Da aprile del ’99 non ho più l’incarico per
l’accompagnamento spirituale delle Acli. Da circa 35 anni i
miei superiori s.j. mi hanno lasciato una singolare libertà.
Per questo sono stato e sono impegnato a ricercare ciò di
cui c’è più bisogno al mondo che io possa fare,
e ad intervenire: cerco di ascoltare il Signore nelle Scritture e
in tutto quello che capita a me, e soprattutto
all’umanità e alla Chiesa.
Senza clausure: cercando di non nascondermi nulla, e di vivere una
piena laicità fondata sulla Parola di Dio. Sono piuttosto
tentato di nascondere me stesso per paura di troppo grandi
responsabilità.
La mia porta è aperta in particolare ai più di 40
studenti fuori sede con cui vivo, la finestra del mio spirito cerca
di essere aperta a quel che succede nel mondo: eventi, problemi e
in particolare alle povertà, alle ingiustizie e alle
violenze. Vivo così “cum timore et tremore” per il
mistero di ogni persona e per il Mistero infinito di Dio.
Non sono pienamente libero ma è questa una condizione che
da tanto tempo vado cercando.
Le tradizioni arricchiscono di valori, le canalizzazioni fanno
scorrere parole che non lasciano nulla. Non è sempre facile
rimanere fuori dalle canalizzazioni senza incorrere in un
ripiegamento su se stessi che chiuda ai valori delle
tradizioni.
Oggi la società è caratterizzata da un sistema di
canalizzazioni, di condotte forzate, che non aiutano a crescere. I
canali televisivi hanno una parte importante e in qualche modo sono
il simbolo di tante altre canalizzazioni.
Sono canali i discorsi di persone che si ascoltano, che parlano per
sé, per farsi largo, per avere una base, senza nulla
lasciare e donare. Esse sono spesso ascoltate perché non
interpellano le coscienze e non responsabilizzano.
Islàm significa
sottomissione, e musulmano
sottomesso. Sottomissione quindi è un termine fondamentale
per i credenti in Allah. Ad un certo tipo di mentalità
cristiana invece “sottomissione” suona male: il
sottomesso è un dipendente, una personalità poco
sviluppata, un soggetto scarsamente responsabile. Ma anche per i
cristiani quando si parla di sottomissione a Dio tutto cambia:
servire a Dio è regnare; il “cliente di Dio”,
ottima definizione del povero in Spirito, è il solo libero
di non farsi cliente di nessun altro.
Il guaio è che spesso ci sentiamo artefici, protagonisti,
gestori della vita spirituale nostra e altrui, ignorando lo Spirito
santificatore che opera in noi inviato dal Padre e dal
Figlio.
Sia fatta la tua volontà.
Finché parlo, anche solo dentro di me, non ascolto,
soprattutto non ascolto il grido del mondo e contemporaneamente, o
di conseguenza, non ascolto Dio e viceversa se non ascolto Dio non
ascolto il mondo. Il circolo di ascolto di Dio e del mondo invece
non è vizioso ma mistico.
Per questo cerco di stare in silenzio, favorito in qualche modo da
una società che mi azzittisce qualche volta anche mediante
chi conta nella Chiesa (ho scritto in proposito “Stà
in silenzio davanti al Signore e spera in Lui” del settembre
2000).
Ho i miei interessi, i miei amici, il mio gruppo, il mio
progetto… e gli altri mi interessano in funzione delle
scelte che faccio: negli affari, nella politica, nella pastorale.
È questo un sistema diffuso ed efficientissimo perché
punta ad obiettivi precisi su cui ci si concentra, e il resto
è come se non esistesse. Ma questa è anche una
violenza generale, spesso non percepita e per questo più
grave. Le persone ignorate sono come calpestate.
È un sistema che penetra in ognuno di noi ma non raggiunge
quel fondo di noi stessi che è l’apertura agli altri,
il cuore vivo da cui partire per un cambiamento dei nostri
rapporti, un cuore capace di riconoscere e stupirsi, di amare e
servire, mettendo in crisi il nostro modo di vivere e le strutture
stesse della società.
Ognuno è un volto, degli occhi, uno sguardo… un
abisso… una storia irripetibile di cui non posso in alcun
modo accettare la morte come la fine di tutto.
Tutti poi formiamo un’unica realtà fatta di popoli, di
piccoli e piccolissimi, stretti da legami più profondi di
quelli che siamo soliti riconoscere fra parenti, amici e militanti
della stessa parte.
Al di là di ciò che determina l’attrazione fisica e i legami affettivi c’è una bellezza in ogni donna e in ogni uomo che spinge nel più intimo della nostra coscienza a volere il loro bene ed accogliere con tristezza la loro estrema fragilità; ognuno è una porta aperta sul mistero (vedi “La fede. Lettera a un giovane amico”, gennaio 2001).
La mia attenzione cerca di rivolgersi ai popoli cristiani e
musulmani che credono in Dio. In realtà sono loro che
prendono la mia attenzione e mi coinvolgono. Quando mi rivolgo a
Dio immediatamente penso a loro. Se penso ai grandi della terra
sono subito portato a cambiare l’oggetto del mio interesse e
mi rivolgo a loro. Incontrando le persone a cui sono maggiormente
legato mi sento come rinviato a tutti i popoli credenti. In tutte
le esperienze di vita e di morte si presentano in primo piano nella
mia coscienza loro, i popoli dei piccoli che credono in Dio.
Sono i piccoli di cui non si parla, e la loro fede in Dio è
oggetto forse di molte discussioni ma scarsamente provoca stupore
ed ammirazione.
Al di là di quelli che si dichiarano formalmente credenti e cristiani e che sono oggetto delle nostre statistiche sui “praticanti”, penso di scorgere un popolo immenso di persone che affrontano la vita nelle gioie e nelle difficoltà, con un riferimento interiore a Gesù Cristo e con l’invocazione a Maria “adesso e nell’ora della nostra morte”.
Non lasciandomi coinvolgere in tanti discorsi correnti sui musulmani, sulla loro religione e in particolare sul fondamentalismo cerco di amare come sorelle e fratelli quanti, anch’essi numerosissimi, vivono e muoiono nel nome di Allah e nell’adesione piena alla sua volontà che chiamano sottomissione. Riconosco come uno dei peccati più gravi della mia lunga vita l’essermi così scarsamente interessato di loro ( vedi “Appello agli umiliati”, gennaio 2000).
Sono questi due popoli numerosissimi. La loro fede è
incompiuta, forse appena abbozzata, spesso nascosta e contraddetta
da discorsi e comportamenti negativi ma non per questo meno
reale.
È questa una valutazione azzardata, ma in qualche modo
necessaria, per la quale occorre distinguere la fede dalla
religiosità. La fede di ognuno è conosciuta e
valutata solo da Dio. Da parte nostra è sempre incompiuta e
appena abbozzata in quanto può sempre crescere (“credo
Signore, aiuta la mia incredulità”); è sempre
un evento soprannaturale nei cui confronti le nostre misure sono
radicalmente inadeguate. Circa la religiosità possiamo
rilevare una maggiore o minore maturazione anche se innumerevoli
sono le sue forme e i suoi itinerari. La religiosità che
possiamo, e in qualche modo dobbiamo, rilevare è quella che
si manifesta esteriormente; la religiosità interna rimane
spesso nascosta, in particolare non possiamo capire come pregano i
piccoli se non siamo anche noi tali.
Le contraddizioni nei discorsi e nei comportamenti sembra che in
larghissima misura possano ricondursi alle mancanze di attenzione e
di rispetto per gli altri, ma anche in questo occorre ricordare
sempre che i nostri rilievi sono esteriori.
Come cristiani siamo estremamente tentati di giudicare il prossimo
riguardo alla religiosità, alla fede e a quella singolare
qualifica che chiamiamo “buona volontà” (vedi
“Lettera a P. Benedetto Calati”, Pasqua 2000).
Liberandomi dalle catene che stringono il cuore e la mente nell’esercizio sciagurato del giudizio mi apro al riconoscimento di un’immensa moltitudine di piccoli cristiani e musulmani; al tempo stesso e per la stessa libertà ritrovata mi apro alla fede di tutte le genti. Particolari vicende storiche ci spingono oggi ad aprirci all’Islàm e questo ci aiuta a ritrovare quell’apertura universale per cui la Chiesa si definisce cattolica.
L’incontro con singole persone che soffrono – per quel poco o molto che riusciamo a non essere ripiegati su noi stessi o ad evadere con discorsi e con azioni, anche quelle rivolte ad aiutare gli altri – ci spinge alla considerazione di tutti quelli che soffrono e la tristezza ci invade. Ci accorgiamo che il mondo grida incessantemente ed entriamo in quel grido. Ci accorgiamo anche della pazienza infinita, specialmente di quelli che non si compiacciono, esteriormente ed interiormente, della loro bravura e non puntano all’esercizio delle virtù in grado eroico.
Riconosciamo la pazienza infinita e che la storia è viva
ed è ben diversa da quella raccontata dagli immensi poteri
mediatici.
La compassione di Dio entra un po’ alla volta in noi
trasformando il nostro cuore di pietra (vedi “La fede.
Lettera a un giovane amico”, cit.).
La speranza è Dio che si è rivelato in Gesù
Cristo nella sua passione e morte, nella sua resurrezione e
ascensione al cielo. Egli è il sole di giustizia che
trasfigura ed accende l’universo in attesa.
Vox silet, mens deficit.
Adorazione silenziosa, la vita eucaristica e la Messa sul
mondo.
Viviamo sperando che i tempi duri passino presto e le ore liete non
passino in fretta. La nostra esistenza terrena è intessuta
di piccole e grandi speranze che ci consentono di continuare a
vivere. Ma prima o dopo, presto o tardi, matura la consapevolezza
che quanto ci sostiene e costituisce il fascino dei nostri giorni
su questa terra ha una fragilità radicale, tutto si guasta
per una insufficienza interna al nostro essere e di tutta la
realtà di cui facciamo parte.
Giovanni, l’autore dell’Apocalisse, piange molto
perché l’angelo annuncia che non c’è
nessuno in cielo, in terra e sotto terra che possa aprire il libro
chiuso con sette sigilli che contiene il senso della storia e che
sta saldamente nella mano destra di Dio. Ma ecco un vegliardo,
rappresentante di tutta l’umanità, che annuncia che
Gesù Cristo morto e risorto apre il libro chiuso e svela, o
meglio dà il senso, a tutta la storia, quella nostra
individuale e quella dell’umanità. È la
salvezza universale!
Siamo al capitolo 5 che è il cuore dell’Apocalisse,
libro conclusivo della Bibbia, che racchiude la speranza cristiana.
Oggi malauguratamente il termine apocalisse ha preso il senso di
catastrofe. C’è tuttavia la grande speranza di un
ritorno pieno della Chiesa all’Apocalisse. La speranza quindi
è Dio che si è rivelato in Gesù Cristo e nel
mistero pasquale (vedi “Lettera a P. Benedetto Calati”,
cit.; “Lettera al Card. Tettamanzi”, agosto 2001).
Oggi c’è una speranza per la storia, per i giorni
pochi o molti che siano di ogni persona umana.
La speranza è Dio.
C’è poi la speranza che accada qualche cosa che
manifesti la presenza di Dio nella nostra vita personale.
È oggi diffusa, specialmente in alcuni movimenti spirituali,
la certezza che Dio risolve tutti i problemi della nostra vita
quotidiana. Non intendo giudicare queste esperienze che tuttavia
non appaiono esenti dal rischio di una privatizzazione di Dio al
nostro servizio, o come diceva Bonhoeffer di una concezione di Dio
come “tappabuchi”.
La speranza che vorrei comunicare è che tutte le ore delle
nostre giornate, con le gioie e le sofferenze che sperimentiamo,
siano illuminate e confortate dalla certezza che non solo noi ma
tutte le donne e tutti gli uomini, il mondo e l’universo sono
nelle mani di Dio. Allora i problemi, anche quelli non risolti,
diventano prove che causano piccole o grandi crisi di crescita
nella fede.
A ciò si collega la speranza che il mondo delle immagini che
sempre più ci cattura e dissecca le nostre capacità
di autentiche relazioni retroceda e ci sia ridata la comunicazione
con il mondo reale e quindi la capacità di compatire e di
capire. È una speranza per tutte le persone in tutte le
situazioni.
La speranza per la storia non è diversa da quella per tutte
le persone: è la speranza di eventi che cambino il corso
della storia con nuove culture, nuovi sistemi e nuove istituzioni
in cui sia più manifesto il regno di Dio e la vittoria di
Cristo nel mistero pasquale.
La speranza è la comunione di fede del popolo
che crede in Gesù Cristo e di quello che è sottomesso
ad Allah.
Questo è l’oggetto e il motivo della mia
speranza.
Non si tratta del confronto fra due teologie e due morali,
né della convergenza nell’impegno sociale per la
giustizia e la pace, cose peraltro della massima importanza. Non si
tratta degli accordi di potere politico, economico o
religioso.
La speranza sta nella comunicazione della fede del popolo nella
vita quotidiana, nei rapporti di lavoro, nella vicinanza di
abitazione, nelle gioie e nelle feste, nei tempi e nei luoghi della
sofferenza.
In un paesino in cima a una montagna ero seduto accanto a un
anziano che si lamentava di molti guai. L’interlocutore, un
giovane maghrebino musulmano gli ripeteva: se non credi in Dio
crolla tutto.
E’ un evento splendido.
Lo splendore della comunicazione della fede è percepito solo
nella fede dagli occhi del cuore illuminati dall’esperienza
della bontà infinita di Dio che si manifesta nella sua
misericordia. Chi si rallegra ragionevolmente dei buoni rapporti
fra cristiani e musulmani non è detto che colga sempre lo
splendore soprannaturale dell’evento.
Evento che rivela la grandezza di Dio e di tutta
l’umanità.
La progressiva scoperta della grandezza dell’universo ed in
esso di quella dell’uomo, di ogni singola persona, dei popoli
e della storia, ci esalta e ci abbatte al tempo stesso
perché percepiamo quanto siamo piccoli e come è
effimera la nostra esistenza.
Ma l’esperienza della comunicazione nella fede fra cristiani
e musulmani ci mette in contatto con la grandezza di Dio che
è al di là di ogni altra grandezza e che tutte le
salva nella loro fragilità.
Evento certo anche se misterioso.
Evento certo della certezza della fede nella rivelazione di Dio: il
libro dell’Apocalisse rivela il senso della storia come
cammino verso la Gerusalemme celeste che scende dal cielo La
certezza di questo evento è anche confortata
dall’esperienza delle nostre profondità minacciate: un
baratro è l’uomo e il suo cuore è un abisso (v.
Salmo 64,7).
Questo evento certo è un mistero e come tale sfugge alle
critiche e non può essere da noi posseduto e gestito.
Evento di cui non abbiamo informazioni circa i tempi, i modi e
la portata.
Non ci è stato rivelato, non ci è dato fare
previsioni né ci sono segni dei tempi rilevabili da saperi
umani. Solo nella fede possiamo cogliere l’evento che
è stato che è e che sarà.
Hanno poco senso i nostri progetti e le nostre programmazioni, i
piani pastorali con cui tentiamo di gestire una salvezza che viene
da Dio. Forse oggi, domani o fra un secolo; in modo vistoso e
clamoroso o nascosto e silenzioso; coinvolgerà direttamente
tutti o solo una parte più o meno piccola e tutti gli altri
indirettamente. Certamente è evento di portata
universale.
La mancanza di informazioni non importa perché ha un
valore eterno.
La comunione di fede fra diversi popoli credenti ha valore eterno,
avviene nel tempo ma entra nel definitivo, è la
carità che non avrà mai fine, è la Gerusalemme
celeste.
E’ la comunione nella fede, è un valore per tutti i
popoli, per tutte le sorelle e tutti i fratelli.
La comunione di fede fra cristiani e musulmani apre la via alla
comunione più universale fra tutti gli uomini credenti,
anche se nei modi più diversi, che non di rado consistono
nella ricerca. L’importante è spezzare il cerchio che
ci tiene chiusi nella convinzione di essere i soli a credere come
si deve.
Questa speranza è certa ed è confortata
dall’esperienza del cuore provato che cerca Dio.
Il cuore provato non rivela ma dispone ad accogliere la rivelazione
in spazi che crescono con le prove, si colmano e si dilatano con la
luce rivelata. Nelle prove infatti si cerca Dio anche quando in
superficie ci si chiude in se stessi o si va in altra direzione o
si dispera.
Nelle prove si vive la massima aggregazione.
Ogni speranza aggrega e disgrega al tempo stesso, ogni speranza
dilata il cuore e contemporaneamente si contrappone o lascia in
secondo piano le speranze degli altri.
Questa speranza dell’incontro di fede fra cristiani e
musulmani aggrega in modo universale perché spezza i legami
più forti che ci rinchiudono in noi stessi.
Eppure questa speranza è tentata in mille modi dalla
seduzione del potere, dall’imperialismo, dal terrorismo, dal
consumismo.
Questa speranza è con la fede un dono dello Spirito che
abita nella fragilità fisica e psichica per cui è una
speranza che va continuamente riconquistata.
La pressione esterna ci spinge in direzione di ben altre speranze
umane; in particolare per quel che riguarda il rapporto tra
cristiani e musulmani la speranza mondana pensa a vittorie o
sconfitte, a terrorismi e imperialismi, a dinamiche economiche che
azzerano i valori personali e culturali. Soprattutto domina la
grande seduzione del potere.
Ora un appello che vuol essere un intervento nella svolta
storica che stiamo vivendo.
Un appello che vorrebbe essere nominale, non per dichiarazione di
voto, ma per una comunicazione personale, guardandosi in faccia
dalla profondità dell’io a quella del tu. Un appello
ad una scelta di vita pur nella consapevolezza che in tanti casi
non cambierà nulla in chi vorrà tuttavia in qualche
modo riceverlo.
Un intervento per stare in mezzo a quello che accade, non come
arbitro ma come chi è coinvolto in tutte le parti, esposto a
tutti i rischi, senza possibilità di fuga, senza protezioni
di sorta, senza poter guardare con distacco da lontano, senza
chiusure in piccoli mondi protetti, fossero pure profumati di
incenso e di candele.
Nella svolta storica che stiamo vivendo, che è la stessa ed
unica trasformazione che mi investe sia con il vicino di casa che
chiede ascolto e che mi assorda con la televisione a tutto volume,
sia con le immense vicende economiche, politiche, militari e
religiose che si intrecciano su scala planetaria.
Un appello da parte di chi non ha nessun titolo né
autorità Dio può servirsi anche di strumenti privi di
valore.
Vorrei rivolgere un appello a nome di tutti i piccoli e di tutti i
poveri, di chi non ha voce in capitolo ed è
emarginato… ma non ho alcun titolo per rappresentarli.
Non ho titoli culturali, economici, politici, morali, religiosi, di
grandi sofferenze e di martirio. Non ho alcun potere né
purtroppo so godere della libertà di non averlo.
Nullità quindi e nudità, eppure mi sembra di aver
capito qualcosa che devo comunicare con l’appello che
supplica e scongiura. Anche di questo Dio può servirsi.
Appello alla Chiesa, popolo di Dio, istituzione gerarchica, presenza operante dello “Spirito del Signore che ha riempito l’universo, Egli che tutto unisce, conosce ogni linguaggio, alleluia” (vedi “Lettera a P. Benedetto Calati”).
Appello a liberarsi dalle illusioni: una la tentazione una
l’illusione.
Alla tentazione dominante corrisponde l’illusione del potere.
Illusioni sono rappresentazioni errate della realtà che ci
fanno comodo o ci spaventano: sogni ed incubi ad occhi
aperti.
La nostra vita interiore è un continuo intreccio di
illusioni e di ritorni alla realtà. Andiamo dicendo che il
nostro è il mondo delle conoscenze, che significa tante cose
diverse, e delle immagini.
Liberarsi dalle illusioni è un’impresa senza fine ed
è l’atto più radicalmente rivoluzionario.
Liberarsi dalle illusioni sul piano religioso è la vera
laicità, fondata sulla parola di Dio ed è adesione
all’invito del salmo: Sta’ in silenzio davanti al
Signore e spera in lui. Come il potere è la radice di tutte
le tentazioni così lo è anche di tutte le
illusioni.
Ecco alcune tentazioni ed illusioni: gestire la salvezza propria e altrui, possedere la verità, esercitare il potere buono, il dominio, essere una forza sociale, un’alternativa di potere non al potere, confidare nella organizzazione e nella managerialità, ritenersi superiori a chicchessia, ritenere la propria religione superiore alle altre, cercare una mediazione culturale come riduzione del Vangelo e della sua radicalità, cadere nel verbalismo che sostituisce i fatti con le parole, cercare la competizione come conflitto e non come tendere insieme verso la stessa meta (vedi “La pietra scartata”, 2001).
Cum-petere.
Competizione significa in genere gara e conflitto ma risalendo al
significato etimologico può voler dire “tendere
insieme verso la stessa meta”, anche collaborando e senza
alcuno spirito di concorrenza o di rivalità.
Appello a concentrarsi nella contemplazione esercizio della fede
speranza e carità.
Si tratta del ritorno urgente della Chiesa
all’Apocalisse.
Per una conversione continua della vita cercare piccoli
itinerari di piccoli.
Necessità di abbattere e demolire le nostre costruzioni
culturali, ideologiche, teologiche, organizzative, di potere che
intralciano la conversione del cuore che ovviamente include quella
della mente. Necessità quindi di avviare una riflessione sul
valore del dissociarsi, del dare le dimissioni, di accettare
l’emarginazione.
Forte oggi anche la tentazione di grandezza: grandi imprese
rivolgendosi ai grandi in una situazione di grandi mali. A grandi
mali grandi rimedi, ma il Signore Gesù non l’ha
pensata così. La potenza salvifica di Dio entra nel mondo
attraverso la piccolezza.
Una regola? Un itinerario? Una via?
Vien da pensare a tutte queste possibilità ma
l’essenziale è aiutarci ad accogliere il Vangelo che
è rivolto a tutti (vedi “Sta’ in silenzio
davanti al Signore e spera in Lui”, settembre 2000).
Appello a cercare il dialogo fra cristiani e musulmani.
Un passaggio importantissimo verso un dialogo fra credenti e non
credenti per la pace universale in tempo di globalizzazione
è il superamento di legami particolarmente stretti e
mortificanti causati sia da tutto quello che c’è in
comune, sia da una storia tragicamente piena di incomprensioni e di
violenze.
Il termine dialogo può significare un rapporto più o
meno profondo; è bene accompagnarlo con altri termini:
condivisione, comunicazione… fino a una vera comunione delle
menti e dei cuori (vedi testi riportati in appendice di Borrmans
nn.1-2).
Dialogo a diversi livelli.
I vari livelli o possibilità di dialogo vanno tenuti ben
presenti mettendo a fuoco le diversità che ci sono fra loro
e al tempo stesso gli stretti legami. È forte il rischio di
rimanere bloccati a un livello ignorando gli altri, anche quelli
che possono essere più importanti. Oggi la grande tentazione
è di lasciare in secondo piano il dialogo della fede che
invece è il fondamento di tutto il resto (vedi Borrmans
n.2).
Dialogo politico per gli equilibri del potere.
Intendendo la politica nel significato disgraziatamente corrente di
gestione del potere, il dialogo politico appare chiaramente
necessario, altrimenti c’è la guerra, e al tempo
stesso insufficiente.
Purtroppo i politici sono spesso tentati di onnipotenza e quindi di
fiducia nelle armi e nel loro uso. Basta pensare a quel che succede
in Palestina per la ripresa del dialogo tra Palestinesi e
Israeliani.
Dialogo culturale e religioso teologico.
È importante tener ben distinto il livello religioso da
quello della fede. Il livello religioso come fatto essenzialmente
culturale è di grande importanza ed è quello in cui
maggiormente si impegnano gli studiosi e quelli che più
contano nella gestione seria del potere. Il rischio è quello
di assolutizzarlo riducendo la fede a dottrina e dimenticando il
privilegio dei piccoli (cfr. Matteo 11,25-27 e Luca 10,21-22).
Dialogo per la giustizia nel mondo.
Dialogo in vista dell’azione in comune per aiutare quelli che
sono maggiormente nel bisogno. In quanto è un dialogo in
funzione dell’azione per la giustizia, per la pace e per la
carità ha un’importanza primaria. Il rischio è
di sentirsi come singoli, come parti e tutti insieme protagonisti
della storia, dimenticando la dipendenza da Dio. Il vescovo don
Tonino Bello a conclusione di una giornata di dibattiti sulle
possibilità di pregare insieme fra credenti in Dio di
diverse religioni, celebrando l’Eucarestia disse che
c’era una cosa che tutti potevano fare insieme senza pericolo
di confusioni: aiutare gli immigrati più poveri.
Dialogo di fede: cose spirituali con linguaggio spirituale
Nel mondo che cambia acquista un’importanza sempre più
grande il rapporto della Chiesa, popolo di Dio, con
l’Islàm e i musulmani.
Un’attenzione crescente, da parte di coloro che contano e nei discorsi della gente comune, è rivolta ai problemi che tale rapporto pone sul piano politico, in particolare il terrorismo e la sua repressione, e sul piano culturale e religioso. Ma questa attenzione, certamente necessaria, sembra lasciare in secondo piano ciò che più conta per chi cerca di leggere la storia alla luce della fede nel Mistero del Signore morto e risorto: la fede in Dio dei piccoli, cristiani e musulmani 1.
Due immensi popoli credono
in Dio, vivono la gioia e affrontano le fatiche della vita e il
mistero della morte sperando in Dio, accettando la sua
volontà, a Lui pienamente sottomessi 2 .
Quando si pensa a questa
immensa moltitudine di piccoli, lo si fa, nel migliore dei casi,
per vedere in che modo essi vanno aiutati e guidati, dimenticando
che a loro è dato di capire il regno di Dio. Chi crede alla
“cattedra dei piccoli e dei poveri?”
3
Il salmista ammonisce: “L’uomo nella prosperità
non comprende, è come gli animali che periscono” (Sal.
49, 21)
Nel mondo che cambia la
speranza teologale, in Dio e nella realizzazione del suo
disegno di amore, porta a rivolgersi ai piccoli, ai poveri e ai
sofferenti 4 ed alla fede
che è in loro, cercando di accoglierla e di favorirne la
comunicazione.
Quando parliamo di dialogo fra le religioni siamo portati a pensare
al dibattito culturale e teologico, sempre strettamente legati agli
schieramenti politici e ai giochi di potere.
Ci sono poi i gesti coraggiosi
del Papa sul piano del digiuno e della preghiera, altamente
significativi che andrebbero da tutti condivisi cordialmente.
Ma la cosa più importante è la comunicazione fra i
popoli credenti nella quotidianità, “nelle gioie e
nelle speranze, nelle tristezze e nelle angosce dei poveri e
soprattutto di quelli che soffrono” (G.S. 1)
Come, dove e quando
ciò può accadere? Un’occasione che sta
diventando sempre più frequente e importante è il
lavoro.
Si tratta di indicare una via, di tracciare un sentiero,
piccolo e nascosto agli occhi del mondo, di aprire un varco, forse
tra i rovi, per una comunicazione sulla fede. E’ un servizio
prezioso per la Chiesa che crede nell’umiliazione della
croce 5 ma è sempre tentata dal potere,
come il suo Signore nel deserto (Luca 4, 1-13; vedi anche Borrmans
nn.7, 8, 9).
Presupposto fondamentale al
dialogo con i musulmani è la fede dei cristiani in
Gesù Cristo Signore della storia. Per questo è
urgente un ritorno della Chiesa all’Apocalisse.
Non mancano certo degli studi molto belli su questo libro
conclusivo del Vecchio e del Nuovo Testamento, ma a livello della
pastorale siamo talmente in ritardo da accettare tranquillamente e
condividere l’uso, diffusissimo in questi tempi, del termine
apocalisse per indicare solo la catastrofe, mentre
l’Apocalisse è il libro della speranza per la Chiesa
perseguitata.
Al fondo c’è il fatto che pensando e parlando dell’impegno dei cristiani nel mondo si afferma che essi si rifanno ai principi e ai valori del Vangelo, quasi che esso si riducesse ad un manuale di etica. La Buona Notizia, la pace in terra agli uomini che Dio ama (Lc. 2,14), il kerigma, è che il Figlio di Dio si è fatto uomo, è morto e risorto per la salvezza universale (vedi “Dialogo con Franco Augruso”, 2001; vedi anche Borrmans nn. 3, 4,5).
Aprirsi ed accogliere l’aiuto che viene
dall’Islàm.
L’aiuto può consistere in uno stimolo e in un esempio.
L’ostacolo più grezzo a questa apertura sta nel
pensare che noi cristiani abbiamo tutto. L’ostacolo
più raffinato è quello di pensare che nel Vangelo
c’è tutto senza tener presente che in noi di Vangelo
c’è ancora molto poco e che la Tradizione apostolica
cresce pian piano nella Chiesa (vedi Dei Verbum n.8).
Aprirsi al mistero trascendente di Dio.
Dio certamente è al di là di tutto quello che
possiamo conoscere e possedere. Il rapporto dei cristiani con
Gesù Cristo non è esente dal rischio di una deriva
idolatrica quando si dimentica che la sua umanità è
sacramento e rivelazione del mistero infinito di Dio (vedi Borrmans
n.6).
Vivere la piena sottomissione a Dio facendo in tutto la
volontà di Dio.
Sottomissione e accettazione in tutto e per tutto della
volontà di Dio e purificazione da ogni illusoria autonomia e
dalla perversa tentazione di servirci di Dio.
Unire fede e impegno nel mondo.
Nell’esperienza sentita da tanti cristiani della separazione
fra fede e impegno nel mondo, può aiutarci quella profonda
identificazione fra fede, cultura e politica caratteristica
dell’Islàm, senza per questo disconoscere i rischi
gravissimi del fondamentalismo dal quale saremo noi stessi liberi
nella misura in cui accetteremo la salvezza che Dio opera
attraverso l’assunzione della nostra debolezza, la
kenosis.
Ritrovare il primato dello Spirito sulle strutture.
Il problema costante per i cristiani è il rapporto fra
carisma e istituzione: il prevalere delle istituzioni genera
clericalismi di vario genere di cui l’ultima versione sembra
essere quello manageriale. La riacquisizione del primato dello
Spirito può essere stimolata e aiutata dall’esperienza
profondamente diversa del mondo musulmano.
Fede morale e ascetica.
Nell’itinerario della condizione spirituale cristiana, che
consiste essenzialmente nell’esercizio delle virtù
teologali, si presenta il pericolo di distrazioni politiche,
culturali, morali e persino ascetiche. Possiamo ricevere un forte
stimolo dalla diversa esperienza dei musulmani in particolare dei
loro mistici (sufi).
Affidarsi pienamente a Dio in tutti i momenti della vita e nella
morte.
Atteggiamento fondamentale per la fusione delle esperienze di fede
dei cristiani e dei musulmani.
Annientarsi nell’esperienza del Mistero.
Alle impressionanti affermazioni di alcuni mistici musulmani
sull’annientarsi nei confronti di Dio possiamo trovare una
corrispondenza nell’affermazione di Paolo: Non son più
io che vivo ma è Cristo che vive in me, e nella
“kenosis” (Fil 2,5-11).
La vita cristiana e quella musulmana come mistica popolare e
politica, impossibile senza la comunione nella fede fra cristiani
musulmani ebrei e tutte le donne e gli uomini nel mondo.
In silenzio davanti a Dio e al mondo, scorgendo le moltitudini che
vivono nella gioia e nel dolore, animati dall’esperienza di
Dio, di Abramo, di Mosè, di Gesù Cristo e del Corano,
esercitati nella pazienza e nella solidarietà, desiderosi di
fare il bene e pentiti del male fatto, o del bene non fatto, con o
senza espliciti riferimenti religiosi intravediamo la comunione di
spiriti che deriva da un unico Spirito. Questo non è un
vertice del pensiero umano ma un dono dato ai piccoli.
Le moltitudini, anche quelle che appaiono più misere e
trascurate, si illuminano come il grande soggetto della storia,
storia spirituale, storia salvata.
Guardando in silenzio queste moltitudini e lo Spirito che le
unifica cogliamo il Mistero: tutti, anche se nelle forme più
diverse, fanno esperienza del Mistero, tutti sono mistici e questa
è la realtà più grande che c’è in
ognuno, in tutta l’umanità in cammino per innumerevoli
vie.
È la mistica popolare e politica che c’è, va
riconosciuta ed assecondata nella sua crescita (vedi Borrmans
n.10).
Riporto dei passi del libro di Maurice Borrmans, Orientamenti per un Dialogo tra cristiani e musulmani, Pontificia Università Urbaniana, 1991. In questo libro ho trovato un grande aiuto ad aprirmi all’Islàm con speranza evangelica. Ne consiglio vivamente la lettura integrale.
Dialogo religioso
Anche se la parola dialogo è troppo alla moda o si presta ad ambiguità (tanto che alcuni le preferiscono il termine di condivisione o di incontro), essa vuole qui designare un modo di essere e di agire che rifugge dall’isolamento, si preoccupa sempre dell’altro e considera la relazione col prossimo un elemento costitutivo della persona. Dialogare dovrebbe dunque essere il desiderio profondo di ogni credente serio e onesto (p.39).
Il dialogo tra cristiani e musulmani può e deve essere considerato una delle dimensioni essenziali della vita degli uomini e delle donne di fede nei numerosi paesi in cui vivono, lavorano, amano, soffrono e muoiono. Molti cristiani preferirebbero forse limitarsi a una tranquilla indifferenza lasciando ciascuno alle sue abitudini, ai suoi pregiudizi e alla sua buona fede: la storia tuttavia ha dimostrato che questo tipo di atteggiamento mantiene ciascuno nell’ignoranza del prossimo e favorisce i malintesi, i sospetti e i conflitti. Alcuni cristiani mostrano oggi un interesse particolare, o privilegiato, per l’Islàm e le sue realizzazioni storiche, rischiando di disconoscere le sue dimensioni religiose, quelle stesse che permettono a coloro che le vivono di fare l’esperienza di Dio e di renderne testimonianza (p. 157).
Solo in seguito a un rinnovamento nella conoscenza e nella stima dei musulmani, i cristiani possono tentare una valutazione evangelica e teologica dell’Islàm: esso non è forse la religione monoteista, di tipo profetico, che ha dei rapporti ancora mal definiti con la Tradizione ebraico-cristiana ed in cui il modello abramico della fede e della sottomissione a Dio è esaltato fino nelle sue implicazioni ultime? (p.158).
Il dialogo tra cristiani e musulmani dovrebbe
considerare seriamente quali sono le convergenze religiose
possibili, perché sarebbe un peccato che l’incontrarsi
e il condividere le esperienze si limitassero ai soli valori
temporali di questo mondo. Di fatto, ci sono dei valori superiori
in cui è impegnata l’avventura spirituale dei credenti
e in cui gli uni e gli altri scoprirebbero di avere molto da
spartire sul piano dell’esperienza religiosa che ne fanno.
D’altronde, la fede di ognuno, proprio spingendosi fino a
questo, conosce una forte purificazione e un reale approfondimento,
nella misura in cui essa incontra la fede dell’altro
“in verità”: cristiani e musulmani si situano
allora sul piano superiore di una “emulazione
spirituale” che non può che renderli più vicini
gli uni agli altri. Nella loro doppia fedeltà alle
tradizioni religiose che li alimentano, essi possono conoscere una
speranza comune, quella di vedere Dio illuminarli infine sulle
convergenze spirituali che li attendono, prima che egli non li
informi, un giorno, “di ciò intorno a cui ora sono
discordi” (Corano 5,48).
Strada facendo, cristiani e musulmani sono così invitati a
sviluppare il loro dialogo sui quattro livelli essenziali della
comunicazione tra gli uomini. Essi hanno il compito di vivere la
generosità del “dialogo dei cuori”, in cui gli
uni e gli altri sanno condividere “come fratelli” il
coraggio del “dialogo della vita”, affinché si
dispieghino i loro sforzi per la promozione dei valori umani di cui
Dio solo è l’ultimo garante; l’audacia del
“dialogo della parola”, che si fa discorso su Dio e
sull’uomo nello stesso tempo; e, infine, il coraggio del
“dialogo del silenzio”, in cui Dio parla direttamente
al cuore di ciascuno degli interlocutori. È nel silenzio,
infatti, che comincia e che si compie ogni vero dialogo,
poiché nel “silenzio della fede” ognuno
può scorgere quale è il destino eterno
dell’altro (pp. 159-160).
Il dialogo perderebbe tutto il suo senso se l’interlocutore cristiano limitasse la sua fede a dei principi generali e se sopprimesse i dogmi che divergono dalle affermazioni coraniche. Nel dialogo, il musulmano dovrebbe poter incontrare un cristiano nella pienezza della sua vita spirituale e nella totalità del suo credo, così come il cristiano è invitato a comprendere e ad amare il musulmano nella totalità del suo culto e nella pienezza della sua fede. Questa è una esigenza di verità e di realtà, poiché è in gioco l’onore stesso di Dio (p.54).
È forse a questo livello superiore dell’approccio al Mistero che gli uni e gli altri sono chiamati a dialogare di più, poiché venti secoli di vita cristiana e quattordici secoli di vita musulmana rappresentano un capitale unico di esperienze religiose e di ricerche mistiche in cui la santità degli uomini deve essere considerata il primo dono che Dio ha fatto loro (p.92).
Sia che appartengano alle grandi masse rurali dei paesi
in via di sviluppo o al nuovo mondo dei lavoratori
dell’economia moderna, i Musulmani degli ambienti popolari
hanno in comune l’attenzione ad una pratica tradizionale e ad
una fede comunitaria in cui sono vissuti alcuni dei valori
religiosi dell’”uomo biblico”. Fedeli a Dio e
agli antenati, legati ai riti e alle abitudini, spesso conservatori
in campo familiare e sociale, essi sanno esprimere la loro
esperienza religiosa attraverso tratti di saggezza, in cui
confluiscono molti versetti coranici e hadit profetici. Sovente
appartengono ancora al mondo delle confraternite religiose, che li
inquadrano e li educano sul piano della fede, della vita sociale e
politica, o anche economica. Coloro che appartengono alle numerose
diaspore del lavoro, in altri paesi musulmani o in Europa e in
America, vivono dolorosamente delle situazioni di esilio o delle
“detribalizzazioni alienanti”. Anche se in apparenza
condividono largamente la condizione delle classi lavoratrici e la
realtà delle lotte sindacali, soprattutto quando sono
giovani, essi riescono a non dimenticare nulla dei valori religiosi
della loro patria di origine e accolgono con gioia ogni
possibilità di riunirsi in comunità religiose dotate
di un luogo di culto o di insegnamento.
Sia che appartengano al mondo tradizionale che a quello moderno,
questi Musulmani “silenziosi” saranno spesso i primi
interlocutori del dialogo: sempre sensibili ai valori di fede e di
preghiera, di lavoro e di azione di grazia, di ospitalità e
di generosità, di pazienza davanti alla sofferenza e di
rassegnazione davanti alla morte, divenuti ormai consapevoli degli
ideali di dignità, di libertà, di uguaglianza e di
fraternità, come al messaggio delle beatitudini, essi sono
in grado di sviluppare, al livello stesso del loro linguaggio, un
dialogo che non sia semplicemente quello del lavoro o del vicinato,
ma anche quello della fede vissuta, della sofferenza assunta,
dell’amicizia ricercata e della morte trascesa” (pp.
31-32).
C’è infine un livello più
specificamente religioso in cui si deve ricercare il dialogo tra
credenti, per animare meglio il tipo di comunicazione precedente e
aiutarlo a raggiungere il grado più elevato: è quello
in cui la fede degli uni e degli altri spiega e chiarisce il loro
approccio di Dio. Infatti, non ci si potrebbe mai accontentare di
un dialogo che evitasse per paura, o rifiutasse per principio, ogni
scambio in materia propriamente religiosa. Questo dialogo è
lo sbocco naturale e la normale conseguenza dei dialoghi
precedenti, soprattutto se intende restare un “dialogo di
vita tra credenti”. Attraverso la varietà delle parole
e dei linguaggi e, a volte, anche le divergenze riconosciute e
accettate, un tale scambio al livello della fede può
permettere agli uni e agli altri di apprezzare di più il
loro patrimonio comune nel cammino verso Dio, e di chiarire quali
sono le domande essenziali che attendono ancora, da lui, una
risposta. Si verifica, allora, la condivisione dei valori di fede,
che può essere il “dialogo della salvezza” di
fronte al mistero di Dio che resta ineffabile.
Se ci sono, dunque, diversi luoghi di dialogo in cui ogni credente
è chiamato a divenire solidale coi suoi fratelli di altre
tradizioni religiose, esistono anche dei momenti di grazia e degli
avvenimenti privilegiati in cui le persone dimenticano facilmente
le loro appartenenze diverse per comunicare solo gli stessi valori
e gli stessi sentimenti. È il caso dei grandi momenti della
vita umana che sono la nascita, il matrimonio, la sofferenza,
l’agonia e la morte. Chi non crede che le feste,
reciprocamente celebrate con auguri, visite e regali, possano
essere un mezzo potente di incontro regolare e di dialogo ripetuto?
Così cristiani e musulmani dimostreranno di essere animati
da questo spirito di dialogo sapendo accogliere e vivere pienamente
questi momenti privilegiati, in cui i cuori battono
all’unisono e in cui gli spiriti conoscono gli stessi
pensieri. Lo Spirito di Dio sa allora eliminare molti ostacoli tra
gli uomini e ricordare loro quale è la propria
fraternità essenziale: ritrovarsi “fratelli nella fede
in Dio”, in seno ad un mondo indifferente o ateo, per rendere
insieme testimonianza di Dio e dell’uomo (pp. 42-43).
Cristiani e musulmani, chiamati a conoscersi nella loro
autenticità e a rendere reciproca testimonianza della loro
fedeltà, devono adattarsi gli uni agli altri, inventare dei
gesti che favoriscano l’unità e collaborare ovunque si
sentano impegnati a difendere gli stessi valori. Non si
insisterà mai abbastanza sull’arricchimento che il
dialogo può apportare quando si sa lavorare fianco a fianco,
mangiare insieme alla stessa tavola, sopportare con
solidarietà le stesse sofferenze e gioire insieme delle
stesse feste in una condivisa allegria. È in questa
quotidiana comunione dei valori più umili e più
profondamente umani, che cristiani e musulmani possono aiutarsi
reciprocamente a rispondere meglio alle domande essenziali sul
mondo, sull’uomo e su Dio ….
Allora forse, i credenti delle due parti potrebbero vivere meglio e
affermare il loro progetto sull’uomo e la loro relazione con
Dio. Questo suppone il coraggio di una costante revisione di vita e
una maggiore attenzione all’altro. Ma richiede anche che
ciascuno riduca al minimo, presso il suo interlocutore, la
sofferenza di essere mal conosciuto, mal compreso e male accetto.
Riconoscendo ad ogni individuo e alla sua comunità i meriti
che hanno e le virtù che gli sono proprie, il dialogo ha la
possibilità di raggiungere una complementarietà
superiore (pp.46-47).
Ci si riferisce, qui, al dialogo della vita, a tutti i livelli e con tutte le sue componenti, poiché non si può certo limitare l’incontro dei cristiani e dei musulmani alle riunioni degli specialisti o alle visite dei capi di comunità. Il dialogo abbraccia tutte le forme dell’esistenza e si svolge in ogni luogo in cui musulmani e cristiani vivono, lavorano, amano, soffrono, e anche muoiono insieme. Infatti la specificità del dialogo non è nel suo oggetto, ma in questo modo di essere e di agire che è accoglienza dell’altro. Ascolto della sua parola e accettazione del suo diverso modo di essere. Non occorre, quindi, essere un intellettuale, un fine teologo e nemmeno un credente molto avanzato nelle vie della santità; è necessario e sufficiente essere un uomo di fede e di speranza, di buona volontà e di carità effettiva. Tutti sono dunque chiamati al dialogo, poiché tutti sono istruiti da Dio e interpellati dal suo Spirito che spesso interviene mediante l’esempio o la parola dell’”altro”, come avvenne sulla via di Gerico per un certo ferito che fu soccorso non da un sacerdote o un levita, ma da un samaritano qualunque che poi fu chiamato ”buono” (pp.40-41).
1 Mt. 11, 25-27 “In quel tempo Gesù disse: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te.”
2 “La Chiesa guarda anche con stima i Musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche nascosti, come si è sottomesso Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano tuttavia come profeta: essi onorano la sua Madre Vergine Maria, e talvolta pure la invocano con devozione. Inoltre attendono il giorno del giudizio quando Dio retribuirà tutti gli uomini risuscitati. Così pure essi hanno in stima la vita morale e rendono culto a Dio soprattutto con le preghiere, le elemosine e il digiuno.
Se nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorte tra cristiani e musulmani, il Sacrosanto Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà” (Dichiarazione sulla relazione della Chiesa con le religioni non cristiane del Concilio Vaticano II, Nostra Aetate, n. 3).
3 Pio Parisi, “La cattedra dei piccoli e dei poveri”, AVE, 1995
4 J.B. Metz, Il Regno, dicembre 2000, “Religione e politica nell’epoca della globalizzazione”.
5 Fil. 2, 5-11: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Gesù Cristo, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre”.