Incontri di discernimento e solidarietà
 
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Isaia: una luce nel presente travaglio del mondo



Primo incontro del ciclo 2005-2006

Martedì 4 ottobre 2005


Esilio: tempo di conversione e di salvezza



Ritorniamo al libro di Isaia. Come molti di voi ricorderanno, nel corso di un anno, abbiamo preso contatto con i primi 39 capitoli e, cioè, con il "primo Isaia". E' stata un'impresa non indifferente e, quest'anno, proseguiremo leggendo i capitoli successivi che, come già sappiamo, trasmettono a noi la testimonianza della predicazione di altri profeti, diversi dal "grande Isaia", lo straordinario profeta che svolge il suo ministero nella seconda metà dell'VIII secolo a.C., del quale abbiamo fatto conoscenza lo scorso anno. Con lui abbiamo condiviso tanti momenti drammatici della sua ricerca di credente, di uomo in ascolto, di spettatore di eventi grandiosi che mettono in evidenza la necessità di individuare e "inventare" un linguaggio capace di interpretare ciò che sta accadendo nella storia degli uomini: si tratta dell'iniziativa e dell'opera di Dio, della sua presenza. E' la santità del Dio vivente: che cosa sta dicendo e facendo? Dove si nasconde? Come si rivela e si esprime? Come realizza le sue intenzioni?

La Santità del Dio vivente. "Santo, Santo, Santo"", quel proclama - che, per noi, fa parte della liturgia eucaristica - sapete bene che proviene dalla contemplazione orante del nostro profeta, nel momento stesso in cui si rende conto che la sua vita riceve un impulso nuovo: quella che noi chiamiamo la "vocazione di Isaia", nel capitolo 6. Abbiamo fatto conoscenza di questo grandioso personaggio e, più volte, siamo tornati su una formuletta che, nella sua banalità linguistica, rinvia a un contenuto teologico di notevole impegno e che, più o meno, suona così: la salvezza è l'opera di Dio che noi scopriamo nel tempo della catastrofe. E questo non per essere particolarmente disfattisti, ma perché è la realtà di fatto, è così, ci siamo dentro. Proprio il tempo della catastrofe " che definisce la nostra situazione e il senso della nostra vicenda; che ci dà le misure per cogliere adeguatamente la verità degli eventi nei quali siamo coinvolti " è attraversato dall'iniziativa di Dio che realizza un'opera corrispondente alla santità delle sue intenzioni, che è come dire che Dio vuole restaurare la vita compromessa, inquinata, tradita dagli uomini. La storia e l'opera della salvezza si compiono in modo tale che il tempo della catastrofe diventa tempo di conversione, di riconciliazione, di allargamento degli orizzonti, di radicale cambiamento dei cuori e la nuova creazione, ormai, emerge in tutta la sua preziosissima originalità. Grande Isaia! Negli anni della sua vita crolla il regno di Israele, Samaria è devastata, la popolazione è deportata dagli Assiri; sopravvive il piccolo regno di Giuda, con capitale Gerusalemme, di cui Isaia è cittadino e dove è in funzione il Tempio.

Noi abbiamo letto 39 capitoli, con qualche approssimazione ed anche con alcune scorciatoie di tanto in tanto. Procedendo con lo stesso metodo, noi adesso affronteremo la lettura dei capitoli che seguono e avremo a che fare con altri profeti che si inseriscono nella tradizione inaugurata da Isaia. Ma, nel frattempo, sono passate alcune generazioni; un secolo, un secolo e mezzo" passerà ancora altro tempo per giungere a prendere contatto con situazioni che sono, oggettivamente, diverse rispetto a quelle dell'ottavo secolo. Tuttavia questi profeti sono eredi di quella visione delle cose, di quell'interpretazione del mondo, di quella lettura della storia umana di cui Isaia costituisce un luminoso esemplare: ecco come si guarda il mondo, come si legge la vicenda umana, come si interpreta il senso dei fatti.

Isaia il profeta, non tanto come colui che predice l'avvenire (questo aspetto è molto secondario), ma come colui che è in ascolto della parola di Dio nel corso della storia e, dal di dentro della storia, diviene testimone di quel che Dio sta realizzando secondo le sue intenzioni; testimone di come si presenta a noi l'iniziativa di Dio, che si esprime con il linguaggio degli eventi di grande contenuto civile e politico, ma anche con quello dei segreti che sono custoditi nel cuore umano; è l'iniziativa di Dio che coinvolge tutto, nel contesto di un disegno che il profeta impara a decifrare.

Eredi, quindi di Isaia, anche se a distanza e senza bisogno di particolari rivendicazioni di autenticità (non si tratta propriamente di "discepolato", essendo passate generazioni e accadute vicissitudini tali da interrompere quella che potrebbe definirsi la lineare progressione di uno sviluppo scolastico). Eppure, ad un certo momento, le testimonianze della predicazione di questi altri profeti sono state raccolte e inserite nel libro di Isaia, cosicché noi chiamiamo "Isaia" tutto questo complesso ricco, articolato, variegato, di testimonianze; un coro di voci che si fanno eco l'una con l'altra, nel corso di una lunga storia.

Nella prima parte di quest'anno ci occuperemo dei capitoli che vanno dal 40 al 55. Sono pagine che compongono un vero e proprio libro all'interno del libro, che solitamente viene introdotto ricorrendo alla dicitura di "Deutero-Isaia" o "Secondo Isaia" (poi c'è un "Terzo Isaia", dal cap. 56 al 66). Nella tradizione ebraica, questi capitoli " dal 40 al 55 " sono intitolati "Il libro della consolazione di Israele", ed è così, usualmente, anche nelle nostre versioni.

E' passato un secolo e mezzo dal "grande Isaia"; siamo alla metà del VI secolo a.C. e, cioè, nel pieno di quel tempo caratterizzato dall'esilio. Come era avvenuto anticamente per le tribù settentrionali del regno di Israele, adesso la catastrofe coinvolge il regno di Giuda che era sopravvissuto all'invasione assira. Erano intervenuti fatti nuovi che avevano sconvolto la scena del mondo: il crollo dell'impero assiro, il sorgere di altre potenze, l'incerta alternanza di fasi di declino con momenti di euforia entusiasmante e, infine, un processo di inarrestabile decadenza. Nel corso di questa storia altre grandi voci si sono fatte udire, tra le quali giganteggiano quelle di Geremia e di Ezechiele che sono direttamente coinvolti nelle vicende che conducono all'esilio. Ormai quella catastrofe di cui parlava Isaia è la realtà di fatto. Non si tratta più soltanto di una chiave interpretativa, di un riferimento culturale, di un'ipotesi teologica. Quella catastrofe è ormai una realtà sperimentata, documentata, vissuta con l'urgenza di piaghe sanguinanti: Gerusalemme è stata distrutta, la popolazione in parte deportata, il regno di Giuda cancellato!

La potenza che, temporaneamente, domina quel mondo è Babilonia, piccola e misera cosa rispetto ad altre entità socio-politiche che hanno dominato il mondo antico: l'impero assiro ha avuto una storia plurisecolare, mentre il regno neobabilonese consumerà la propria vicenda in meno di un secolo. Fatto sta, comunque, che nell'anno 586 a.C. Gerusalemme è stata conquistata e distrutta; non esiste più una dinastia né un regno; la popolazione, in parte deportata, in parte travolta dagli eventi; molta gente è rimasta in terra di Israele, ma in condizione di servitù e all'interno di un quadro istituzionale che non dà minimamente respiro a coloro che ancora volessero custodire una memoria dell'antica, consolidata identità di questo popolo. In realtà, quell'identità è oscurata, se non totalmente perduta. E coloro che ancora intendessero mantenere accesa la memoria, sprofondano nel vuoto e, privi di riscontri, tendono progressivamente a scomparire. Nonostante tutto ciò, proprio a Babilonia, in esilio, esistono piccole comunità, gruppuscoli di deportati i quali, in quella condizione massimamente sfavorevole, hanno conservato la memoria, hanno custodito con pazienza, con coraggio, in modo umilissimo, ma con cristallina coerenza, la consapevolezza di un'identità perduta. In esilio!

In realtà, già prima di questi fatti, c'erano stati coloro che avevano indicato proprio l'esilio come l'occasione preziosa offerta al popolo dell'Alleanza per riscoprire l'identità tradita. Già i profeti dell'epoca più antica avevano denunciato questa situazione: il nostro popolo ha tradito la sua vocazione e, dunque, l'esilio è già intravisto come l'occasione singolarmente propizia; nella sua oggettività è la catastrofe, ma in realtà, proprio attraverso l'esperienza dell'esilio, si apriranno strade nuove. E' quello che sta accadendo: siamo a Babilonia, a metà del VI secolo a.C.; l'esilio, con tutte le conseguenze che ha comportato; uno strazio inenarrabile e" d'altra parte, a Babilonia ci sono dei sopravvissuti. E, tra questi, il nostro profeta.

Nel frattempo, certi equilibri, per quanto riguarda la situazione politica internazionale, si stanno rapidamente evolvendo: il regno di Babilonia " come vi dicevo " è intrinsecamente molto fragile; ha avuto un momento esplosivo di espansione clamorosa, ma non può reggere nel tempo. Giungono, infatti, notizie di movimenti che hanno luogo nelle regioni dell'Oriente, dove un giovane principe persiano, di nome Ciro, ha conquistato il trono della Media e sta procedendo in una rapida opera di conquista, muovendosi con un'agilità straordinaria; nessuno può contrastare il suo passaggio o impedirgli di realizzare i suoi propositi. L'avanzata di Ciro è incontenibile; sulla frontiera orientale del regno babilonese si notano tensioni, incertezze, oscillazioni, traballamenti. Tra poco arriva? L'onda arriva? Arriverà, è inevitabile! Certamente arriva, e come potrà mai Babilonia reggere all'onda dell'esercito medo-persiano? Un'orda mastodontica al comando di questo brillante personaggio di nome Ciro. Dunque, notizie del genere" E la situazione si fa, per certi versi, ancora più drammatica rispetto a quella degli antenati abitanti a Gerusalemme, perché adesso, per i deportati a Babilonia, significa trovarsi in situazione di pericolo in terra straniera e in condizione di schiavitù!

Intanto Ciro avanza; la situazione si fa sempre più precaria; gli animi sono turbati e sono anche segnati da una commozione che, lì per lì, è inesprimibile perché tutto conferma che gli eventi della storia non sono riducibili ad un'interpretazione limitata, circoscritta entro una visione di tipo provinciale o nazionalistico: l'orizzonte si è ampliato enormemente e questa piccola rimanenza del popolo deportato, che a Babilonia cerca di barcamenarsi alla meglio, si rende conto di essere coinvolta in un'avventura storica di dimensioni ecumeniche e di respiro inimmaginabile. In esilio a Babilonia.


Un personaggio anonimo

Il nostro profeta è un personaggio anonimo, e si tratta di un particolare interessante. Eppure, la sua è una grande personalità; le pagine che adesso leggeremo lo dimostreranno in maniera inequivocabile: una personalità genialissima, profeta, teologo, uomo sapiente, in contatto con la gente; con visioni ampie degli eventi e, al tempo stesso, con capacità di entrare in dialogo con il suo popolo, che deve sottostare a tutte le miserabili sventure che sono lo strascico dell'esilio e della deportazione. Un grande personaggio che, però, è rimasto anonimo. Noi parliamo di lui come "secondo Isaia", ma è un nome fittizio, convenzionale. Considerate che la sua presenza non è certo passata inosservata: è pur sempre l'autore di un libro di sedici capitoli. Eppure non ha nome! Il fatto è (ce ne renderemo subito conto) che l'anonimato del nostro personaggio assume, davvero, un valore di straordinario significato teologico per noi, perché questo profeta è talmente immerso nell'ascolto della Parola che la sua identità personale scompare; non perché sparisca lui, ma perchè non c'è bisogno di ricordare nemmeno come lui si chiamava, dal momento che tutto di lui è realtà fusa con la parola di Dio che avanza, che si esprime, che dice la sua. Di lui, personalmente, non si ricordano neppure i dati anagrafici, perché il fatto che conta è solo questo: c'è qualcuno che, in una situazione così tragica come quella che possiamo ricostruire, si accorge che Dio continua a parlare. E' vero che il popolo è andato in esilio e che ne sono successe di tutti i colori: che la storia di Gerusalemme sembra finita, che adesso siamo stranieri in Babilonia e qui si va di catastrofe in catastrofe in una dimensione che appare infernale, dove "catastrofe" vuol dire davvero "disastro irreparabile"" Tutto ciò è vero, tuttavia la parola di Dio si esprime, è presente, è all'opera, è vitale e il nostro profeta è tutto preso da questa scoperta, tanto che la sua stessa identità personale si confonde con la presenza della Parola che, da lui ascoltata, in lui parla e in lui diventa presenza operante nella storia di quella gente deportata a Babilonia, nella storia del popolo ridotto in frantumi com'è, nella storia di Babilonia stessa e nella storia del mondo. Anonimo!


Nella devastazione irrompe, consolatrice, la Parola di Dio

Il libroche noi, solitamente, denominiamo "Secondo Isaia" è intitolato, nella tradizione ebraica " come vi dicevo poco fa " "Libro della consolazione". E' la parola di Dio che irrompe sulla scena di un mondo devastato, che passa attraverso animi profondamente feriti, che interseca eventi storici così incontrollabili " come ben sappiamo " nel momento in cui tutto è stato già perduto e, ancora una volta, tutto sembra precipitare in un processo rovinoso sempre più dilagante. E questa parola di Dio è parola di consolazione!

Il nostro profeta è un ascoltatore della parola, per certi versi, impazzito, ma inconfondibile proprio in questo impazzimento. "Questastoria è storia di salvezza", diceva Isaia; e il nostro profeta " con linguaggio nuovo che, man mano sta elaborando ed esplicitando " rilancia: "Questa è la storia nella quale il Consolatore si impone nella gratuità del suo protagonismo". Parola di Dio!

Leggiamo il primo poema che fa da introduzione all'intero libro, dal v. 1 al v. 11 del cap. 40. Sono quattro strofe.


Una voce fuori scena, dall'intimo dei cuori affranti

Prima strofa, vv. 1 e 2: "Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che è finita la sua schiavitù, è stata scontata la sua iniquità, perché ha ricevuto dalla mano del Signore doppio castigo per tutti i suoi peccati". Non si sa bene chi parli: è una voce fuori scena che assume un volume tale per cui, adesso, sembra che affiori proprio dal di dentro dell'animo di coloro che, deportati a Babilonia, si stanno rendendo conto di avere ancora un cuore. "Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele"". Notate che, nel frattempo, Gerusalemme è stata ridotta ad un ammasso di rovine! Eppure ha ancora un cuore. E' una città in macerie, lontana centinaia e centinaia di chilometri" "Parlate al cuore di Gerusalemme" e Gerusalemme è questo popolo, "il mio popolo". Ma questa è gente deportata e sbandata, non è più un popolo, non ha più una storia né un'identità" E' il "mio popolo"! "Mio": è il modo in cui, solitamente, il Signore si rivolge al suo popolo nel contesto dell'Alleanza, che è perfettamente confermata. Da dove viene questa voce? Vi dicevo, sgorga dall'intimo dei cuori affranti, desolati, amareggiati, spenti; cuori addirittura dimentichi di essere depositari di una vocazione e di tutta una tradizione che ha segnato in modo profondissimo le generazioni del passato, ma che ormai, a Babilonia, è affidata a una piccola rimanenza di sopravvissuti, alle prese con gli effetti dolorosissimi della deportazione. E, per quanto riguarda Gerusalemme,".. pietre divelte! Eppure: "Parlate al cuore di Gersualemme e gridatele che è finita la sua schiavitù, è stata scontata la sua iniquità, perché ha ricevuto dalla mano del Signore doppio castigo per tutti i suoi peccati". L'appartenenza di questo popolo al Signore è indiscutibile. Gerusalemme si trova in condizioni così derelitte perché ha ricevuto "doppio castigo". Notate che "doppia" è la porzione riservata ai primogeniti quando si spartisce l'eredità. Se Gerusalemme ha ricevuto doppio castigo, significa che la sua primogenitura è confermata. Il castigo "doppio" rievoca in mondo inconfondibile, la dignità specialissima di questa città amata, benedetta, scelta, privilegiata come capita ai primogeniti.

Questa è la storia di un disastro irreparabile? Noi siamo gli ultimi testimoni sopravvissuti di un'avventura che si è conclusa in modo così tragico? No: è la storia di una scelta confermata, di un amore irrevocabile, di un'alleanza eterna, di un popolo chiamato a custodire nel cuore la conferma della sua appartenenza a una storia di amore. E questo significa "consolare": raggiungere l'intimo del cuore umano e introdurre in esso la certezza che, comunque siano andate le cose e comunque stiano ancora andando, si appartiene ad una storia di amore. Il nostro libro si apre così: "Consolate, consolate il mio popolo" è finita la sua schiavitù"". In realtà non è finito un bel niente" "Doppio castigo"!


Una strada nel deserto, per il nostro Dio

Seconda strofa, vv. 3-5: "Una voce grida: "¹"¹Nel deserto preparate la via al Signore""º"º". Conosciamo bene questi versetti, che riecheggiano all'inizio dei racconti evangelici attraverso la predicazione di Giovanni Battista. "Una voce grida". Si tratta della voce che ha accolto l'invito che risuonava nella prima strofa ("consolate, consolate"). Adesso c'è una voce che grida, là dove il cuore ha accolto in sé l'eco di quel messaggio che proviene " non si sa da dove. Ma viene, irrompe, ed è parola di Dio! Una parola impalpabile, inafferrabile, ingovernabile. Adesso "una voce grida: "¹"¹Nel deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio""º"º". Per andare da Babilonia a Gerusalemme, c'è da preparare una strada che deve attraversare un territorio impervio. Un suggerimento che sembra completamente fuori misura, perché l'itinerario delle carovane non attraversava il deserto, ma procedeva in altre direzioni, salendo verso nord-ovest per poi scendere lungo le pendici delle catene montuose che accompagnano la costa del Mediterraneo. L'esortazione, invece è: ""¹"¹Nel deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia colmata, ogni monte e colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in pianura""º"º". Visione grandiosa, impresa monumentale: siamo portati ad immaginare cantieri tecnologicamente superefficienti. Quel che conta, però, è che questa è la strada del Signore. Non si tratta di un progetto fantastico. C'è da rendersi conto " in risposta a quella voce che riecheggia nel cuore di quanti sono deportati in Babilonia " della pazienza risoluta che il Signore nostro Dio manifesta nell'intraprendere Lui il viaggio che sbaraglierà ogni impedimento, rimuoverà ogni ostacolo, aprirà una strada nel deserto; perché è la via costruita e spalancata da Lui. E' Lui il realizzatore di questa strada! Nell'animo di gente così schiacciata da una tribolazione tanto umiliante, affiora, nella confidenza dell'iniziativa di Dio, una certezza: è presente? E' all'opera, sta costruendo una strada. In prospettiva è la strada del ritorno a Gerusalemme, ma di questo si parla poi, lentamente, progressivamente man mano che le situazioni si evolvono. Intanto una strada; per cui, quale che sia la miseria della situazione presente, non c'è impedimento che possa fermarlo o trattenerlo; che possa impedirgli di avanzare, di venire, di muoversi, di operare, di parlare, di confortare. Vedete come quella "consolazione" che introduce il poema manifesti, in un certo senso, un'intraprendenza immensamente più originale che non l'attivazione di ipotetici cantieri per la costruzione di quella strada attraverso il deserto. Nulla potrà trattenerlo: non il deserto, non la durezza del cuore dell'uomo o la tristezza del suo animo, non la desolazione delle nostre storie sbagliate. "Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà, poiché la bocca del Signore ha parlato", e quando il Signore parla ciò che Egli dice si realizza. Il Signore ha parlato e la realtà degli eventi obbedisce alla sua parola e, allora, noi vedremo "la gloria del Signore". Il Signore ha parlato: "Consolate, consolate""


Nella debolezza umana, la potenza del Signore

Terza strofa: vv. 6-8. Qui conosciamo direttamente il nostro profeta, del quale finora non s'è parlato perché è stato in posizione di ascolto, tra la gente di cui condivide la sorte a Babilonia (le prime due strofe ci hanno aiutato a introdurci nel segreto degli animi di coloro che si guardano attorno, cominciando a riflettere su ciò che è avvenuto e su quel che si profila all'orizzonte).

Adesso è lui, personalmente: "Una voce dice: "¹"¹Grida"º"º e io rispondo: "¹"¹Che cosa devo gridare?"º"º" L'interpellato è proprio il nostro anonimo personaggio che è consapevole della sua debolezza e impreparazione; di quanto siano sproporzionati questi messaggi rispetto ai dati oggettivi della situazione vissuta; e poi avverte l'insufficienza del suo fiato, la precarietà della sua resistenza, la modestia delle sue competenze. Qui si inserisce una riflessione sapienziale che mette a fuoco l'esperienza dell'oggettiva debolezza umana; di quanto sia fragile l'esistenza dell'uomo e labile ogni suo progetto: "" Ogni uomo è come l'erba e tutta la sua gloria è come un fiore del campo. Secca l'erba, il fiore appassisce quando il soffio del Signore spira su di essi. Secca l'erba, appassisce il fiore, la parola del nostro Dio dura sempre. Veramente il popolo è come l'erba".

Dunque il nostro profeta sta riflettendo fra sé e sé " mentre presta ascolto a quella voce che gli dice di gridare " sulle difficoltà che gli impediscono, lì per lì, di lanciarsi in questa avventura. "Secca l'erba, il fiore appassisce"": questo capita agli uomini; questo capita a me; questo sono io (un filo d'erba già rinsecchito, un fiore di campo già appassito). Attenzione, però: è il soffio, lo spirito del Signore che spira sull'erba e sul fiore! In più, il nostro profeta scopre che la parola che gli è rivolta - che vuole essere ascoltata da lui e dimorare in lui e, quindi, in lui riecheggiare, con tutta la partecipazione di cui egli è capace - non è parola che trova impedimento o difficoltà per il fatto che lui è solo un filo d'erba o un misero fiore di campo, perché è proprio quando il soffio del Signore rinsecchisce l'erba e fa appassire il fiore, proprio allora la parola del nostro Dio si esprime in tutta la sua eloquenza e in tutta la sua potenza creativa. Vedete l'"¹"¹anonimato"º"º del nostro profeta; ci siamo in pieno: lui sparisce; i suoi dati anagrafici sono irrilevanti di fronte al mistero profetico che gli viene affidato. E' proprio vero che tu sei un filo d'erba rinsecchito e un misero fiore di campo già appassito; è tanto vero che è lo Spirito del Signore che soffia in tutta la sua potenza e dimostra che, là dove tu sei piccola cosa, "la parola del nostro Dio dura sempre". E' il nostro profeta, il grande consolatore!


La sconvolgente e lieta notizia: è all'opera un Re-Pastore

Quarta strofa, vv. 9-11. Adesso percepiamo, in modo più determinato, quali siano i contenuti del messaggio che il nostro profeta è inviato a proclamare, tenendo conto di quanto già sappiamo: lui sarà cancellato, travolto, ma la parola del Signore vive, opera, fa nuovo il mondo, converte il cuore dell'uomo, e tutto ciò passando attraverso la piccola cosa di un vissuto umano, che già è consumato prima ancora di elaborare il programma. Fatto sta che, adesso, capiamo che cosa deve fare il profeta: "Sali su un alto monte, tu che rechi liete notizie in Sion; "". La montagna deve essere così alta da consentirti di inviare un messaggio udibile a Gerusalemme, che sta laggiù, lontanissima. Ma Gerusalemme è il "mio" popolo e tu, che sei evangelizzatore di Sion, devi parlare al suo cuore: "" alza la voce con forza, tu che rechi liete notizie in Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annunzia alla città di Giuda: "¹"¹Ecco il vostro Dio!"º"º "" L'annuncio riguarda la venuta di Colui che sta costruendo la strada e che ha l'irruenza strepitosa di una voce che parla al cuore umano derelitto, desolato. E qui " ai vv. 10 e 11 " due immagini della "venuta": il re e il pastore.

V. 10: ""Ecco, il Signore Dio viene con potenza, con il braccio egli detiene il dominio. Ecco, egli ha con sé il premio e i suoi trofei lo precedono". Siamo, qui, in presenza di un sovrano che avanza con potenza, accompagnato dai trofei " il "braccio steso" del dominatore, segno della sua forza, e il "premio" " perché questa è la strada del suo trionfo.

V. 11, seconda immagine: "Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul seno e conduce pian piano le pecore madri". Qui abbiamo, invece, la figura del pastore, che modera l'andatura del gregge, che è attento alle difficoltà delle pecore che hanno appena figliato, che muove il braccio per radunare il gregge e, poi, raccoglie gli agnellini e se li stringe al seno.

Sembrano due immagini contraddittorie: il dominatore, il pastore; la potenza invincibile di quel trionfatore che muove il braccio per dichiarare la sua vittoria, la delicatezza soavissima di questo pastore che è pieno di premure nei confronti di ogni pecorella, anche della più debole, e raccoglie gli agnellini uno per uno portandoli al seno. Osservate che in entrambi i versetti compare il termine "braccio": il braccio del dominatore e quello del pastore. E' lo stesso braccio; è Colui che viene con forza e con dolcezza. E' la potenza del Signore nostro Dio, che è una forza impregnata di delicatezza. Viene per manifestare l'affetto che il pastore dedica all'ultima pecora del gregge, ma in quell'affettuosa attenzione c'è una potenza straordinaria. E' il Dio Vivente; è il Mistero che si manifesta nella sua gratuità assoluta e nella sua originalità inimmaginabile; se non fosse vero che, poi, è esattamente così che stanno andando le cose. Il nostro profeta è testimone di questa venuta ed è impegnato, adesso, nel dare fiato come può a questa voce consolatrice che vuole penetrare nell'intimo di ogni cuore umano e là dove la storia degli uomini si è espressa con le forme della devastazione più micidiale. Proprio là, viene, per realizzare l'opera che Gli compete, ed ecco che noi Lo riconosciamo: è dotato di un vigore indomabile, perché è il protagonista di una storia d'amore che porta in sé tutte le sfumature della dolcezza. E' Lui; viene Lui; è vincitore. Le pecore perdute sono richiamate, radunate e riconosciute, una per una.


Ciro servitore del Signore

Andiamo al capitolo 41, facendo un salto in avanti.

Vv. 1-5: "Ascoltatemi in silenzio, o isole"" (qui il profeta lancia un proclama che è rivolto a un uditorio internazionale, ecumenico; le "isole" evocano l'"oltremare"; un modo per indicare il mondo, i popoli lontani, l'umanità intera) "" e voi, nazioni, badate alla mia sfida! "" (parla al cuore di Gerusalemme e al cuore umano: "ascoltatemi").

"" Si accostino e parlino; raduniamoci insieme in giudizio "" (avvicinatevi, perché dobbiamo discutere tra noi di qualcosa di importante). " ... Chi ha suscitato dall'oriente colui che chiama la vittoria sui suoi passi? (già sappiamo che si parla di Ciro, che sta arrivando; tutti lo sanno, ma ") Chi gli ha consegnato i popoli e assoggettato i re? ("Chi" è protagonista di questi eventi?). La sua spada (di Ciro) li riduce in polvere e il suo arco come paglia dispersa dal vento. Li insegue e passa oltre, sicuro (vedete come si muove Ciro); sfiora appena la strada con i piedi. Chi ha operato e realizzato questo, chiamando le generazioni fin dal principio? Io, il Signore, sono il primo e io stesso sono con gli ultimi. Le isole vedono e ne hanno timore; tremano le estremità della terra, insieme si avvicinano e vengono". Uno scenario immenso. L'esperienza dell'esilio ha conferito al nostro profeta " e, con lui, agli altri del suo popolo " una consapevolezza storica, dotata di una maturità ormai di altissimo livello: questa è una storia unica, in cui tutta l'umanità è coinvolta; la storia di questo popolo " che è il nostro, che è il mio " con la sua particolare identità, missione e responsabilità, è un elemento che si inserisce strutturalmente in un disegno che tiene conto di tutti i popoli, di tutte le lingue, di tutte le presenze; e Ciro è un servitore del Signore!


Non temere: ti tengo nella mia mano

Vv. 8-20. Adesso, sullo sfondo di quella visione amplissima che abbiamo appena considerato, l'attenzione si concentra su Israele: "Ma tu, Israele mio servo, tu Giacobbe, che ho scelto, discendente di Abramo mio amico, sei tu che io ho preso dall'estremità della terra e ho chiamato dalle regioni più lontane e ti ho detto: "¹"¹Mio servo tu sei, ti ho scelto, non ti ho rigettato"º"º" (osservate come in questi versetti ricorrano i pronomi di prima e di seconda persona: "io", "tu"; fermo restando quello sfondo, da cui non si può mai prescindere, c'è la storia "nostra"; ci sono io, ci sei tu; ci sei tu per me; ci sono io per te) " Non temere perché io sono con te; non smarrirti, perché io sono il tuo Dio (questo linguaggio è tipico del nostro profeta). Ti rendo forte e anche ti vengo in aiuto e ti sostengo con la destra vittoriosa (ti tengo in mano; stai attento: quella mano nella quale tu ti raggomitoli, quella situazione nella quale ti sembrava di urtare contro un ostacolo, di sbattere la testa contro un muro, di andare a scontrarti con contrarietà di ogni genere" guarda bene, renditi conto: sei nella mia mano, sono io che ti tengo stretto!) Qui saltiamo i vv. 11 e 12 e andiamo al v. 13: "" Poiché io sono il Signore tuo Dio che ti tengo con la destra e ti dico: "¹"¹Non temere, io ti vengo in aiuto"º"º"" (sei nella mia mano destra, sono io che ti tengo; hai l'impressione di essere incatenato, prigioniero, intrappolato, schiacciato? E' la mia mano che ti tiene stretto! Non ti eri accordo di questo? Adesso è veramente giunto il momento che tu te ne renda conto!). Non temere, vermiciattolo di Giacobbe, larva di Israele; io vengo in tuo aiuto " oracolo del Signore " tuo redentore è il Santo di Israele. Ecco, ti rendo come una trebbia acuminata, nuova, munita di molte punte; tu trebbierai i monti e li stritolerai, ridurrai i colli in pula. Li vaglierai e il vento li porterà via, il turbine li disperderà. Tu, invece, gioirai nel Signore, ti vanterai del Santo di Israele "". Notate, quel popolo, che era stato raffigurato con l'immagine del vermiciattolo: adesso quella larva, che si infila sotto terra, si trasforma in una trebbia colossale che macina le montagne; un mastodontico erpice che pettina gli spazi della terra, monti e colline. Questo sei tu; quel verme nella mia mano, ridotto alle misure di una larva, sei nella mia mano. Ed ecco come io, attraverso di te, manifesterò una potenza dirompente, per cui non ci sono impedimenti che possano ancora trattenerti come prigioniero della paura.

" ... I miseri e i poveri cercano acqua ma non ce n'è, la loro lingua è riarsa per la sete (problemi idrici, come saranno risolti?); io, il Signore, li ascolterò; io, Dio di Israele, non li abbandonerò ("Io", attraverso quattro fonti, che intendono ricapitolare tutte le possibilità di approvvigionamento d'acqua: fiumi, fontane, laghi, sorgenti) " Farò scaturire fiumi sulle brulle colline, fontane in mezzo alle valli; cambierò il deserto in un lago d'acqua, la terra arida in sorgenti." E poi " pianterò cedri nel deserto, acacie, mirti e ulivi; porrò nella steppa cipressi, olmi insieme con abeti (sono sette specie di alberi; la steppa si ricopre di vegetazione; il deserto diventa territorio selvoso) affinché vedano e sappiano, considerino e comprendano a un tempo che questo ha fatto la mano del Signore, lo ha creato il Santo di Israele". Quella mano che ti tiene stretto " vedi " è la mano che si prende cura di tutti i miseri e i poveri che cercano acqua e non la trovano; la mano che rende fertile la steppa e fa di te una creatura nuova.

Ci sono di mezzo eventi comunque grandiosi: passerà qualche anno e Ciro, effettivamente, conquisterà Babilonia ed emanerà, poi, un editto di liberazione per tutti i deportati, nell'anno 538 a.C. Ma noi qui abbiamo a che fare con le situazioni che si stanno evolvendo negli animi di coloro che assistono agli eventi con la trepidazione che possiamo ben comprendere. Ebbene: "Io ti tengo nella mia mano", e là dove la paura che ti stritolava si trasformerà nella gioia della creatura che si compiace di appartenere al Creatore " là dove questo avviene " sappi che la nuova creazione è in corso.


La chiamata alla vita, nel travaglio del parto

Andiamo al cap. 42 e prendiamo il v. 14: "Per molto tempo ho taciuto, ho fatto silenzio, mi sono contenuto; ora griderò come una partoriente, mi affannerò e sbufferò insieme".

Questo è il Signore che grida; e, adesso, è il grido di una partoriente; l'urlo di una donna nei dolori. Il profeta presta voce, affinché quel grido risuoni e sia compreso, nella testimonianza suprema della chiamata alla vita che esso vuole esprimere, perché è il lamento di una donna nel travaglio del parto. La chiamata alla vita, v. 15: "Renderò aridi monti e colli, farò seccare tutta la loro erba; trasformerò i fiumi in stagni e gli stagni farò inaridire. Farò camminare i ciechi per vie che non conoscono, li guiderò per sentieri sconosciuti; trasformerò davanti a loro le tenebre in luce, i luoghi aspri in pianura. Tali cose io ho fatto e non cesserò di farle". Vedete che cosa vuol dire per quella partoriente dare, finalmente, alla luce una creatura chiamata a vivere?


Saper discernere il vero Dio

V. 17: "Retrocedono pieni di vergogna quanti sperano in un idolo, quando dicono alle statue: "¹"¹Voi siete i nostri dei"º"º". Questo è un tema sul quale dovremo, necessariamente, tornare: la parola di Dio " che interviene come protagonista della storia (e il profeta è attento a rilevarne il linguaggio e a testimoniarne la presenza) " impone il discernimento per eccellenza; quel discernimento che espelle l'infiltrazione dell'idolatria, che cancella la complicità con essa, che esclude l'appartenenza ad altri principi di riferimento, ad altre divinità, perché unico è il Signore, che parla al cuore di Gerusalemme schiava!


Non c'è altro Dio fuori di me

Capitolo 44, v. 6: "Così dice il re di Israele, il suo redentore, il Signore degli eserciti (ecco, è Lui, che qui viene identificato con il titolo di "redentore", colui che paga il prezzo per recuperare ciò che è perduto; è Lui che avanza e che si presenta in "prima persona singolare") : "¹"¹Io sono il primo e io sono l'ultimo (dall'inizio alla fine, dall'alto al basso, tutto si ricapitola in obbedienza alla sua iniziativa), fuori di me non vi sono dèi (non c'è altro riferimento possibile; tentativi in direzione diversa sono sicuramente catastrofici; ecco la vera catastrofe: cercare riferimenti che sottraggano la creatura all'appartenenza e alle consegne del suo Creatore; e il ritorno della creatura a questa appartenenza, per cui essa vive nella comunione con il Creatore, questo processo di ritorno, di conversione, di rieducazione " nel senso più profondo del termine " fa tutt'uno con il superamento di ogni complicità idolatrica. "Fuori di me non vi sono dèi"; gli altri dèi possono soltanto inglobarti nella catastrofe; io, invece, mi presento a te per dirti che anche la catastrofe mi appartiene e che anche nella catastrofe io ti inseguo, ti raggiungo, ti visito e faccio di te una creatura nuova. Gli altri dèi, nella catastrofe, ti tengono stretto come un prigioniero e quindi "). Chi è come me? Si faccia avanti e lo proclami, lo riveli di presenza e me lo esponga. Chi ha reso noto il futuro del tempo antico? Ci annunzi ciò che succederà (qui sono sfidati gli idoli dei pagani, ai quali peraltro gli stessi fedeli del popolo di Israele si sono rivolti, ossequienti e devoti, in tante occasioni. Più volte, nel nostro libro, avremo a che fare con questo aperto, dichiarato conflitto anti idolatrico, che è un tema di fondo per gente che abita a Babilonia e, cioè, proprio nel centro della grande organizzazione che si erge sulla scena del mondo, con la prepotenza della suprema esaltazione idolatrica: il sacro, il divino, l'assoluto " Babilonia. Ebbene: dove sono questi altri dèi?). Non siate ansiosi e non temete: non forse già da molto tempo te l'ho fatto intendere e rivelato? Voi siete miei testimoni: c'è forse un dio fuori di me o una roccia che io non conosca?". Non c'è altro Dio. Non c'è nulla, fuori di me, che non sia una creatura, che non appartenga a quel disegno unico " che passa attraverso tutte le contraddizioni e che travolge tutte le opposizioni " di cui io sono il protagonista, primo e ultimo.


Gioia cosmica

Cap. 44, vv. 21-23: "Ricorda tali cose, o Giacobbe, o Israele, poiché sei mio servo. Io ti ho formato, mio servo sei tu" (il linguaggio del nostro profeta in certi momenti è dirompente, in altri affettuoso, come quel "braccio" poderoso e, insieme, premuroso: esplode con l'irruenza dell'annunciatore che grida dall'alto della montagna, e poi bisbiglia con la delicatezza del suggeritore che si rivolge direttamente agli spazi più segreti del cuore umano); " Israele, non sarai dimenticato da me. Ho dissipato come nube le tue iniquità e i tuoi peccati come una nuvola. Ritorna a me, perché io ti ho redento. (E adesso il v. 23, che assume la fisionomia inconfondibile di un inno di gioia:) Esultate, cieli, poiché il Signore ha agito, giubilate, profondità della terra! (Gli spazi cosmici sono così ricapitolati nella loro immensità: dall'altezza celeste agli abissi della terra. Ed ora la superficie terrestre, quella piana e quella ondulata, tutto ciò che si muove sulla scena del mondo, le creature al loro posto, con le loro specifiche originalità) Gridate di gioia, o monti, o selve con tutti i vostri alberi, perché il Signore ha riscattato Giacobbe, in Israele ha manifestato la sua gloria". Un'unica sinfonia di gioia che coinvolge tutte le creature nel tempo e nello spazio, perché la parola di Dio consola il cuore di Gerusalemme, perché l'opera di una nuova creazione si sta compiendo e perché noi stiamo riconoscendo, contemplando e, quindi, testimoniando la sua gloria!