Incontri di discernimento e solidarietà

LIBRO DI GIUDITTA


Dopo aver dedicato le riflessioni dello scorso anno alle Lettere pastorali di S. Paolo, affronteremo quest’anno, ritornando all’Antico Testamento, la lettura del Libro di Giuditta. Questo libro era un “cavallo di battaglia” di P. Saverio Corradino e diventa un po’ avventuroso il nostro proposito di rileggere pagine che P. Corradino, amico di molti di noi, leggeva a suo modo con tanta sapienza e potenza teologica.

Partiamo da una constatazione: il Libro di Giuditta appartiene a quella piccola raccolta di scritti antico-testamentari che solitamente vengono definiti “deuterocanonici”, nel senso che non appartengono al canone delle scritture ebraiche, ma sono stati riconosciuti come scritti canonici dalle Chiese nell’epoca neo-testamentaria. Nella tradizione della Chiesa questi Libri sono stati letti come parte integrante della rivelazione biblica, ma non sono stati accolti nel canone delle scritture ebraiche. È la lettura neo-testamentaria che scopre in queste pagine di fatto appartenenti all’Antico Testamento, il valore della rivelazione piena, definitiva. Si potrebbe dire che si tratta di un’incursione del Nuovo Testamento nell’Antico perché questi scritti sono stati riconosciuti come scrittura rivelata dalla matura interpretazione che è propria del popolo cristiano. Quindi, una collocazione piuttosto singolare, originale che meriterebbe ulteriori precisazioni e approfondimenti. Una raccolta di scritti: oltre al Libro di Giuditta ricordiamo Tobia, i Maccabei, il Libro della Sapienza, del Siracide, pezzi del Libro di Daniele, di Ester, del Libro di Baruc; sono Libri che la Chiesa dall’inizio legge in greco (alcuni di essi sono stati scritti direttamente in greco, altri sono stati tradotti in greco e il testo originario è scomparso; questo vale anche per il Libro di Giuditta). C’è una certa oscillazione tra la traduzione in greco e quella in latino per cui può succedere che nelle nostre Bibbie – anche se le note normalmente ci informano – le pagine si presentano con qualche incertezza, ma si tratta di piccole variazioni che non ci devono preoccupare. All’origine c’è un testo in ebraico tradotto in greco in un’epoca peraltro molto antica e un testo aramaico tradotto in latino da S. Gerolamo tra il IV e il V secolo.

Leggiamo un libro che si inserisce nella elaborazione letteraria nella fase più recente della storia della salvezza (II secolo a.C.) quindi un testo tra i più recenti dell’Antico Testamento e abbiamo a che fare con un racconto che ha tutte le caratteristiche di una parabola caratterizzata da un linguaggio sapienziale orientato a elaborare un insegnamento: una grande parabola che si sviluppa nell’arco di sedici capitoli e mette in scena personaggi, situazioni, vicende e descrive dei luoghi; c’è poco da preoccuparsi per quanto riguarda l’esatta identificazione dei riferimenti di ordine storiografico o geografico: tutto rientra nella logica propria del linguaggio sapienziale che usa lo strumento della parabola. Quando leggiamo le parabole del Signore nei Vangeli poco importano i particolari riferimenti; quello che conta nella parabola è il filo conduttore di una vicenda che viene valorizzata nel suo significato propriamente teologico, per quanto esprime e trasmette un messaggio di ordine sapienziale.

Il Libro di Giuditta si collega con un tipo di letteratura che acquisterà un rilievo sempre più importante nel corso degli ultimi secoli dell’epoca antica e ancora nei primi secoli dell’epoca nuova, cioè la letteratura apocalittica. E’ imparentato con i Libri che appartengono a quel certo genere letterario caratterizzato da un linguaggio teologico, pastorale che va comunemente sotto il titolo di “letteratura apocalittica”. Quando si dice apocalisse – lo sapete bene – si intende un messaggio di consolazione in rapporto a una situazione problematica, dolorosa, forse drammatica, forse addirittura catastrofica: il “male nel mondo” per dirla con un’espressione un po’ grossolana, ma che ci consente di intenderci magnificamente senza bisogno di aggiungere elaborazioni di dettaglio. Il messaggio apocalittico affronta con piena disponibilità di linguaggio, per quanto riguarda il coinvolgimento dell’animo umano, il vissuto personale e comunitario, il dramma e si assume la responsabilità di annunciare un messaggio di consolazione; laddove il male esplode è un’apocalisse, uno svelamento, una rivelazione del protagonismo di Dio. Dio si presenta come vittorioso. Tutto questo a partire dalla premessa che la letteratura apocalittica, che poi diventa una modalità di comunicazione pastorale e teologica, è scontata: per renderci conto di quello che succede nel mondo, nella storia umana e di come si tratta di affrontare il dramma, la catastrofe, il male, bisogna partire dalla fine. E il linguaggio apocalittico assume esattamente questa modalità interpretativa della realtà come un affaccio sul mondo, sulla scena della storia, sugli eventi che sono in corso a partire dalla fine, che appartiene a Dio; e la fine è dimostrazione ineccepibile della gloria di Dio, il trionfo di Dio. Ed è a partire dalla fine che gli eventi in corso e che, generazione dopo generazione fino ad esserne coinvolti e forse travolti anche noi dentro un vortice di dolore e tribolazioni, la storia prende significato: a partire dalla fine. Nel linguaggio corrente quando si dice “apocalisse” si intende un messaggio che annuncia un disastro, una catastrofe o un messaggio che annuncia qualcosa che deve succedere in seguito come se occorresse stare attenti ad elaborare la comprensione di “segni” che incombono per tenere la fine più lontana che si può, perché la fine è minacciosa, pericolosa, ci casca addosso come estrema condanna: non è così perché è proprio a partire dalla fine che tutto si illumina, si rivela, splende nella luce gloriosa di Dio che è vittorioso e che porta a compimento la sua intenzione d’amore.

La nostra parabola si inserisce in vicende che hanno impegnato il popolo dei credenti nel corso di tanti secoli ormai; una fase di maturità (II secolo a.C.), in un contesto che dal punto di vista storico è caratterizzato dall’esperienza di una grande persecuzione. E’ proprio nella prima metà del secondo secolo a. C. che il popolo che risiede nella terra di Israele è sottoposto a una tribolazione che tocca livelli superlativi; una vera e propria persecuzione al tempo di un personaggio, re di Siria, che è anche il sovrano che governa il territorio nel quale risiedono i discendenti del popolo di Israele, Antioco IV. Ed è proprio nel corso di quegli anni che poi prende vita e si sviluppa l’insurrezione che fa capo ai Maccabei. Ma il Libro di Giuditta ci racconta, attraverso il linguaggio della parabola, non esattamente quei fatti ma come interpretare quei fatti e quella che nella storia umana è sempre e comunque, nella diversità dei luoghi e con molteplici manifestazioni pratiche, l’opposizione a cui va incontro il popolo dei credenti. La prova a cui è esposta la fede, che non è riservata a qualche momento particolare ma è sempre attuale ed è la prova che porta con sé la minaccia per eccellenza, il dramma più doloroso, l’ipotesi più sconvolgente di un risucchio nel vortice dell’iniquità umana. Ed ecco come la vittoria di Dio si realizza laddove il popolo dei credenti è stretto in una morsa che sembra stravolgere ogni cosa.


Padre Pino

Lectio divina


Incontri 2013-2014 - Libro di Giuditta