttamente espressione di un rifiuto di Dio, ma la prospettiva si lascia delineare all'orizzonte. Quando il Signore Dio si presenta nel giardino alla brezza del giorno, l'uomo e la donna si nascondono in mezzo agli alberi del giardino. Ciò comporta la strumentalizzazione di tutti gli alberi del giardino che non sono stati piantati e dati all'uomo per nasconderlo. E’ un vestito, un modo, cioè, di cercare nelle situazioni di questo mondo l’artificio che renda impossibile a Dio avvicinarsi. La nudità dev'essere nascosta.

In queste pagine di Gen. 3 è davvero impostata tutta la problematica della nostra condizione umana: l'uomo si veste, attraverso il vestito esercita il potere di dominio sull'universo che lo circonda, in forza del vestito vanta diritti padronali nei confronti di chi è nudo e dunque dev'essere sottoposto. E’ la distinzione tra chi comanda e impone il proprio potere e lo schiavo, che è invece nudo e nudo deve rimanere.

il Dio che riveste

Alla fine di Gen. 3, dopo che il Signore Dio ha chiamato l'uomo e l'uomo ha risposto è scritto: v. 21 del cap. 3 : «Il Signore Dio fece all'uomo e alla donna tuniche di pelle e li vesti». Il racconto del peccato si chiude in modo sorprendente: adesso c'è un altro vestito; veniamo a sapere che c'è qualcuno che si prende cura della nudità umana, che constata come l'uomo non possa più farcela senza vestito, perché l'equilibrio predisposto inizialmente è stato sconvolto. Tutte le relazioni sono inquinate, l'uomo ha bisogno di un vestito. Adesso è il Signore Dio, proprio lui, che interviene per preparare un vestito che sia adatto a coprire la sua nudità. Non è un vestito rozzo, di poco conto, come la cintura fabbricata con le foglie di fico, sono tuniche di pelle. E così li riveste. Il v. 21 del cap. 3 è anch'esso programmatico. E' come se questo versetto anticipasse quello che sarà lo svolgimento di tutta la storia successiva, che è la storia di questo rivestimento. Dio si rivela come colui che è preoccupato di rivestire la nudità umana, quella nudità che gli uomini da parte loro vogliono nascondere, di cui non vogliono tenere conto. In realtà sono trascinati, proprio dalle conseguenze di quello che è avvenuto, nell'esperienza sempre più tragica di una nudità. Essa dev'essere ricoperta con fatica, ma costantemente rispunta in forme sempre più scandalose e vergognose. Il Signore Dio si rivela come colui che vuole vestire la nudità della creatura che porta in sé le conseguenze del peccato: la storia della salvezza è la storia di questo rivestimento. Nel nostro fallimento un altro vestito ci viene donato: dentro la storia umana la storia della salvezza; dentro la storia del vestito umano la storia di questo rivestimento ad opera di Dio.


il banchetto di Lazzaro


Il dinamismo dell’uomo ci aiuta a considerare come procede nella sua pretesa di fabbricarsi un vestito per nascondere la sua nudità. La rivelazione biblica dimostra che questo risultato è impossibile. Il risultato è denunciato in modo sempre più preciso e travolgente nel corso delle pagine bibliche: più l'uomo si dà da fare nel fabbricarsi il vestito, più si riduce in stato di nudità. La ricchezza dell'uomo lo rende miserabile. Non c'è una definizione di ricchezza in termini quantitativi o qualitativi, c’è l'invito a cogliere un dinamismo: la ricchezza è quel modo di stare al mondo per cui là dove ci si vuol vestire ci si scopre sempre più nudi.

C'è un testo famoso nel vangelo secondo Luca che chiarisce bene questa situazione: «C'era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente» (16,19-31). Nella parabola è importante il vestito: "vestiva di porpora e di bisso". «Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe». Il ricco è vestito e non si accorge di quel che gli succede accanto; non si accorge di Lazzaro, che pure giace alla sua porta. Anche Lazzaro è vestito, vestito di piaghe, coperto di piaghe. Un vestito ! Succede una cosa strana: la ricchezza del ricco che banchetta lautamente è inutile, è dimostrazione della sua vergognosa inconcludenza; viceversa quel mendicante di nome Lazzaro, coperto di piaghe, offre le sue piaghe e i cani gliele leccano. E’ una immagine che ritorna spesso nella tradizione agiografica cristiana: un uomo ferito offre le piaghe al cane; almeno un cane può ricavare da quella situazione terribile un beneficio: qualche umore, qualche secrezione, un segno di solidarietà. Mentre là dove il ricco banchettava lautamente non c'era una briciola di pane, il mendicante Lazzaro, rivestito di piaghe, dà qualcosa di suo ad un cane.

Nel corso della rivelazione biblica questa contrapposizione dei due dinamismi, ricchezza e povertà, che nella parabola di Luca appare in modo così limpido, viene evidenziandosi man mano. Nel libro di Ezechiele, cap. 16, viene formulato una specie di spaccato riassuntivo di tutta la storia della salvezza. Il rapporto tra Dio e il suo popolo è rappresentato attraverso l'immagine di una giovane, prima bambina, poi adolescente, poi donna adulta. E' il popolo di Dio. Il Signore si prende cura di questa creatura fino al momento in cui, malgrado tutte le testimonianze di affetto (è stata rivestita, ingioiellata), si denuda per prostituirsi. Più si impossessa di quanto le è stato donato e più si ritrova squallida nella nudità. (Ez 16).


il mantello dello sposo


Più gli uomini si arrogano il diritto di vestirsi - ossia di dominare il mondo e di fare anche di Dio un oggetto di conquista - tanto più irreparabilmente scivolano in uno stato di squallore vergognoso: sono nudi. Al dinamismo della ricchezza - la ricerca di un vestito che riduce in nudità - si contrappone un altro dinamismo. Si è detto che potremmo leggere la storia della salvezza come la storia del rivestimento donato da Dio; dove il soggetto è proprio lui, il Signore onnipotente, che si prende cura della nudità umana per vestirla. Il Signore sa bene che l'uomo è nudo e che ha bisogno di essere vestito, perché segnato dalle conseguenze del proprio peccato. Tutta la storia della salvezza porta con sé una pedagogia che esprime la premurosa attenzione di Dio per fornire la creatura umana di un vestito adatto. Adatto alla nudità. Il Signore onnipotente guarda la nudità della creatura umana e non arretra, non rimane sgomento, non distoglie lo sguardo, quale che sia il disgusto vergognoso che quella nudità porta in sé. In Dt 8,4 dice il Signore al popolo d'Israele : "Vedi ti ho guidato attraverso il deserto". Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi 40 anni. Sono io che mi sono preso cura del tuo vestito, perché non disprezzo la tua nudità, anzi sono io che mi preoccupo della tua nudità; la conosco. La tua nudità è il mio assillo.

E’ un atteggiamento che ritroviamo anche in Gesù: perché vi preoccupate di quello che dovete mangiare e di come vi dovete vestire ? Guardate i gigli del campo, guardate gli uccelli del cielo. Sono io che mi preoccupo della vostra nudità.

La rivelazione biblica offre una messe davvero straordinaria di riferimenti al vestito: il vestito del profeta, il vestito del sacerdote, il vestito del re. In ciascuno di questi casi il vestito assume una particolare valenza pedagogica che riguarda il vestito, il modo di coprire la nudità, il modo di intervenire di Dio che si prende cura della nudità umana. Per questo il profeta è vestito, il sacerdote è vestito, il re è vestito, con specificazioni che non rispondono a criteri estrinseci ma al linguaggio della misericordia di Dio che vuole guarire la malattia che affligge il cuore dell’uomo. Questa malattia è la vergogna, la vergogna dell'uomo che è nudo e non vuole essere nudo.

Nella rivelazione biblica c’è il vestito dell'uomo e il vestito della donna, il vestito per il lavoro e il vestito per la festa, il vestito dello sposo e il vestito della sposa. Quanti richiami nell'AT e nel NT all''incontro tra lo sposo e la sposa! C’è un testo esemplare a questo riguardo, nel libro di Rut: l'incontro nuziale tra Booz e Rut è siglato dal gesto di avvolgere con il mantello la sposa. Sotto lo stesso manto! Il vestito non è più espressione di una volontà di conquista, non è più strumento di dominio, non è più predisposto a modo di un confine che segna le distanze per difendersi o per aggredire. Il vestito diventa lo strumento che realizza un gesto di accoglienza, uno spazio accogliente. Il vestito diventa figura dell’ospitalità. E’ l’invocazione a Gerusalemme: allarga la tenda, allarga lo spazio, un altro lembo del mantello, e ancora di più! Il vestito si amplia, non serve a definire se stessi; realizza una rapporto che non conquista, non inchioda, non artiglia, ma avvolge, contiene nella consapevolezza di una sorte comune.


la nudità del Figlio


Dio si rivela attraverso la storia della salvezza fino all'incarnazione del Figlio. Esiste un altro vestito: la nudità del Figlio. Il vestito è proprio la nudità del Figlio. E’ quell'altro vestito che il Signore onnipotente, fin dall'inizio aveva progettato per noi, fin da quando donò ai progenitori un abito di pelle. E' l'abito rivestito da Giovanni Battista, abito programmatico per Giovanni sulla soglia del NT, sulla soglia del giardino. Il Figlio è nudo. Nella pienezza dei tempi Dio si rivela a noi attraverso la nudità del Figlio: le sue vesti sono distribuite, giocate ai dadi, lui è nudo, pende dalla croce ed è nudo. La vergogna della nostra nudità umana è vergogna che egli fa sua dinanzi al Padre.

E’ proprio in questo modo che la nudità del Figlio diventa vestito per noi: tra la sua nudità e la nostra nudità finalmente scoperta, dichiarata, manifestata, tra la sua nudità e la nostra nudità, si delinea la realtà nuova di un incontro di comunione. Il vestito è la nudità del Figlio che realizza un evento di comunione con la nostra nudità; è la nostra nudità che viene svelata e coperta, che viene sbugiardata e rivestita. Alla nostra nudità di creature svergognate è attribuita la dignità del Figlio.

Nel Vangelo secondo Marco c’è il personaggio di Bartimeo, il mendicante cieco, che sulla strada di Gerico invoca il nome di Gesù e poi butta via il mantello e rimane nudo e corre dietro a Gesù. Gesù si ferma appositamente: tra Gesù che non procede nel suo viaggio e quel mendicante cieco si realizza un rapporto di solidarietà, di una intimità definitiva. Quel mendicante è nudo, getta via il mantello, va incontro a Gesù e lo accompagna, ed è al suo seguito. Il Figlio si è fatto servo, è esposto nella nudità della vergogna umana che assume come sua. La nostra nudità vale come sacramento di comunione con lui; la nostra povertà è segno della nostra definitiva partecipazione alla sua figliolanza divina.

Quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo, dice Paolo in Gal 3,25. E’ un versetto su cui la tradizione orientale ritorna con una insistenza martellante, incessantemente: quanti siete stati battezzati in Cristo siete stati rivestiti di Cristo. Ormai nulla e nessuno più ci separerà dall'amore di Dio che si è manifestato a noi nella carne gloriosa del Figlio fatto servo e ora per sempre vittorioso. Nella lettera ai Romani 8,35: "Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo ? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità ?" Niente affatto. Ormai è proprio la nudità che realizza in modo definitivo ed efficace, per ogni uomo nudo, la comunione con la Pasqua gloriosa del Figlio di Dio.

La nostra ricchezza fa di noi degli sventurati, la nostra nudità è divenuta sacramento di beatitudine.



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La povertà 1997-98