Incontri di discernimento e solidarietà
 
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Isaia: una luce nel presente travaglio del mondo



Settimo incontro del ciclo 2005-2006

Martedì 6 giugno 2006


Nel disastro umano Dio realizza una nuova creazione



Questa sera completiamo la lettura che ci ha tenuti impegnati per ben due anni. Siamo alle prese con la terza parte del libro di Isaia (capp. 56-66) e, l’altra volta, siamo giunti al v. 7 del cap. 63. Ormai siamo, quindi, orientati verso la conclusione del testo che si è rivelato come il frutto di un’opera redazionale piuttosto impegnativa che si sviluppa nel tempo, dando voce a profeti che si succedono nel corso della storia del popolo di Dio, così che la lettura del libro di Isaia diventa anche un affaccio sullo svolgimento della storia della salvezza lungo diversi secoli in compagnia di personaggi che rendono testimonianza all’opera del Signore: è il mistero dell’opera del Dio vivente che si manifesta come protagonista della storia umana, passando attraverso tutte le complicate vicende degli uomini. A questo riguardo, il popolo di Dio è proprio un rappresentante esemplare della grande vicenda che riguarda tutti i popoli della terra. Con le sua particolare identità e con la sua specifica vocazione e missione, esso è esposto all’esperienza di disastri, tribolazioni e catastrofi e tutto ciò, non solo perchè le congiunture della storia comportano, di tanto in tanto, cataclismi di varia natura ed entità, ma perchè il popolo di Dio porta con sè la conseguenza di un fallimento che segna intimamente la condizione di tutti gli uomini. Il popolo della Alleanza è e rimane un popolo di peccatori: il dono particolare che ha ricevuto, e per cui si distingue da ogni altro popolo della terra, non lo esime dalla necessità di fare i conti con gli effetti dei propri fallimenti che, anzi, sono addirittura ingigantiti proprio perchè riguardano la realtà di un popolo che, per altro verso, è così potentemente privilegiato. E’ la storia umana che, senza alcuna incertezza, si configura come storia di coloro che si arrabattano nel tentativo di gestire il proprio fallimento; storia che, pur accanto a momenti di entusiasmo per la brillante esplosione di nuove intuizioni, o di nuove elaborazioni culturali, o di nuove sintesi di civiltà, è storia di generazioni alle prese con la catastrofe, nel breve e nel lungo periodo, e al processo di dedadenza che sconvolge dall’interno anche le soluzioni che, lì per lì, possono sembrare le più prestigiose o, addirittura, definitive ma che, in realtà, si manifestano fragilissime e fatiscenti, come i dati delle vicende umane confermano in modo indiscutibile. Ebbene, la grande intuizione teologica di Isaia, e dei profeti successivi che a lui si richiamano, è che nella storia della catastrofe è presente l’opera di Dio che salva, che apre strade nuove, che converte, che manifesta la sua intenzione di trasformare quella storia umana, così fallimentare, in una storia di redenzione e di ritorno alla vita. Proprio attraverso quel complesso di vicende che, considerate nella loro apparenza immediata, hanno come sbocco inevitabile la catastrofe Dio instaura nuovi processi di conversione, di trasformazione, di redenzione, per effetto dei quali la storia umana è storia di salvezza.

Come sappiamo, il “terzo” Isaia è il profeta che svolge il suo ministero dopo l’esilio, in quei primi decenni caratterizzati da un’esperienza di particolare desolazione. Al rientro nella terra della promessa, la ripresa delle attività in quei territori rimasti abbandonanti o, addirittura, occupati da altre popolazioni per diversi decenni, si rivela quanto mai problematica; un avvilimento profondissimo sconvolge gli animi di coloro che, tornati dall’esilio, erano stati sospinti, in un primo momento, da uno slancio davvero coraggioso ispirato dalla predicazione di altri profeti che, al tempo dell’esilio, avevano indicato, senza incertezza, prospettive di luce, di consolazione, di benedizione: i dati di fatto della situazione realmente incontrata e sperimentata sono quanto mai deludenti. E non si tratta nemmeno di catastrofi clamorose – nel senso di deportazioni o distruzioni o dissesti istituzionali – come quelle sofferte dalle generazioni precedenti: è la catastrofe, nel senso più banale ma – potremmo dire – molto più micidiale e dilaniante, della disperazione incombente, della desolazione che chiude gli animi, che perverte i sentimenti del cuore e che si trasforma, quasi naturalmente, in assuefazione all’ingiustizia.

In questo contesto il nostro profeta interviene (forse si tratta di tutto un ambiente dotato di particolari carismi profetici): è una presenza che coinvolge i singoli e le comunità che, man mano, si stanno ricomponendo nella terra di Israele. Questo intervento – ricordate – ci ha aiutato a scoprire come proprio quella situazione catastrofica, che anche questa sera abbiamo rievocato, assuma la caratteristica di un’occasione straordinariamente feconda perchè il popolo di Dio si ritrovi al proprio posto ma innestato in un disegno di comunione universale: è la condizione umana, è la storia degli uomini, è la vicenda nella quale sono coinvolti tutti i popoli. Nel contesto di questa esperienza di catastrofe interiore (che non è meno devastante di un cataclisma naturale o di un crollo politico o militare; anzi: è la catastrofe allo stato puro) il profeta scopre e spiega che nell’intimo del cuore umano, scandagliato, penetrato, scavato fino alla radice, si apre lo spazio per una nuova visione del mondo, per una nuova capacità di accogliere, di comprendere, di compatire. Nel cuore di coloro che hanno sperimentato la catastrofe... la gioia pura, semplice ma intensa, potente, travolgente, in quanto è la gioia della vita che si afferma nel suo valore essenziale di capacità di relazioni, di contenere, di abbracciare e di affidarsi.

Ecco come l’opera di Dio, che è l’opera della giustizia, va a insediarsi nel cuore umano. E il cuore degli uomini si converte. E’ storia di salvezza.


Riprendiamo la lettura dal punto in cui siamo giunti la volta scorsa (cap. 63, v. 7). Troviamo una composizione penitenziale analoga a quella che, mesi fa, incontrammo nel cap. 59. L’ampio testo (da cap. 63, v. 7 a cap. 64, v. 11) può suddividersi in tre svolgimenti, tutti orientati verso la forma della supplica o implorazione, in un contesto caratterizzato dalle necessità di confessare la realtà del peccato, che è peccato personale ma anche collettivo, di popolo.


Lo abbiamo deluso, ma possiamo ancora fidarci di Lui.

Il primo “svolgimento” va dal v. 7 al v. 16 del capitolo 63 e si compone di due elementi: il primo a carattere meditativo (vv. 7-14), il secondo contiene la vera e propria supplica (vv. 15 e 16). La stessa struttura hanno anche i due successivi “svolgimenti” che leggeremo.

Cap. 63, vv. 7-14: il percorso meditativo rievoca le esperienze della storia passata. Leggiamo: “Voglio ricordare i benefici del Signore, le glorie del Signore, quanto egli ha fatto per noi. Egli è grande in bontà per la casa di Israele. Egli ci trattò secondo il suo amore, secondo la grandezza della sua misericordia...”. Quindi, non c’è dubbio: la storia passata ci ha dimostrato che il Signore è stato presente e affettuoso nei nostri confronti. Adesso, nel v. 8, la rievocazione del passato non soltanto richiama il “fatto” della bontà di Dio verso di noi, ma vuole penetrare nelle intenzioni del Signore e nel suo modo di interpretare la storia di un popolo come il nostro, gratificato da doni così eccezionali di benevolenze, di generosità, di misericordia. Come ha reagito Lui, di fronte alla risposta che noi abbiamo dato alla testimonianza del suo amore? Siamo introdotti ad una profondità di lettura, di analisi e di discernimento che supera l’ordinaria osservazione delle cose. “...Egli disse: <<Certo, essi sono il mio popolo, figli che non deluderanno>>(si aspettava, dava per scontata la corrispondenza di una disposizione filiale) e fu per loro un salvatore in tutte le angosce. Non un inviato nè un angelo, ma egli stesso li ha salvati (è intervenuto puntualmente, pazientemente, senza ricorrere a mediazioni; Lui direttamente, in prima persona, si è dato da fare... ); con amore e compassione egli li ha riscattati; li ha sollevati e portati su di sè in tutti i giorni del passato. Ma essi si ribellarono e contristarono il suo santo spirito...”. La rilettura profetica del passato dice questo: “Egli era certo di non essere deluso e invece...”. La delusione è da registrare all’interno di quella storia particolare, di quella relazione impostata nei termini di una volontà d’amore così traboccante e gratuita. Purtroppo occorre rendersi conto che la sua intenzione ha urtato contro un’opposizione, un’ostilità, un rifiuto. Il suo spirito è stato deluso; il popolo ha tradito la sua intenzione d’amore, là dove questa ipotesi gli era completamente estranea. Il profeta ci aiuta a penetrare nel cuore deluso del Dio vivente. Una tristezza indescrivibile: il suo amore è stato frainteso, tradito, rinnegato. “...Egli perciò divenne loro nemico e mosse loro guerra (è il suo modo per dimostrare come sia stato offeso, ferito e profondamente deluso). Allora si ricordarono dei giorni antichi, di Mosè suo servo (appellandosi alla memoria di Mosè e dei grandiosi eventi dell’esodo, chiedevano... :) Dov’è colui che fece uscire dall’acqua del Nilo il pastore del suo gregge? (dove si è nascosto Dio?). Dov’è colui che gli pose nell’intimo il suo santo spirito; colui che fece camminare alla destra di Mosè il suo braccio glorioso, che divise le acque davanti a loro facendosi un nome eterno; colui che li fece avanzare tra i flutti come un cavallo sulla steppa? Non inciamparono, come armento che scende per la valle: lo spirito (torna, per la terza volta, il termine RÛAH, spirito) del Signore li guidava al riposo. Così tu conducesti il tuo popolo, per farti un nome glorioso”. Già le generazioni del passato facevano appello a quel tempo specialissimo nel quale le intenzioni di Dio si erano rivelate. Un appello, da parte di coloro che hanno deluso lo spirito di Dio, proprio a Lui e alla sua inflessibile coerenza con quegli intendimenti sin dall’inizio esplicitati. Nel corso delle generazioni il popolo dell’alleanza si è reso conto di essere un popolo di peccatori e, attraverso quest’esperienza, ha maturato la consapevolezza di quanto fosse intransigente, grandiosa, gratuita, quell’intenzione d’amore. Nel tempo il popolo peccatore ha imparato a ricordare e a interpretare il valore della memoria, insistendo nell’affidarsi a Colui che è stato deluso. Proprio quella sua delusione diventa il riferimento a cui il popolo di Dio, nella sua storia, fa appello e si aggrappa. Alle prese con l’evidenza dei suoi fallimenti, il popolo continua a fare appello allo spirito di Dio, infuso a Mosè, che è lo spirito deluso. In quella delusione che tu hai patito nei nostri confronti abbiamo imparato a scorgere la potenza inesauribile della tua volontà di amore, che è dall’inizio e che è l’unico riferimento a cui possiamo rivolgerci. L’amore che abbiamo deluso: solo quello è un amore credibile per noi. La storia che sta oramai alle nostre spalle ci ha insegnato che l’unico amore di cui ancora possiamo fidarci, su cui ancora possiamo appoggiarci, da cui ancora possiamo trarre motivi validi ed edificanti per la nostra vita, è quell’amore che, nei nostri confronti, ha registrato una tristissima delusione.


Tu sei Padre nostro

Cap. 63, vv. 15 e 16: la supplica. “Guarda dal cielo e osserva dalla tua dimora santa e gloriosa...”. Sono le espressioni tipiche di un’implorazione: Colui che risiede nell’altezza che gli compete, nella trascendenza così pura e incontaminata è invocato nella certezza che il suo sguardo proviene sì dal cielo, ma penetra la terra. La sua dimora è al di sopra di tutto ma, nella santità del suo spirito e nel segreto della sua intenzione, Egli si prende cura di tutte le sue creature, e di quelle creature che siamo noi e di quelle creature che sono un popolo di peccatori come il nostro. Nell’intimo della trascendenza di Dio, che è superiore a tutto, noi troviamo acceso e siamo ora in grado di appellarci a Lui, di supplicarlo, di invocarlo, e di ottenere da Lui una risposta, proprio perchè abbiamo constatato di essere presenti nel segreto del suo cuore in quanto causa della sua delusione. Noi veniamo introdotti nella profondità inscandagliabile del Dio vivente in forza della delusione che gli provochiamo! E questo diventa il motivo per cui la nostra supplica acquista forza ed efficacia. “Guarda... Dove sono il tuo zelo e la tua potenza, il fremito della tua tenerezza e la tua misericordia? (quattro termini – zelo, potenza, tenerezza, misericordia – che, davvero, dicono tutto di quel che è l’inesauribile novità dell’amore di Dio). Non forzarti all’insensibilità perchè tu sei nostro padre, poichè Abramo non ci riconosce e Israele non si ricorda di noi. Tu, Signore, tu sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore”. E’ uno dei rari testi in cui, nell’Antico Testamento, ci si rivolge a Dio chiamandolo avinù, padre nostro, che è il modo di affermare la realtà di una relazione irrevocabile, così come avviene nell’esperienza umana tra genitori e figli. Tu sei padre nostro, nonostante le cose siano andate in modo così sconfortante e doloroso. Notate che, qui, viene citato il personaggio della storia della salvezza al quale viene attribuito, per antonomasia, il titolo di avinù, Abramo. Ebbene: Abramo non ci riconosce, Israele (Giacobbe) non si ricorda di noi, ma tu sei nostro padre. Nella relazione tra te e noi la delusione non segna il distacco insormontabile che ci separa da te, ma ci introduce nell’intimo della tua santità.


Noi apparteniamo a te

Cap. 63, v. 17 – cap. 64, v. 4 (prima metà): secondo “svolgimento”. Anche qui abbiamo un percorso meditativo e una supplica.

Il primo elemento non è più rivolto alla rievocazione del passato, bensì alla considerazione dell’attualità, che è caratterizzata da quella particolare situazione di depressione che conosciamo.

Perchè, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema? ...” E’ la situazione amarissima dell’oggi: un senso di sgomento, che sfibra anche i desideri che sembravano più sinceri e più coraggiosi. Ciò che adesso sta accadendo ha a che fare con l’indurimento dei cuori; è il punto di arrivo di tutto un vagabondaggio, di un andare errando di qua e di là, di un percorso che ha comportato le alienazioni più gravi e clamorose di cui, adesso, non è il caso di parlare in dettaglio. Sta di fatto che ci troviamo in questa condizione di estraneità; il nostro cuore è indurito; non c’è più timore nei tuoi confronti nè apertura d’animo o sentimento che susciti in noi il desidero di stare con te, di incontrarti, di riconoscerti, di condividere quel che è tuo. Al tempo stesso un sentimento di nostalgia pervade dal’interno tutta questa denuncia di lontananza e di estraneità che, di fatto, esiste tra te e noi, e per la quale siamo così irrigiditi, bloccati, impietriti nella nostra amarissima solitudine.

...Ritorna per amore dei tuoi servi, per amore delle tribù, tua eredità. Perchè gli empi hanno calpestato il tuo santuario (c’è sempre chi si approfitta), i nostri avversari hanno profanato il tuo luogo santo? (e questo non perchè essi siano più cattivi di noi, ma perchè noi ce l’abbiamo messa tutta per infilarci in un vicolo cieco). Siamo diventati come coloro su cui tu non hai mai dominato, sui quali il tuo nome non è mai stato invocato...”. Insieme alla confessione di chi sta dichiarando l’esperienza del suo fallimento e commentando tristemente la gravità dell’infedeltà alla propria vocazione, affiora insistentemente la testimonianza di una radicale convinzione: noi apparteniamo a te. Per quanto il nostro presente sia segnato dal più evidente fallimento e dalla contraddizione più incontestabile ... noi apparteniamo a te.


Il tuo amore fa cose inimmaginabili

Adesso la supplica: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi! Davanti a te sussulterebbero i monti....

E’ un’invocazione tra le più patetiche dell’A.T. Nei versetti che stiamo leggendo spuntano, ogni tanto, gli echi di voci con le quali abbiamo già familiarizzato. “Se tu facessi, di nuovo, tutto a modo tuo!”. Con l’invocazione è confermato quell’attestato di confidenza che poggia sull’incrollabile convinzione di appartenere a Lui, all’interno di una discesa teofanica grandiosa (“se tu scendessi... sussulterebbero i monti”). Sei in grado di sbaragliare la distanza tra quel che avviene nel cuore tuo, intimamente deluso, e la durezza del cuore nostro? Sei in grado di trasformare quel disastro in una rivelazione della tua santità, che riesca a frantumare la durezza del nostro cuore nel momento in cui noi saremo introdotti nel segreto della tua intimità divina?

Adesso, nel v. 1 del cap. 64, l’immagine grandiosa del v. precedente si trasforma in un’immagine di vita domestica. Potrebbe sembrare uno sviluppo velato di ironia: “Come il fuoco incendia le stoppie e fa bollire l’acqua, così il fuoco distrugga i tuoi avversari, perchè si conosca il tuo nome fra i tuoi nemici...”. La rivelazione di Dio onnipotente non sta in segni clamorosi della natura: essa si rende accessibile a noi ed opera efficacemente per noi, proprio là dove siamo raggiunti nella banale quotidianità della nostra avventura umana. Qui, tutto acquista una dimensione semplificata: la teofonia del Dio vivente placa le esasperate tensioni della nostra vicenda di creature ribelli. “Davanti a te tremavano i popoli, quando tu compivi cose terribili che non attendevamo, di cui non si udì parlare da tempi lontani (Dio fa cose che nessuno poteva immaginare, che nessuno attendeva). Orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio, fuori di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui (è un’espressione che Paolo cita nella prima ai Corinzi, 2-9). Tu vai incontro a quanti praticano la giustizia e si ricordano delle tue vie”. Chi mai avrebbe potuto immaginare che l’opera di Dio si compie in modo tale da coinvolgere la nostra crassa stupidità umana in una relazione, sempre nuova, che ci immerge nell’infinita ricchezza del suo amore? Tutto ciò riguarda il nostro presente; non stiamo qui considerando argomentazioni di carattere teologico generale: la supplica si inserisce nel contesto di quella che è la lettura del presente, là dove stiamo sperimentando come è fastidioso il cuore duro, di cui pure siamo prigionieri e da cui non siamo in grado di liberarci.


La nostra radicale impurità

Dal v. 4 (seconda metà) sino alla fine del capitolo 11, troviamo il terzo “svolgimento”. La meditazione arriva al v. 6; la supplica è nei vv. 7-11.

Il percorso meditativo si concentra sullo stato di impurità nel quale ci troviamo; cerca di guardare più dentro a quella situazione di indurimento, di rattrappimento, di irrigidimento di cui parlava il testo precedente.

Ecco, tu sei adirato perchè abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli. Siamo divenuti tutti come una cosa impura e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia...”. Attenzione: impurità è quella situazione di radicale corruzione nella quale ci troviamo, proprio perchè noi siamo capaci di fare dei nostri atti di giustizia l’apoteosi del nostro peccato (sono quelle che Paolo chiamerà “le opere della legge”). Più noi ci arrabattiamo, ci impuntiamo, ci esasperiamo nella pretesa di intraprendere percorsi esistenziali che abbiano il valore della giustizia, più noi sprofondiamo nella sporcizia e nell’indecenza. Più noi ci arroghiamo il titolo di soggetti in grado di giustificarsi e pretendiamo di raggiungere la perfezione nella giustizia, più siamo peccatori. Il peccato sta nella pretesa mia di affermarmi come protagonista di quella giustizia che vorrei far valere dinanzi a te, e quel mio atto di giustizia diventa la mia impurità, che mi risucchia dentro un vortice infernale.

Tutti siamo avvizziti come foglie, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento (il titolo del famoso romanzo è una citazione biblica!). Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si riscuoteva per stringersi a te; perchè tu avevi nascosto da noi il tuo volto, ci hai messo in balia della nostra iniquità” (questo siamo noi: abbandonati a noi stessi... via col vento).


Siamo nelle tue mani

Per la terza volta la supplica, vv. 7-11. “Ma, Signore, tu sei nostro padre (avinù); noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma, tutti siamo lavoro delle tue mani (noi siamo tue creature). Signore, non adirarti troppo, non ricordarti per sempre dell’iniquità. Ecco, guarda: tutti siamo tuo popolo. Le tue città sante sono un deserto, un deserto è diventata Sion, Gerusalemme una desolazione (questo è un dato di fatto: le città sono in rovina; Gerusalemme è un cumulo di macerie; noi siamo poltiglia fangosa nella tua mano, ma tu sei creatore!). Il nostro tempio, santo e magnifico, dove i nostri padri ti hanno lodato (ma che cosa contano i nostri padri che ci hanno lasciato solo rovine? Solo tu sei avinù), è divenuto preda del fuoco; tutte le nostre cose preziose sono distrutte. E dopo tutto questo, resterai ancora insensibile, o Signore, tacerai e ci umilierai fino in fondo?”. Resta questa mano tua che stringe l’argilla; resti tu, avinù, che nella tua delusione ci accogli, ci riconosci, ci chiami come padre nostro. Tu sei l’autore di una nuova creazione.


Interviene il Signore

I capitoli 65 e 66 (che non possiamo leggere interamente per mancanza di tempo) contengono una serie di poemi che, considerati globalmente, ci aiutano a contemplare l’opera di Dio, che è una nuova creazione.

Cap. 6, vv. 1-7: un poema in tre strofe. Prima strofa, vv.1-2: “Mi feci ricercare da (forse è meglio tradurre: “porgevo risposte a...”) chi non mi interrogava, mi feci trovare da chi non mi cercava (è Lui che, in prima persona, sta descrivendo le cose in rapporto alla sua originaria iniziativa e alla sua delusione). Dissi: <<Eccomi, eccomi>>a gente che non invocava il mio nome. Ho teso la mano ogni giorno a un popolo ribelle; essi andavano per una strada non buona, seguendo i loro capricci...”.

Seconda strofa, vv. 3-5: la denuncia si concentra su alcuni delitti particolarmente irritanti, “... un popolo che mi provocava sempre, con sfacciataggine. Essi sacrificavano nei giardini (riferimento a culti idolatrici), offrivano incenso sui mattoni, abitavano nei sepolcri, passavano la notte in nascondigli, mangiavano carne suina e cibi immondi nei loro piatti. Essi dicono: <<Sta’ lontano! Non accostarti a me, che per te sono sacro>>(pretendono, addirittura, di esercitarre prerogative che competono a chi è in stato di purità: è la dimostrazione di come sono – di come siamo – impuri!). Tali cose sono un fumo al mio naso, un fuoco acceso tutto il giorno” (non è il fumo di “soave odore” di cui si parla altrove; è il fumo irritante, che provoca disgusto).

Terza strofa, vv. 6-7: “Ecco, tutto questo sta scritto davanti a me; io non tacerò finchè non avrò ripagato le vostre iniquità e le iniquità dei vostri padri, tutte insieme, dice il Signore. Costoro hanno bruciato incenso sui monti e sui colli mi hanno insultato; così io calcolerò la loro paga e la riverserò nel loro grembo”. Dunque, il Signore dice: “Adesso intervengo Io”.


Nuovi cieli e nuova terra

Saltiamo al v. 16 (dalle ultime due righe) sino al v. 25: “... <<Saranno dimenticate le tribolazioni antiche, saranno occultate ai miei occhi (l’opera del Signore viene, qui, descritta in maniera programmatica). Ecco infatti io creo nuovi cieli e nuova terra; non si ricorderà più il passato, non verrà più in mente (quel passato, che si è compiuto come una tragedia e ha piagato il cuore di Dio, non è più motivo per ricordare la delusione: oramai è testimonianza dell’amore creativo che rinnova il mondo e fa di noi delle creature nuove), perchè si godrà e si gioirà sempre di quello che sto per creare, e farò di Gerusalemme una gioia, del suo popolo un gaudio. Io esulterò di Gerusalemme, godrò del mio popolo. Non si udranno più in essa voci di pianto, grida di angoscia (Gerusalemme sacramento della gioia: l’esultanza di Dio, adesso, è condivisa dal popolo). Non ci sarà più un bimbo che viva solo pochi giorni, nè un vecchio che dei suoi giorni non giunga alla pienezza; poichè il più giovane morirà a cento anni e chi non raggiunge i cento anni sarà considerato maledetto. Fabbricheranno case e le abiteranno, pianteranno vigne e ne mangeranno il frutto (il lavoro dell’uomo sarà pienamente efficace). Non fabbricheranno perchè un altro vi abiti, nè pianteranno perchè un altro mangi, poichè quali i giorni dell’albero, tali i giorni del mio popolo. I miei eletti useranno a lungo quanto è prodotto dalle loro mani. Non faticheranno invano, nè genereranno per una morte precoce, perchè prole di benedetti dal Signore essi saranno e insieme con essi anche i loro germogli. Prima che mi invochino, io risponderò; mentre ancora stanno parlando, io già li avrò ascoltati. Il lupo e l’agnello pascoleranno insieme (risuona l’oracolo messianico del “primo” Isaia. Cfr. 11, 6), il leone mangerà la paglia come un bue, ma il serpente mangerà la polvere, non faranno nè male nè danno in tutto il mio santo monte>>. Dice il Signore”. Nonmi soffermo a illustrare questi versetti: prendiamoli così come sono e contempliamo i segni della nuova creazione.


La nascita di una nuova umanità

Cap. 66, vv. 7-14: abbiamo a che fare con la nascita di un nuovo popolo, di un’umanità nuova; il popolo di Dio, in modo sempre più evidente, scopre in sè qual è la vocazione di tutti i popoli e di tutti gli uomini peccatori, che sono introdotti nel segreto del cuore di Dio. Vengono indicate tre grandi tappe, in altrettante strofe.

Prima strofa, vv. 7-9, il parto: “Prima di provare i dolori, ha partorito; prima che le venissero i dolori, ha dato alla luce un maschio. Chi ha mai udito una cosa simile, chi ha visto cose come queste? Nasce forse un paese in un giorno; un popolo è generato forse in un istante? Eppure Sion, appena sentiti i dolori, ha partorito i figli. <<Io che apro il grembo materno, non farò partorire?>> dice ilSignore. <<Io che faccio generare, chiuderei il seno?>>dice il tuo Dio”. E’ un parto senza dolore. Il titolo materno viene immediatamente attribuito a Gerusalemme (Sion), ma è la storia del popolo che viene, qui, ricapitolata e reinterpretata come la storia del grande travaglio che conduce alla nascita di una nuova creatura, perchè è così che Dio si rivela; e nel suo rivelarsi, conferisce a quel travaglio una nota di patetica dolcezza. Il dolore di quel travaglio è tutto assorbito da Lui (ricordate il personaggio ammantato di rosso di cui parlavamo la volta scorsa?). Il dolore è già tutto radicalmente, intrinsecamente trasformato in benedizione.

Seconda strofa, vv. 10-11, l’allattamento: “Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa quanti la amate. Sfavillate di gioia con essa voi tutti che avete partecipato al suo lutto. Così succhierete al suo petto e vi sazierete delle sue consolazioni; succhierete, deliziandovi, all’abbondanza del suo seno”. E’ un versetto che sta sullo sfondo di tante immagini molto care nella nostra devozione cristiana, dove la Madre del Signore allatta il bambino. Non soltanto, quindi, è evocato il momento del parto, ma anche l’itinerario della crescita: l’alimentazione, il contatto con la madre e con l’ambiente, nel tempo e nello spazio, itinerario che si riempie di contenuti che sono coerenti con l’intenzione creativa di Dio.

Terza strofa, vv. 12-14, la ricchezza della vita. Al figlio, ormai svezzato, viene consegnata un’immensa ricchezza: è, proprio, l’universo intero, la totalità delle creature, lo svolgimento della storia umana, tutto concorre, adesso, a dimostrare come una nuova creatura è in grado di vivere. “Poichè così dice il Signore: <<Ecco io farò scorrere verso di essa (Gerusalemme) , come un fiume, la prosperità (shalòm) ; come un torrente in piena la ricchezza dei popoli; i suoi bimbi saranno portati in braccio, sulle ginocchia saranno accarezzati. Come una madre consola un figlio così io vi consolerò; in Gerusalemme sarete consolati. Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore, le vostre ossa saran rigogliose come erba fresca. La mano del Signore si farà manifesta ai suoi servi, ma si sdegnerà contro i suoi nemici.>>” Un torrente in piena, una ricchezza immensa affluisce a Gerusalemme, perchè è il patrimonio, ormai, consegnato a quella creatura che è introdotta nella pienezza della vita.


La nuova creazione

Siamo giunti all’ultima composizione del nostro libro (vv. 15-24). Il testo dà voce a diverse testimonianze, tanto che alcuni versetti sono in prosa (vv.18-21), e si sviluppa in tre brevi sezioni che leggiamo, quasi d’un fiato.

Prima sezione, vv. 15-17: “Poichè, ecco, il Signore viene con il fuoco, i suoi carri sono come un turbine, per riversare con ardore l’ira, la sua minaccia con fiamme di fuoco...”. E’ il creatore che viene; è la nuova creazione di Colui che si è preso la briga di frantumare la durezza del cuore umano; e questo non semplicemente con un gesto di autorità che cala dall’alto, ma introducendo la nostra miseria umana nell’intimità stessa della sua vita divina.

... Con il fuoco infatti il Signore farà giustizia su tutta la terra e con la spada su ogni uomo ; molti saranno i colpiti dal Signore. Coloro che si consacrano e purificano nei giardini, seguendo uno che sta in mezzo, che mangiano carne suina, cose abominevoli e topi, insieme finiranno – oracolo del Signore – con le loro opere e i loro propositi”. Viene la giustizia del Signore “su tutta la terra”. Gli orizzonti si sono ampliati, diventando sempre più ecumenici (tutto il libro di Isaia ci ha costantemente sollecitati ad affacciarci su orizzonti di dimensioni universali). Qui è, ormai, evidente che proprio coloro che, tornati dall’esilio, han fatto esperienza dell’avvilimento più desolante sono in grado di constatare come l’opera di Dio si compia in modo tale da esprimere un valore di comunione universale, un valore di riconciliazione per cui non ci sono più confini nè privilegi o esclusioni. Proprio nel cuore di ogni uomo peccatore, che precipita verso la sconfitta più disperante, l’opera di Dio si incide con il gesto del Creatore, e tutti i crimini e gli abonimii di cui gli uomini sono capaci finiranno.

Seconda sezione, vv. 18-21: “<<Io verrò a radunare tutti i popoli e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria. Io porrò in essi un segno e manderò i loro superstiti alle genti di Tarsis, Put, Lud, Mesech, Ros, Tubal e di Grecia, ai lidi lontani che non hanno udito parlare di me e non hanno visto la mia gloria; essi annunzieranno la mia gloria alle nazioni. Ricondurranno tutti i vostri fratelli da tutti i popoli come offerta al Signore, su cavalli, su carri, su portantine, su muli, su dromedari al mio santo monte di Gerusalemme, dice il Signore, come i figli di Israele portano l’offerta su vasi puri nel tempio del Signore. Anche tra essi mi prenderò sacerdoti e leviti, dice il Signore...>>”.

Tutti i popoli, tutte le genti diventano spettatori e testimoni. I pagani del mondo diventano missionari, incaricati di un’opera di testimonianza e di coinvolgimento (porrò “in essi” un segno). Tutte le nazioni della terra vengono associate in questo unico processo di conversione. Ciò che avviene per il popolo di Dio e nel cuore di coloro che sono direttamente interpellati dal nostro profeta diventa il riferimento sacramentale a cui l’umanità intera adesso può appellarsi........

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Terza sezione, vv. 22-24.........


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Nota: il nastro non ha registrato la parte finale della lectio.