Il generale prussiano Carl von Clausewitz nel suo notissimo libro Von Kriege (Della Guerra), secondo una magistrale interpretazione di Raymond Aron1, ha colto con acume le tre fondamentali connotazioni della guerra moderna: essa è violenza; ha un esito spesso imprevedibile; è calcolo razionale. Di qui la famosa e famigerata formula: "la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi".
Occorre, tuttavia, preliminarmente, fare una doverosa precisazione di carattere metodologico, onde evitare che si cada nella facile, ricorrente e, in fondo, deresponsabilizzante via di fuga di ipostatizzare il fenomeno della guerra. Ha scritto uno specialista della materia. Luigi Bonanate, studioso noto di relazioni internazionali: "le guerre della storia, pur appartenendo tutte allo stesso genus, si manifestano in una pluralità di situazioni contingenti che possono essere ricondotte a diverse e specifiche configurazioni locali, determinate dalla loro struttura organizzativa; le guerre dell'età delle città-stato greche sono diverse da quelle del mondo moderno fondato su regimi assolutistici e patrimonialistici, le quali ancora divergono da quelle dell'età dell'esplosione del principio nazionale. Tutte queste, a loro volta, sono diverse dalla guerra totale sperimentata nel XX secolo e, ancora di più, da quella tanto paventata, ma mai combattuta (finora), che è la guerra nucleare"2.
Nel primo caso la più famosa è certamente quella di Troia, cantata-condannata nell'Iliade. Uso quest'espressione perché sua è la definizione rolemos kakos. Tre secoli dopo Pindaro con un noto verso riprenderà e perfezionerà il concetto e lo stato d'animo: Glukus de polemos apeeirosin. Erasmo da Rotterdam lo utilizzò, tradotto in latino (Dulce bellum inexpertis come titolo di un suo scritto, del 1516, che costituisce uno degli incunaboli dell'elaborazione pacifista.3
Nel secondo caso è sufficiente il rinvio alla Guerra dei trent'anni, conclusasi nel 1648, con la pace di Vestfalia, che insanguinò e devastò l'Europa continentale, riduttivamente catalogata come una guerra di religione, che ebbe grandi ripercussioni geopolitiche, economiche e persino demografiche.
Già nei due secoli precedenti si era conclusa l'età del ferro della guerra, che durava da più di due millenni, a seguito di due grandi innovazioni: una di carattere politico-isititutzionale, vale a dire l'affermarsi dello Stato moderno, l'altra di carattere tecnologico-militare, vale a dire l'invenzione della polvere da sparo, o meglio, la sua utilizzazione a fini bellici. Ne era conseguita una crescita esponenziale dell'ampiezza e dell'intensità della guerra.
Una stimolante riflessione al riguardo è stata sviluppata dal recente bellissimo film di Ermanno Olmi, il mestiere delle armi, in cui si ricostruisce, con la potenza evocativa e suggestiva delle immagini in movimento, la vicenda tragica e disperata di Giovanni dei Medici, detto delle Bande nere, che, per conto di papa Clemente VII, tenta di resistere ai Lanzichenecchi di Carlo V. A nulla vale il valore individuale del capitano di ventura pontificio e la sua capacità strategica nella guerra per bande, di fronte alla messa in campo da parte dei Lanzichenecchi delle nuove armi da sparo: centrato da un falconetto (una piccola bombarda), muore dopo una breve e penosa agonia. L'interrogativo angoscioso e profetico posto esplicitamente nella parte finale del film è: non occorre, a questo punto, mettere al bando le nuove armi che uccidono a tradimento e rendono irreversibilmente la guerra ancora più sanguinosa e insensata, deprivata, oramai di qualsivoglia connotazione eroica?4
Venendo alle soglie della modernità contemporanea con la Rivoluzione francese e la successiva epopea napoleonica, in cui si persegue un ambiziosissimo progetto di potere personale, ma anche l'illusione di esportare in tutta l'Europa "sulle canne delle baionette" le idee di liberté, égalité e fraternité (quest'ultima per il vero tenderà rapidamente ad essere accantonata nel prevalente universo liberalborghese e ad essere nel tempo rilanciata e propagandata dal socialismo e dal cristianesimo sociale nelle variegate pratiche sociali dal basso della solidarietà, del self-help, del mutuo soccorso ecc.), la novità è costituita non tanto da ulteriori significative modificazioni delle armi, quanto dall'introduzione della leva di massa, dei cittadini in armi, attraverso lo strumento della coscrizione obbligatoria: "Sono coscritto e mi convien marciare" recita una canzone popolare italiana del primo Ottocento.
E' l'idea di nazione a contrappuntare nel secolo XIX, nonostante la Santa Alleanza e la politica e la cultura della Restaurazione, l'evolversi delle relazioni internazionali e delle guerre (la storia che s'insegna e si apprende nei manuali, a partire da quelli delle elementari è sempre tutta cadenzata sulle guerre): sia che si tratti delle ambizioni di Stati forti e già strutturati a espandere i propri confini e a costituire vasti possedimenti coloniali, trasformandosi in questo modo da nazioni in imperi (il termine imperialismo non è, come si crede un'invenzione di Lenin, bensì dell'economista liberale inglese John Atkinson Hobson)5, sia che si tratti delle aspirazioni di nazionalità oppresse a costituirsi in Stati indipendenti e unitari. Un caso esemplare è costituito dalle guerre d'indipendenza dell'Italia, ma variegati altri casi si hanno, con esiti non sempre fortunati, nell'Europa orientale e balcanica suddivisa tra Impero asburgico, Impero zarista e Impero ottomano. Negli ultimi decenni la ricerca storica più avveduta discute sull'invenzione della nazione, se esistano prima le nazioni o il nazionalismo, per riprendere il titolo di un libro famoso dello storico ebreo-tedesco, naturalizzato inglese, Eric Hobsbawm.6 Nel primo Ottocento è, invece diffusa e interiorizzata, soprattutto nei ceti borghesi e intellettuali, l'idea che, una volta costituitisi in Stati indipendenti e sovrani, tutte le nazioni (il discorso vale solo per il Vecchio Continente e la sua propaggine nel Nuovo Mondo, essendo ancora dominante una visione eurocentrica), sconfitti e frantumati i mostruosi imperi multinazionali e multietnici, le guerre non avrebbero più avuto ragione di esistere tra nazioni appagate e affratellate. Giuseppe Mazzini nella sua riflessione e nel suo insegnamento, a partire dallo statuto stesso della Giovane Europa, andava oltre, fino a scorgere al termine di questo processo difficile, ma ineluttabile, lo scenario di una kantiana pace perpetua7. I ricorrenti conflitti balcanici, ma soprattutto la sanguinosa guerra franco-prussiana del 1870 e la stessa disastrosa aggressione italiana all'Abissinia del 1896, fortemente voluta dall'exmazziniano-protofascista Francesco Crispi, smentirono clamorosamente questa convinzione-illusione.
Gli effetti e le conquiste della rivoluzione industriale, la prima e, ancor più, la seconda, quella dell'acciaio e della chimica, piegati alle esigenze militari, modificano nel profondo la realtà della guerra, destinata a diventare parte integrante e avanzata della modernità. Si innova la tecnologia delle armi da sparo (fucili, moschetti, cannoni e, in un secondo momento, la micidiale mitragliatrice). Le veloci e sempre più corazzate navi da guerra hanno una crescente potenza di fuoco: la cosiddetta politica delle cannoniere è una realtà corposa dei rapporti d'intimidazione, di prevaricazione e di dominio delle potenze nei confronti d'interi continenti. Il chimico e ingegnere svedese Alfred Nobel costruisce un vero e proprio impero industriale e finanziario con l'invenzione della dinamite (è quello dei premi nobel, compreso quello per la pace, ironia della storia!).
La produzione d'armamenti è il settore trainante e dominante dell'industria siderurgica non a caso sostenuta e protetta dagli Stati che, negli ultimi decenni dell'Ottocento, optano per politiche protezionistiche. Gli apparati militari, che assorbono percentuali elevate del bilancio pubblico, costituiscono negli establishment e nei blocchi dominanti il collante dei gruppi più ostili all'allargamento del suffragio elettorale, alla crescita delle prerogative del parlamento e alle prime conquiste sociali del movimento operaio organizzato e, di contro, più favorevoli a una moderna politica autoritaria e alla corsa agli armamenti e all'espansione coloniale.
In questo senso, non solo sulla base del facile senno di poi della tragedia disvelatrice della Grande Guerra del 1914-18, si comprende quanto fosse infondata, ideologica, l'ottimistica previsione positivista, nei trent'anni del cosiddetto concerto europeo senza guerre, dello sviluppo lineare e inarrestabile del progresso, vale a dire, della produzione, della cultura e della democrazia.
E' significativo allora che l'impegno per la pace sia presente nel magistero di Leone XIII, il grande pontefice, che con la "madre di tutte le encicliche sociali", la Rerum Novarum del 1891, con coraggio e determinazione, avvia il ralliement della Chiesa con la modernità, a partire dalla questione più drammatica e emblematica, quella sociale.
Nell'allocuzione ai cardinali del 10 febbraio 1889 e in forma più solenne nel documento Praeclarae Gratulationis del 10 giugno 1894, si avanzano forti perplessità sul semplice possesso di armi, prima ancora del loro uso.
Traspare in fondo l'idea che la pace non può essere solo, come già Hobbes aveva cinicamente sostenuto, come un periodo in cui la guerra non è effettivamente combattuta né imminente. Non pace negativa, ma positiva, interiorizzata, non semplice aspirazione d'idealisti, ma programma di governo desiderabile e praticabile, che implica la costruzione di un ordinamento sociale e politico percepito dai più come giusto.
Vale la pena ricordare, anche se non sono neppure pensabili rinvii diretti, che l'universo socialista, da quello utopista proudhoniano a quello marxiano, era da decenni impegnato nella lotta contro la guerra e il militarismo, a partire dalla solidarietà operaia e dall'internazionalismo proletario, senza che fosse sciolto, nella teoria, ancor più che nella pratica, il nodo della violenza rivoluzionaria vindice di torti subiti e levatrice di un mondo senza sfruttamento e senza oppressione. Leone Tolstoj nel 1893 aveva pubblicato il libro Il Regno di Dio è in voi che conteneva già i punti essenziali del suo insegnamento sulla pace e sulla non violenza, a partire dalla radicale pratica del comandamento non uccidere.
Ho fatto questo riferimento perché, a partire da Leone XIII, sul terreno politico-sociale, come ha scritto Hilari Raguer in uno stimolante saggio del volume Chiesa e papato nel mondo contemporaneo, il messaggio cristiano non può sottrarsi al confronto con le ideologie, pur correndo il rischio di degenerare anch'esso in ideologia.8 Il rischio opposto era quello già occorso a Bossuet con il suo noto saggio Politique tirée des propres paroles de l'Écriture sainte (1709), che la critica ha scoperto essere tratta essenzialmente, invece, dal Leviatano di Hobbes.
Giacomo Della Chiesa, nel giro di tre mesi, nel 1914, fatto cardinale e poi, con il nome di Benedetto XV9, eletto papa il 3 settembre, a guerra già iniziata, a causa della quale anche la sua incoronazione si svolse in una cerimonia privata dentro la Cappella Sistina, con la stretta collaborazione del suo segretario di Stato, cardinale Pietro Gasparri, deve fare i conti con la tremenda inedita realtà del conflitto che i contemporanei chiamarono Guerra europea o, più semplicemente, Grande Guerra10. La sua prima enciclica, Ad Beatissimi Apostolorum Principis, pubblicata il 1° novembre 194, è dominata dalla tragedia della guerra, di cui si ricercano le cause religiose e morali, ma anche sociali e economiche. Nel secondo paragrafo il nuovo pontefice registra che l'Europa in guerra offre lo "spettacolo il più tetro forse ed il più luttuoso nella storia dei tempi". Le "gigantesche carneficine" in atto sono la conseguenza del fatto che "nazioni grandi e fiorentissime sono ben fornite di quegli orribili mezzi che il progresso dell'arte militare ha inventati". "E intanto - si legge sempre nello stesso paragrafo - mentre da una parte e dall'altra si combatte con eserciti sterminati, le nazioni e le famiglie, gli individui gemono nei dolori e nelle miserie pedisseque della guerra, si moltiplica a dismisura, di giorno in giorno, la schiera delle vedove e degli orfani, languiscono, per le interrotte comunicazioni, i commerci, i campi sono abbandonati, sospese le arti, i ricchi nelle angustie, i poveri nello squallore, tutti nel lutto".11
Tre anni dopo, il 1° agosto del 1917, in una Nota ai capi dei popoli belligeranti, ricorda che fin dagli inizi del suo pontificato "fra gli orrori della terribile bufera che si è abbattuta sull'Europa", si è rigorosamente attenuto ad una linea di "perfetta imparzialità verso tutti i belligeranti", nello "sforzo continuo di fare a tutti il maggior bene [ ... 1 senza distinzione di nazionalità o di religione" e infine nella "cura assidua manifestata nell'indurre «i popoli ed i loro capi a più miti consigli".12
Nella parte propositiva, la nota riprende i sette punti del promemoria, noto come Minuta Pacelli, elaborato dal giovane e già prestigioso diplomatico della Santa Sede, da poco nunzio in Baviera: disarmo controllato e bilanciato; arbitrato internazionale obbligatorio; libertà dei mari; reciproca condonazione dei danni di guerra; evacuazione di tutti i territori occupati e ripristino della piena indipendenza del Belgio; soluzione in "spirito di equità e di giustizia" delle questioni relative alle frontiere franco tedesche e italo austriache, da una parte, e dall'altra a quelle concernenti l'assetto dell'Armenia, degli Stati Balcanici e della Polonia. La parte più nota di questo documento è l'appello finale, fermo quanto accorato, rivolto a coloro che hanno in mano le sorti dei popoli belligeranti per la "cessazione di questa lotta tremenda, la quale ogni giorno di più, apparisce inutile strage".
La definizione della guerra come "inutile strage", espressione meno forte ma indubbiamente più efficace di quella di "gigantesche carneficine", già usata nella dianzi citata prima enciclica Ad Beatissimi Apostolorum Principis, è voluta e mantenuta da Benedetto XV contro il parere del suo stesso segretario di Stato, cardinale Pietro Gasparri. Essa ha una grande risonanza a livello di opinione pubblica e colpisce nel profondo l'immaginario collettivo; anche secondo gli storici come Giorgio Candeloro13, che pur vedono nella nota di Benedetto XV solo un intelligente e tempestivo tentativo di offrire un'ancora di salvezza agli Imperi Centrali attraverso la proposta di una soluzione negoziale senza vincitori né vinti, contribuisce a fare crescere la consapevolezza di massa delle atrocità e delle assurdità della guerra, nonché l'aspirazione per la pace.
Per il vero già Pio X ed il suo segretario di Stato, cardinale Rafael Merry del Val avevano nei primi due mesi di guerra, nel luglio agosto del 1914, assunto una posizione di neutralità fondata sulla speranza di poter circoscrivere la guerra al conflitto locale con l'irrequieta Serbia e di non compromettere in un conflitto più vasto il ruolo di antemurale cattolico e di modello di società ordinata e gerarchica dell'Impero austro ungarico, in una linea di sostanziale continuità, come ha rilevato Federico Chabod, con la tesi risorgimentale di Cesare Balbo dell'inorientamento dell'Austria14.
Questa illusione dura però poco tempo e già nella sua prima enciclica Ad Beatissimi Apostolorum Principis, Benedetto XV constata che "nazioni grandi e fiorentissime" sono coinvolte in "gigantesche carneficine" e individua le cause della guerra nella "mancanza di mutuo amore fra gli uomini", nel "disprezzo dell'autorità", nella "ingiustizia dei rapporti fra le varie classi sociali", nel "bene materiale fatto unico obiettivo dell'attività dell'uomo".
In un'allocuzione del gennaio 1915 egli esprime il fondamento della neutralità della Chiesa; pur rivendicando a sé come pontefice il diritto di essere summus interpres et vindex legis aeternae,precisa che per la Santa Sede non è né opportuno, né utile farsi coinvolgere nelle opposte ragioni del conflitto, tanto più che esso si configura non come dimicatio ma trucidatio. Di qui, ad esempio, la mancata condanna della brutale invasione del Belgio che suscita forti ed espliciti malumori nell'episcopato francese. Una posizione di rigorosa neutralità (nullius partis) è vista come presupposto e condizione indispensabile per portare avanti vaste iniziative umanitarie (assistenza a prigionieri, deportati e profughi, scambio di feriti gravi, ricerca di dispersi), per intraprendere passi diplomatici al fine di circoscrivere il conflitto e ripristinare la pace.
Vi sono poi le motivazioni interne: nella guerra sono coinvolti due terzi dei cattolici del tempo: 124 milioni dalla parte dell'Intesa e 64 milioni dalla parte degli Imperi Centrali. Una posizione di neutralità è la prima condizione per non pregiudicare non solo la causa della pace, ma la stessa unità della Chiesa, per l'antagonismo, esasperato dalla propaganda, dei fedeli dei due schieramenti. Il protrarsi e l'accentuarsi del conflitto distoglie dal proprio ministero sacerdoti e religiosi e può ostacolare la direzione centralizzata della Chiesa.15
In questa luce le pressioni diplomatiche, dirette ed indirette, per convincere il governo italiano a non entrare in guerra mirano indubbiamente a ostacolare un'ulteriore estensione del conflitto ma anche ad evitare che la Santa Sede sia costretta ad operare all'interno di un Paese belligerante, col rischio che la sua azione internazionale, essendo ancora aperta la Questione romana16, debba sottostare a limiti o a condizionamenti.
Per il vero, però, l'Italia, anche se nell'articolo 15 dei Patto di Londra chiede e ottiene da Francia, Gran Bretagna e Russia di escludere qualsiasi rappresentante della Santa Sede dalle future trattative di pace, in linea di massima ottempera agli obblighi fissati unilateralmente dalla Legge delle Guarentigie per garantire il normale funzionamento del governo centrale della Chiesa, anche se però I`Osservatore Romano si deve attenere alle disposizioni della censura italiana e i diplomatici accreditati presso la Santa Sede debbono trasferirsi in Svizzera.
Nel complesso, però, il prestigio internazionale della Santa Sede cresce e Paesi come la Gran Bretagna e l'Olanda, per la prima volta, allacciano con essa relazioni diplomatiche. Sul terreno più strettamente ideale e religioso aumenta la presa della Chiesa sulla società civile, in quanto la guerra sembra dimostrare il tragico fallimento dei valori e dei miti liberalborghesi della scienza, del progresso e dell'individualismo e costituire un'epocale occasione di espiazione e di risveglio religioso.17
Per quanto concerne, invece, i cattolici dei vari Paesi schierati in guerra e segnatamente della Francia e della Germania, si assiste ad un'adesione massiccia ed entusiasta allo sforzo bellico, che ha come conseguenza il riconoscimento definitivo del loro ruolo nazionale e la trasformazione da forza di opposizione a forza di governo, che si manifesta già nella partecipazione di esponenti cattolici ai governi di union sacrée.
In Italia si giunge ad un esito non differente, ma a partire da una realtà più articolata che comprende tre distinte tendenze: a destra gli intransigenti nostalgici del potere temporale, che hanno in l'Unità cattolica l'organo di stampa più noto ed esemplare, che non celano le simpatie per l'Austria, baluardo della religione cattolica e dei principi d'ordine e, contemporaneamente, l'avversione per la Francia, culla della Massoneria e della rivoluzione; a sinistra i neutralisti come Guido Miglioli, che si fanno interpreti del pacifismo di fondo delle masse contadine; al centro la maggioranza del cattolicesimo organizzato che ha già sperimentato posizioni interventiste durante la guerra di Libia, che teme di essere confusa con i socialisti ed è preoccupata di non apparire antinazionale. La componente clericomoderata, che dispone tra l'altro del Trust dei giornali cattolici18, già profondamente coinvolta nella gestione del potere economico ma anche politico, per bocca del presidente dell'Unione popolare, conte Giuseppe Dalla Torre, fin dal gennaio 1915, ha sostenuto la distinzione fra la neutralità assoluta della Santa Sede e quella condizionata dei cattolici italiani. Neutralità condizionata che sfocia, sia pur dopo incertezze e compromessi, nell'interventismo convinto: dopo la caduta del governo di Antonio Salandra è significativo, da questo punto di vista, l'ingresso nel secondo gabinetto di guerra di Paolo Boselli, dell'esponente cattolico Filippo Meda, come ministro delle Finanze.
La stessa reintroduzione in Italia, come in Francia, dei cappellani militari nella struttura gerarchica dell'esercito, al di là della loro opera di predicazione e di assistenza spirituale, è vista come sanzione del ruolo ufficiale della religione e del riconoscimento della sua funzione d'ordine e disciplina durante la guerra ma anche e soprattutto per il periodo successivo.19
Anche dopo l'ingresso in guerra dell'Italia, la Santa Sede, se da una parte evita accuratamente di impegnare il clero e le organizzazioni del laicato cattolico in iniziative di propaganda o mobilitazione pacifista, dall'altra, però, porta avanti un intenso e riservato lavorio diplomatico per ricercare soluzioni di compromesso. Senza successo, come si è già notato, anche nel caso della missione Pacelli. La nota dell'agosto di Benedetto XV è da una parte l'esito finale di questo processo, ma dall'altra il tentativo di rivolgersi oltre che ai capi dei popoli belligeranti, direttamente all'opinione pubblica internazionale.
Non a caso il momento scelto è quello che coincide con un apparente equilibrio delle forze, che sembra escludere una soluzione militare. Un'iniziale guerra di movimento si è, infatti, velocemente mutata in guerra di logoramento, che immobilizza nelle trincee fortificate milioni di soldati. Le tattiche della diversione e dello sfondamento, nonostante immani perdite di mezzi e di uomini, non sortiscono esiti dirompenti e provocano anzi alcune rivolte spontanee degli eserciti contro la guerra e manifestazioni e proteste popolari di ispirazione socialista nelle città, da Torino a Berlino, a Leningrado.
La conseguenza è che nei diversi Paesi si rende più ferreo il controllo, oltre che dei fronte vero e proprio, anche della società civile e della produzione, il cosiddetto fronte interno, con governi sempre più accentuatamente, autoritari e militarizzati: sono ben 65 milioni, alla fine del conflitto, i soldati mobilitati e cominciano a comparire sui campi di battaglia le nuove future terribili armi dell'aeroplano e del carro armato. La definizione di "inutile strage" indispettisce governi e autorità militari perché, per la sua essenzialità ed immediatezza, non può non trovare consenso e riscontro nell'esperienza quotidiana di milioni di donne e di uomini travolti dagli sconvolgimenti bellici.20
Le cifre finali sui costi umani della Grande Guerra, da sole, costituiscono una conferma sconvolgente delle dimensioni della strage: dieci milioni di morti e circa venti milioni di feriti, per non contare i milioni di morti causati da successive epidemie e carestie e senza che peraltro, il nuovo assetto postbellico garantisca una pace stabile e duratura.
Il pontificato di Achille Ratti-Pio XI (febbraio 1922-marzo 1939) si dipana tutto nel periodo comunemente detto di "crisi tra le due guerre mondiali"21. Il ventennio compreso tra la fine della Prima guerra mondiale e l'inizio non certamente imprevisto della Seconda, è condizionato dalle tensioni internazionali che la pace imposta di Versailles non ha sanato, ma anzi rinfocolato, a livello d'opinione pubblica, oltre che di cancellerie, specie per le pesanti condizioni imposte alla Germania sconfitta.
La Rivoluzione bolscevica e la costruzione autoritaria dello Stato sovietico, con la modernizzazione forzata, imposta da Stalin, della sua economia e della sua irregimentata società civile ha conseguenze notevoli anche sulle dinamiche politiche di altri paesi.
La grande crisi del 1929, a partire dal crollo della borsa di Wall Street, con la lunga depressione economica che ne conseguì, fece cadere il mito del mercato autoregolato22 e parve segnare anche la fine del capitalismo.
L'affermarsi del Fascismo in Italia, del Nazismo in Germania, nonché di variegati altri regimi autoritari, dalla Spagna di Francisco Franco al Giappone, comporta non solo il rovesciamento dei precedenti assetti democratico-parlamentari, ma anche la consapevole, ma inarrestabile, deriva verso un nuovo spaventoso conflitto mondiale.
Pio XI, che aveva avuto una breve, ma intensa esperienza diplomatica come nunzio a Varsavia, capitale della Polonia finalmente giunta ad una tormentata indipendenza, nell'enciclica Ubi Arcano Dei del 23 dicembre 1922 scrive: "La pace, certo, fu sottoscritta in un solenne conclave tra i belligeranti dell'ultima guerra. Questa pace, ad ogni modo, fu solo scritta nei trattati. Non fu ricevuta nei cuori degli uomini, che ancora coltivano il desiderio di combattersi l'un l'altro e continuano a minacciare in modo gravissimo la quiete e la stabilità della società civile". Una pace di conseguenza "illusoria, scritta solo sulla carta": Quella vera, la Pax Christi in regno Christi si sarebbe potuta stabilire solo all'interno della "vera comunità delle nazioni" offerta dalla Chiesa cattolica, che "è parte di ogni nazione e allo stesso tempo è al si sopra delle nazioni". Di qui la scarsa considerazione nei confronti della "di quella che è chiamata Società delle Nazioni". Quest'atteggiamento incomincerà a cadere con Pio XII nel secondo dopoguerra, per essere solennemente capovolto con il celebre discorso di Paolo VI, nell'ottobre del 1965, all'Assemblea generale dell'ONU, simbolo emblematico, come ha scritto Emile Poulat, della convinta e irreversibile "vocazione umanitaria e internazionale della Chiesa cattolica".23 Per Paolo VI24, con tutta evidenza l'Organizzazione delle Nazioni Unite sono l'interlocutore privilegiato e imprescindibile della Chiesa imparziale tra Oriente e Occidente, tra Nord e Sud del mondo, nell'impegno per la pace, per la riduzione degli armamenti, per l'assistenza ai Paesi sottosviluppati. In Pio XI, invece, sono ancora forti, anche se non apertamente esplicitate, le diffidenze nei confronti dell'ispirazione wilsoniana della Società delle Nazioni, percepita diffusamente in ambito cattolico come illuminista-cosmopolita e liberal-laicista, se non addirittura massonica. Un rimedio alternativo era individuato nella ripresa e nella valorizzazione del pensiero tomista, con il rinvio forte alla seconda parte della Summa Theologica, ritenuta fonte di norme per il governo dei popoli e l'ordinamento della comunità internazionale.
Conclusa la Prima guerra mondiale, con la fine reale dell'ancient régime di cui l'Impero austroungarico, ottomano e zarista avevano non solo difeso gli assetti geopolitici, ma anche i sistemi di valori25, "già nel 1918 due opposte concezioni universalistiche dell'ordine mondiale, che pretendevano entrambe di essere eredi dell'illuminismo - ha scritto Michael Howard, in un recente studio intitolato L'invenzione della pace - si contendevano il futuro. La democrazia liberale credeva nella capacità dell'umanità, una volta liberatasi dalle costrizioni storiche, di creare società ordinate, giuste e pacifiche tramite un accordo e una cooperazione ragionevole; mentre il comunismo riponeva fede in un processo storico compreso e interpretato da un disciplinato clero secolare, il partito, che aveva sia il diritto che il dovere di condurre la lotta per una società senza classi, distruggendo l'opposizione reazionaria e sopprimendo tutti i dissidenti interni".26
Nel Novecento, nell'age of extremes, come è stato definito da Eric Hobsbawm27, nella fortunata sintesi, nota nella traduzione italiana come Il secolo breve, nel mercato della politica, a partire dagli anni Venti, è presente un altro terribile modello di società e di Stato, il totalitarismo fascista e nazista: l'esaltazione, la pratica e la codificazione della violenza, il ricorso alla guerra d'aggressione costituiscono parte costitutiva della sua identità.
Pio XI, che pur ha cercato con essi, attraverso la politica concordataria, non intese programmatiche, ma spazi di presenza e di manovra per la Chiesa, nell'enciclica di condanna del paganesimo nazista, Mit brennender Sorge del 14 marzo 1937, perspicuamente sottolinea come il principio "diritto è ciò che è utile alla nazione", "staccato dalla legge etica, significherebbe, per quanto riguarda la vita internazionale, un eterno stato di guerra".
Nell'enciclica, altrettanto nota di condanna del comunismo ateo, Divini Redemptoris, il nostro tema è presente in un paragrafo sul falso pacifismo: "Così, vedendo il comune desiderio di pace, i capi del comunismo fingono di essere i più zelanti fautori e propagatori del movimento per la pace mondiale; ma nello stesso tempo eccitano a una lotta di classe che fa correre fiumi di sangue e sentendo di non avere interna garanzia di pace, ricorrono ad armamenti illimitati".
Brani delle due encicliche giustamente sono stati inseriti nel volume Insegnamenti pontifici. La pace internazionale. La guerra moderna, edito dalle Edizioni Paoline, che ripropone le prese di posizione più significative fa Benedetto XIV a Pio XII, dalla seconda metà del Settecento, quindi, al secondo Novecento. Rinvio a questo volume che contiene anche un preciso e ragionato indice tematico per un'analisi più puntuale e, per una riflessione ancora di grande fascino, al saggio di don Luigi Sturzo, Les guerres modernes et la pensée catholique28, pubblicato in francese in Canada, nel 1942, durante l'esilio, cui il fondatore del Partito Popolare era stato costretto dal Fascismo, ma che anche la Santa Sede aveva accettato. Pro bono pacis, ma anche per liberarsi di un sacerdote-politico scomodo nel suo rigoroso antifascismo.
Per comprendere la sempre più coerente e coraggiosa, nel tempo, lezione di Pio XI sulla condanna della guerra, riporto un brano emblematico tratto dal diario di monsignor Domenico Tardini, per diversi decenni uno dei massimi responsabili della politica internazionale della Santa Sede, che io ho pubblicato in appendice al primo volume della sua biografia, che concerne l'atteggiamento nei confronti della Guerra d'Etiopia, cioè, dell'aggressione dell'Italia fascista all'ultimo impero cristiano29. Atteggiamento di grande apertura e coraggio, per due motivi: in primo luogo perché, anche senza accettare pienamente la tesi delle "tre m" (mercanti, missionari, militari) sui soggetti responsabili del colonialismo, nei confronti delle guerre coloniali le chiese erano state sempre solidali o acquiescenti, in secondo luogo perché nei confronti dell'impresa etiopica molta parte della gerarchia e del clero italiano aveva manifestato consenso e entusiasmo.
"28 agosto 1935
Udienza memorabile. Dalle 9 alle 10,45. Il Papa è vispo e arzillo come mai. Ha una intelligenza sempre più sveglia, una memoria sempre più tenace. L'aria di Castello gli fa veramente bene.
Oggi è per me una battaglia campale. Ieri sera il Papa ha parlato alle infermiere cattoliche di tutto il mondo. Un pellegrinaggio, o, meglio, un convegno di studio e di risoluzioni pratiche, ideato, organizzato, inaugurato, presieduto, concluso da S.E. Mons. Pizzardo. Il quale da parecchio tempo non pensava che a questo, non lavorava che per questo. Si sarebbe detto che non viveva che... per le infermiere. E il convegno è riuscito benissimo... folla di intervenute, suore e laiche; sapienza di insegnanti; abilità di organizzatori: larga ospitalità in Vaticano; tutto ha concorso a dare importanza, solennità, efficacia al convegno. Ieri si giunse al clou del congresso. L'udienza del Papa con relativo discorso.
Monsignor Pizzardo, in autobus con le infermiere, è corso (questa volta la parola è esattissima) anche lui a Castello. Ha presentato le intervenute al Santo Padre ed è rimasto in piedi accanto al trono pontificio gongolante per la buona riuscita del convegno, più gongolante ancora per le belle parole di lode, di incoraggiamento e di esortazione che fluivano dalle labbra del Sommo Pontefice. Ma proprio qui doveva capitare il guaio. Il Papa aveva finito: era già arrivato al consueto epilogo di una larga benedizione, quando (ohimé) si è arrestato, si è ripreso, ha di nuovo incominciato a parlare, di nuovo, cioè, dopo un discorso di più di un'ora.
Ed ha parlato della guerra, in termini forti e risoluti. Ha stigmatizzato la guerra di conquista, la guerra ingiusta. Ha condannato chi vuol provocare la guerra. Ha dichiarato che tutto si può accomodare senza la guerra. Tutto questo, facendo chiaramente comprendere come (secondo Lui) la guerra dell'Italia contro l'Etiopia è una guerra ingiusta.
Le infermiere, in prevalenza straniere, hanno ascoltato con interesse e con piacere. Chi ha ascoltato con maggiore interesse, ma senza alcun piacere, è stato mons. Pizzardo. Che disastro! E proprio a lui! Chi sa quali complicazioni col governo italiano - si è domandato con tutta l'angoscia - potrà avere questo discorso del Papa... Ed è tornato in Vaticano avvilito, disfatto, pallido, disperato. Poi ho saputo che in autobus ha fatto recitare alle infermiere il rosario perché... non parlassero del discorso del Papa! Un rosario da Castello a Roma! Appena giunto si è precipitato nel mio ufficio, gridando, quasi piangendo: «Che discorso, che discorso ... » Gli domando: «Ma che ha detto il Papa?» Mi risponde: «Ha detto che la guerra è ingiusta!» E correva qua e là saltellando e ripetendo come un ritornello: «Guerra ingiusta, guerra ... » Per fortuna, ecco entrare Lolli, il redattore dell'Osservatore che ha ripreso il discorso. Gli dico: «Ebbene, com'è il discorso del Papa?» Lolli non lo ha ancora completato: rimaniamo d'accordo con mons. Pizzardo che la sera stessa Lolli verrà da me, che rivedremo un po' il testo e che domani, all'udienza, lo porterò io stesso al S. Padre. Infatti, dopo le 22, ecco Lolli a casa mia. Ci mettiamo sulla terrazza e, al fresco, compio con tutta cautela... l'operazione chirurgica. Qua tolgo una parola; là ne aggiungo un'altra; qui modifico una frase, là ne sopprimo un'altra. Insomma con un lavoro sottile e metodico riusciamo ad attenuare assai la crudezza del pensiero papale... Sempre con il proposito di ridurre i cambiamenti al minimo possibile, nella certezza che il Papa ricorda tutte e singole le parole che aveva pronunziato.
E difatti è proprio così.
29 agosto 1935
Oggi, alle 9, sono dal S. Padre. Fino alle 9,30 parlo di affari comuni. Ho già finito quando, col gesto della più studiata noncuranza, presento al S. Padre il testo dattiloscritto del Suo discorso, dicendo: «Santità, me lo ha dato Lolli. Il quale si scusa se non sempre è riuscito a riprendere tutto e bene. V.S. non si è stancata nel fare un discorso di un'ora e venti; ma Lolli si è stancato al solo riprenderlo... Di più era tormentato da un forte dolore di denti (era vero)... Senza dire che, verso l'ultimo, la luce faceva difetto (E Papa aveva parlato in cortile ed aveva finito all'avemaria)!» Il S. Padre mi risponde: «è vero non ci siamo stancati affatto... C'era un po' di vento, ma non Ci ha dato fastidio ... » Evidentemente il Papa ha gradito il complimento. Io faccio l'atto di congedarmi come se non volessi far altro che lasciare al S. Padre il testo del discorso... Il Papa mi trattiene. Lascia da parte tutto il resto dei fogli e va subito agli ultimi, dove c'è l'accenno alla guerra. Guarda, scruta, legge con gli occhi: fa qualche volta «uhm, uhm!...» Poi mi guarda e io faccio la faccia più indifferente del mondo. Dopo una bella pausa il Papa incomincia a leggermi il testo del discorso. Prendo l'atteggiamento di chi vuol essere attento a ciò che non conosce (lo so a memoria quel tratto del discorso!) ed ascolto... Sottolinea spesso con cenni di assenso: alle frasi, poi, che ho accomodato, io aggiungo, con profonda persuasione: «Verissimo, giustissimo!» Il Papa mi guarda... si accosta... osserva il testo di nuovo... e poi soggiunge: «Veramente non abbiamo detto proprio così!» E questo intercalare lo ripete matematicamente in ognuna delle variazioni da me introdotte... lo non insisto: solamente aggiungo, con tutta docilità: «Santità, dica pure... si cambia!» E allora, il Papa, lentamente: «No... lasciamo stare ... » Era quello che volevo... A un certo punto un'altra lunghissima pausa... Il Papa aggiunge un periodo che fa capire la sua tesi sulla guerra ingiusta, ma non l'espressione così cruda come aveva fatto, parlando, il giorno innanzi. E' un accenno ben ovattato; sono frasi molto ben... confezionate... Ma a me il Papa dice chiaro e tondo che è una guerra ingiusta. Ammette che l'Italia abbia bisogno di espansione, ma - mi aggiunge - ciò non le dà il diritto di occupare il territorio altrui: «Se io stessi stretto a casa mia mi dice - mica potrei venire a casa sua!» Rispondo: «Se V.S. stesse veramente stretto a casa sua, se io stessi veramente largo e se io... ragionevolmente non volessi cederle il posto, che dovrei cederle, V.S. potrebbe occuparlo ... » Il Papa mi guarda con un'occhiata che non esprime d'esser persuaso del mio ragionamento. Egli ammette che l'Italia debba difendere le sue colonie... Ma difendere - secondo lui - significa munire le proprie frontiere, non già oltrepassarle per entrare nel territorio altrui... E in queste tesi il Papa è irremovibile".30
Il cardinale Eugenio Pacelli, eletto Papa dopo un brevissimo conclave, il 2 marzo del 1939, nelle prime due settimane del suo pontificato vide la fine dell'indipendenza della giovane Repubblica Cecoslovacca con l'annessione da parte del Reich della Boemia e della Moravia: brutale messaggio del già preordinato disegno hitleriano di occupare Danzica e il corridoio polacco. La guerra è di nuovo imminente.
Pio XII il 20 agosto, ricevendo in udienza dei pellegrini del Veneto, compie una breve sintesi dell'azione per la pace dei suoi predecessori e illustra la propria strategia per l'immediato futuro di una nuova conflagrazione bellica. Vale la pena riportare alcuni passaggi del discorso, utili anche per comprendere il suo stile omiletico, aulico e oratorio: "Pastore universale del gregge di Cristo (Pio XI), cercò il bene di tutte le genti, amò la pace nel mondo e quando udì l'orrida novella che sui campi d'Europa i fratelli uccidevano i fratelli, il suo amore divenne il dolore; i suoi occhi si levavano al cielo: vide sospese le bilance della giustizia di Dio. Nella sua ambascia, chinò la fronte rassegnata e il palpito del suo gran cuore si arrestò. Vittima del suo ardente amore verso i popoli e le nazioni, il pio pontefice scomparve nell'ora di Dio innanzi all'immenso e cruento turbine, che sconvolgeva le frontiere delle genti, inabissava le infrante navi in fondo ai mari e agli oceani e tramutava in nuovi campi di umane stragi le regioni dei venti. (…) Per la pace il suo Successore, Benedetto XV, di fausta memoria, sospirò, parlò, pregò, invocò quella moderazione negli animi che è oblio della lotta nella concordia delle nazioni. Per la pace il nostro predecessore (…) fece a Dio, or'è quasi un anno, con atto paterno che commosse il mondo, l'offerta della sua vita. Nell'ora presente, che rinnova acuta l'ansia e la trepidazione dei cuori, Noi stessi fin dal primo giorno del Nostro Pontificato, abbiamo tentato e fatto quanto era nelle nostre forze per allontanare il pericolo della guerra e per cooperare al conseguimento di una solida pace, fondata sulla giustizia e che salvaguardi la libertà e l'onore dei popoli. Abbiamo anzi, nei limiti del possibile e per quanto ce lo consentivano i doveri del nostro apostolico ministero, riposti indietro altri compiti e altre preoccupazioni che gravavano l'animo nostro. Ci siamo imposte prudenti riserve, affine di non renderci da nessuna parte più difficile o impossibile l'operare a pro della pace, consci di tutto quello che in questo campo dovevano e dobbiamo ai figli della Chiesa cattolica e a tutta l'umanità"31
Dal microfono di Radio Vaticana, alcuni giorni più tardi, il 24 agosto, all'indomani della firma del Patto Molotov-Ribbentrop, con cui l'Unione Sovietica, suscitando sconcerto anche all'interno del mondo comunista, si sottrae, temporaneamente, alla forza d'urto della Wermacht, ma, di fatto, dà il via libera all'invasione della Polonia, si rivolge ai "condottieri di popoli, uomini della politica e delle armi, scrittori, oratori della radio e della tribuna e quanti altri (hanno) autorità sul pensiero e l'azione dei fratelli, responsabilità delle loro sorti" e lancia un accorato appello finale: "Imminente è il pericolo, ma è ancora tempo. Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra".32
A guerra già iniziata, nella sua prima enciclica, Summi Pontificatus, del 20 ottobre, nell'angoscia della presente "ora delle tenebre", la "radice profonda ed ultima dei mali della società moderna" per Pio XII è "la negazione e il rifiuto di una norma di moralità universale, sia della vita individuale, sia della vita sociale e delle relazioni internazionali; il misconoscimento (…) e l'oblio della stessa legge naturale, la quale trova in Dio, creatore onnipotente e padre di tutti". "Fra i molteplici errori, che scaturiscono dalla fonte avvelenata dell'agnosticismo religioso e morale (…) il primo è la dimenticanza di quella legge di umana solidarietà e carità, che dettata e imposta sia dalla comunanza di origine sia dalla natura razionale in tutti gli uomini, a qualsiasi popolo appartengano, sia dal sacrificio di redenzione offerto da Gesù Cristo sull'ara della croce al Padre suo celeste in favore dell'umanità peccatrice".33
Si sviluppa lungo quattro direttrici l'azione del pontefice negli anni della nuova vera guerra mondiale combattuta per terra, mare e cielo in quattro continenti: terribile guerra totale in cui per la prima volta nella storia il numero dei morti tra i civili è pari a quello tra i militari; ancora nella Grande Guerra del 1914-18 il rapporto era di dieci a uno a favore dei soldati.
Opera attraverso la diplomazia vaticana, guidata dopo la morte del segretario di Stato cardinal Luigi Maglione, da due straordinarie personalità ecclesiastiche, monsignor Domenico Tardini e monsignor Giovanni Battista Montini, ed anche tramite gli episcopati nazionali per convincere singoli paesi a non passare tra quelli belligeranti al fine di delimitare il conflitto. In tal senso è conseguito qualche successo: la Spagna franchista, stremata dalla guerra civile, resta neutrale, anche se salda il debito di riconoscenza nei confronti della Germania nazista partecipando con la Divisione Azul all'invasione dell'Unione Sovietica, presentata come una crociata antibolscevica. Nel caso degli Stati Uniti, che all'inizio della guerra, per la prima volta, stabiliscono un particolare rapporto diplomatico con la Santa Sede con l'arrivo a Roma di Myron Taylor, rappresentante personale del presidente Franklin Delano Roosevelt, si creerà nel tempo un legame stretto e un'intesa forte e il clero e la gerarchia USA saranno lasciati liberi di appoggiare l'entrata in guerra di Zio Sam, anche quando si delinea una forte alleanza con l'URSS di Stalin.
La seconda direttrice concerne l'enunciazione delle condizioni e dei principi ispiratori di un possibile ritorno alla pace che non assumesse le connotazioni vendicative del Trattato di Versailles. Il Messaggio di Natale del primo anno di guerra fornisce già un quadro d'insieme al riguardo. E' la ragione per cui l'Unconditional Surrender degli Alleati è ritenuto dalla Santa Sede sempre controproducente.
La terza direttrice concerne la "formulazione di una dottrina ben articolata e capace, nelle intenzioni del pontefice, di offrire definitivi punti di arroccamento ai popoli e agli individui per il futuro ordinamento del mondo postbellico via d'uscita dalla crisi di civiltà sfociata nella guerra e garanzia di una pace durevole affidata all'opera di 'rieducazione' e di 'rigenerazione' della Chiesa"34. I tratti fondamentali di questa dottrina organica pacelliana, della quale Pio XII è fortemente debitore nei confronti del gesuita tedesco Gustav Gundlach, sono esposti nei messaggi radiofonici. I più importanti sono quello natalizio del 1941 sull'ordine internazionale (Le sicure basi per il nuovo ordinamento del mondo), quello del 1942 sull'ordinamento interno delle nazioni (L'ordine interno degli Stati e dei popoli) e quello, notissimo, del 1944, sulla democrazia (La democrazia nei suoi aspetti e nei suoi problemi).
Nel primo si afferma categoricamente che il nuovo ordinamento dei popoli "ha da essere innalzato sulla rupe incrollabile e immutabile della legge morale, manifestata dal Creatore stesso per mezzo dell'ordine naturale e da Lui scolpita nei cuori degli uomini con caratteri incancellabili: legge morale, la cui osservanza deve venire inculcata e promossa dall'opinione pubblica di tutte le Nazioni e di tutti gli Stati con tale unanimità di voce e di forza che nessuno possa osare di porla in dubbio o attenuarne il vincolo obbligante"35.
Nel Messaggio del 1942 il richiamo del Messaggio del precedente anno per Pio XII, sicuro "del consenso e dell'interessamento di tutti gli onesti", si fonda sulla ferma convinzione, che rinvia esplicitamente alla categoria della Summa Theologica di San Tommaso (tranquilla convivenza nell'ordine) che "rapporti internazionali e ordine interno sono intimamente connessi, essendo l'equilibrio e l'armonia tra le nazioni dipendenti dall'interno equilibrio e dall'interna maturità dei singoli Stati, nel campo materiale, sociale e intellettuale". Vengono quindi presentati, "al lume della ragione e della fede cinque punti fondamentali per l'ordine e la pacificazione della società umana": "dignità e diritti della persona umana"; "difesa della unità sociale e particolarmente della famiglia"; "dignità e prerogative del lavoro"; "reintegrazione dell'ordine giuridico"; "concezione dello Stato secondo lo spirito cristiano".
Del terzo Messaggio preso qui in considerazione occorre innanzi tutto menzionare l'analisi che viene fatta del momento storico, il sesto natale di guerra: "mentre gli eserciti continuano ad affaticarsi in lotte micidiali, con sempre più crudeli mezzi di combattimento, gli uomini di governo, rappresentanti responsabili delle nazioni, si riuniscono in colloqui, in conferenze, allo scopo di determinare i diritti e i doveri fondamentali, sui quali dovrebbe essere ricostituita una comunanza degli Stati, di tracciare il cammino verso un avvenire migliore, più sicuro, più degno dell'umanità. Antitesi strana - prosegue Pio XII - questa coincidenza di una guerra, la cui asprezza tende a giungere al parossismo e del notevole progresso delle aspirazioni e dei propositi verso un'intesa per una pace solida e durevole! (…) I popoli si sono come risvegliati da un lungo torpore: essi hanno preso di fronte allo Stato, di fronte ai governanti, un contegno nuovo, interrogativo, critico, diffidente. Edotti da un'amara esperienza, si oppongono con maggiore impeto ai monopoli di un potere dittatoriale, insindacabile e intangibile e richieggono un sistema di governo, che sia più compatibile con la dignità e la libertà dei cittadini. Queste moltitudini, irrequiete, travolte dalla guerra fin negli strati più profondi, sono oggi invase dalla persuasione, dapprima, forse, vaga e confusa, ma ormai incoercibile, che, se non fosse mancata la possibilità di sindacare e di correggere l'attività dei poteri pubblici, il mondo non sarebbe stato trascinato nel turbine disastroso della guerra e che affine di evitare per l'avvenire il ripetersi di una simile catastrofe, occorre creare nel popolo stesso efficaci garanzie".
La citazione di un passo dell'enciclica Libertas (20 giugno 1888) di Leone XIII ("non è vietato di preferire governi temperati di forma popolare, salva, però, la dottrina cattolica circa l'origine e l'uso del potere pubblico") è usata da Pio XII in questo Messaggio dell'ultimo Natale di guerra per affermare che la Chiesa non si meraviglia che "in tale disposizione degli animi (…) la tendenza democratica investe i popoli e ottiene largamente il suffragio e il consenso di coloro che aspirano a collaborare più efficacemente ai destini degli individui e della società".
Il magistero di Pio XII, che preferiva avere "non collaboratori ma esecutori" e rivendicava con orgoglio e sofferenza "l'esercizio autocratico e solitudinario del potere del papa"36, è stato su questo terreno interpretato in termini molto contrastanti: per Guido Verucci37, ad esempio, è una manifestazione coerente di una non residuale linea autoritaria e teocratica; per Gianni Baget Bozzo38, una moderna reinterpretazione della contrapposizione escatologica, di matrice agostiniana, tra Citta di Dio e Città dell'uomo, che implica l'abbandono del progetto-illusione di subordinare il potere politico ai fini della Chiesa; per Antonio Acerbi39, al contrario, è un tentativo riuscito di conciliazione con la democrazia e, più in generale, con la civiltà moderna, nel quadro di un forte rilancio della presenza e dell'influenza cattolica nella società civile. Secondo il teologo francese Marie-Dominique Chenu, per Pio XII la questione della pace è uno dei capitoli della dottrina sociale della Chiesa, cioè, di quell'insieme di proposizioni e di direttive sul terreno economico, sociale e anche (in un secondo momento) politico, con cui essa punta a conservare una potestas indirecta sul mondo, indicando soluzioni e strumenti, cristianamente ispirati, ma anche razionalmente universalmente condivisibili, per fare fronte alle domande e alle urgenze della modernità contemporanea.40
La quarta direttrice, infine, concerne l'impegno della Santa Sede, con le proprie rappresentanze, ma anche con organismi creati ad hoc e con la collaborazione fattiva dell'organizzazione ecclesiastica a portare avanti, con l'ostilità aperta dei Nazisti, la diffidenza degli Angloamericani, la riluttanza degli stessi Stati nazionalcattolici, il difficilissimo compito di "difendere i vinti e tutelare i deboli", come riassume in una felice formula monsignor Domenico Tardini.41Si tratta di una teologia della guerra, che ha nel pensiero di San Tommaso l'incunabolo più coerente, che rinvia a sua "assunzione realistica come strumento per regolare i rapporti tra gli Stati, pur nello sforzo di limitarne e contenerne gli effetti".42
I limiti sono evidenti di questa posizione sono evidenti: nella guerra totale in cui non solo opera la sconvolgente potenza distruttrice delle nuove armi messe in campo, ma anche il ricorso sistematico alle rappresaglie contro le inermi popolazioni civili, per la Santa Sede, così come per altre organizzazioni umanitarie, come la Croce Rossa, è difficile ottenere il rispetto dello Ius in bello anche da parte di coloro che combattono una guerra giusta (una Good War, per usare un'espressione dello storico inglese Alan John P. Taylor43 e, cioè, Alleati angloamericani, Sovietici e combattenti delle Resistenza antitedesca e antigiapponese.
La questione più drammatica e controversa è quella del silenzio di Pio XII di fronte alla deportazione e allo sterminio degli Ebrei, della Shoah, che il dramma teatrale di Rolf Hochhuth, Il vicario44, nel 1964, portò all'attenzione dell'opinione pubblica mondiale, anche per le roventi, vaste polemiche innescate, che convinsero Paolo VI a promuovere la pubblicazione di ben undici volumi in dodici tomi degli Actes et documents du Saint Siège relatifs à la Seconde guerre mondiale45.
La questione, di recente, dal dibattito storiografico è ritornata alla polemica mediatica a seguito della pubblicazione del libro di John Cornwell, Hitler's Pope. The secret History of Pius XII, lanciato negli Stati Uniti, al momento della sua uscita, con due intere pagine del Sunday Times e tradotto in molte lingue. Diventa, di conseguenza, ancora più necessaria e non rinviabile l'apertura degli Archivi Vaticani, non disponibili per gli studiosi a partire dal 1922, vale a dire, dalla fine del pontificato di Benedetto XV. Padre Pierre Blet, uno dei curatori degli Actes et documents, prima citati, in una recente nuova sintesi sulla questione, Pio XII e la Seconda guerra mondiale negli Archivi vaticani46, ha ribadito, tuttavia, in risposta a ricorrenti sospetti, che in essi non sono conservati altri documenti significativi inediti.
E' sufficiente rinviare, per concludere, al corposo volume, documentato e rigoroso, di Giovanni Miccoli, I dilemmi e i silenzi di Pio XII47, che ha come sottotitolo Vaticano, Seconda guerra mondiale e Shoah e al recentissimo agile, ma altrettanto rigoroso, libro di Renato Moro, La Chiesa e lo sterminio degli Ebrei48, dove si compie una disamina attenta, anche attraverso lo spoglio della stampa cattolica, degli effetti che, nell'incomprensione e/o sottovalutazione della deriva tragica della Shoah, a partire dalla legislazione razziale, ebbe il tradizionale antigiudaismo ecclesiastico.
Un silenzio sempre inquietante, facendo salva la tormentata coscienza di Pio XII, ancor più, per i credenti, di quello altrettanto pesante, dovuto, a ragioni di realpolitik dei governanti dei Paesi Alleati.
La guerra si conclude con Hiroshima: secondo Marco Revelli, uno dei tre terribili "deliri dell'homo faber" del secolo appena concluso, assieme ad Auschwitz e all'eterogenesi dei fini del comunismo, rappresentata dai gulag sovietici.49
Fine vero della sperimentazione della bomba atomica in corpore vili giapponese, come anche i documenti ufficiali americani hanno acclarato, non era tanto quello di piegare le ultime resistenze del Giappone, quanto quello di lanciare un chiaro messaggio planetario, rivolto soprattutto al futuro nemico sovietico, allora ancora alleato bellico: gli Stati Uniti dispongono di un'arma nuova e terribile che assegna loro un'assoluta supremazia militare e geopolitica, anche se essa verrà, a distanza di pochi anni, rimessa in discussione dalla fine del monopolio atomico.
Ne consegue la rottura della Grande Alleanza Antifascista; la Guerra fredda, che ha effetti nefasti nella politica internazionale e in quella dei singoli paesi; l'irrigidimento dell'URSS e l'imposizione del suo autoritario modello di Stato e di società, del suo terribile "progetto di ingegneria umana", per usare un'espressione di Karol Wojtyla, a tutta l'Europa orientale; la ricorrente tentazione americana di passare dalla difensiva strategia del Containement a quella aggressiva del Roll Back. Ne deriva anche la divisione del mondo in blocchi contrapposti cui cercano di sottrarsi il Terzo Mondo e l'eretica e scomunicata Jugoslavia di Tito promuovendo il Movimento dei Paesi non allineati.
La corsa agli armamenti, sia tradizionali sia atomici, diviene inarrestabile; garantisce la deterrenza e l'equilibrio del terrore. Nel Radiomessaggio del 1954, anno in cui pur si verifica una certa ripresa di dialogo tra l'Unione Sovietica e le potenze occidentali che porta alla firma degli Accordi di Ginevra sull'indipendenza dei paesi del Vietnam, della Cambogia e del Laos e si manifestano anche all'opinione pubblica mondiale le nuove posizioni sul non allineamento e sul disarmo di grandi paesi dell'Asia, a partire dall'India e dall'Indonesia, Pio XII parla di coesistenza nel timore50.
La corsa agli armamenti comporta anche un enorme spreco di risorse, che avrà effetti disastrosi nel mancato sviluppo del Terzo Mondo e nella compressione dei consumi nei paesi comunisti e costituisce il fondamento di un sistema di guerra, com'è stato chiamato in Italia da Claudio Napoleoni51, vale a dire di un blocco di potere economico e politico, che condiziona pesantemente le istituzioni e influenza la pubblica opinione.52
Contemporaneamente però la Carta costitutiva delle Nazioni Unite e gran parte delle costituzioni postbelliche, compresa la nostra all'articolo undici53, bandiscono solennemente e rigorosamente la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali.54 Nel diritto internazionale, dopo lo ius ad bellum e lo ius in bello, si comincia a codificare lo ius contra bellum55e in tal senso si muovono diffusi e vasti movimenti per la pace, di diversa ispirazione ideale, ma convergenti nella consapevolezza che l'umanità ha ormai conseguito con la bomba atomica, per la prima volta nella storia, il potere terrificante di autodistruggersi56.
Pio XII nel Radiomessaggio natalizio del 1955, a partire dalle suggestioni e dalle speranze suscitate dalla Conferenza atomica dei Quattro Grandi a Ginevra (18-23 luglio) e della Conferenza mondiale di Hiroshima contro la bomba atomica (6 agosto), aveva auspicato che si giungesse, per via negoziale, alla sospensione degli esperimenti delle bombe nucleari, alla rinuncia al loro uso e all'avvio di un generalizzato controllo degli armamenti. "L'insieme dei tre provvedimenti, come oggetto di un'intesa internazionale - affermò Pio XII in questo Radiomessaggio - è un dovere di coscienza dei popoli e dei loro governanti. (…) L'insieme di quei tre provvedimenti, poiché il motivo del suo obbligo morale è anche lo stabilimento di un'eguale sicurezza per tutti i popoli".
Nel Radiomessaggio Pio XII, com'era nel suo stile, esamina in termini analitici anche le caratteristiche tecniche delle armi nucleari e descrive lo scenario terribile di un loro eventuale uso: "intere città, anche fra le più grandi e ricche di storia e di arte, annientate; una nera coltre di morte sulle polverizzate macerie, che coprono innumerevoli vittime dalle membra bruciate, contorte, disperse, mentre altre gemono negli spasimi dell'agonia: Frattanto lo spettro della nube radioattiva impedisce ogni pietoso soccorso ai sopravvissuti e si avanza inesorabile a sopprimere le superstiti vite. Non vi sarà alcun grido di vittoria, ma soltanto l'inconsolabile pianto dell'umanità, che desolatamente contemplerà la catastrofe dovuta alla sua stessa follia"57.
Un quadro che rinvia con tutta evidenza a Hiroshima e Nagasaki dell'agosto 1945, terrificante, ma inadeguato. Nel 1955 è stata già sperimentata la bomba all'idrogeno i cui effetti sarebbero stati, non solo devastanti, ma apocalittici.
Dopo una guerra atomica con la bomba H, scoppiata per scellerata decisione o per errore, anche qualora la vita nel pianeta potesse riprendere, "noi non ci saremo!" cantavano i Nomadi e quelli della mia generazione con loro in una bellissima canzone di Francesco Guccini.58
Papa Giovanni, dopo il lungo e mesto tramonto del pontificato pacelliano, nel contesto del pur contraddittorio nuovo clima di dialogo e apertura di Kennedy e Chrušcëv, riprende e rilancia il tema della pace, come motivo centrale del magistero della Chiesa, mater et magistra, esperta in umanità, tesa più che a emettere condanne o a ribadire posizioni assertive, ad ascoltare e a dialogare fuori e dentro la comunità ecclesiale, operando sempre la distinzione tra errore e erranti, con tutti gli uomini di buona volontà.59
Non a caso nel libro Le Saint Siège sur la scène internationale60 di Jean-Yves Rouxel, il corposo secondo capitolo dedicato all'azione in favore della pace, è suddiviso in due sezioni: la prima sul comportamento della Chiesa di fronte alla guerra, la seconda sull'educazione alla pace, che ha come punto di partenza proprio l'enciclica giovannea Pacem in Terris.
Immediatamente alla sua uscita (11 aprile 1963)61 essa suscita sconcerto in alcuni ambienti curiali e trova, invece, una straordinaria accoglienza nella comunità ecclesiale e anche fuori di essa, compreso il mondo comunista. Costituisce, indubbiamente il punto più alto del suo magistero in materia non strettamente ecclesiastica o teologica. Nonostante i ripetuti rinvii nelle citazioni (l'elaborazione del documento giovanneo è dovuta per gran parte a monsignor Pietro Pavan) a Pio XII, rappresenta, anche per l'abbandono del tradizionale metodo deduttivo a favore di quello induttivo, un'indubbia coraggiosa discontinuità62.
Questo concerne innanzi tutto la teoria della guerra giusta la cui prima definizione è attribuita a Sant'Ambrogio e Sant'Agostino, anche se per quest'ultimo, essendo per il cristiano insuperabile il divieto di uccidere anche per legittima difesa, essa si fonda unicamente sul dovere di difendere il prossimo debole. Gli apporti più importanti si devono, secondo le convergenti opinioni degli studiosi dell'argomento - tra questi Christian Mellon63 e Roland H. Bainton64 - a San Tommaso, Francisco Suarez e, soprattutto al domenicano spagnolo Francisco de Vitoria (1483-1546), che prendendo atto della fine dell'unità religiosa della cristianità occidentale, aveva iniziato la riflessione sullo jus gentium, come unico strumento razionale in grado di regolare i rapporti, spesso conflittuali tra i nuovi Stati-nazione.
La Chiesa di Pio XII, a livello di gerarchia, ma anche a livello se non di sensibilità, di opinione media diffusa - è sufficiente rileggere la voce guerra (la voce pace è significativamente assente) del Dizionario di teologia morale, diretto da monsignor Francesco Roberti, pubblicato da Studium nel 1955 e rieditato ancora nel 196165 - è ancora legata alla categoria della guerra giusta. Guerra giusta, che per essere tale, deve prevedere nello jus ad bellum le seguenti condizioni: una causa giusta (ma quale governante non ha dichiarato e, forse, anche pensato di non averla?); un'autorità competente che la dichiara; una retta intenzione che la giustifica nel suo svolgimento; il suo essere un rimedio estremo; la probabilità di successo. Il connesso jus in bello, a partire dal principio che "il fine non giustifica i mezzi", deve comportare la discriminazione tra obiettivi militari e civili e la proporzionalità tra azioni militari e vantaggi conseguiti. I concreti sanguinosi svolgimenti delle guerre moderne, non solo le due guerre totali del Novecento, ma anche le innumerevoli guerre locali e, in particolare, le guerre coloniali, con tutta evidenza dimostrano come queste sottili e astratte condizioni non siano mai state rispettate.66
Non casualmente John Rawls, il più noto filosofo politico liberaldemocratico, nel suo recente volume Il diritto dei popoli, pur scettico sulla possibilità di eliminare la guerra nelle controversie internazionali, per la perdurante assenza di una'autorità sovrana internazionale che sanzioni il mancato rispetto dello jus gentium67, classifica la dottrina della guerra giusta nella categoria della teoria non ideale.68
In Giovanni XXIII, con la Pacem in terris, l'abbandono della teoria della guerra giusta non comporta la semplice rassegnazione nei confronti della violenza e dell'ingiustizia69. La pace non è più l'assenza di guerra; implica il superamento dei rapporti di dominio tra gli uomini e tra gli Stati; leggendo i segni dei tempi individua tre interlocutori privilegiati nei lavoratori, nelle donne e nei diseredati dei Paesi del Terzo Mondo; si affida all'ottimismo della Provvidenza.
1 R. Aron, Penser la guerre. Clausewitz, Gallimard, Parigi 1976.
2 L. Bonanate, La guerra, Laterza, Roma-Bari 1998.
3 La traduzione italiana di Dulce bellum inexpertis, in Erasmo Da Rotterdam, Contro la guerra, a cura di F. Gaeta, L'Aquila 1968.
4 Il mestiere delle armi. Produzione: Italia/Francia/Germania; durata 105'; regia e sceneggiatura: Ermanno Olmi.
5 Hobson pubblica nel 1902 Imperialism, che influenzerà le riflessioni di Lenin sull'argomento, riassunte e sitemate nel notissimo L'imperialismo, fase suprema del capitalismo, del 1917.
6 E. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismo, Einaudi, Torino 1991.
7 Il notissimo omonimo scritto kantiano è del 1795. Si veda la traduzione italiana I. Kant, Progetto per una pace perpetua, Rizzoli, Milano 1968.
8 H. Raguer, La presenza politico-sociale e il confronto con le ideologie, in Chiesa e Papato nel mondo contemporaneo, a cura di G. Alberigo e A. Riccardi, Laterza, Roma-Bari1990.
9 G. Rossini (a cura di), Benedetto XV, i Cattolici e la Prima guerra mondiale, Cinque Lune, Roma 1963.
10 Una recente storia politico-militare, che ricostruisce anche le ragioni profonde del conflitto e la crisi della società europea all'inizio del secolo, è quella di J. Keegan, The First World War (1998), traduz. it., La prima guerra mondiale, Carocci, Roma 2000
11 L'enciclica Ad Beatissimi Apostolorum Principis è pubblicata anche in Le encicliche sociali dei Papi. Da Pio IX a Pio XII, a cura di I. Giordani, Studium, quarta ediz. corretta e aumentata, Roma 1956.
12 La Nota, scritta in francese è conosciuta con le sue due parole iniziali (Dès le début) è pubblicata in Insegnamenti pontifici, v. 5, la pace internazionale, parte prima, la guerra moderna, Edizioni Paoline, Roma 1958, pp. 131-135.
13 G. Candeloro, Storia del movimento cattolico in Italia, Editori Riuniti, Roma 1953.
14 L'espressione e la suggestiva tesi storiografica che esprime è contenuta in F. Chabod, Storia della politica estera italiana, Laterza, Bari 1951.
15 Cfr. J. B. D'Onorio, Le pape et le gouvernement de l'Église, Editions Fleurus, Parigi 1992.
16 A. C. Jemolo, Chiesa e Stato negli ultimi cento anni, Einaudi, Torino 1948.P. Scoppola, Chiesa
17 Cfr. J. Delumeau (a cura di), Storia vissuta del popolo cristiano, ediz. it. a cura di F. Bolgiani, SEI, Torino 1985.
18 Le vicende dell'importante iniziativa editoriale, promossa da Giovanni Grosoli e del cardinale Pietro Maffi, tesa a dotare il movimento cattolico italianodi una stampa moderna, organizzata su base industriale, sono state ricostruite nel volume di P. Giovannini, Cattolici nazionali e impresa giornalistica. Il trus della stampa cattolica (1907-1918), Unicopli, Milano 2001
19 R. Morozzo Della Rocca, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti soldati (1915-1918), Studium, Roma 1980.
20 Cfr. A. Bravo (a cura di), Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari1991.
21 Tra gli studi sintesi più recenti cfr. R. J. Overy, The Inter-War Crisis 1919-1939, trad. it., Crisi tra le due guerre mondiali 1919-1939, Il Mulino, Bologna1994.
22 L'espressione è stata coniata da K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino 1974.
23 E. Poulat, Chiesa contro borghesia, Marietti, Casale Monferrato 1984, p.113.
24 Cfr. J. Joblin, Paul VI et les institutions internationales, in Paul VI e la modernité de l'Église, École française de Rome, Roma 1984, pp. 529-546.
25 Mi riferisco all'interpretazione dello storico americano Arno J. Mayer (Il potere dell'ancien régime fino alla prima guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 1982) che parla di persistence dell'ancien régime fino alla Prima guerra mondiale.
26 M. Howard, L'invenzione della pace. Guerre e relazioni internazionali, Il Mulino, Bologna2001, p. 66.
27 E. J. Hobsbawm, Age of Extremes. The Short Twentieth Century 1914-1991 (1994). Trad. it., Il secolo breve. 1914-1991: l'era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano1995.
28 L. Sturzo, Le guerres moderne et la pensée catholique, L'arbre, Montreal, Ottawa 1942.
29 P. Borruso, L'ultimo impero cristiano. Politica e religione nell'Etiopia contemporanea (1916-1970), Guerini e associati, Roma 2002. La collana in cui il libro è stato pubblicato è diretta da Andrea Riccardi.
30 C. F. Casula, Domenico Tardini (1888-1961). L'azione della Santa Sede nella crisi fra le due guerre, Studium, Roma 1988, pp.384-386.
31 Allocuzione ai pellegrini del Veneto, 20 agosto 1939 in Insegnamenti pontifici. La Pace internazionale, cit., pp. 246-247.
32 Radiomessaggio ai governanti e ai popoli (24 agosto 1939), in Pio XII. Discorsi per la comunità internazionale, Studium, Roma 1957.
33 Il testo completo della Summi Pontificatus è pubblicato nel volume Le encicliche sociali della Chiesa, a cura di I. Giordani, Studium, Roma 1956.
34 F. Traniello, Pio XII, dal mito alla storia, in Pio XII, a cura di A. Riccardi, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 21.
35 Pio XII, Discorsi per la comunità internazionale (1939-1956), Studium, Roma 1957, p. 60.
36 L'espressione è di Andrea Riccardi, Il potere del papa. Da Pio XII a Paolo VI, Laterza, Roma-Bari 1988.
37 G. Verucci, La Chiesa nella società contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1988.
38 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano al potere. La DC di De Gasperi e di Dossetti, Vallecchi, Firenze 1974.
39 A. Acerbi, La Chiesa nel tempo. Sguardi sui progetti di relazioni tra Chiesa e società civile negli ultimi cento anni, Vita e Pensiero; Milano1979.
40 M. D. Chenu, La dottrina sociale della Chiesa, Querinaria, Brescia 1977.
41 Si rinvia al IV capitolo (Difendere i vinti e tutelare i deboli. La diplomazia vaticana nella Seconda guerra mondiale del volume C. F. Casula, Domenico Tardini (1888-1961). L'azione della Santa Sede nella crisi fra le due guerre, cit., pp.153-221.
42 La citazione è tratta da M. Toschi, Pace e Vangelo. La tradizione cristiana di fronte alla guerra, Queriniana, Brescia 1980, p. 86.
43 Lo storico inglese con il libro (The Origins of the Second Wordl War (trad. It. Le origini della seconda guerra mondiale, Laterza, Bari 1961 suscitò molte polemiche perché addebitava anche alla politica dell'appeasement franco-britanniche la responsabilità della guerra.
44 R. Hochhuth, Der Stellvertreter (1964). Trad. it., Il vicario, Feltrinelli, Milano 1964.
45 Actes et documents du Saint Siège relatifs à la Seconde guerre mondiale, a cura di P. Blet, R. A. Graham, A. Martini, B. Schneider, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1965-1981.
46 P. Blet, Pio XII e la Seconda guerra mondiale negli Archivi vaticani, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1999.
47 G. Miccoli, I dilemmi e i silenzi di Pio XII. Vaticano, Seconda guerra mondiale e Shoah, Rizzoli, Milano 2000.
48 R. Moro, La Chiesa e lo sterminio degli Ebrei, Il Mulino, Bologna2002.
49 M. Revelli, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Einaudi, Torino2001.
50 Il Radiomessaggio natalizio del 24 dicembre 1954 è pubblicato, con il titolo La coesistenza, in Pio XII, Discorsi per la comunità internazionale, cit., pp.293-308.
51 C. Napoleoni, Cercate ancora. Lettera sulla laicità e ultimi scritti, Editori Riuniti 1990.
52 Cfr. R. Giacomini, I partigiani della pace. Il movimento pacifista in Italia e nel mondo negli anni della prima guerra fredda, Vangelista, Milano 1984; G. Vecchio, Pacifisti e obiettori nell'Italia di De Gasperi /1945-1953), Studium, Roma1993.
53 L'articolo recita per intero: "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo".
54 Una ricostruzione d'insieme in L. C. Green, The contemporary Law of armed Conflict, Manchester University Press, Manchester 1993.
55 Un quadro d'insieme della questione, con un ragionato repertorio delle fonti e degli studi nelle diverse discipline, cfr. R. Diodato, Pacifismo, Editrice Bibliografica, Milano 1995. Ha riproposto, invece, il tema tradizionale dello ius ad bellum, riaprendo un forte dibattito, Michael Watlzer, nel libro Guerre giuste e guerre ingiuste.Un discorso morale con esemplificazioni storiche, Liguori, Napoli 1990.
56 G. Boutoul, La pace tra storia e utopia, Armando, Roma 1976; A. Cavagna, G. Mattai (a cura di), Il disarmo e la pace. Documenti del magistero. Riflessioni teologiche, problemi attuali, Edizioni Dehoniane, Bologna1982.
57 Pio XII, Discorsi per la comunità internazionale, cit., p. 318.
58 Il disco Noi non ci saremo, del 1967, costituisce in Italia un passaggio importante dal beat ingenuo al rock dell'impegno, specialmente sul terreno della lotta per la pace.
59 Card. Giacomo Lercaro, Giovanni XXIII. Linee per una ricerca storica, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1965; G. Alberigo (a cura di ), Papa Giovanni, Laterza, Roma-Bari 1987.
60 J. Y. Rouxel, Le Sain-Siège sur la scène internationale, , Editions l'Harmattan, Parigi-Montréal 1998.
61 Per una stimolante lettura-interpretazione, cfr. R. La Valle, Pacem in terris. L'enciclica della liberazione, Edizioni cultura della pace, San Domenico di Fiesole 1987. In appendice è contenuta anche un'articolata cronologia di Luciano Martini sui pronunciamenti dei pontefici contro la guerra, da Pio IX a Giovanni XXIII.
62 J. Joblin, L'Église et la guerre. Conscience, violence, pouvoir, Desclée de Bbrouwer, Parigi 1988.
63 C. Mellon, Chrétiens devant la guerre et la paix, Éditions du Centurion, Parigi 1984. Trad. It. I cristiani di fronte alla guerra e alla pace, Queriniana, Brescia 1986.
64 R. H. Bainton, Christian Attitudes towards War and Peace. An historical Survey and critical Reevaluation, Abingdon Press, Londra 1960. Trad. it. Il cristiano, la guerra, la pace, Gribaudi, Torino 1968.
65 Dizonario di teologia morale, Studium, Roma 1955. Il Dizionario,diretto da Francesco Roberti, segretario della Congregazione del Concilio, in edizione riveduta e ampliata fu ripubblicato nel 1955 e, ancora, nel 1961. Il segreatrio di redazione e monsignor. Pietro Palazzini, futuro cardinale, anch'egli esponente della destra curiale.
66 Per una visione d'insieme, cfr.C. J. Bartlett, The Global Conflict. The international Rivalry of the Great Powers, 1880-1990, Longman, Londra-New York 1984; D. Pick, War Machine. The Rationalisation of Slaughter in the Modern Age, Yale University Press, New Haven-Londra 1993. Traduz. it. La guerra nella cultura contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1994.
67 Per una ricostruzione d'insieme del problema, cfr. F. Andreatta, Istituzioni per la pace. Teoria e pratica della sicurezza collettiva da Versailles alla ex Jugoslavia, Il Mulino, Bologna 200.
68 J. Rawls, The Law of Peoples with "The Idea of Public Reason Revisited", Harvard 1999. Trad. it. Il diritto dei popoli, a cura di S. Maffettone, Edizioni di Comunità, Torino 2001
69 Per una riflessione a posteriori sul tema
ancora controverso, cfr. E. Traversi, Critica alla teoria della
guerra giusta, in "Rivista di teologia morale", gennaio-marzo
2002.