Incontri di discernimento e solidarietà
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7 gennaio 2014

Libro di Giuditta

Nella prova il Signore ci educa alla fede

Terzo incontro del ciclo 2013-2014


Nei due incontri precedenti abbiamo letto i primi sei capitoli del Libro di Giuditta. Questa sera leggeremo altri due capitoli, il settimo e l’ottavo. Con la lettura del capitolo sei abbiamo concluso una prima parte di questa grande parabola e abbiamo constatato come, attraverso un linguaggio sapienziale e didattico che assume già certe forme della letteratura apocalittica, si sviluppa una riflessione sul senso della storia universale in rapporto a quella contestazione che riguarda la presenza del popolo dei credenti. E, d’altra parte, è proprio la presenza della fede nella storia umana, come va attribuita a soggetti che validamente la rappresentano, che costituisce la novità determinante che ci fornisce il criterio pertinente e risolutivo per un’interpretazione di tutta la vicenda: il senso della storia umana in rapporto alla vittoria di Dio che si manifesta proprio là dove la fede è presente e operante.

La grande parabola si presenta a noi con le forme tipiche di una narrazione di ampio respiro, coinvolgendo personaggi che abbiamo riconosciuto come figure simboliche; personaggi che ci aiutano a cogliere le grandi tensioni che agitano la scena del mondo e che conferiscono alla storia umana una visibilità in sé e per sé macroscopica. E, d’altra parte, ancora non abbiamo fatto conoscenza con il personaggio che dà il titolo al Libro; questa sera ci arriveremo. Avevo dato, a suo tempo, un titolo alla prima parte della grande parabola, fino al cap. 6, anche se in termini piuttosto approssimativi: il “confronto tra poteri che disputano per il dominio del mondo”, il passaggio da un impero all’altro, nella figura di Nabucodònosor; il grande progetto, il “mistero” che Nabucodònosor vuole realizzare in modo da conquistare tutte le regioni dell’Occidente che, a suo parere, si sarebbero dimostrate regioni abitate da popolazioni ribelli che devono essere ferocemente unite perché l’opposizione a lui è riprovevole, moralmente pericolosa; costituisce nientemeno che l’equivalente di una bestemmia nei confronti di quella dignità che lo stesso Nabucodònosor pretende di rappresentare nella sua posizione di dominatore del mondo. Poi l’incarico dato al generale comandante delle truppe, Oloferne, che conduce l’esercito alla conquista delle regioni dell’occidente fino ad arrivare sulla soglia della terre abitata dal popolo di Israele. Abbiamo fatto conoscenza con questo popolo all’inizio del capitolo quattro, quando l’esercito di Oloferne è accampato ai piedi della montagna. Il popolo di Israele si identifica in rapporto a un’alleanza di vita, una comunione gratuita che Dio stesso ha voluto instaurare; questo popolo si identifica in virtù di questa appartenenza al Signore che è plasticamente rappresentata, nel racconto che stiamo leggendo, dalla collocazione in un contesto geografico che ci parla di montagne a cui si accede solo superando una scarpata ripidissima e attraversando un varco dove è collocata una città di nome Betulìa che vuol dire “vergine”; dalla resistenza di Betulìa dipende la sorte dell’intero paese e della popolazione che vi abita e, in prospettiva, la sorte di Gerusalemme il cui Tempio è stato appena ricostruito dopo il ritorno dall’esilio perché questo popolo – come ben sappiamo e constatato la volta scorsa leggendo quelle pagine – è un popolo di peccatori che ha affrontato in pienezza un cammino di conversione. Sono ritornati dall’esilio, il Tempio è in piena attività e la sorte del Paese dipende dalla resistenza che verrà opposta all’avanzata dell’esercito di Oloferne da parte di quella città e dei suoi abitanti che vivono in una posizione strategica che, nella ricostruzione scenografica della vicenda, il testo mette opportunamente in evidenza.

Abbiamo poi fatto conoscenza con lo stupore di Oloferne che si trova alle prese – ed è un caso originalissimo ed imprevisto – con un popolo che non si arrende, non si schiera dalla sua parte, non cerca una relazione pacifica offrendosi come suddito della potestà sovrana esercitata da Nabucodònosor sulla scena della storia umana.

In quel contesto abbiamo fatto conoscenza con un altro personaggio, Archior, generale ammonita, popolazione che si è alleata con Oloferne insieme a tutta una serie di truppe ausiliarie delle popolazioni che man mano hanno preferito allearsi per godere almeno del beneficio della sopravvivenza. Archior ha spiegato a Oloferne e allo stato maggiore dell’esercito il motivo per cui Israele resiste e perché sarebbe il caso di evitare un confronto diretto, uno scontro con il popolo di Israele; è un popolo che non ha un esercito né un governo intraprendente che possa rappresentare un ostacolo diretto all’avanzata delle truppe assire, ma questo popolo si identifica nella relazione con il Signore. Archior, per quanto pagano, è perfettamente coerente nell’illustrare la situazione: è possibile procedere in uno scontro con questo popolo se esso è in posizione di conflitto con il Signore, il Dio vivente, il Dio cui appartiene. Ma se questo popolo, come è la situazione attuale – dichiara Archior – è positivamente motivato in questa relazione specialissima che lo lega indissolubilmente al Dio cui appartiene, è opportuno evitare lo scontro. In ogni caso il rapporto con Israele dipende dal riconoscimento del valore discriminante che è costituito dall’appartenenza di questo popolo al Signore. Bisogna tener conto del fatto, nella relazione con Israele, per prendere decisioni, per procedere con la campagna militare o nel senso di ogni altra forma di coinvolgimento, che l’identità di Israele non dipende dalle apparenze esteriori (che possono essere anche molto meschine e modeste essendo del tutto sproporzionate rispetto all’imponente esercito che marcia contro quella terra), ma dell’appartenenza di questo popolo al suo Signore. Dopodiché Archior è stato brutalmente condannato da Oloferne che ha deciso di rimandarlo oltre il confine in modo tale che anche Archior trovi dimora presso quelli del popolo di cui ha parlato e condivida la sorte di coloro che saranno presto totalmente sterminati man mano che il suo esercito avanzerà. Archior è costretto a condividere la sorte degli abitanti di Betulia e quindi la sorte di quel popolo che, nella dichiarazione di Oloferne, con piglio feroce e intransigente, rivendica il diritto del gran re, Nabucodònosor, che non può essere contestato nel suo valore divino. Non si può fare appello a una divinità che non sia la sua; è una bestemmia il modo di ragionare di Archior che definisce la presenza storica di Israele sulla scena del mondo in rapporto ad un’altra divinità. Ora Archior si trova dalla parte degli avversari e ne condivide la vicenda.


Inizia l’assedio di Betulìa

Dal cap. 7 inizia la seconda parte del racconto che arriverà fino al cap. 9. Per stasera leggeremo i capp. 7 e 8 e possiamo dare subito un titolo a questa parte del grande racconto parabolico: la prova della fede.

Oloferne procede naturalmente dopo quel mese di sosta passato nella piana di Esdrelon per raccogliere il bottino in vista di un chiarimento della situazione perché si tratta di avanzare verso sud ed entrare nel territorio abitato da questo popolo singolare; e, quindi, l’avvio di tutte quelle operazioni che devono condurre all’assedio di Betulia, la sua conquista e l’invasione del territorio.

Cap. 7, vv. 1-3: “Il giorno dopo, Oloferne diede ordine a tutto l'esercito e a tutta la moltitudine di coloro che erano venuti come suoi alleati, di iniziare l'azione contro Betulia, occupando le vie d'accesso alla montagna e attaccando battaglia contro gli Israeliti. In quel giorno effettivamente ogni uomo valido fra loro si pose in marcia (bisogna occupare le strade, individuare esattamente l’obiettivo da conquistare; l’esercito immenso di Oloferne viene schierato, ma per adesso abbiamo l’impressione che si tratti soltanto di un’azione dimostrativa che comunque, imponente com’è, certamente non passa inosservata e non può lasciare indifferenti coloro che osservano la scena dalla cresta di quelle montagne). Il loro esercito si componeva di centosettantamila fanti (cinquantamila si sono aggiunti nel frattempo: meglio schierarsi dalla parte di Nabucodònosor che averlo come nemico) e dodicimila cavalieri, senza contare gli addetti ai servizi e molti altri uomini che erano a piedi con loro, in numero ingente. Essi si accamparono nella valle vicina a Betulia oltre la sorgente, allargandosi dalla zona sopra Dotain fino a Belbaim ed estendendosi da Betulia fino a Kiamon, che è di fronte a Esdrelon”. Un accampamento mastodontico che viene sistemato proprio ai piedi della montagna in modo tale da predisporre una base da cui partire per sferrare l’attacco che sarà certamente decisivo, risolutivo, travolgente.


Timori e mobilitazione degli Israeliti

Dal v. 4 ci renderemo conto che l’assetto e il quadro geografico è avverso all’avanzata di un esercito poderoso come quello di Oloferne che avrebbe bisogno di uno spazio particolarmente ampio per manovrare.

Intanto vediamo che cosa succede a Betulìa tra coloro che si sono dichiarati responsabili di difendere la città per impedire l’accesso alla terra il cui popolo è ritornato dopo l’esilio e, in prospettiva, evitare che l’esercito invasore giunga fino a Gerusalemme e sia in grado, addirittura, di profanare il tempio che è stato appena restaurato. Vv. 4-5: “Gli Israeliti, quando videro la loro moltitudine, rimasero molto costernati e si dicevano l'un l'altro: «Ora costoro inghiottiranno tutta la terra, né i monti più alti, né le valli profonde, né i colli potranno resistere al loro peso». Ognuno prese la sua armatura e, accesi i fuochi sulle torri, stettero in guardia tutta quella notte”. La percezione è quella di essere esposti a una minaccia grandiosa che si presenta attraverso la visibilità di quell’esercito poderoso accampato ai piedi della montagna come l’annuncio di uno scompenso cosmico, di uno stravolgimento catastrofico, di una specie di terremoto generale che riempirà le valli e abbatterà le montagne, senza che vi siano realtà solide che potranno resistere; questa minaccia ha una portata indicibile, equivalente a una calamità che porta con sé lo sconquasso dell’ordine naturale: le montagne travolte da questa presenza che tutto inghiotte. Nello stesso tempo però c’è una mobilitazione generale a Betulia e, per quanto tutti percepiscano di essere così gravemente minacciati, cercano di mettere in campo un minimo apparato difensivo, manifestando l’intenzione di difendersi ad oltranza; anche se è evidente che questo apparato difensivo è del tutto inadeguato rispetto alla minaccia. Più che vegliare e osservare i movimenti dell’avversario non possono fare. Ma senza dubbio sembrano decisissimi a confermare la decisione presa a suo tempo di difendere la città, il territorio, il popolo, Gerusalemme e il Tempio senza accettare alcun compromesso con l’avversario.


La strategia di Oloferne

V. 6-18: “Il giorno seguente Oloferne fece uscire tutta la cavalleria contro il fronte degli Israeliti che erano in Betulìa, osservò le vie di accesso alla loro città, ispezionò le sorgenti d'acqua e le occupò e, dopo avervi posto attorno guarnigioni di uomini armati, fece ritorno tra la sua gente. Allora gli si avvicinarono tutti gli Idumei e tutti i capi del popolo di Moab e gli strateghi della costa e gli dissero (i generali e i comandanti delle truppe ausiliarie che conoscono bene i territori suggeriscono a Oloferne un piano strategico che gli consentirà di conquistare Betulia senza perdere nemmeno uno dei suoi soldati): «Voglia ascoltare il signor nostro una parola, perché siano evitati inconvenienti nel tuo esercito. Questo popolo non si affida alle sue lance, ma all'altezza dei monti, sui quali essi si sono appostati (il popolo che vive sulle montagne, nella nostra parabola, acquista una ricchezza di significato il cui simbolismo non può sfuggirci), e certo non è facile arrivare sulle creste dei loro monti (per la cavalleria e la fanteria le montagne sono un ostacolo). Quindi, signore, non attaccare costoro come si usa nella battaglia campale e non cadrà un sol uomo del tuo esercito. Rimani fermo nel tuo accampamento avendo buona cura di ogni uomo del tuo esercito: intanto i tuoi gregari vadano ad occupare la sorgente dell'acqua che sgorga alla radice del monte, perché di là attingono tutti gli abitanti di Betulia (c’è una sorgente a cui si riforniscono gli abitanti di Betulia e dall’acqua dipende la vita. Questo piano garantisce la vittoria a breve termine senza colpo ferire; si dovranno arrendere per forza, non potranno farcela. Nessuna perdita per l’esercito di Oloferne: uno spettacolo tutto da godere perché quelli creperanno per la mancanza d’acqua e si arrenderanno); vedrai che la sete li farà morire e verranno alla resa della loro città. Noi e la nostra gente saliremo sulle vicine alture dei monti e ci apposteremo su di esse e staremo a guardia per non lasciare uscire dalla città alcun uomo. Così cadranno sfiniti dalla fame essi, le loro donne, i loro figli e, prima che la spada arrivi su di loro, saranno stesi sulle piazze fra le loro case. Avrai così reso loro un terribile contraccambio perché si sono ribellati e non hanno voluto venire incontro a te con intenzioni pacifiche»”. Sarà dunque una punizione adeguata alla grave colpa di cui sono responsabili che si sono imposti da sé “perché non hanno voluto venire incontro a te con intenzioni pacifiche” come le altre popolazioni confinanti, compresi quei tali che ora sono comandanti delle truppe di Oloferne. “Piacque questo discorso ad Oloferne e a tutti i suoi ministri e diede ordine che si facesse come avevano proposto (una morsa spietata si stringe intorno a Betulia. Nel frattempo l’esercito di Oloferne riposa. D’altra parte notate come nei versetti che stiamo leggendo, ancora e ripetutamente viene segnalata quell’identità così singolare del popolo che abita sui monti; ma bisogna che sia garantito il rifornimento d’acqua attinta dalla sorgente che sta ai piedi della montagna). Si mosse quindi il reparto dei Moabiti e cinquemila Assiri con loro, si accamparono nella valle e occuparono gli acquedotti e le sorgenti d'acqua degli Israeliti. A loro volta gli Idumei e gli Ammoniti, con dodicimila Assiri, salirono e si appostarono sulla montagna di fronte a Dotain. Spinsero anche contingenti dei loro a meridione e a oriente di fronte a Egrebel, che si trova vicino a Chus, situata sul torrente Mochmur (le geografie sono un po’ fantastiche, ma è quel che serve per illustrare l’assedio di cui ormai è preda la città di Betulia, ma non ci sono operazioni di carattere propriamente militare: la città dovrà arrendersi per forza perché non è in grado di rifornirsi d’acqua). Il rimanente esercito degli Assiri restò accampato nella pianura ricoprendo tutta l'estensione del terreno. Le tende e gli equipaggiamenti costituivano una massa imponente, perché essi erano in realtà una turba immensa”.


Gli Israeliti allo stremo

Vv. 19-22. Man mano che passano i giorni l’assedio che è stato impostato realizza gli effetti drammatici che già i generali dell’esercito di Oloferne avevano prospettato: “Allora gli Israeliti alzarono suppliche al Signore loro Dio, con l'animo in preda all'abbattimento, perché da ogni parte li avevano circondati i nemici e non c'era modo di passare in mezzo a loro (impossibile fuggire, e impossibile rifornirsi d’acqua). Il campo degli Assiri al completo, fanti, carri e cavalli, rimase fermo tutt'attorno per trentaquattro giorni e venne a mancare a tutti gli abitanti di Betulia ogni riserva d'acqua. Anche le cisterne erano vuote e non potevano più bere a sazietà un giorno solo, perché distribuivano da bere in quantità razionata. Incominciarono i bambini a cadere sfiniti, le donne e i ragazzi venivano meno per la sete e cadevano nelle piazze della città e nei passaggi delle porte e ormai non rimaneva più in loro alcuna energia”. Il popolo è ridotto allo stremo delle forze; una spossatezza ben comprensibile nell’ordine delle possibilità di resistenza fisica, ma anche una spossatezza che viene illustrata in rapporto ad uno svuotamento interiore, a un indebolimento delle resistenze che dipendono dalla lucidità, dalla libertà interiore, dalla fede: una situazione di debolezza che va man mano degradando, traducendosi in una mancanza di fiato che si è come rattrappito. Dove leggevamo “l’animo in preda all’abbattimento” si parla di un rimpicciolimento del fiato, uno spasimo, gente ansimante col fiato corto che non ce la fa più. E questo perché anelano all’acqua come gli assetati che rischiano di consumarsi fino a morire. E questo perché è in atto un fenomeno interiore che altrove viene descritto col termine di “pusillanimità”; l’esperienza di uno smarrimento interiore per cui manca il fiato. Qualcosa del genere la troviamo nel Vangelo di ieri, nel caso dei Magi che sono smarriti: hanno perso la visione della stella. Si tratta di uno svuotamento interiore, una ristrettezza dello spasmo interiore, un irrigidimento di quella capienza che era abituata invece ad allargarsi in maniera tale da contenere non solo l’aria necessaria per respirare e sopravvivere, ma che era spalancata nella relazione con il Mistero che si rivela, la presenza del Dio vivente. Questa mancanza d’acqua che mette in gioco la stessa possibilità di sopravvivere è un fenomeno ricorrente a più ripresa nella storia del popolo di Dio, ma, in particolare, in quella tappa decisiva che fu il grande esilio fino alla Terra Promessa: sembra quasi un ritornello; si accampano e non c’è acqua; anche qui non c’è acqua. Ricordate l’Esodo, cap. 15: appena usciti dall’Egitto, attraversato il mare, tre giorni dopo non c’è acqua; e poi ancora nel cap. 17, e poi nel Libro dei Numeri, e nel Deuteronomio. Non c’è acqua, ma dal punto di vista tecnico la questione viene sempre risolta. Mosè viene contestato, aggredito, minacciato e invece la soluzione operativa che serve a superare il problema quando si presenta non manca mai: tecnicamente il problema è sempre risolto. Il fatto è che il vero problema riguarda esattamente quella libertà interiore a cui coloro che erano stati in Egitto erano stati condotti per il fatto stesso di essere stati sottratti al regime schiavistico del Faraone: sono liberi, grande festa (Esodo, cap. 15), il canto della vittoria e subito dopo, nello stesso capitolo, sono pronti a rimpiangere l’Egitto: “è meglio sotto il Faraone, meglio essere schiavi che essere liberi”. Il vero problema riguarda l’esercizio della libertà, l’impreparazione a vivere nella libertà. Un conto è l’intervento del Signore che, in maniera così potente, ha sconfitto il Faraone e li ha liberati; ma poi bisogna viverci nella libertà. Un conto è essere stati liberati, quella volta; altro conto è permanere in uno stato di libertà. Affrontare il viaggio con tutte le sue intemperie e vicissitudini, con tutto quello che è normale nel corso di un viaggio, quale che sia l’ambiente, il contesto geografico, storico, culturale, istituzionale con cui il popolo in cammino dovrà fare i conti. Vivere nella libertà. E, d’altra parte, l’alleanza tra il Signore e il suo popolo potrà essere instaurata soltanto in un contesto di libertà. Quando il popolo verrà condotto ai piedi del Sinai il Signore spiega attraverso Mosè: “Ti ho portato fino qua su ali di aquila, ti ho liberato” (Es. 19, 4) perché voglio fare alleanza e posso farla soltanto con un interlocutore libero, non con un prigioniero o uno schiavo, non in grado di corrispondermi liberamente. E’ nella libertà che l’Alleanza può essere instaurata, una libertà che implica tutto un coinvolgimento affettivo e che è un dono d’amore purissimo, che chiede di essere corrisposto nella gratuità dell’amore stesso; ed è una corrente di vita che vuole trovare riscontro in questa nuova testimonianza di vita che il popolo sarà in grado di realizzare sulla scena del mondo, nella storia umana e diventerà così un’avanguardia che si trascinerà dietro tutta l’umanità che, rieducata nella libertà, nella relazione con il Dio vivente, sarà in grado di ritornare alla sorgente fino a quella pienezza di vita da cui tutto proviene.


Il popolo contesta i capi: meglio schiavi ma vivi

Vv. 23-28. Il popolo protesta. L’esercizio della libertà fa problema: “meglio stavamo quando eravamo schiavi”. Non c’è acqua e la mancanza d’acqua, alla luce di quelle pagine così istruttive e importanti nel Pentateuco e in altri scritti antico-testamentari rinvia immediatamente, quasi automaticamente, alla messa in discussione della libertà: “meglio essere schiavi perché ci manca l’acqua e questo vuol dire che non possiamo vivere; mentre noi vivevamo anche gradevolmente, e ancorché schiavi, stavamo meglio. Chi gliel’ha detto a Mosè che Dio ci vuole liberi?” (Es. 17). (Ricordate quel momento decisivo in cui a Mosè cascano le braccia: “Ma le mani di Mosè si erano fatte pesanti”). “Il Signore è in mezzo a noi si o no?”; perché la questione non riguarda solo la difficoltà empirica dovuta alla mancanza d’acqua, ma riguarda esattamente il discernimento circa la volontà di Dio. “E’ colpa di Mosè e poi del Signore: il passaggio è automatico. Vedi che stiamo malissimo perché siamo senz’acqua”. “Cascano le braccia”: ricordate che in quell’occasione la vittoria contro l’aggressore (anche in quel caso una figura simbolica, Amalek) che attacca la retroguardia dove c’è debolezza e quando ci sono problemi nascono dubbi sulla volontà del Signore, il motivo originario per il quale ci si è messi in cammino. “Vedi che ti sei sbagliato, la tua vocazione era un’altra, la strada era un’altra, la volontà di Dio era un’altra”. E la vittoria dipende dal fatto che Mosè tiene le braccia alzate. Il popolo, liberato dalla schiavitù, è però in difficoltà quando si tratta di vivere nella libertà. L’esercizio della libertà coincide con l’esercizio della fede perché la fede è l’atto supremo della libertà a cui gli uomini sono chiamati. La fede è l’atto libero per eccellenza, è l’atto con cui si aderisce all’iniziativa del Mistero che si fa presente, che avanza, che instaura una relazione nella gratuità assoluta, e l’adesione libera a questa iniziativa del Mistero – che è il Dio vivente – è la fede. Quel popolo che è stato liberato dall’Egitto nasce come un figlio primogenito di Dio ed è il popolo della fede: nasce la fede, ma si tratta poi di vivere nella fede, di vivere nella libertà.

Ora abbiamo a che fare con gente sfinita, sfiatata, sfiduciata; gente che, col passare dei giorni, dal momento che manca l’acqua, è alle prese con problemi di ordine tecnico che sembrano insuperabili, ma il vero problema sta nella fiacchezza della fede. “Allora tutto il popolo si radunò presso Ozìa e i capi della città, con giovani, donne e fanciulli, e alzarono grida e dissero davanti a tutti gli anziani: «Sia giudice il Signore tra voi e noi, perché voi ci avete recato un grave danno rifiutando di proporre la pace agli Assiri (il popolo si lamenta, protesta come anticamente nei confronti di Mosè adesso di Ozia e degli altri responsabili rispetto alla comunità che abita Betulia: “colpa vostra”. E qui c’è di mezzo un giuramento imprecatorio, come si dice (Sia giudice il Signore tra voi e noi: meglio diventare schiavi di Nabucodònosor). Ora non c'è più nessuno che ci possa aiutare, perché Dio ci ha venduti in balìa di costoro per essere abbattuti davanti a loro dalla sete e da terribili mali. Ormai chiamateli e consegnate la città intera per il saccheggio al popolo di Oloferne e a tutto il suo esercito. E' meglio per noi esser loro preda; diventeremo certo loro schiavi, ma potremo vivere e non vedremo con i nostri occhi la morte dei nostri bambini, né le donne e i nostri figli esalare l'ultimo respiro. Chiamiamo a testimonio contro di voi (l’imprecazione) il cielo e la terra e il nostro Dio, il Signore dei nostri padri (ufficialmente questa gente è rappresentante del popolo dei credenti e – fateci caso – fanno appello al Signore per punire i capi che sono responsabili di questo discernimento sbagliato), che ci punisce per la nostra iniquità e per le colpe dei nostri padri, perché non ci lasci più in una situazione come questa in cui siamo oggi»”. Fanno appello al Signore, è il popolo dei credenti e come tale ancora si identifica. Ma sono in questione esattamente l’autenticità, la coerenza, la libertà, la purezza della fede; tutto questo è compromesso. Addirittura sono pronti ad interpretare il dramma nel quale sono coinvolti come la conseguenza di una colpa che il Signore vuole punire: “è Lui che ci punisce per la nostra iniquità”. Noi sappiamo che sono appena tornati dall’esilio, dunque peccatori che sanno che cosa vuol dire essere alle prese con le conseguenze del proprio fallimento, ma hanno fatto ritorno e vissuto la conversione. Lo stesso Archior ha detto a Oloferne: “non attaccarli perché loro ora sono aperti positivamente nella relazione con il loro Dio e con questa apertura è inutile che tu li attacchi”. E invece, ora, sono pronti a dichiararsi responsabili per le colpe dei nostri padri e le nostre che Dio vuole punire. E’ una storia di peccato: “come capitò ai nostri padri che furono travolti dalle conseguenze dei loro peccati ora capita a noi”. Tutto normale, tutto scontato: “come non avete capito questo?; e ci avete messo in testa che dobbiamo resistere nella fede. Bisogna arrendersi perché siamo peccatori”. La questione diventa molto raffinata perché c’è di mezzo un fraintendimento grave della situazione: meglio riconoscersi peccatori e dichiararsi meritevoli di una condanna che non resistere nella fede. Meglio, più facile, più comodo, più convincente.

E ora ci stiamo avvicinando allo snodo che ci introduce in tutto lo sviluppo successivo della vicenda. Dio è all’opera non perché vuole punirci in quanto peccatori, ma perché vuole educarci nella fede. Non si tratta di accontentarsi di essere peccatori – e quasi quasi compiacersi di esserlo – che non possono fare altro che ripetere i propri peccati o quelli delle generazioni precedenti restando intrappolati dentro le conseguenze di questi peccati che si trasmettono di generazione in generazione. Qui c’è da fare un passo nella fede, un passo avanti non più indietro.


Ozìa chiede il miracolo entro cinque giorni

Vv. 29-32. Adesso parla Ozìa che è il presidente dell’assemblea: “Successe allora un pianto generale in mezzo all'adunanza e gridarono suppliche a gran voce al Signore loro Dio. Ozia rispose loro (la situazione è straziante, ma Ozìa vuole incoraggiare): «Coraggio, fratelli, resistiamo ancora cinque giorni e in questo tempo il Signore Dio nostro rivolgerà di nuovo la misericordia su di noi; non è possibile che egli ci abbandoni fino all'ultimo. Ma se proprio passeranno questi giorni e non ci arriverà alcun aiuto, farò secondo le vostre richieste». Così rimandò il popolo ciascuno al proprio posto ed essi tornarono sulle mura e sulle torri della città e rimandarono le donne e i figli alle loro case; ma tutti nella città erano in grande abbattimento”. Ozia pronuncia un giuramento: ancora cinque giorni e in cinque giorni può succedere un miracolo; per esempio, che piova. Qualcuno potrebbe dire che la fede sta in questo: porre a Dio le condizioni per cui Lui debba compiere un miracolo. Mettiamo noi le condizioni: cinque giorni “e se Dio non farà quello che noi ci aspettiamo ci arrenderemo, e io farò secondo le vostre richieste ”. In questo contesto anche quelli che sembrano atti di fede rientrano dentro una testimonianza di fede che si è infiacchita, che si rattrappisce sempre di più, si svuota. Siamo noi che stabiliamo quello che Dio deve fare e misuriamo la nostra fede in base a quello che noi abbiamo stabilito che Egli debba fare. “Entro cinque giorni ci sarà la pioggia”: la nostra fede sta in questo; ma questo è ancora un modo per illustrare quella situazione di infiacchimento della fede in cui il popolo si trova. Non siamo giudici di nessuno di fronte a una vicenda del genere, lo comprendiamo bene: non c’è l’acqua. Tra l’altro, alla fine del cap. 7, c’è il termine “abbattimento”: una grande situazione di miseria dove si intende la spossatezza generale, la fame insieme alla mancanza d’acqua, la prospettiva della morte che incombe per tutti a partire dai più deboli; ma è proprio un impoverimento interiore, uno svuotamento dell’animo, una perdita di fiato laddove l’esercizio della libertà apre il vissuto umano alla relazione con il Dio vivente. Ed è esattamente questa la vocazione che è stata donata al popolo dell’Alleanza, l’identità singolare del popolo dei credenti nella storia umana; esattamente questa la prospettiva in rapporto alla quale prende luce la storia dell’umanità intera che è chiamata a crescere e finalmente maturare in una relazione di vita che è orientata fino alla pienezza, fino al ritorno a quella sorgente nell’intimo del Dio vivente, il Santo da cui tutto proviene. Qui, invece di crescere e avanzare in questa prospettiva, l’identità del popolo dei credenti viene addirittura resa meschina, immiserita, rattrappita al punto da essere la buona ragione per arrendersi alla volontà di morte che domina il mondo. E’ proprio in gioco un ribaltamento clamoroso di quella vocazione alla fede che è identità inconfondibile del popolo dei credenti, dove questa identità di fede è diventata nientemeno che il diritto di arrendersi alla morte che domina il mondo, alla logica della morte perché Dio non fa quello che diciamo noi, quello che gli abbiamo suggerito e richiesto, quello di cui abbiamo bisogno, o quel che ci sembra di poter definire i nostri bisogni.


Presentazione di Giuditta

Cap. 8, vv. 1-8: “In quei giorni venne a conoscenza della situazione Giuditta figlia di Merari, figlio di Oks, figlio di Giuseppe, figlio di Oziel, figlio di Elkia, figlio di Ananìa, figlio di Gedeone, figlio di Rafain, figlio di Achitob, figlio di Elia, figlio di Chelkia, figlio di Eliàb, figlio di Natanaèl, figlio di Salamiel, figlio di Sarasadai, figlio di Israele”. E’ la tribù di Simeone; poi verrà detto in maniera esplicita. Un passato pesante quello che grava sulle spalle di Giuditta (quante generazioni vengono rievocate); ma è come se Giuditta, che pure appartiene a questa discendenza, apparisse subito in qualità di erede di tutta la storia lunga, impegnativa, complessa di un popolo intero. Tra l’altro la tribù di Simeone è una di quelle tribù che scompaiono ben presto nel corso della storia del popolo di Dio; dislocata nella regione meridionale, al confine con il deserto, a sud della tribù di Giuda; poi quasi subito risucchiata nel contesto della tribù di Giuda che invece è una tribù che sfida, per il suo particolare rigoglio, le vicissitudini del tempo storico e durerà per secoli e secoli con una sua identità inconfondibile. E’ interessante il personaggio di Giuditta; vuol dire giudea, un nome sintomatico, programmatico. E’ tutto un popolo? Ed è rappresentante del popolo intero perché nella sua particolare identità appartiene a quella tribù che non pretende di assurgere a livelli di guida, di predominio; è una tribù così marginale per cui il personaggio di Giuditta non rivendica titoli particolari di appartenenza a quella discendenza, ma l’appartenenza al popolo nella sua interezza. “Suo marito era stato Manàsse, della stessa tribù e famiglia di lei; egli era morto al tempo della mietitura dell'orzo. Mentre stava sorvegliando quelli che legavano i covoni nella campagna, il suo capo fu colpito da insolazione. Dovette mettersi a letto e morì in Betulia sua città e lo seppellirono con i suoi padri nel campo che sta tra Dotain e Balamon”. Manasse è un nome un po’ inquietante; è il nome di un re idolatra che visse nel corso del VII secolo a.C.; regna per un lungo periodo sul trono del regno di Giuda, ma è una figura che rimane nella coscienza di Israele come dotata di una memoria disgustosa e insopportabile. E’ come se tutto si ricapitolasse in lei e anche questo stato vedovile, che rinvia a un vuoto che si è verificato nel suo passato, apre anche a uno spazio in vista di un futuro che è quello a cui un popolo è chiamato da quando custodisce l’eredità della promessa messianica: colui che deve venire, lo sposo atteso.

V.4: “Giuditta era rimasta nella sua casa in stato di vedovanza ed erano passati già tre anni e quattro mesi (40 mesi per dire che è una vedovanza che ormai conferisce una sigillatura inequivocabile alla sua vita; è una vedovanza non solo registrata anagraficamente ma che la definisce proprio nel suo modo di affrontare la vita e che, mentre la inchioda nell’eredità di un passato, la apre in relazione all’avvenire). Si era fatta preparare una tenda sul terrazzo della sua casa, si era cinta i fianchi di sacco e portava le vesti delle vedove. Da quando era vedova digiunava tutti i giorni, eccetto le vigilie dei sabati e i sabati, le vigilie dei noviluni e i noviluni, le feste e i giorni di gioia per Israele. Era bella d'aspetto (vive e digiuna nella preghiera, vive in terrazza, entra in casa soltanto nei giorni di festa: un regime ascetico molto rigoroso e una bellezza che qui viene segnalata come nota caratteristica; ma una bellezza che viene illustrata in rapporto alla sua appartenenza a Dio che la rende così pienamente partecipe della storia del suo popolo sia nell’orizzontalità delle componenti che definiscono il popolo nella sua attualità storica, sia per quanto riguarda l’eredità del passato e l’attesa dei compimenti futuri) e molto avvenente nella persona; inoltre suo marito Manàsse le aveva lasciato oro e argento, schiavi e schiave, armenti e terreni ed essa era rimasta padrona di tutto. Né alcuno poteva dire una parola maligna a suo riguardo, perché temeva molto Dio”.


Giuditta rimprovera i capi: dobbiamo avere più fede

Vv. 9-23. “Venne dunque a sapere le parole esasperate rivolte dal popolo alle autorità, perché erano demoralizzati per la mancanza d'acqua, e anche Giuditta seppe di tutte le risposte che aveva date loro Ozia e come avesse giurato loro di consegnare la città agli Assiri dopo cinque giorni. Subito mandò la sua ancella particolare che aveva in cura tutte le sue sostanze a chiamare Cabri e Carmi, che erano gli anziani della sua città (Giuditta convoca i capi a casa sua). Vennero da lei ed essa disse loro (Giuditta li rimprovera): «Ascoltatemi bene, voi capi dei cittadini di Betulia. Non è stato affatto conveniente il discorso che oggi avete tenuto al popolo, aggiungendo il giuramento che avete pronunziato e interposto tra voi e Dio, di mettere la città in mano ai nostri nemici, se nel frattempo il Signore non vi avrà mandato aiuto. Chi siete voi dunque che avete tentato Dio in questo giorno e vi siete posti al di sopra di lui, mentre non siete che uomini?»”. “E’ vero che il popolo è in una situazione di debolezza così preoccupante e dolorosa, ma è anche vero che in quanto capi avete assunto una responsabilità massimamente dannosa verso il popolo perché avete giurato di mettere la città in mano ai nostri nemici se il Signore non vi avrà mandato aiuto secondo i vostri criteri, in obbedienza alle vostre condizioni”: è in questione l’autenticità, la purezza, la libertà, la gratuità della fede. Ma è in questione l’identità di Israele, la presenza del popolo dei credenti e questa presenza è contestata non perché minacciata fisicamente, ma perché è oggetto di un’aggressione che penetra nelle coscienze, negli animi, nei cuori.

V. 13-14. Giuditta prosegue: “Certo, voi volete mettere alla prova il Signore onnipotente, ma non ci capirete niente, né ora né mai. Se non siete capaci di scorgere il fondo del cuore dell'uomo né di afferrare i pensieri della sua mente, come potrete scrutare il Signore, che ha fatto tutte queste cose, e conoscere i suoi pensieri o comprendere i suoi disegni? No, fratelli, non vogliate irritare il Signore nostro Dio”. “Pretendete di mettere alla prova il Signore quando siete incapaci di scrutare le sue intenzioni; mica spetta a voi di proporvi come interpreti in grado di gestire la Sua iniziativa; voi che nemmeno siete in grado di discernere la complessità dei movimenti che si agitano nel cuore umano”.

V. 15-17: “Se non vorrà aiutarci in questi cinque giorni, egli ha pieno potere di difenderci nei giorni che vuole o anche di farci distruggere da parte dei nostri nemici. E voi non pretendete di impegnare i piani del Signore Dio nostro, perché Dio non è come un uomo che gli si possan fare minacce e pressioni come ad uno degli uomini. Perciò attendiamo fiduciosi la salvezza che viene da lui, supplichiamolo che venga in nostro aiuto e ascolterà il nostro grido se a lui piacerà”. Giuditta esorta tutti a rivolgersi a Dio, ma in virtù di questa appartenenza a Lui che è assolutamente incondizionata, senza alcuna pretesa, un’invocazione purissima: così come a Lui piacerà D’altra parte Ozia e gli altri capi hanno giurato. E prosegue nel suo discorso che è di rimprovero ai capi, ma un suo attestato di coerenza cristallina nell’obbedienza a una vocazione alla fede.

V. 18-20: “Realmente in questa nostra generazione non c'è mai stata, né esiste oggi una tribù o famiglia o popolo o città tra di noi, che adori gli dei fatti da mano d'uomo, come è avvenuto nei tempi passati. Per questo motivo i nostri padri furono abbandonati alla spada e alla devastazione e caddero rovinosamente davanti ai loro nemici. Noi invece non riconosciamo altro Dio fuori di lui e per questo speriamo che egli non trascurerà noi e neppure la nostra nazione”. Giuditta ribadisce quel che abbiamo già constatato ed è molto energica, coerente; non è corretto né pertinente nascondersi sotto la maschera di dichiarazioni di colpa; c’è di mezzo un cedimento laddove non siamo chiamati a riconoscere di essere peccatori ma ad affrontare le vicende della nostra storia personale e comunitaria, sociale, universale nella gratuità della fede. In realtà e in prospettiva semmai la vera colpa sta esattamente in questo mancato appuntamento da parte nostra nel rispondere a quella vocazione alla fede che illumina la strada da affrontare. Noi stiamo rifiutando di vivere nella gratuità della fede; non siamo alle prese con le conseguenze di una colpa dovuta a idolatria antica; siamo, oggi, alle prese con l’urgenza di un discernimento radicale che ci consente di affrontare anche le situazioni più disgraziate, non come un castigo perché siamo prigionieri delle conseguenze di crimini antichi. Si tratta di affrontare le situazioni più disgraziate, le situazioni di fatto come una prova che non è un castigo, ma un’occasione per procedere, crescere, maturare e portare autentici frutti nella gratuità della fede.

V. 21: “Perché se noi saremo presi, resterà presa anche tutta la Giudea e sarà saccheggiato il nostro santuario (Giuditta dice che da questa nostra responsabilità di fede dipende la sorte del popolo; la sorte generale di tutto e di tutti dipende da un piccolo gruppo di fedeli che resisteranno. La città di Betulia? Alla fine questa resistenza si riduce al caso di Giuditta. C’è una creatura che resiste nella fede, ma lei dice: “qui è in questione non soltanto il nostro vissuto personale, ma una responsabilità che in prima persona ci impegna a farci carico della sorte di un popolo”. In prospettiva, è sempre l’umanità intera che è coinvolta; dalla fede di un credente dipende la sorte dell’umanità) e Dio chiederà ragione di quella profanazione al nostro sangue. L'uccisione dei nostri fratelli, l'asservimento della patria, la devastazione della nostra eredità Dio la farà ricadere sul nostro capo in mezzo ai popoli pagani tra i quali ci capiterà di essere schiavi e saremo così motivo di scandalo e di disprezzo di fronte ai nostri padroni. La nostra schiavitù non ci guadagnerà alcun favore, perché la porrà a nostro disonore il Signore Dio nostro”. L’esperienza dell’esilio è consistita nella scoperta di come la strada della dispersione, dello smarrimento e quindi dell’oppressione subita, della schiavitù a cui il popolo sconfitto è stato ridotto, è divenuta esperienza di una novità redentiva, un cammino di ritorno, di conversione. “Nel nostro caso – dice – la schiavitù a cui andiamo incontro si imporrà come una condanna senza sbocchi perché è quella condanna alla quale noi stessi ci siamo sottoposti nel senso che non siamo più semplicemente peccatori in senso generico o ordinario, ma nel senso che (è quello che altrove si chiama peccato contro lo Spirito Santo) rifiutiamo la nostra vocazione alla fede, rifiutiamo la nostra relazione con il Dio vivente. Non pensate che in questo modo possiamo presentarci a Lui come peccatori che attendono misericordia perché stiamo esattamente rifiutando di presentarci a Lui, nella gratuità della fede, mascherandoci con quelle soluzioni abusive che riassumono anche una fisionomia devota, addirittura pronta a rendere testimonianza di chissà quali eventi prodigiosi, chissà quanti miracoli e altre straordinarie imprese di cui Dio è autore o dovrebbe esserlo”. Intanto Dio ci chiama alla fede nelle situazioni più disgraziate, conflittuali, drammatiche che ci spingono fino a patire la sete.


Dialogo tra Ozìa e Giuditta

Vv. 24-36. “Dunque, fratelli, dimostriamo ai nostri fratelli che la loro vita dipende da noi (notate come Giuditta nel suo discorso prende questa intonazione così affettuosa perché è in gioco la fraternità, la nostra responsabilità nei confronti degli altri dove si viene configurando un complesso di relazioni in cui l’esercizio della fede fa tutt’uno con la responsabilità della comunione: siamo autentici nella fede nel momento stesso in cui ci assumiamo una responsabilità che porta in sé l’efficacia di una comunione aperta. Infatti dice: “dipende da noi, fratelli, dimostrare ai nostri fratelli che la loro vita ci è affidata), che i nostri sacri pegni, il tempio, l’altare poggiano su di noi. Oltre tutto ringraziamo il Signore Dio nostro che ci mette alla prova, come ha già fatto con i nostri padri. Ricordatevi quanto ha fatto con Abramo, quali prove ha fatto passare ad Isacco e quanto è avvenuto a Giacobbe in Mesopotamia di Siria, quando pascolava i greggi di Làbano suo zio materno (la storia dei patriarchi; quello che capita a noi oggi, ma capita a tutti coloro che sono in cammino, nel contesto di una relazione di fede con il Dio vivente). Certo, come ha passato al crogiuolo costoro non altrimenti che per saggiare il loro cuore, così ora non vuol far vendetta di noi, ma è a fine di correzione che il Signore castiga coloro che gli stanno vicino»”. “Non ce l’ha con noi perché siamo peccatori, ma è la relazione autentica, libera, gratuita nella fede con Lui che deve crescere”. Giuditta ci tiene (ed è una delle chiavi che ci consentono di interpretare tutto il seguito della vicenda) a ribadire il valore per cui la fede di ogni singola creatura umana porta in sé la sorte della storia umana: una responsabilità aperta alle relazioni ecumeniche che più ampie di così non potrebbero essere; nell’esercizio della fede il fondamento della comunione universale.

“Allora rispose a lei Ozìa: «Quanto hai detto, l'hai proferito con cuore retto e nessuno può contraddire alle tue parole (una risposta che apprezza il messaggio ricevuto da Giuditta. Le qualità personali di questa donna sono riconosciute da tutti e, naturalmente, Ozia è molto ammirato nei suoi confronti). Poiché non da oggi è manifesta la tua saggezza, ma dall'inizio dei tuoi giorni tutto il popolo conosce la tua prudenza, così come l'ottima indole del tuo cuore. Ma il popolo soffriva terribilmente la sete e ci ha costretti a comportarci come abbiamo fatto, parlando loro a quel modo e addossandoci un giuramento che non potremo trasgredire (il giuramento è irrevocabile ormai, è stato pronunciato e non è possibile tornare indietro. “Tu che sei una persona così devota rivolgiti a Dio per chiedere il miracolo. Questo devi fare perché comunque il giuramento è irrevocabile”). Ma ora prega per noi tu che sei donna pia e il Signore invierà la pioggia a riempire le nostre cisterne e non continueremo a venir meno»”. “Questo puoi fare; accettiamo i tuoi rimproveri, ma ormai bisogna proseguire nella direzione intrapresa: prega tu che sai come entrare nelle grazie di Dio che ogni tanto si dimentica, si smarrisce, si distrae, si incanta”. Però intanto vuole il miracolo.

V. 32: “Giuditta rispose loro: «Sentite, voglio compiere un'impresa che passerà di generazione in generazione ai figli del nostro popolo. Voi starete di guardia alla porta della città questa notte: io uscirò con la mia ancella ed entro quei giorni dopo i quali avete deciso di consegnare la città ai nostri nemici, il Signore per mia mano provvederà a Israele. Voi però non indagate sul mio piano: non vi dirò niente finché non sarà compiuto quel che voglio fare» (un’impresa memorabile che poi è un atto di fede. Mi assumo la responsabilità del vostro giuramento che è stato già denunciato come l’espressione di un errore di discernimento, dal momento che Ozia ha imposto una scadenza al Signore e il popolo appresso a lui. Ma il giorno che dovrebbe essere della resa a Oloferne, agli assiri, della schiavitù diventa invece il giorno della fede). Le risposero Ozia e i capi: «Va' in pace e il Signore Dio sia con te per far vendetta dei nostri nemici». Se ne andarono quindi dalla sua tenda e si recarono ai loro posti”. Il piano segreto contiene in sé un impegno di solidarietà che, attraverso la dichiarazione di Giuditta e l’accoglienza da parte degli altri, già realizza un punto di pace: “Va’ in pace”. Il fatto stesso che ci sia la presenza di Giuditta in questa vicenda tragica; il fatto che essa si assuma la responsabilità in tutto, è un motivo di fede pura e gratuita; questo pacifica.

Lectio divina


Incontri 2013-2014 - Libro di Giuditta


  • 7 gennaio 2014
    Libro di Giuditta 3
    Nella prova il Signore ci educa alla fede