Incontri di discernimento e solidarietà
 
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SIATE SANTI, VIVETE

un’intonazione parenetica

Il tema della vita è l’oggetto della nostra ricerca: la vita cristiana, così come Paolo ce l’ha presentata, in atteggiamento esultante: Paolo, l’evangelizzatore, ringrazia Dio per questa novità che è la vita cristiana. E’ una novità che trasforma dall’interno la vita e fa della vita una realtà nuova e piena, fa della vita la vita vera.

La seconda parte della Lettera ai Tessalonicesi, capp. 4-5, è caratterizzata dalla presenza di una diversa intonazione: non più una intonazione eucaristica, ma un’intonazione paracletica, esortativa. Il verbo parakaleo è ripreso in tanti modi nel linguaggio neotestamentario ed è presente nelle pagine che abbiamo sotto gli occhi. Esso ci aiuta a ricapitolare il senso complessivo delle successive considerazioni proposte da Paolo. Dalla intonazione eucaristica, che caratterizza i primi 3 capitoli, si passa a una intonazione di carattere esortativo. Paolo si rivolge ai cristiani di Tessalonica, per i quali ha ringraziato Dio, esortandoli.

La paraclesi, o esortazione, ha due versanti: per un verso l’esortazione si sviluppa sotto forma di ammonimento, per un altro verso si sviluppa sotto forma di incoraggiamento. Non c’è l’uno senza l’altro: non c’è ammonimento senza incoraggiamento e viceversa. Tuttavia i due timbri di questa intonazione esortativa possono essere opportunamente distinti. La sezione che leggiamo ora è caratterizzata da questo ricorso di Paolo al tono ammonitorio. E’ un ammonimento singolare: per alcuni potrebbe anche assumere la forma del rimprovero; per altri è tutto mirata a promuovere, sostenere, incoraggiare.

Esortazione ammonitoria, ma segnata, fin dall’inizio, da un atteggiamento di implorazione. Paolo chiede al modo di un mendicante. E’ strano ma è così.

«Per il resto, fratelli vi preghiamo e supplichiamo». In greco è erotomen e paracaloumen. Qui la Bibbia traduce paracaloumen. Si percepisce immediatamente la forma del verbo parakaleo, "esortare", ma anche consolare, "richiamare", "ammonire". Qui la nostra Bibbia traduce "supplichiamo", perché l’altro verbo che qui compare, vi "preghiamo", fornisce l’indicazione decisiva per quanto riguarda la situazione in cui si trova Paolo: sta chiedendo, sta implorando, sta mendicando, sta supplicando.

Per compiacere a Dio

E’ interessante questo modo di predicare, di ammonire, di rimproverare in atteggiamento supplichevole: ve lo chiedo, vi scongiuro, imploro da voi. Che cosa?

«Per il resto, fratelli, vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù: avete appreso da noi come comportarvi in modo da piacere a Dio, e così già vi comportate; cercate di agire sempre così per distinguervi ancora di più. Voi conoscete infatti quali norme vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù».

E’ da sottolineare questo accenno ripetuto alla comunione con il Signore Gesù, colui che è il Kurios. Paolo fa appello a Gesù, che è il Kurios, il Sovrano, che è il Vivente, che è glorioso e vittorioso. Fa appello alla Signoria di Gesù nel momento stesso in cui ha assunto un atteggiamento supplichevole; perché la Signoria di Gesù è tanto forte quanto mansueta, poderosa e soavissima, dimessa fino alla estrema umiltà del Figlio, che a noi si è avvicinato, che ha condiviso la condizione umana, che ha portato a compimento la sua missione, passando attraverso tutte le miserie e tutti i dolori del mondo. E’ in rapporto con Gesù, in quanto Kurios, che io vi supplico, é nel nome della Signoria di Gesù che io mi piego dinanzi a voi e invoco da voi una risposta. Vi esorto con l’autorità che, nel nome di Gesù, è mendicità. Gesù, il Kurios, fa di me un testimone bisognoso di ricevere da voi una risposta, che in nessun modo posso imporvi.

Paolo fa riferimento alle norme, agli insegnamenti, alle raccomandazioni che già ha rivolto a suo tempo ai Tessalonicesi, ma tutto questo è da intendere nel senso di una testimonianza trasmessa nella obbedienza alla Signoria di Gesù: io sono già debitore verso di voi di quella testimonianza per la quale vi sto esortando e nello stesso implorando.

Vi prego, vi supplico nel Signore Gesù «avete appreso da noi come comportarvi in modo da piacere a Dio». E’ il punto su cui poi bisogna insistere, una questione di orientamento nella vita cristiana: tutto è mirato verso il compiacimento di Dio, si tratta di far contento Lui. Paolo non sta impostando il suo messaggio come un insegnamento autorevole, benché tutti siano pronti a riconoscergli l’autorità dell’apostolo, qui non si tratta di sottostare a Paolo, di obbedire a Paolo, di far contento Paolo, si tratta di piacere a Dio. Vi sto supplicando nel nome di Gesù che è il Signore. E’ in forza della nostra appartenenza a Gesù, è in forza della nostra adesione alla Signoria di Gesù, che la nostra vita umana diventa compiacimento.

E’ un valore straordinario ed assoluto quello che Paolo vuole mettere in evidenza nella novità della vita cristiana: è la vita di cui Dio si compiace, per cui Dio è contento, per cui l’Onnipotente fa festa. Proprio perché Paolo prende sul serio questa novità della vita cristiana - lui che sta esercitando in pienezza il suo ruolo autorevole di apostolo - è implorante: vi esorto, vi supplico, comportatevi in modo da piacere a Dio, «e così già vi comportate». Paolo è convinto di dover registrare le notizie che gli sono giunte e tanti altri riscontri, che ha potuto raccogliere nel frattempo, confermano tutto questo: così già vi comportate, voi siete impegnati a vivere per piacere a Dio. Anzi, si tratta di crescere in questa prospettiva. «Cercate di agire sempre così per distinguervi ancora di più. Voi conoscete infatti quali norme vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù». Se Paolo ha trasmesso ai Tessalonicesi delle raccomandazioni, è perché egli stesso le ha ricevute; adesso attraverso di lui i Tessalonicesi sono stati coinvolti in questa avventura, per cui la nostra vita umana che si immerge nella relazione con Gesù, diventa compiacimento di Dio. Appartenere alla Signoria di Gesù fa della nostra vita un segno rivelativo della volontà di Dio che si realizza nella storia. Ed è proprio con un esplicito accenno alla volontà di Dio che Paolo riprende il discorso «Perché questa è la volontà di Dio».

Siate santi

Come avviene che Dio si compiaccia di noi? Come avviene che Dio sia contento, che Dio faccia festa per questa novità che adesso caratterizza la vita di coloro che appartengono al Signore Gesù? Nei vv. 3-8, Paolo andrà illustrando in modo più dettagliato cosa significhi questa volontà di Dio che trova riscontro nella nostra vita umana. Paolo si rivolge ai Tessalonicesi supplicando che si rendano conto, che siano coerenti con quel che è avvenuto e che ha intimamente e radicalmente trasformato la loro vita. Ecco la vita: piacere a Dio. La volontà di Dio si compie nella vita degli uomini.

«Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione»: il vostro aghiasmos, santificazione. Questa terminologia può risultarci un po’ pesante, forse fastidiosa; qualche volta potrebbe anche risuonare in modo ambiguo: fatevi santi! E’ una raccomandazione che potrebbe apparirci un poco melensa, un poco agiografica, poco adatta comunque ad aiutarci nella nostra realtà di credenti in ricerca. Ed invece questo linguaggio, nella sua essenzialità, è efficacissimo. Paolo recupera tutta la teologia della santità nell’AT, nel corso della storia della salvezza. La santità di Dio si rivela come suscitatrice di santità nella vita: la teologia della santità è la teologia della vita. Io sono santo, voi siate santi. Siate santi perché io sono santo (Lev 19,2). Il Levitico è un blocco di capitoli che stanno nel cuore di tutta la legislazione da cui dipende il funzionamento dell’Alleanza. Tra Dio e il suo popolo l’alleanza è impostata per ottenere questo frutto: siate santi, perché io sono santo. Io sono il vivente, voi dovete imparare a vivere.

Qualche volta a noi sfugge questo particolare, diamo per scontato che già sappiamo vivere e che, poi, semmai, potremmo fare qualche fioretto e così diventeremo quei santi stampati sulle immaginette. Ma siccome nessuno ha grande interesse a farsi stampare su un’immaginetta, tanto vale non farsi santi.

Il fatto è che qui non è in questione quella santità, è in questione la vita. Siate santi perché io sono santo. E se il Signore fa alleanza con il suo popolo è proprio per instaurare questa relazione di vita, con tutto quell’armamentario farraginoso, per noi, di cautele, indicazioni, suggerimenti. Quel che a noi sembra nella legislazione sinaitica espressione di una religiosità fanatica, non deve farci dimenticare quale fosse il vero valore di quella preoccupazione così seria e matura nel discernere il puro dall’impuro: la preoccupazione di entrare fino in fondo nella relazione con il Dio vivente per vivere! Obbedire alla Legge perchè questa consente di vivere. Non è in questione la nostra vita come puro ideale, è in questione la nostra vita nel mangiare e nel bere, nel dormire e nel lavorare, nell’abitare e nel camminare, nell’entrare e nell’uscire, nella solitudine e nella relazione familiare, sociale: vivere! Siate santi perché io sono santo. Nel cuore del Pentateuco c’è il libro del Levitico, nei cinque libri della Torah il libro del Levitico è centrale, è il terzo. Spesso noi riteniamo di poterlo trascurare, perché arrivati ad un livello superiore. Fatto sta che il Levitico è al centro della Torah; non si può prescindere nella storia della salvezza dall’impatto con la Torah e, nel cuore, il Levitico, la teologia della vita. Il Signore ha fatto alleanza con noi, il Signore si è impegnato con noi per insegnarci a vivere. Io sono il tuo Dio, tu sei il mio popolo. Per questo siamo stati tirati fuori dall’Egitto, per questo facciamo festa a Pasqua: siamo stati tirati fuori dall’Egitto per entrare in relazione di alleanza, liberati una volta per tutte, per essere introdotti in una relazione stabile di vita. Ormai non è soltanto un episodio, ma un modo di vivere, una maniera di stare al mondo e di essere in rapporto con tutto quello che avviene in questo mondo. Siamo stati liberati per imparare a vivere. Nel cuore della legge la rivelazione della santità: siate santi perché io sono santo.

Paolo dice che questa è la volontà di Dio: santificarvi per vivere. Dio vi ha liberato mediante la morte e la resurrezione del Figlio e adesso ha instaurato con voi una relazione di vita, una relazione permanente, che rimane, che vi consente di riorganizzare tutto della vostra vita in comunione con il vivente.

Astenetevi dalla porneia

Non c’è vita altrimenti che così. La volontà di Dio è la vostra santificazione.

Paolo dà adesso due esempi sintomatici di questa santificazione, di questa aghiasmos.

Primo esempio di santificazione: «che vi asteniate dalla impudicizia, che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto, non come oggetto di passioni e libidine, come i pagani che non conoscono Dio». E’ il caso di fare alcune precisazioni sulla traduzione. Paolo fa riferimento alla porneia; la nostra Bibbia traduce con "impudicizia". Si riprende un tema già presente nella teologia della santità, o teologia della vita, nel libro del Levitico. Porneia indica ogni forma di abuso sessuale, porneia è anche un tipo di relazione instaurato tra parenti, essa indica un non rispetto dell’altro che ci si presenta con tutta la sua originalità, con tutte le sue prerogative. L’altra persona esige di essere onorata, che ciascuno sappia mantenere la relazione con la presenza altrui in un contesto di santità, non come oggetto di passioni o di libidine. Così fanno i pagani che non conoscono Dio. Laddove si prevarica nella relazione interpersonale, si rinnega la santità di Dio, non si conosce Dio. Chi adora Dio rispetta la persona dell’altro. L’altra persona, in quanto persona, diventa segno rivelativo della santità di Dio, per cui chi adora Dio onora la creatura di Dio. Coloro che non conoscono Dio abusano della presenza dell’altro, degli altri, vivono disordinatamente, in modo impuro, prepotente, squallido la relazione con gli altri. I pagani che non conoscono Dio, non onorano la persona umana.

Paolo si rivolge a dei cristiani che sono usciti dal paganesimo, così li ha identificati fin dall’inizio; li sta esortando e, in qualche modo richiamando, perché la minaccia di essere risucchiati dalle consuetudini con l’antico paganesimo è sempre incombente. Chi sa mai che non ritornino a quel certo modo di vivere, che in realtà è un modo di rinnegare la vita, la persona umana, ritornando alla impossibilità di adorare il Dio vivente?

Questo è un primo esempio: santità significa eliminazione della porneia.

Non siate avari

Secondo esempio, «che nessuno offenda e inganni in questa materia il proprio fratello, perché il Signore è vindice di tutte queste cose, come già vi abbiamo detto e attestato».

Paolo usa il verbo uperbaino e poi il verbo pleonekteo, che è tradotto con "ingannare". Il sostantivo corrispondente a questo verbo, pleoneksia, compare più volte nel NT. Spesso è tradotto con avarizia. Non c’è dubbio, qui Paolo sintetizza la sua riflessione proprio in rapporto a questo ulteriore esempio di santità, l’abbattimento della pleoneksia, dell’avarizia. Che nessuno offenda e sia avaro in questa materia, en to pragmati. Ci sono studiosi che molto opportunamente suggeriscono di tradurre en to pragmati con "negli affari". Che nessuno si ritenga autorizzato a prevaricare sul proprio fratello, a "far affari", in modo da affermare la propria soggettività che si rinserra nell’avarizia per allargarsi senza misura e per inglobare, per dominare, per strumentalizzare.

L’avarizia, la pleoneksia, è strettamente legata con la porneia. La porneia implica una relazione con la persona, la pleoneksia implica una relazione con l’ambiente, con le cose, con il mondo e quindi con la persona, con gli altri, con il fratello. Dice Paolo: c’è un modo di rinnegare la santità, di rinunciare a vivere, che ha la forma di un gigantesco espandersi del soggetto conquistatore del mondo. Quel gonfiarsi, espandersi, allargarsi senza limiti, quell’avarizia è uno spreco di vita, è un rinnegamento della santità, «perché il Signore è vindice di tutte queste cose, come già vi abbiamo detto ed attestato». Ricorrere alla frode, ritenersi autorizzato per affermare le proprie pretese a strumentalizzare le cose, i beni, le istituzioni, ogni affare, tutto questo è causa di corruzione e comporta inevitabilmente un riflesso assai disastroso a danno degli altri, ma in tanto è un’offesa per il mondo. E’ non già una occupazione del mondo, ma è uno svuotamento del mondo. Non è un impossessarsi del mondo per trarne dei vantaggi, per governarlo a proprio piacimento, è un distruggere il mondo, è la pleoneksia. Nel NT, facendo eco a quel che già si legge nell’AT, lo stesso Paolo è molto esplicito in altre lettere: la pleoneksia, ossia l’avarizia di cui qui ci sta parlando, tende a coincidere con l’idolatria.

L’idolatria è la suprema prepotenza nel tentativo di conferire valore alle cose di questo mondo fino a divinizzarle e in questo modo è proprio il mondo che subisce una devastazione immonda : l’avarizia.

La santità che Dio esige nella relazione di vita con lui quella santità per cui noi viviamo, si afferma mediante l’abbattimento della pleoneksia, dell’avarizia. Il Signore rivendica il valore di tutte le cose perché sono creature sue, «è vindice di tutte queste cose, come già vi abbiamo detto ed attestato». Ecco allora i vv. 7-8 «Dio non ci ha chiamati all'impurità, ma alla santificazione». Paolo sta stringendo la sua considerazione: l’alternativa alla santificazione è l’impurità, è l’akatarsia. L’impurità non è l’ossessione di personaggi dediti a forme di osservanza farisaica, l’impurità è esattamente la rinuncia a vivere. «Perciò chi disprezza queste norme non disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona il suo Santo Spirito». Questa è l’opera di Dio che si compie: una chiamata che attraverso il battesimo ci ha condotti fino all’alleanza che Dio ha voluto stipulare con noi. Lui, che è santo, ci chiama alla santità, ci chiama a condividere la sua vita, «chi disprezza queste norme non disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona il suo Santo Spirito».

L’alleanza sinaitica viene in forza del dono della legge, l’alleanza nuova e definitiva viene in forza del dono dello Spirito Santo. E’ in forza del dono dello Spirito Santo che è instaurata una relazione di vita ormai definitiva. «Chi disprezza queste norme non disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona il suo Santo Spirito».

L’amore fraterno

Fino al v. 8 Paolo ci ha esortati alla santità, adesso aggiunge qualche cosa, v. 9 : «Riguardo all'amore fraterno, non avete bisogno che ve ne scriva». L’amore fraterno, la filadelfia ... Le poche considerazione che Paolo aggiunge in questi versetti 9-12, sono strettamente connesse con quanto ci ha appena ricordato a riguardo della nostra santificazione. Noi siamo già predisposti ad apprezzare il valore di questa intrinseca continuità, direi quasi coincidenza, tra la nostra santificazione e l’amore fraterno. L’essere entrati in relazione con il santo, così da condividere la sua vita, fa di noi dei testimoni dell’amore fraterno, così che diventa esso stesso la filadelfia, il senso e il valore del nostro vivere : «Riguardo all'amore fraterno, non avete bisogno che ve ne scriva». Paolo insiste dicendo: «voi stessi infatti avete imparato da Dio ad amarvi gli uni gli altri, e questo voi fate verso tutti i fratelli dell'intera Macedonia». Insiste sulla fraternità, insiste sulla relazione tra fratelli. Non è insignificante tutto questo: tra fratelli la relazione non è scelta, è donata. Noi siamo fratelli non perché ci siamo scelti. Ci sono altre relazioni tra persone che suppongono una scelta, un adattamento, un’accettazione vicendevole. Tra fratelli non ci si sceglie. Si è fratelli indipendentemente dal fatto di esserci graditi, di ritrovarsi simpatici, di essere interlocutori amabili gli uni per gli altri. Paolo insiste nel rimarcare il fatto che l’amore fraterno è un amore donato, e aggiunge, alla scuola di Dio: «voi stessi infatti avete imparato da Dio», siete teodidatti, teodidaktoi. Qui riemergono testi della predicazione profetica: Is 54,13, Ger 31,34. Nella pagina del libro di Geremia risuona il messaggio della nuova alleanza: la legge sarà incisa nel cuore e voi avrete imparato da Dio. Avrete imparato da Dio. Questo è un amore che non può più essere banalizzato o ridotto a livelli di intesa, di solidarietà, di complicità, di connivenza, di simpatia, benché tutti questi elementi del vissuto umano meritino anch’essi il dovuto rispetto; qui è un amore che noi impariamo alla scuola di Dio, è un amore tra fratelli. L’amore tra fratelli non ha nulla di scontato. In genere l’amore tra fratelli ci sembra scontato ed invece no, proprio tra fratelli l’amore non è affatto scontato, perché tra fratelli non ci si è scelti. Mi capita di essere fratello, mi è caduto addosso questo fratello, mi pungola i fianchi questo fratello, mi spinge da dietro questo fratello: insopportabile, sconosciuto, diverso. Avete imparato da Dio ad amarvi gli uni gli altri come fratelli e questo voi fate attraverso tutti i fratelli dell’intera Macedonia.

L’orizzonte si apre: Tessalonica, Macedonia.. Paolo: parakaloumen de umas, (v.10) vi esortiamo, «ma vi esortiamo, fratelli, a farlo ancora di più». L’orizzonte si amplia ulteriormente e questa prospettiva di crescita acquista dimensioni che sfumano. Diventano forse esse vaghe, indistinte, un po’ evanescenti ? No. Sfumano nel senso che questa chiamata all’amore fraterno, questo apprendistato alla scuola di Dio nell’amore fraterno, che poi fa tutt’uno con la santità della vita nuova, non ha confini. Proprio perché amore fraterno - sembra strano questo - è universale. Quanto più è fraterno, nell’autentica e drammatica esperienza di quella presenza scomodissima che è un fratello non scelto nella nostra vita, si apre sull’universo della famiglia umana.

Farvi un punto d’onore

«Vi esortiamo, fratelli, a farlo ancora di più e a farvi un punto di onore». "Farvi un punto di onore". Che cosa vuol dire? Paolo usa il verbo filotimeomai. Esso esprime in che cosa consiste l’onore della vita cristiana, di questa vita santificata, l’onore di questa vita che si consuma nell’amore fraterno. Per renderci conto, in modo direi plastico, di quello che Paolo intende dire, bisogna ricordare il racconto del libro del Genesi cap. 2, il primo racconto della creazione: l’uomo e la donna sono nudi e non hanno vergogna, dopo il peccato hanno vergogna e per questo vogliono rivestirsi. Qui il punto di onore comporta un superamento della vergogna. Voi non siete più prigionieri di quella vergogna, non dipendete più da quella vergogna per cui nella relazione con gli altri ci si difende. La vergogna implica una relazione armata, nell’antico racconto c’è di mezzo il vestito: un modo per armarsi, o per difendersi o per aggredire.

Ora non c’è più la vergogna: fatevi un punto di onore, non più degli svergognati, ma degli onorati. Paolo descrive questa condizione di vita onorevole con 3 indicazioni e una aggiunta. Le 3 indicazioni nel v. 11 : «vivere in pace, attendere alle cose vostre e lavorare con le vostre mani, come vi abbiamo ordinato». La nostra traduzione, ancora una volta, non ci aiuta. Vivere in pace, è detto con il verbo esukazo, il verbo con cui si indica il riposo sabbatico. Vivere in pace non è mettersi in panciolle su una sedia a sdraio, vivere in pace è fare il sabato. Questa è la pace sabbatica, ed è la pace di chi è in grado di immergersi nella bellezza della creazione così come è ammirata dal creatore. E’ il giorno in cui il creatore riposa perché si compiace della bellezza delle sue creature: vivete in pace. Appunto per questo non c’è più vergogna, perché c’è consapevolezza di essere parte di una creazione che splende di bellezza e di essere un riflesso di quella bellezza. Per questo non siamo più svergognati, non siamo più bisognosi di difendersi e di aggredire, di vestirsi in quel modo, con la pretesa di coprire la vergogna. E’ una condizione di vita onorevole tale per cui "vivete in pace".

E poi dice : "si tratta di attendere alle cose vostre". Anche qui la traduzione non ci aiuta, è scritto, infatti, le cose "fatte in proprio", prassein ta idia. Questo significa che questa vita onorevole è cosciente dei propri limiti, consapevoli di essere limitati, circoscritti, di essere ritagliati in modo molto modesto: minuscole presenze, una realtà che in nessun modo può pretendere di dominare la scena. Attendete alle cose vostre. Li per li, una raccomandazione del genere tenderemmo ad interpretarla come : "fatevi gli affari vostri". Niente affatto! L’onore di essere piccolo al mondo, di essere questa piccola realtà che sono io, è acquisito come tassello di un mosaico meraviglioso, in quella bellezza che splende. Il mio è un minuscolo contributo, ma prezioso e insostituibile.

E, infine: "lavorate con le vostre mani". Questo lavorare con le mani implica la relazione di fatto, la relazione operosa, diretta, empirica. Ci sono di mezzo le mani, ma c’è di mezzo tutto quello che rende oggettivo l’inserimento nel mondo, per cui nella mia piccolezza sono in grado di prendere contatto con la realtà. Piccolo come sono, ho le mani per lavorare. Non sono più quello svergognato che vuole vestirsi per difendersi o per aggredire, ma sono inserito ormai nel sabato. Nei limiti che mi sono assegnati, sono chiamato a entrare in relazione con la creazione intera.

Conclude Paolo, v. 12: «al fine di condurre una vita decorosa di fronte agli estranei e di non aver bisogno di nessuno». E’ la sintesi finale: allo scopo di condurre una vita decorosa di fronte agli estranei. Quella filadelfia, quell’amore fraterno, ci ha veramente condotti ad abbracciare la moltitudine, tutti quelli che sono di fuori, tutti, il mondo. Non è soltanto un ambiente familiare, non è soltanto una comunità, neanche nel senso ecclesiale del termine, ma proprio .... tutti quelli che sono di fuori. Una vita "decorosa", Paolo usa un avverbio, euskemonos: è in questione lo schema della vita, è in questione proprio quella testimonianza di bellezza, a cui ha accennato prima. Che cosa vedranno gli uomini di voi ? La vostra bellezza. Come quello che dice Gesù nel Vangelo : gli uomini vedranno le vostre opere belle e daranno gloria al Padre che è nei cieli. Che cosa vedranno di voi ? Vedranno la vostra bellezza. E’ la bellezza onorevole di una presenza nel mondo che, consapevole dei propri limiti, è aperta all’incontro con l’universo. E così "non avete bisogno di nessuno". La traduzione ci imbroglia ancora una volta, sembra suggerire l’idea che ciascuno si fa i famosi affari propri. Qui, invece, è proprio la dignità della responsabilità personale, dove tu, quella piccola persona che sei, proprio tu sei in grado di assumerti una responsabilità che ti consente di accogliere il mondo nel cuore. Nella tua vita tu sei responsabile e non come un macigno che ti casca addosso e ti distrugge, ma attraverso l’onore di cui sei dotato, la bellezza che puoi testimoniare.

E’ prerogativa della tua vita, nel momento in cui tu non rinvii più ad altri, non scarichi addosso ad altri, non accusi nessun altro di quel che è responsabilità tua. Questo è il senso di quel "non aver bisogno di nessuno": essere chiamati ad una responsabilità nei confronti del mondo intero. L’evangelo passa attraverso la bellezza di questa vita, povera com’è, eppure capiente in modo tale da portare in sé la responsabilità di tutto e di tutti.


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