Scrivo a te che sei giovane perché sei forte, e la parola di Dio dimora in te e hai vinto il maligno (cfr. 1 Giov. 2,14). Scrivo a te perché deposta ogni impurità e ogni resto di malizia, accogli con docilità la parola che è stata seminata in te e che può salvare la tua anima. Sei di quelli che mettono in pratica la parola e non solo ascoltatore, illudendo te stesso (cfr. Giac. 1, 21-22)
Io nel settantacinquesimo anno di vita e nel cinquantasettesimo di appartenenza alla compagnia di Gesù sento un vivo desiderio di approfondire la mia fede in Dio e di comunicare quello che in proposito mi sembra di aver capito. Cerco quindi di rientrare in me stesso e di uscirne per una donazione totale. La contrapposizione fra ripiegamento e apertura è solo apparente perché cerco Dio in me stesso e negli altri. Più precisamente è Lui che mi cerca nelle due direzioni.
Al termine dell’anno giubilare si dà un caso assai
singolare e felice. Da due analisi profondamente diverse si
può arrivare alla stessa conclusione: c’è
qualcosa che comunque è necessaria e prioritaria;
l’indica con chiarezza la colletta della XXX settimana
durante l’anno: “Dio onnipotente ed eterno, accresci in
noi la fede, la speranza e la carità”.
Per alcuni le celebrazioni dell’anno giubilare sono state
meravigliose: un risveglio di fede, un’esperienza di
comunione, un’affermazione della chiesa, una straordinaria
testimonianza del papa, un progresso della linea conciliare,
eccetera.
Per altri il grande giubileo ha comportato una forte
mondanizzazione e banalizzazione della vita cristiana, la
mortificazione di innumerevoli altre iniziative spirituali, una
inversione nel cammino conciliare, eccetera.
È chiaro che a queste due diverse letture seguiranno impegni
diversi e contrastanti sul piano della vita interiore, su quello
pastorale, sociale e politico. Sarebbe poco serio non prevedere una
forte conflittualità.
C’è però una cosa su cui tutti possono
convenire ed è il bisogno di andare in profondità per
crescere nella fede, nella speranza e nella carità.
Mi propongo di riflettere e scrivere, per me stesso e per tutti gli
amici, cercando di stare alla presenza di Dio, e continuando una
comunicazione che ha assunto un ritmo accelerato nell’ultimo
anno e mezzo1 .
Mi ripeto? Lo faccio da circa sessant’anni, ma per me non è un problema in quanto se c’è un’eco del vangelo le stesse cose sono sempre nuove. Spero che sia così anche per chi volesse ascoltarmi o leggere quello che vado scrivendo.
Un accenno a quello che intendo comunicare.
Rientrando in me stesso trovo una massa di detriti e una corrente
viva. Penso si tratti della fede che non è “mia”
ma opera dello Spirito in me. Non è la fede semplice dei
piccoli, capolavoro di Dio, né quella semplificata che oggi
viene proposta in tante forme diverse. È una fede tormentata
e inquieta, in qualche modo crocifissa.
Sono così spinto ad andare in profondità e arrivo a
una falda di acqua tranquilla e purissima che sembra non scorrere
ma è vivissima, non c’è nulla che la illumini
ed è chiarissima per una luce totalmente sua. In questa
acqua muoio e vivo di una vita che più non muore. È
acqua di speranza e di pace.
A partire da questa falda comincia una risalita che può
arrivare alla coscienza politica, alle strutture della convivenza
umana, alla pace... fino al medio oriente.
Al lavoro!
È mattino e i giovani con cui vivo vanno
all’università. Tutti, donne e uomini, iniziano a
lavorare in casa o fuori. Il sole si sposta e
l’umanità comincia a lavorare con una grandiosa
òla, come un’onda va da oriente ad occidente.
Anche io mi metto a lavorare: resto nella mia stanza e penso a me
stesso con la lucidità del mattino. Sembra proprio la
negazione del lavoro, eppure sono persuaso che è quello che
devo fare per essere utile agli altri. Penso alla mia fede
cristiana: sembra un precipitare nell’intimismo, forma
raffinata di egoismo, eppure mi sento abbastanza sicuro che
fermandomi a pensare alla mia fede vivo seriamente la
responsabilità verso gli altri e verso il mondo. È la
mia vocazione che qualcuno definirebbe contemplativa.
La contemplazione è una dimensione essenziale della vita
cristiana come insegnò il card. Martini nella sua prima
lettera pastorale alla diocesi ambrosiana. Qualcuno ogni tanto
richiama questo primato ma per tutti è molto facile
scordarsene.
Un primo pensiero che mi è passato tante volte per la
mente e che ora vorrei in qualche modo fissare è che non ha
senso dire: “la mia fede”. Nessuno possiede la fede, la
fede possiede noi.
È questa una verità semplicissima che può
sconvolgere e rinnovare la vita e l’impegno di tanti
cristiani e della chiesa. Si tratta, infatti, di rinunciare con
determinazione ad ogni senso proprietario nei confronti della
religiosità, della fede e di Dio stesso. È rinuncia
al potere che più di ogni altro può sedurre chi lo
esercita e coloro nei cui confronti è esercitato.
Sono persuaso che pensando alla fede che è in me realizzo,
conformemente alla mia vocazione, il miglior servizio alla chiesa e
al mondo.
Ma come è possibile rientrare in se stessi e al tempo stesso
uscire da sé per servire gli altri? Rientrando in me stesso
non cerco la mia fede ma ciò che lo Spirito opera in me, e
se la mia ricerca non va a vuoto faccio esperienza di Dio presente
e operante nel più profondo del mio essere, nel mio cuore
che, secondo la Bibbia, comprende intelligenza, sentimenti e quanto
altro costituisce la mia ultima identità.
Rientrando in me stesso alla ricerca della fede incontro
così l’Altro e in lui tutti gli altri.
Per essere quindi presenti, per intervenire, per compromettersi e
per operare nel mondo, partecipando “alle gioie e alle
speranze, alle tristezze e alle angosce degli uomini di oggi, dei
poveri soprattutto e di coloro che soffrono” (Gaudium et Spes 1) non c’è nulla di
più concreto che l’incontro con Dio che avviene nel
più intimo di noi stessi.
Al lavoro, quindi!
Rientrando in me stesso per verificare la fede trovo, sotto un
cumulo di detriti, una corrente di acqua viva in cui riconosco un
dono dello Spirito e, molto più di un dono, la sua presenza,
la comunione con la vita divina.
I detriti sono quel che resta delle mie iniziative distinguendo
quel che ho pensato e fatto mosso dallo Spirito da quel che ho
fatto per mia iniziativa; discernimento non facile che a sua volta
può esser fatto nello Spirito o come mia valutazione
autonoma. Tante cose non sono decollate o non sono andate in porto:
torri rimaste a metà che oggi mi appesantiscono. Altre cose
hanno avuto un seguito, anche qualche vero successo, ma il
compiacimento di me stesso ne ha fatto tuttavia un ingombro, un
detrito. Queste e tante altre cose sono i detriti che ingombrano il
mio spirito con rammarichi, rimpianti, amarezze, attesa di rivalse
(non credo di vendette).
La corrente è l’acqua che scorre limpida e fresca,
bagna qualche ciottolo della grande fiumara e fa nascere delle
piante, forse ci vive anche qualche pesciolino. Quest’acqua
è la fede, è la tradizione apostolica, è lo
Spirito Santo che opera in me. La sua portata varia con le stagioni
o per fenomeni imprevisti.
La fede illumina realtà che ho già conosciuto e
affrontato a prescindere dalla fede.
Le prove che in un primo momento affronto con le mie
capacità naturali, cercando le soluzioni possibili, in un
secondo momento le riconosco nella fede come intervento di Grazia
per la mia crescita a gloria di Dio.
La falda.
Si trova molto più in profondità.
Nel cuore del concilio, la Dei
Verbum n.8, c’è l’affermazione della
crescita della tradizione apostolica. Io sono in attesa di un
cambiamento profondo: la mistica popolare.
“Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli
uomini di buona volontà”. Ritornare al vangelo che
dice: “Pace agli uomini che Dio ama”. La categoria
“uomini di buona volontà” sostituisce “gli
uomini che egli ama”.
La nostra attenzione va sempre rivolta in primo luogo a Dio in
Gesù Cristo, poi a noi stessi. La predicazione e la
catechesi sono oggi prevalentemente rivolte al nostro
perfezionamento morale e ascetico. L’alternativa corrente
è l’impegno caritativo sociale e politico. Dominante
poi è la lotta al peccato che solo raramente viene
identificato come mancanza di conversione a Dio.
Sembra non ci siano alternative a un cristianesimo inteso come
accettazione di dottrina e pratica di morale e ascesi.
Ma questa impostazione è in crisi e si reagisce cercando di
“serrare”: stringere le norme e stringere le fila con
un esercizio più accentrato e rigoroso
dell’autorità clericale. In alternativa si tende ad
allentare per rendere il cristianesimo più facile ed
appetibile.
Solo alcuni sono alla ricerca della vera alternativa che è
il vangelo: il primato di Dio, della fede, della speranza e della
carità, il primato dell’apertura al Mistero.
L’alternativa che è il ritorno al vangelo richiede un
nuovo discernimento di tutto; è massimamente
rivoluzionaria.
Il discernimento evangelico e la metanoia conseguente riguarda anche i
legami più stretti che si trovano nell’esercizio del
potere clericale.
Un amico buono, serio, lucido e fortemente provato nella vita,
mi parla del bisogno di approfondire la sua fede cristiana che oggi
gli appare “massimamente improbabile”.
Questa sua espressione trova una forte risonanza in me e in tanti
altri che si dichiarano credenti e in non pochi che si ritengono
non credenti.
I motivi di questa improbabilità sono tanti.
Sembra che tutto avvenga secondo leggi di natura o per una serie di
causalità di cui via via si trova la spiegazione. Il mondo
cresce agli occhi degli uomini, sia per i progressi delle scienze
sia per la sensibilità profonda di alcuni ai problemi di
tutte le donne e di tutti gli uomini, e per la complessità
dei meccanismi che generano e che sono generati da tali problemi.
Cresce in alcuni la coscienza politica che deve tuttavia fare i
conti con la diffusa incoscienza di chi ignora la politica o la
gestisce solo come gioco di potere. Il mondo appare sempre
più grande e tragico mentre la chiesa, con la sua proposta
di fede, sembra ancorata al passato, a un mondo dalle dimensioni
incomparabilmente più ridotte.
Massimamente improbabile appare la morale proposta dalla chiesa in
tanti campi, dal sesso alla dottrina sociale.
Sul piano sociale.
Molti cristiani e molti che non si professano tali pensano che oggi
la voce della chiesa, in particolare quella del papa, sia
l’unica che con autorevolezza richiami le esigenze della pace
e della giustizia.
L’enfatizzazione di questo fatto da parte dei cristiani non
sembra molto evangelica. Non sono in grado di misurare la portata
di questo servizio della chiesa in rapporto alla forza inedita
della globalizzazione. Quel che constato è che tanti non
credenti che apprezzano tale servizio sul piano etico e sociale non
sono per questo stimolati ad interessarsi e ad aprirsi ai misteri
della fede: quando si parla di resurrezione reagiscono come gli
intellettuali di Atene: “su questo ti sentiremo
un’altra volta”. E tutto rimane massimamente
improbabile.
La chiesa è oggi impegnata a stare al passo con il mondo per
poter annunciare il vangelo nel modo migliore. Nel fare questo,
anche se con ottime intenzioni, rischia la mondanizzazione e quindi
la perdita di senso per tutti quelli che non fanno parte del
cosiddetto “mondo cattolico”.
Per non essere emarginata la chiesa pensa che sia oggi essenziale
entrare nel mercato. Non so quanto questo possa influire nei grandi
giochi del potere economico, comunque non penso che in questo modo
si renda meno improbabile il Mistero rivelato di cui la chiesa
è chiamata ad essere sacramento.
Ma la fede che è in me, intimamente congiunta alla
speranza e alla carità, è accompagnata da tormento e
inquietudine, due termini che mi aiutano a raccogliere una gran
varietà di sentimenti profondi.
La fede è un tormento (“una pena morale, soprattutto
in quanto segreta, continua e sconvolgente” secondo uno dei
significati proposti dal vocabolario di Devoto-Oli) perché
mette a nudo le sofferenze, i limiti e il male che sono in me e in
tutta l’umanità. La fede è un tormento
perché per essa siamo investiti dalla compassione universale
e radicale di Dio nei confronti di tutte le sue creature. La fede
è tormento perché la luce eccessiva sembra
accecare.
Il tormento della fede fa gridare e il grido dispone noi stessi e
Dio ad accrescere la fede che è in noi.
La scarsa fede che è in me è motivo di grande
inquietudine (“insistente agitazione o insoddisfazione o
insofferenza” secondo il vocabolario Devoto-Oli).
2
Tale inquietudine in me è certamente anche segno di mancanza
di fede: “credo, aiutami nella mia incredulità”
(Mc 9,24).
Innumerevoli sono i motivi e le forme dell’inquietudine a
causa della fede. Provo a raggrupparli in qualche modo.
Inquietudine per chi pensa e non crede.
Ci sono persone, alcune note e molte ignorate, che pensano in modo
serio ed onesto, riconoscono il mistero diffuso in tutto
l’universo e, tuttavia, si dichiarano non credenti.
Mi ha colpito in particolare una recente testimonianza di Norberto
Bobbio in “Micromega” 2,2000.
Mi domando con gran pena come sia possibile che chi dimostra tanta
maturità umana, non riconosca lo Spirito di Dio. Ma poi
penso alla mia limitatissima capacità di riconoscere lo
Spirito che opera negli altri e in me stesso.
Da parte di molti cristiani e dei loro pastori mi pare ci sia, non
di rado, una tranquilla accettazione del fatto che persone che
riteniamo di gran valore, non credano. Ci accontentiamo di
catalogarle, non so con quali criteri e con quale autorità,
come uomini di buona volontà e non ci angustiamo della loro
mancanza di fede. È bene non preoccuparsi della loro
salvezza fidando nella misericordia di Dio. Tuttavia il contrasto
fra la maturità umana e la mancanza di fede dovremmo
sentirlo vivamente come una perdita per la chiesa tanto bisognosa
di persone che pensino in modo maturo. Ma forse sto ora
dimenticando che il Signore esultò nello Spirito, lodando il
Padre che aveva nascosto il Mistero ai dotti e ai sapienti e lo
aveva rivelato ai piccoli (Luca 10,21; Matteo 11,25; 1Cor 1,
26-31).
Inquietudine per chi crede e non pensa.
Tanti si dicono credenti ma pensano poco e qualche volta non
pensano affatto a partire dalla fede.
Per alcuni la fede è dottrina conosciuta e posseduta,
riposta in un cassetto o in una cassaforte, che non stimola
all’impegno della mente e del cuore e non influisce sul modo
di pensare, di sentire, di stare nel mondo, di rapportarsi con le
cose, con il prossimo, con la società e con Dio stesso.
Sembra talvolta che i cristiani vivano una morale e una
religiosità senza Dio, atea.
Inquietudine per chi crede ma propone altro.
Il motivo più forte dell’inquietudine che accompagna
la fede che è in me è dato da quanti si professano
cristiani credenti e propongono altro. Sono tantissimi: cristiani
schierati nel nome di Cristo e della fedeltà alla chiesa che
si battono per principi e valori etici a prescindere dalla fede che
lo Spirito dona loro. Son queste battaglie perse in partenza, non
perché minoritarie, ma perché non inserite nella
storia della salvezza mediante il Mistero Pasquale.
Ma forti sono le tentazioni di potere nella chiesa: dominare con la
dottrina trascurando l’esperienza profonda del Mistero;
puntare sull’emotività trascurando la
razionalità e soprattutto l’esperienza del
Mistero.
Sant’Ignazio di Loyola negli esercizi spirituali punta sul
“sentire ac gustare res
interne”.
Inquietudine per chi soffre senza speranza.
L’inquietudine fondamentale che accompagna la fede rimane
sempre la sofferenza di tutte le donne e di tutti gli uomini, in
quanto non è confortata dalla speranza. La compassione di
Dio entra così nella nostra fragile costituzione, la
sconvolge e la rifonda verso quell’unica alienazione
salvifica che Paolo definisce: “non son più io che
vivo ma è Cristo che vive in me” (Gal 2,20).
Il mondo è nei guai e i cristiani pregano per un loro
piccolissimo mondo.
Convertire la preghiera del cristiano per convertirne il cuore e
ritrovare la loro presenza nel mondo.
La Messa sul mondo.
Quando sto bene nel mio piccolo mondo mi sembra che Dio sia del
tutto “improbabile”.
Il piccolo mondo è in relazione a ogni persona a quello che
possiede e che spera, come a quello che teme. Non di rado in questo
piccolo mondo è compresa una piccola religiosità che
si riferisce a un piccolo Dio, costruito da noi con parole
cristiane, un idolo.
Quando il piccolo mondo si scompone e si sfascia per
l’apparire di un mondo che non è alla mia portata
nascono interrogativi meravigliosi e inquietanti e con essi il
senso del Mistero.
La piccola religiosità del piccolo mondo salta o si ripiega
su se stessa: chi non ha più questa religiosità
comincia a inquietarsi e cerca il senso delle cose.
Rientrando quindi in me stesso per verificare la fede trovo,
come ho già detto, sotto un cumulo di detriti, una corrente
di acqua viva: è la fede che lo Spirito di Dio opera in me,
accompagnata da tormento e inquietudine. Andando molto più
in profondità trovo una falda di acqua tranquilla e
purissima: sembra non scorrere ma è vivissima, nulla la
illumina ma è chiarissima di una luce totalmente sua. In
quest’acqua muoio e vivo di una vita nuova che più non
muore. È acqua di speranza e di pace.
Rientrando in me stesso per verificare la fede trovo finalmente la
speranza per me, per la chiesa e per il mondo. E la speranza
è questa: che l’acqua di pace cresca dal profondo di
ogni donna e di ogni uomo, si espanda e salga fino alla superficie,
tutto vivificando nella vita personale e in quella sociale, fino
alla pace nel medio oriente.
Questa crescita, opera dello Spirito Santo, è “la
salvezza che non si lascia in alcun modo gestire”, che
è il titolo di un prezioso scritto del padre Saverio
Corradino. 3
Noi tuttavia possiamo, e in un certo senso dobbiamo, individuare,
praticare e proporre gli elementi principali di questa crescita
che, come i capi di un’unica fune si intrecciano
continuamente:
liberarsi dall’inautentico
concentrarsi sull’essenziale
discernere nello Spirito
morire e risorgere in Cristo
annunciare il Vangelo
Liberarsi dall’inautentico.
Rinunciare ad ogni forma di idolatria.
Staccarsi da tutto ciò che ci da sicurezza in alternativa
alla salvezza che viene da Dio in Gesù Cristo.
Tutto ciò che esiste al mondo e che Dio crea per noi
può esercitare un’attrazione e un fascino capaci di
allontanarci da Dio. Penso in particolare all’inautentico
religioso.
Fin dal primo impatto con la vita religiosa, nel noviziato della
compagnia di Gesù, incontrai proposte di perfezione mediante
l’osservanza di regole e consuetudini, che poteva fare di me
un novizio modello e darmi una piena tranquillità. Ma
precedenti rapporti ecclesiali mi avevano aiutato a capire e
desiderare la via della fede, della speranza e della carità:
Gesù via, verità e vita. Così maturò il
contrasto, il tormento e l’inquietudine nel cammino di
fede.
L’elenco delle inautenticità religiose che mi sono
state proposte e che io stesso ho vissuto e proposto ad altri non
finirebbe mai. Arrivo subito a qualcosa che ancora oggi mi
tenta.
Per tanti motivi di cui mi sento in parte responsabile mi ritrovo
nell’età avanzata con una scarsissima conoscenza delle
sacre scritture. Per grazia di Dio ho tanti amici che mi aiutano in
questa situazione. Mi piacerebbe conoscere la Bibbia come loro e
penso che mi darebbe tanta sicurezza, ma mi rendo conto che in
questo desiderio c’è qualcosa di inautentico
perché la salvezza viene sempre dalla misericordia di Dio e
non da un nostro possesso, sia pure il più elevato qual
è la conoscenza delle scritture. Non basta conoscere quel
che Dio ci ha detto, occorre ascoltare quello che ci dice: questa
è la fede. Mi angustio spesso di conoscere così poco
la Scrittura e mi dimentico di ascoltare quello che ora mi
dice.
In tante manifestazioni di religiosità scorgo un tasso di
inautenticità, non di rado in crescita. Non mi passa nemmeno
per la mente di giudicare e tanto meno di mettere in crisi
chicchessia. Occorre tuttavia fare il possibile per arrivare a
ciò che è essenziale nella vita cristiana.
Avere la coscienza tranquilla, le carte in regola, le valigie
pronte per andare in Paradiso, sono espressioni che ho sentito
sovente proporre come ideale della vita cristiana. Penso lo siano
solo in parte. La chiesa insegna anche che nessuno può
essere sicuro della propria salvezza e penso che il tormento e
l’inquietudine siano, nei modi più diversi,
strettamente inerenti alla fede, almeno fino a che non si arriva
alle acque profonde di pace.
Concentrarsi sull’essenziale.
“Anche noi dunque, circondati da un così gran
nugolo di testimoni, deposto tutto ciò che è di peso
e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa
che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore
e perfezionatore della fede” (Eb 11,39-12,2).
Nei giorni della nostra vita terrena siamo chiamati a correre verso
una meta che è la piena comunione con Dio in Gesù
Cristo. Per correre senza inutili soste dobbiamo guardare
continuamente a Gesù, alla sua passione, morte, resurrezione
e ascensione al cielo. Il vero raccoglimento, tanto raccomandato
nella vita cristiana, non è solo un rientrare in noi stessi
per mettere ordine nella nostra vita ma la conversione di tutta la
nostra vita a Gesù Cristo e al mistero pasquale, lasciando
che sia lui a raccoglierci e ricomporci in unità. Per questo
occorre superare anche la dispersione religiosa che può
venire dalle molte devozioni e cercare il Signore al livello
più profondo dove sono le acque di pace.
Discernere nello Spirito.
Oggi si parla spesso di discernimento e qualche volta si cerca
anche di praticarlo personalmente e comunitariamente. I criteri da
cui si parte sono per lo più di carattere etico e scadono
facilmente a un livello di ricerca di pura efficienza.
Il discernimento nello Spirito è un dono misterioso di cui
possiamo solo balbettare, a partire da qualche esperienza che ci
sembra di aver fatto e di fare. Si tratta del discernimento che ci
è dato nella fede a partire dalla parola di Dio e dal
Mistero rivelato.
In questo discernimento mi sembra di scorgere un primo livello nel
riconoscimento dei detriti che ci sono in noi. Intendo per detriti
quel che rimane, senza valore, delle iniziative partite da noi a
prescindere dalla fede in Dio con autosufficienza idolatrica.
Riconoscere tutto ciò come detriti è un primo livello
di discernimento spirituale.
Un secondo livello è quando ci si impegna a duplicare la
nostra lettura della realtà cercando di penetrarne il senso
più profondo alla luce dell’evento principale che
è il mistero pasquale.
Il terzo livello è quando si è in qualche modo
stabiliti nella contemplazione del mistero pasquale e in questa
luce si vede tutto il resto: la storia umana e l’evoluzione
cosmica come estensione della morte e resurrezione del
Signore.
Per chiarire a me stesso e spero anche a qualcun altro il secondo e
il terzo livello ripenso a un grandissimo amico, padre Mario
Castelli, in diversi momenti della sua vita.
Seriamente impegnato nello studio dei problemi sociali e della
dottrina sociale della Chiesa padre Mario per molti anni ha letto e
commentato, specialmente sulla rivista Aggiornamenti Sociali, i
fatti della società italiana, con discernimento etico e con
un senso raro e profondo della laicità.
A partire da un certo momento la sua attenzione si è rivolta
prevalentemente alla parola di Dio, alla lettura assidua della
Bibbia, in cui, senza diventare un biblista e senza diminuire
l’attenzione alla società, si è mosso sempre
più a suo agio. Il suo discernimento è diventato via
via sempre più “spirituale” cioè guidato
dallo Spirito che ci fa comprendere la Parola.
Negli ultimi anni della sua vita, quando la malattia aveva reso
molto difficile la sua comunicazione con gli altri, è
maturato in lui uno stato di contemplazione profonda e costante,
centrato sui grandi misteri della nostra salvezza. Allora non
c’era più in lui uno sforzo di illuminare gli eventi
alla luce della Parola, in quanto, nella contemplazione di
ciò che la Parola rivela, egli coglieva il senso profondo di
quanto accadeva in lui e attorno a lui, nella società e
nella storia.
Negli ultimi anni della sua vita quindi era giunto a quel livello
più profondo dove si trovano le acque chiarissime di luce
propria che illuminano e unificano tutto il resto.
Morire e risorgere in Cristo.
“Sono stato crocifisso con Cristo e non son più io
che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo
nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso
per me” (Gal 2,20).
Splendido, ma non è per me, né per tutti quelli che
come me non hanno fatto grandi passi nel cammino di perfezione.
Eppure è ciò a cui dobbiamo tendere fin dal principio
della conversione.
Mi han detto all’inizio della vita religiosa: a questo ci
penserai dopo, per ora osserva le regole. Ho reagito ed ho sofferto
di questa violenta stroncatura di quanto è più
essenziale nella vita cristiana. Ora sono in grado e sento il
dovere di annunciare il vangelo del figlio di Dio nostro salvatore
che nella sua realtà umana e divina, mediante la croce,
salva la nostra vita e dà senso al nostro essere persone.
È per noi l’unica alienazione che invece di svilirci,
come ogni altra alienazione, fa sì che il nostro io
personale si realizzi nel modo più pieno.
“Perché chi vorrà salvare la propria vita, la
perderà; ma chi perderà la propria vita per causa
mia, la troverà” (Matteo 16,25).
L’intangibilità della fede fonda la
sacramentalità del reale.
Ho cercato Dio tangibile, luminoso, ecclesiale. La notte e
l’abbandono sono esperienze necessarie per entrare nella luce
vera e nell’amore puro che è la carità di
Cristo.
In noviziato ho cercato una prova tangibile di Dio che mi liberasse
da ogni dubbio, convinto che allora tutto sarebbe diventato facile,
anche il martirio.
Via via mi sono orientato verso la luminosità dei misteri
che rendeva più desiderabile e più facile la
fede.
Ho molto sperato in una chiesa più trasparente nei confronti
della presenza dello Spirito di Dio e quindi più capace di
manifestare le insondabili ricchezze di Cristo.
Comincio ora a capire la necessità della notte oscura: il
mistero incomprensibile, la salvezza ingestibile, il protagonismo
idolatrico, la purezza della fede.
Per quanto luminoso il mistero è incomprensibile, la fede
oscura e la sua attrazione ci accosta all’abisso.
La salvezza non si lascia gestire in alcun modo (v. il testo
già citato di Corradino).
Ogni nostro progetto porta al fallimento, ogni nostra aspettativa
è delusa, ogni speranza che non sia “teologale”
è vana.
Il protagonismo si rivela illusorio e idolatrico.
La purezza si trova salendo verso Gerusalemme e non nello sforzo
ascetico di vincere se stessi, nell’abbandono fiducioso in
Dio e non nella tensione di tutte le proprie forze per diventare
santi.
L’esperienza dell’oscurità è il passaggio
essenziale. Questo è chiaro. Ma se è chiaro non
è più oscuro? Abbandono nella più grande
confusione che non toglie la certezza: tu solo hai parole di vita
eterna. Poi tante cose si chiariscono a partire
dall’oscurità.
Il sacro è spesso idolatria del tangibile o del luminoso che
cerca di evitare il mistero e non incontra il Mistero.
Idolatria: fermarsi alle creature in cerca di salvezza. Quando
dall’esperienza del Mistero torno alle creature vivo la vera
laicità.
In silenzio davanti al Signore.
L’accettazione della morte come fine di ogni rapporto con le
creature che prescinda dal Mistero.
Annunciare il vangelo.
Non si tratta di insegnare una dottrina (non intendo
sottovalutare i catechisti) ma offrirsi come testimonianza di
ricerca di conversione propria e altrui.
Su questa linea vedo l’intervento della Chiesa... anche
politico.
Pio Parisi s.j.
gennaio 2001
1
14/5/99 Lettera a mons. Antonelli
Fede in Cristo risorto - mancanza di profezia e povertà
24/10/99 - Proposta di Incontri Maurizio Polverari
Pensiero profondo
gennaio 2000 - Appello agli umiliati
Stringiamoci a Cristo, pietra viva rigettata
Pasqua 2000 - Lettera a padre Benedetto
Comunicare la speranza. A partire da un’esperienza personale di crisi della religione e di crescita della fede, un discernimento della storia - Chiesa del Mistero e mistero della chiesa: una mistica popolare e politica (Acli, San Pancrazio, Chiesa) + comunicazione di madre Giovanna, madre Chiara Patrizia e suor Maria Benedetta e sorelle.
5 giugno 2000 - comunicazione multipla
Ballestrero, suor Maria Benedetta, consiglio presbiterale, Appello politico.
2 luglio 2000 - resoconto dell’incontro Associazione Maurizio Polverari e Incontri Maurizio Polverari.
19 settembre 2000 - Sta in silenzio davanti al Signore e spera in Lui.
Settembre 2000 - Circolo di pensiero politico.
15 ottobre 2000 - Incontri MP: per proseguire.
Di tutto questo materiale sono disponibili le fotocopie
2 Il
domenicano Jean-Marie Tillard scrive in “credo
nonostante…. conversazione d’inverno”, EDB:
“Si, sono un cristiano inquieto. E’
un’eredità della mia vocazione domenicana. Noi siamo
degli inquieti e, se bisogna credere a ciò che il vecchio
padre Bochenski bisbigliava alla vigilia della sua morte, questa
inquietudine ci rende spesso insopportabili “alla gerarchia
desiderosa di saggi discepoli”. Ma qui bisogna distinguere
bene i livelli. La fede è innanzitutto, e alla sua stessa
radice, fiducia totale in Dio che è “fedele”. A
questo livello, non sono affatto un inquieto.
Ma la fede - e questo già nel Nuovo Testamento - è
anche l’insieme delle verità legate a questa fiducia,
la maniera con cui le Chiese le propongono o le capiscono. Allora
sono inquieto. Un fascio d’inquietudini che riguardano punti
particolari, non un’inquietudine globale. L’Occidente
tiene forse abbastanza conto, nella presentazione della
verità evangelica, di tutta la complessità
dell’umano, tanto del cuore come della ragione? Si rispetta
abbastanza l’essere-nella-storia dell’uomo? Si è
in tutto coerenti con i grandi principi dichiarati fondamentali? Si
sa captare e comprendere il “sensum fidelium”? Ci si
mostra totalmente attenti al rispetto della coscienza quando si
parla della morale? Si è convinti, come l’Oriente -
più saggio di noi in questo campo - della trascendenza
assoluta della verità di salvezza, così che Dio solo
può “capire” e dire “come essa
è”? Si evita la tentazione di appesantire inutilmente
il contenuto delle “verità da credere”?
Perché non ci si concentra sull’essenziale? La maniera
di esprimersi, soprattutto su questioni importanti, non sa troppo
d’altri tempi per essere capita bene? Si ha ancora il senso
dell’analogia? Si può capire che il mio lavoro
ecumenico accresce questa inquietudine. Basta una parola maldestra
- come la menzione delle ordinazioni anglicane nel commento
ufficiale della Ad tuendam
fidem - perchè tutta una fiducia crolli e si cerchino
intenzioni inconfessate. Ogni volta che un documento ufficiale
viene promulgato, mi balzano davanti tutte queste domande. E capita
che la risposta che ne debbo dare mi faccia soffrire. La Chiesa
è impregnata di povertà, e questa non è sempre
quella che magnificavo poco sopra”.
(Il Regno, 18/2000, p. 608)
3 Castelli, Corradino, Parisi, Stancari “La laicità difficile”, Morcelliana ’91, pp 17-40
Curinga, 8 aprile 2001.
Caro Pio,
rispondo alla tua lettera come si risponde alla lettera di un
amico.
Giusto come si usava in altri tempi, quando la comunicazione
scritta costituiva una delle forme essenziali di
“dialogo” tra gli esseri umani.
D’altra parte la tua porta il titolo proprio di
“lettera a un amico” (mi era sfuggito l’aggettivo
“giovane” (!), per me, che tanto giovane non sono
più!).
Non so se nello scriverla le tue intenzioni siano state quelle di
indirizzarla ad una singola persona, ben individuata, con una sua
precisa fisionomia, oppure ai tanti amici, presenti e distribuiti
un po’ dappertutto sul territorio del nostro Paese, a quella
vasta comunità di persone che nell’arco degli anni
della tua vita hai avuto modo di conoscere.
A tutti quegli uomini in carne ed ossa che hanno avuto occasione di
apprezzare la semplicità della tua parola, la
profondità esemplare del tuo pensiero, la coerenza della tua
presenza, che da sola e da sempre costituisce elemento
“positivo” di “crisi”, intesa come
testimonianza e come “sfida”, a credenti e non
credenti..
E pur da posizioni di pensiero e di vita lontane da quelle tue, -
l’esperienza del mio percorso esistenziale mi ha portato,
infatti, da tanto tempo ad essere “non credente”
– trovo nelle tue parole, nella tua lettera “di
amico”, mille occasioni di riflessione, tanti stimoli di
dialogo, tanti spunti di meditazione sulla necessità di
“crescita” dell’uomo, - intesa anche come
“ricerca e conversione”, - anche quando ha raggiunto
una certa età come la mia!
Perché anch’io, come lo sei tu, e come lo sono tanti
altri uomini, sono un uomo inquieto, un uomo che non si dà
pace, che non si “dà riposo”!
Io sento di appartenere a quella frazione di uomini che sono parte
della tua inquietudine (pag. 4 della tua lettera, 4° capoverso,
“Inquietudine per chi pensa e non crede”).
Quegli uomini che pensano, si assillano, spesso senza trovare una
risposta alle loro domande, ai loro tormenti, alle loro
inquietudini, alla profonda esigenza di spendere la propria vita in
modo più produttivo per sé e per i propri
simili.
“….. è un
fondo religioso, della mia persona,- diceva Norberto Bobbio,
nello scritto da te citato e sul quale ti eri già soffermato
durante una breve conversazione che avemmo nell’estate scorsa
– che mi assilla, mi agita,
mi tormenta”.
Eppure, nonostante l’inquietudine di una seria e sincera
ricerca, che impegna l’intera esistenza di tante persone,
fatta di valori sofferti e testimoniati nella quotidianità
della vita, capita di sentire affermazioni come quelle che
ascoltavo tempo addietro ad un convegno organizzato dalla vicina
parrocchia di Acconia di Curinga dal significativo titolo
“Fede, magia e scienza”. In un clima da crociata contro
maghi, superstizioni, fattucchiere e magie d’ogni genere,
sacerdoti - e qualcuno tra loro che si fregiava anche
dell’impegnativo titolo di “specialista in
teologia” – definivano tutti coloro che “credenti
non sono” come preda di “Satana” , in un fosco
quadro di eterno scontro tra il Bene e il Male, tra Dio da una
parte e Satana, appunto, dall’altra.
Beati loro, in grado di vivere con tante ostentate certezze!
Personalmente sento di vivere l’inquietudine dell’uomo
che non si accontenta della solita routine quotidiana, che pure
“appaga” la tranquilla quiete di tanti
“cristiani” e dei benpensanti che non sono minimamente
sfiorati dall’inquietudine dell’esistenza e vivono
nella stanca e piatta ripetizione delle solite giaculatorie
d’ ogni giorno.
Avverto la necessità del dialogo e di approfondire in modo
serio dette problematiche.
Ho cercato delle risposte nello stoicismo di ispirazione
“Senechiana”, ma sono giunto, dopo tanti anni, ad una
mia personale conclusione. La nobiltà del pensiero stoico e
le sue lucide linee di ispirazione rischiano di inaridire la vita,
chiudendola, in modo solitario, in una “turris eburnea”
dalla quale si guarda – freddamente – senza alcuna
partecipazione - spesso “con sofferenza e con
inquietudine”, l’eterno fluire delle cose e del mondo
!
Una forma di estraneazione che ti porta quasi a sentirti straniero
nella tua terra !
Avverto vivissima la necessità di superare la lezione
stoica, difficile, forse umanamente impossibile da vivere e sento,
nello stesso momento, di avere appreso, maturato con essa, una
lezione importante per la mia vita.
Una lezione che pone alla base delle sue ispirazioni
l’imperativo – etico direi – di amare tutto
ciò che vive ed opera attorno a noi. Di amare e vivere in
simbiosi , non solo – e prima di ogni altra cosa – con
gli uomini, con tutti i nostri simili, di qualsiasi razza,
religione o credo politico essi siano, ma anche con la natura che
ci circonda.
Ricordo Marco Aurelio in uno dei suoi “Pensieri” : “ Quelli che
sbagliano sono miei congiunti, non per legami di sangue, ma
perché partecipo con loro all’intelligenza divina. E
non posso offendermi con chi mi è congiunto: siamo nati per
cooperare l’uno con l’altro, come i piedi e le
mani.
Una lezione alla cui base
c’è la forza
dell’amore, della
purezza del cuore verso tutto e tutti, in un atteggiamento di
semplicità e di sereno candore francescano.
Di purezza evangelica –
oserei dire - se con ci fosse di mezzo la divisione della
fede!
Che per me non
c’è!
Ed io guardo al Vangelo come ad una delle preziose lezioni, delle
tante fonti e perenni sorgenti di vita, che la lunga storia
dell’uomo ci ha tramandato.
Ma guardo anche la “fede” come un salto al di là
dell’umano e della ragione, un salto irrazionale nel buio,
che – per me – sembra un salto nel “mondo delle
illusioni”, necessario forse, per dare quel “senso alla
vita” di cui parla Leopardi nel sua lucida, accorata e pur
realista visione dell’esistenza.
Ma oltre la vita, accanto al tormento e alla sofferenza del non
credente (di cui parla Bobbio) ci sono gli eterni interrogativi
dell’uomo: il dramma della morte e le domande, senza
risposta, sui destini ultimi, dopo di essa.
Non c’è dubbio che l’esperienza cristiana
– che costituisce per noi la realtà storica di perenne
sfida, di quotidiano confronto e anche di continua polemica –
rientra tra quelle che sono riuscite a capire meglio il dramma e la
vita dell’uomo e a darvi una risposta in termini molto
complessi e articolati.
Non c’è dubbio che l’esperienza cristiana sia
riuscita a interpretare le istanze e le aspirazioni più
profonde dell’uomo e a saper dare risposte serie, chiare,
concrete alle mille realtà dei bisognosi e dei
sofferenti.
Mi rendo anche conto che oggi, nell’era in cui tanti uomini
si sentono orfani di ideologie forse definitivamente morte, di
sistemi-partito (o sistemi-chiesa?) che hanno dato, nel passato, un
senso alla vita e alla partecipazione di tanta gente alla vita
civile della comunità, si avverte un grande bisogno di
utopia e di “ulteriorità”.
C’è la consapevolezza che col “crollo”
dei muri non siamo finiti
nel migliore dei mondi possibili, ma - al contrario –
viviamo come tanti elementi atomizzati in balìa di una nuova
e più subdola forma di potere che è l’edonismo
consumistico, fine a se stesso.
L’edonismo della globalizzazione, sordo ad ogni altra
esigenza che non sia quella del profitto, del produrre, del
consumare.
Sordo ai bisogni dell’uomo, alle sue esigenze di
identità, di socialità, di solidarietà, di
comunità.
Sordo alle esigenze di spiritualità dell’uomo in
quanto tale.
Proprio in virtù di queste semplici considerazioni io
penso che tanta parte della “Chiesa - che io chiamo -
trionfalista” o come dir si voglia – della
“Chiesa preoccupata soltanto del Potere” -
anziché menare crociate, o battaglie di retroguardia, od
organizzare grandi raduni in linea con la prevalenza dei messaggi
mass-mediatici, si rendesse consapevole che il pericolo non sta
più nel “comunismo” o nella “sinistra
ancora assatanata”, ma in una nuova forma del Potere, che
pare non abbia più bisogno, per i suoi fini, né delle
religioni né delle Chiese, anzi da tempo – nella
prassi quotidiana - le abbandonate al proprio destino. Cinicamente
consapevole che non sono utili per il raggiungimento dei suoi fini,
avendo ormai trovato tanti altri strumenti per imbonire e per
conquistare – o “acquistare” - la vita degli
uomini.
Ed allora non resta che unire gli sforzi di tutti coloro, credenti
e non, che hanno a cuore il destino dell’uomo e saper
inventare nuove forme di difesa, di aggregazione, di presa di
coscienza di sé. Per ridare un messaggio di fiducia nel
presente e nel futuro.
Mi rendo conto che pur essendo partito da considerazioni di
carattere esistenziale, che traevano spunto dalla tua
lettera-riflessione, sono finito inevitabilmente alla
“politica”.
Ma sento di appartenere anch’io a quella parte di uomini,
orfani di tanti “crolli” e demolizioni, inquieti e
– soprattutto – bisognosi di utopia - che vivono il
difficile momento presente, di profonda e rapida trasformazione,
con sofferenza quasi impotente.
Nella solitudine e nella totale assenza di dialogo.
Perché in giro si trova una scarsissima disponibilità
all’ascolto, al confronto sereno per la comune crescita e al
dialogo autentico.
Ecco perché ti ringrazio di avermi spedito la tuta
“lettera ad un amico”.
Grazie della comunicazione e grazie dell’occasione del
dialogo.
Ma oltre il dialogo, serve anche la vita comune, la condivisione di
alti valori da comunicare ed eventualmente da sperimentare,
ciascuno nella propria esperienza di vita.
Ricchezza e bellezza della pluralità !
Grazie, grazie di cuore.
In alcune occasioni, vedentoTi celebrar Messa mi sono chiesto :
è possibile una “vita di comunione” tra un non
credente e un cristiano ? – Io credo proprio di si.
Ma resta la divisione della fede !
Affettuosi saluti
Francesco Augruso
P.S: Proprio prima di spedire la lettera, mi è capitato
di cominciare la lettura dell’ultimo libro-intervista di
Massimo Cacciari, “Duemilauno, politica e
futuro”.
Un libro regalatomi da mia figlia e che mi sembra denso di spunti
meritevoli di approfondimento e di riflessione.
Riporto alcuni passi dell’introduzione che hanno colpito la
mia attenzione:
“Non sei solo in questo
destino – bisogna dire. Cos’è fare politica, se
non dire al tuo prossimo che non è solo?”
- Personalmente la Politica io l’ho sempre intesa
così. Ma, oggi, purtroppo ciò è fuori moda!
-
“Il prossimo in questione è l’individuo smarrito
del nostro tempo, alienato e insicuro, investito da processi ai
quali si dà il nome generico di globalizzazione.
L’individuo fagocitato e parlato dalle nuove tecnologie e dai
nuovi linguaggi che recano l’illusione di una libertà
e di una ricchezza inaudite e alla portata di tutti ma che spesso,
nella realtà, per milioni di persone, non sono altro che
nuovi strumenti di sfruttamento e espropriazione”.
Viviamo oggi “la solitudine dell’individuo
globale” (Bauman) in un’epoca in cui la dimensione
culturale dominante è quella
“dell’individualismo compiuto”.
Ma ciò può essere sicuramente occasione di successivi
approfondimenti.
Di nuovo, affettuosi saluti
Francesco Augruso
Caro Franco,
ti propongo di cercare insieme il senso della nostra vita, come
l’intervento più urgente nella politica.
Insieme: tu che ti
dichiari non credente ed io che mi ritengo credente in cerca di una
fede più matura, e tanti altri che condividono
rispettivamente le tue e le mie esperienze, e tutti quelli,
ovviamente, che ne hanno delle loro e che non si riconoscono
né in te né in me.
Cerchiamo il senso della nostra
vita, una ragione per vivere, un orientamento, un punto
verso cui tendere, una via da seguire, una passione in cui
consumare le nostre energie.
L’intervento più
urgente per la politica, quello di cui essa ha maggiormente
bisogno; in primo luogo la definizione stessa di politica. Tutti
infatti ne parlano dandole per lo più un significato
riduttivo: la politica come ricerca e gestione di potere.
Cerchiamo in piena libertà, in pieno rispetto reciproco,
comunicando quello che realmente siamo e non quello che abbiamo
appreso senza reale assimilazione che abbia fatto crescere la
nostra vita.
Provo a comunicarti la mia
esperienza.
Tutto mi appare bello ma tutto si guasta e diviene privo di
senso.
Rifiuto questa realtà ed ogni spiegazione illusoria.
Rimane in me una speranza che si fa certezza: la Buona Notizia.
Tutto mi si rivela sempre più amabile in
un’esperienza tangibile nello spirito.
Tutto si guasta: anche questa è un’esperienza.
Tutto è privo di senso: questa è già una
conclusione elaborata da me… e che io rifiuto.
La speranza che si fa certezza: è un’esperienza.
Tutto mi appare bello e mi si
rivela sempre più amabile: ogni persona umana con
tutti i suoi comportamenti, anche quelli negativi dei quali si
scopre una giustificazione, per esempio i torti subiti che portano
alla violenza;
tutti gli eventi in cui si realizza l’incontro e la comunione
fra più persone: dall’amicizia e
dall’innamoramento ai movimenti popolari, agli stati e al
formarsi di realtà sovranazionali;
tutti gli sforzi culturali, dall’apprendimento elementare
alla ricerca scientifica più avanzata;
tutte le espressioni artistiche.
E’ amabile tutto ciò che esiste, che vive, che lavora,
che ama, che gioisce e che soffre.
Ma che significa “è amabile”? Che una persona,
una cosa, un fatto sono belli e buoni, se ne desidera
l’esistenza, la continuazione e la comunione, e si fa quel
che si può perché esistano.
Si scopre l’amabilità anche quando si constata
l’impossibilità di essere in comunione o di possedere.
Io, per esempio, scopro ogni giorno di più la bellezza della
cultura, mentre mi rendo conto della mia irrimediabile arretratezza
in proposito.
Al fondo dell’amabilità di tutto e di tutti
c’è il mistero racchiuso che entra in comunione con il
mistero che è in me. Per questo le cose e le persone che
appaiono tutte spiegate ci rimangono sempre in qualche modo
estranee, anche quando ci sembra di possederle, di un possesso che
sarà comunque violento.
Tutto si guasta. Nella
mia esperienza va crescendo la percezione del male e la relativa
inquietudine dello spirito, con corrispondenti somatizzazioni. Si
tratta del male inteso in tutti i sensi, innumerevoli come le
componenti della realtà che si manifesta sempre più
complessa e mutevole: l’oceano della sofferenza umana,
specialmente quella causata dagli uomini stessi; la mancanza di
comunione, gli egoismi, i conflitti.
C’è poi il male di fondo: il tempo che passa e si
porta via tutto, la morte che è la fine di tutto ciò
che è amabile, anche per chi crede che vi saranno poi
cieli e terre nuove.
Amabilità ed esperienza del male portano
all’assurdità?
Nel dizionario Devoto-Oli leggo:
Assurdo: Contrario alla
logica del pensiero, della parola, dell’azione;
contraddittorio, inconseguente, fino ad essere incomprensibile;
assolutamente sconveniente, inattuabile, incredibile.
Assurdità:
Contraddittorietà annullatrice, e quindi improduttiva o
addirittura distruttiva; inattuabilità,
incredibilità; sconvenienza assoluta.
Nella esperienza di una realtà sempre più amabile e
attraversata dal male il termine che più spesso viene alla
mia mente è: assurdo!
Assurdo tutto, assurdo il tutto e assurde tutte le sue componenti,
fino ai minimi particolari. Assurdo io, tu, e tutti. Assurdo tutto
ciò che è e che accade. Assurdo in tutti i
significati sopra indicati dal Devoto-Oli.
Ma questa dichiarazione di assurdità viene dalla mia mente,
è la conclusione di un mio ragionamento. Il cuore,
intendendo con questo termine tutto me stesso compresa la mente,
rifiuta questa assurdità.
Il rifiuto dell’assurdo è la presenza di una speranza
che non è la convinzione di qualche probabilità che
ci sia un senso, ma una certezza che abita in me e non viene da me;
per questo è certezza. Il soggetto, la sorgente di tale
certezza non sono io né un altro, è al di là
di me e di tutto ciò che in qualche modo è alla mia
portata. E’ un mistero, è il Mistero che si incontra
con il mistero che è in me, in tutti e in tutto: la
comunione si attua in modo assolutamente misterioso, tanto
più certa quanto più misteriosa.
Non si tratta di “illusione”: l’esperienza del
mistero ed il fatto che questa speranza non viene da me fa
sì che essa sfugga al pericolo di essere illusione. Posso
illudermi di afferrare qualcosa ma non di essere afferrato da
qualcuno.
Al di là di tutti i giri che posso fare con la mia mente e
di tutti gli stati d’animo che mi attraversano, mi ritrovo
sempre con quel rifiuto dell’assurdo che contiene una
speranza certa.
Il rifiuto dell’assurdo e la speranza certa mi dispongono ad
accogliere il Vangelo: convertirsi al Vangelo, vie nuove per la
politica.
Non si tratta di un cammino intellettuale per conoscere e
condividere una dottrina; accogliere è impegno di tutto il
nostro essere personale, di tutta la nostra vita, del mistero che
è in noi.
Il Vangelo è il Mistero infinito di Dio Padre, Figlio e
Spirito Santo che ci viene incontro, che si rivela nel più
profondo di noi stessi, che traspare in tutti e in tutto.
Il Vangelo non è una raccolta di norme né un sistema
di valori come spesso si dice nella Chiesa, ma è il Mistero
Pasquale per noi, con noi ed in noi.
Ogni sofferenza pone un problema a chi crede in Dio onnipotente e
misericordioso. Tutte le sofferenze nella storia
dell’umanità costituiscono un immenso ostacolo alla
fede in Dio; le sofferenze poi causate dalla malvagità degli
uomini da una lato sembrano diminuire la responsabilità di
Dio, dall’altro lo caricano di un’ulteriore
responsabilità in quanto ci crea peccatori.
C’è chi si acquieta con delle spiegazioni che
ricorrono all’esigenza della giustizia divina e della
libertà umana, per cui non fa problema nemmeno il pensiero
di una sofferenza eterna.
Io non condivido nessuna spiegazione: il mistero rimane profondo ed
esteso quanto la storia umana e la stessa evoluzione cosmica.
“La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione
dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla
caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che
l’ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure
liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella
libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti
che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del
parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le
primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando
l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.
Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora,
ciò che si spera, se visto, non è più
speranza; infatti, ciò che uno già vede, come
potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo
attendiamo con perseveranza.” (Rom 8,19-25).
Ciò che non si spiega può tuttavia essere illuminato
e diventare a sua volta sorgente di luce: è il Mistero
Pasquale
“Il sole di giustizia
trasfigura ed accende
l’universo in attesa” (Inno di Lodi).
Caro Franco, continuo a comunicarti la mia esperienza sempre con la
speranza di conoscere meglio la tua, in quella ricerca di senso che
considero come la cosa di cui oggi ha più bisogno la
politica.
Nel 1944 la scelta più impegnativa della mia vita è
stata fortemente influenzata dalla guerra: esperienza di morte e di
fallimento della politica.
Ti ho già detto come vivo la fede, ora provo a comunicarti
come sento la Chiesa.
Provo a formulare la mia speranza per il momento storico che la
Chiesa vive nel mondo. Comincio dall’obiettivo a cui
tendere:
la Chiesa del Mistero, il Mistero della Chiesa.
Quando parliamo di Chiesa siamo spesso aggravati, intristiti e
quasi asfissiati dalla riduzione della Chiesa alla gerarchia e ai
suoi più immediati collaboratori. Ora vogliamo pensare alla
Chiesa del Concilio.
La Chiesa del Mistero è lievito destinato a scomparire nella
pasta, è adorazione personale e comunitaria di Dio, con
tutto quello che tale atteggiamento richiede: silenzio,
nascondimento, operosità, sacrificio, gioia e pace
interiore. La Chiesa del Mistero non si definisce con i nostri
concetti né si racchiude nei nostri recinti, si trova
dappertutto perché lo Spirito riempie
l’universo.
Questo è il Mistero della Chiesa rivelato ai piccoli.
Due piste appaiono necessarie per andare verso la Chiesa del
Mistero: la mistica popolare e quella politica.
Per comprendere cosa sia la mistica popolare è necessario
tener presente che il sentimento del mistero è costitutivo
dell’uomo, anche se spesso sepolto e soffocato da bisogni
materiali, da ricerca di piaceri, da razionalizzazioni e dalla
stessa religiosità.
Se per religione si intende la fede è chiaro che essa non
ostacola il sentimento del mistero. Ciò che avviene quando
la religione manca di silenzio interiore o viene ridotta a
dottrina. Per aiutare la crescita della mistica popolare occorre in
primo luogo darle spazio e poi esercitarsi nell’ascolto degli
altri che evidenzia il mistero che è in loro ed in noi.
E’ soprattutto l’ascolto del Mistero che nutre la
mistica popolare.
Penso che la mistica popolare sia una proposta tanto semplice
quanto nuova sul piano della catechesi, riguardante la fede e la
morale, e sul piano della vita ecclesiale. Dove gli ostacoli
appaiono come una barriera insormontabile è
nell’impegno politico e oggi in particolare nei progetti
culturali ad esso finalizzati.
Non è difficile cogliere la connessione fra la mistica
popolare e la politica: il riconoscimento del mistero fonda i
rapporti personali e la cultura, penetrando nelle strutture e nelle
istituzioni necessarie alla convivenza umana, alla
“polis”.
Caro Franco, continuando a comunicare la mia esperienza cerco di
dire come sento la necessità dell’aiuto di chi non si
professa credente. Aiuto per la crescita della fede nella Chiesa,
aiuto soprattutto per la politica, nel senso ampio della convivenza
umana nella pace e nella giustizia.
In primo luogo una precisazione dei termini. Credenti e non
credenti: ha senso questa distinzione?
In silenzio davanti al Signore, con quel filo d’acqua viva
che scorre sotto la montagna di detriti che ho accumulato e
accumulo nella mia vita, acqua viva che riconosco come la fede che
lo Spirito opera in me, mi domando che significa essere
credente.
La mia vita non è credente anche se non ho dubbi circa la
fede: vivo le mie giornate senili proteso nella ricerca di Dio;
leggo e rileggo l’esortazione della Lettera agli Ebrei:
“Anche noi dunque, circondati da un così gran nugolo
di testimoni, deposto tutto ciò che è di peso e il
peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che
ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e
perfezionatore della fede. Egli in cambio della gioia che gli era
posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando
l’ignominia, e si è assiso alla destra del trono di
Dio.” (Eb 12-1-2).
Sempre per quel filo di acqua viva non riesco a pensare a qualcuno
come “non credente” e mi è di grandissimo
conforto l’esortazione di Paolo ai Filippesi: “Ciascuno
di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se
stesso” (Fil 2,3). Evidentemente non mi passa in alcun modo
per la mente la violenza di dire a chicchessia: tu sei credente
anche se dici di non esserlo.
Comunque se serve per incontrarsi e comunicare con persone che
hanno esperienze diverse, in mancanza di una terminologia
più vera, dico pure incontriamoci fra credenti e non
credenti.
C’è una esperienza molto bella a cui potremmo
ispirarci che è l’amicizia tra P. Benedetto Calati,
Pietro Ingrao, Mario Tronti e molti altri credenti e non credenti
(cfr. la seconda edizione di: Raffaele Luise, La visione di un monaco, Cittadella,
2001).
Con Michele, un sindacalista vicino di casa che si ritiene non
credente, leggevamo, insieme ad un gruppetto di universitari fuori
sede, il Vangelo. Dopo la lettura del discorso della montagna,
Michele era meravigliatissimo e diceva: quest’uomo è
eccezionale, è straordinariamente meraviglioso che un uomo
arrivi a questo livello di bontà e di bellezza. Voi forse
non lo capite perché pensate che è Dio. Michele mi ha
aiutato a prendere coscienza di quanto scarsa sia la mia
contemplazione di fede del Mistero del Verbo che si è fatto
carne e del Mistero Pasquale.
Giovanni Battista Metz, grande teologo della politica, in un
articolo intitolato “Memoria passionis nel pluralismo delle
religioni e delle culture” (Il Regno, 15/12/2000)
propone un’ “ecumene della compassione” e il
riconoscimento dell’autorità superiore dei sofferenti.
E’ per lui la risposta alla globalizzazione e si rivolge
soprattutto alle grandi religioni monoteiste. Io penso che il suo
appello sia ancora più valido se rivolto a tutti, anche ai
non credenti.
In un incontro nazionale delle Acli a Ruvo di Puglia con
rappresentanti di varie religioni, dopo che si era a lungo discusso
se fosse bene pregare insieme con la stessa preghiera, stante il
pericolo di perdere l’identità della fede di ognuno,
don Tonino Bello, che era il vescovo del luogo, nella celebrazione
della messa disse che c’era una cosa che si poteva
tranquillamente fare insieme, senza nessun rischio per la propria
identità: aiutare seriamente tanta povera gente e in
particolare gli immigrati. Questo primato dell’amore vale
certamente anche quando si cerca di capire dove sta andando
l’umanità: illuminare l’egoismo che
c’è in noi, scoprirne le cause, riconoscere la
presenza dello Spirito, assecondare la comunicazione delle
esperienze liberandole dai condizionamenti dei poteri,
eccetera.
Sto vivendo una esperienza che chiamerei mistica se questo
termine non rinviasse a una santità da cui mi sento
lontanissimo. Ritengo tuttavia che questa esperienza venga dallo
Spirito. A partire da questa esperienza personale tento poi un
discernimento della storia.
Sotto i colpi quotidiani del male, la mia religiosità va a
pezzi. Mi riferisco a tutte le mie costruzioni religiose, dallo
studio alle devozioni, alla pastorale, alla stessa preghiera che
diventa sempre più ascolto della Parola e inserimento nella
liturgia. Cresce così la fede, non oso dire purificata ma
certo sempre più desiderata, più universale,
più esperienza di passività, che sostiene
l’azione più audace, riconoscendo che tutto è
dono dello Spirito.
Ed ecco il discernimento: ci stiamo avviando verso una crescita
della fede come esperienza del mistero di Dio che rinnova
radicalmente il nostro modo di stare insieme al mondo nella
convivenza umana così necessaria, così tragica eppure
così piena di speranze.
Crescita della fede che si manifesta anche , e forse soprattutto,
nella crisi della religiosità: in chi critica in modo sereno
o astioso, profondo o superficiale, comunque sofferto; in chi
rimane fedele alle pratiche religiose ma le sente inadeguate alle
aspirazioni più profonde di comunione con Dio e con
l’umanità umiliata.
Caro Franco, concludo questa lettera con una proposta pratica
che contiene, a mio avviso, una scelta spirituale profonda e
radicale, necessaria nel momento presente.
Organizzare, organizzarsi, promuovere con diligenza
l’organizzazione. Questa proposta può sembrare una
brusca caduta, un precipitare nella corrente delle logiche
economiche e nei gorghi del potere. Non è così e mi
spiego.
Organizzarsi per realizzare la comunicazione delle esperienze
spirituali, vigilando attentamente che da questo non nasca nessun
fatto di potere per sé o per altri. Non si tratta di negare
la necessità del potere nella convivenza umana ma di
prendere coscienza che la comunicazione autentica fra persone
è un dono dato e ricevuto e richiede quindi piena
gratuità, la quale è subito insidiata dalla
prospettiva di acquistare potere, sia pure in vista di una
più efficace comunicazione. Ingenuità, illusione in
cui cascano anche quelli che sembrano più avveduti.
Sulla base quindi di una scelta chiarissima di servizio e di non
potere organizzarsi e organizzare.
Pio Parisi
Curinga, 14 ottobre 2001.
Caro Pio,
riprendo, forse, con ritardo il bandolo della comunicazione
scritta, dopo la mia precedente lettera e la tua risposta del 9
giugno.
Com’è noto, a quella tua lettera è seguito
l’incontro di Acquavona, nel mese di luglio. Una bella e
straordinaria esperienza di confronto e di scambio tra persone e
percorsi provenienti da storie diverse, accomunate però da
un fattore comune: il desiderio di ascoltare gli altri con
umiltà e con attenzione, la disponibilità a
comunicare in modo franco e aperto e, di conseguenza, a lasciarsi
“contaminare” da tutto ciò che proviene
dall’Altro, che sta vicino a noi e che, come noi, ha bisogno
di dialogo, di comunione, di solidarietà, in una parola di
amore.
Poi è venuta l’estate, la pausa delle ferie, che ho
trascorso nel “mio ritiro” di Lipari in compagnia del
tuo libro “La ricerca di Dio e la politica”, ideale
prosecuzione del dialogo e delle comunicazioni precedentemente
avviati.
Come ti ho accenno per telefono, l’insieme dei sentimenti,
scaturiti nel mio essere da queste vicende, costituisce, allo stato
attuale, una strana galassia, per molti aspetti nuova e
disordinata, fatta di pulsioni, pensieri, scoperte, maturazioni,
riflessioni, che, insieme allo stupore ed alle ovvie
perplessità, è accompagna da una sensazione di
difficoltà nel trovare la sintesi necessaria per
comunicarla.
E’ per tale ragione che ho indugiato un po’ di tempo
prima di riprendere a scrivere. E’ in queste
difficoltà che mi sforzerò di far decantare e di
delineare gli aspetti salienti di questa esperienza.
Non ho dubbi ormai sul fatto che la tua lettera del 9 giugno, con tutto ciò che di profondo è contenuto in essa, costituisce per me, nel particolare momento “storico” della mia esistenza e di cui dirò più ampiamente nel seguito, una pietra miliare, una fase importante, un momento di seria riflessione, che porta ad una svolta nel modo di pensare e di agire, in quanto pone in discussione - finalmente - strumenti e categorie di pensiero, sicuramente logorati e superati dai “tempi della mia vita”. Strumenti e categorie che soltanto qualche anno addietro mi sarebbe sembrato semplicemente assurdo mettere in dubbio.
Giusto per cominciare posso dirti di accettare pienamente la tua
proposta di “cercare insieme
il senso della nostra vita, come l’intervento più
urgente nella politica”.
Sono sempre più convinto che il bisogno più serio ed urgente che ci
sia oggi, nella fase di generale smarrimento che stiamo
attraversando, sia proprio la ricerca “di senso” da
dare alla nostra vita.
L’affermazione vale in particolare per la mia personale esperienza esistenziale.
Il tema tocca qualcosa che è molto avvertito in questo delicato momento di grandi trasformazioni. Non è casuale che proprio negli stessi giorni in cui ci siamo incontrati ad Acquavona per discutere di questi problemi, sul giornale Avvenire si svolgeva un interessantissimo dibattito sullo stesso tema, con la pubblicazione di ben cinque riflessioni:
Dov’è finita la santità laica, di Massimo Marcocchi (10-7-2001);
Etica e solidarietà riguardano anche gli atei, di Sergio Givone (11-7-2001);
Più fede, meno lumi, di Salvatore Natoli (12-7-2001);
Cari laici, non mettiamo Dio fra parentesi, di Goffredo Fofi (13-7-2001);
Quell’altro che ci avvicina, di Enzo Bianchi (15-7-2001).
Ci sono due concetti, se così posso chiamarli, della tua
comunicazione che per me costituiscono una nuova ed interessante
scoperta e, nello stesso tempo, una positiva occasione di
crisi.
Il primo di essi è la realtà del “cuore”,
“intendendo con questo termine – come dici tu stesso -
tutto il nostro essere, compresa la mente”. Ora mi accorgo
che ciò rappresenta per me una novità assoluta, non
nel senso che io riconosca di essere stato sinora “senza
cuore” – tutt’altro - ma per il fatto che nel mio
abituale modo di pensare e di agire, suffragato da una ferrea
logica razionalista - la sola che sino a ieri riusciva a darmi le
poche valide ed accettabili spiegazioni sulla vita, sulla storia,
su tutta la vicenda umana e sulla restante parte animata e
inanimata del mondo che ci circonda - non c’era spazio per
questa categoria.
Essa era collocata nell’alveo secondario delle cose sensibili
e transeunti, nella parte che costituisce l’aspetto debole
dell’uomo e perciò, quasi come elemento negativo, da
trascurare e da superare !
Ora mi accorgo, e ciò mi capita sempre più spesso,
specialmente, riflettendo su tanti aspetti della vita quotidiana,
sulle esperienze, sulle piccole storie di ogni giorno e sulla
grande storia degli uomini, che “la categoria del
cuore” ha un peso non secondario nella formazione delle
scelte e negli atti che ne derivano. Non solo, ma mi rendo conto
che tanti di quei fatti e di quelle vicende, che stranamente non
sono mai riuscito a spiegarmi con la chiara logica razionale,
trovano una semplice ed evidente spiegazione se esaminati dal punto
di vista di questa diversa e per me “nuova”
categoria.
Quante volte non abbiamo sentito bussare nel nostro essere
“il cuore”, inteso come sintesi “superiore”
– sovrarazionale direi - delle nostre esperienze e delle
nostre elaborazioni, come momento apicale delle nostre intuizioni,
- e, per dirlo con un’immagine mutuata dalla fisica, - come
“risultante” di un eterogeneo insieme di componenti,
ciascuna espressione parziale di un determinato aspetto della
nostra vita, come risultato finale di un processo che non è
soltanto ragione e deduzione logica!
D’altra parte la lunga storia della vicenda umana, nelle
piccole e nelle grandi cose, non è forse piena della
presenza decisiva dei sentimenti, degli irrazionalismi, del peso
che hanno avuto tutti quegli “elementi” radicati nel
profondo della vita degli uomini e che non sono riconducibili alla
pura e fredda ragione?
Se mai ve ne fosse bisogno queste mie semplici considerazioni
trovano eloquente conferma nei fatti terribili “della
cronaca” di questi giorni – se così si
può chiamare - che polarizzano l’attenzione sgomenta
dell’intera umanità.
Il secondo dei due “concetti” di cui parlavo
è quello del “mistero”, del “mistero
dell’uomo”, che trovo strettamente intrecciato al
primo, quello del “cuore”.
Mi accorgo, riflettendo sui molti aspetti della mia esperienza di
conoscenza e di relazione con gli altri uomini, che tanti,
moltissimi dei ragionamenti che spesso “non tornano”
nella ricerca delle reali motivazioni che stanno all’origine
di determinati comportamenti umani, sono da ricercarsi proprio in
questa parte “arcana”, profonda, irraggiungibile
dell’essere umano, che è il mistero che si trova
all’interno di ciascuno di noi.
Continuando a riflettere su questo aspetto vedo che la cosa
più strana – e forse più bella – è
costituita proprio dalla originalità di questo mistero, che
assume connotazioni diverse e particolari, tanto quanto diverse ed
irripetibili sono le realtà soggettive di ciascun essere
umano, visto sia nella dimensione spaziale, quindi nella immensa
distribuzione sul pianeta - o nel cosmo ? – sia nella
dimensione storico-temporale, nella infinita evoluzione della
specie, dalle origini sino ai giorni nostri.
A questo concetto del mistero, così inteso, io collego
un’altra preziosa deduzione, per me mutuata dalle nostre
comuni radici cristiane, che è quella della
originalità di ogni singola esperienza umana.
L’originalità, irripetibile, della storia di ogni
singolo uomo, che porta alla unicità, al valore, alla
“sacralità” della singola persona, semplicemente
vista come tale.
Guardando allora a ritroso, dall’alto dei miei
cinquant’anni, gli ultimi trenta, trascorsi nelle
“certezze” e nelle vecchie conquiste della mia
concezione materialistica della storia, che ben si coniugava con la
mia formazione scientifica e tecnica, mi rendo conto che tante
delle vecchie certezze sono
irrimediabilmente entrate in crisi.
Ma ciò non mi turba, perché il cambiamento e
l’evoluzione continua sono caratteristiche intrinseche alla
natura dell’uomo e sono da considerare sempre come segni di
vitalità e di apertura.
Mi rendo conto però, approfondendo e scavando in questo
lungo processo di evoluzione e di crisi, che tutto ciò non
passa sulla nostra pelle in modo indolore, ma lascia tracce
evidenti e sensibili, quando spesso non scava solchi profondi pieni
di lacerazioni, di sofferenze e di dolore, che si riflettono nella
nostra vita e che cambiano, spesso anche radicalmente,
l’abituale quiete e la routine della nostra
quotidianità.
Ecco perché riprendendo il tuo invito, seguìto alla
comunicazione della tua esperienza, di comunicarti la mia,
cercherò di farlo, animato da due diversi sentimenti.
Il primo è quello che trova contemporaneamente bello e
“strano” il parlare delle proprie cose, delle proprie
esperienze, dopo lunghi anni di silenzio sulle “cose”
interiori, presi soltanto dall’interesse e
dall’attenzione verso i problemi “oggettivi”
della vita.
Bello, perché risponde ad un’esigenza interiore, intima direi, - connaturata alla profonda natura dell’uomo - di comunicare e di essere ascoltati, in un’esperienza sicuramente proiettata verso la crescita e la maturazione.
Strano, perché l’attuale “tenore” della nostra società e forse il tipo di cultura del mondo o dei mondi in cui personalmente sinora ho vissuto, non concedono né spazi né tempi per le comunicazioni dei singoli, tutti avvolti e distratti come siamo entro i binari “obbligati” del lavoro, della carriera, del successo, del produrre, del guadagnare, degli affari, della “politica”, in un orizzonte che ha come unico motore l’egoismo dei singoli e dei gruppi e dimentica i bisogni e l’essenza vera dell’Altro che sta accanto a noi, che poi sono i nostri stessi bisogni, le nostre stesse aspirazioni, l’essenza stessa della nostra umana individualità.
Strano perché da tanti anni ormai mi sento disabituato a questa forma di dialogo, che pure avverto come un’esigenza vitale del mio, del nostro essere uomini e che spesso, forse in una strana, distorta ed irreale idea perfezionista dell’uomo, ho considerato - e forse inconsciamente considero ancora - come una pecca, una macchia che inficia l’invulnerabilità di un uomo virtuale, astratto.
E’ alla luce di queste premesse che avverto l’altro sentimento di comunicarti la mia esperienza, anche come bisogno di verifica e di umano confronto, in un rapporto di scambio fraterno, nell’ambito di un mondo che, come ti dicevo nella mia precedente lettera, scopro sempre più sordo, arido, chiuso verso i bisogni profondi dell’uomo di “vivere”, di comunicare e di crescere “comunitariamente”.
Ogni tanto la vita ci chiama a rivedere retrospettivamente, con
spirito critico e con disincanto, tutto ciò che abbiamo
costruito o “prodotto” negli anni precedenti. E’
come se uno strano ed invisibile “Consiglio di
Amministrazione” ci chiamasse a rendere conto del nostro
operato.
E’ tempo di bilanci!!
Può essere un fatto salutare, da intendere come una
revisione critica di quanto sinora abbiamo fatto, al fine di
migliorare contemporaneamente noi stessi e ciò che noi
“produciamo”.
Se ancora siamo in tempo, forse si prospetta l’occasione di
lavorare in un’ottica non più e soltanto rivolta al
soddisfacimento dei bisogni primari (primo fra tutti il lavoro,
necessario per il sostentamento nostro e di chi da noi dipende, con
i suoi inevitabili risvolti di gratificazione morale e sociale) ma
anche per costruire qualcosa di più duraturo,
nell’ambito dei rapporti interpersonali e sociali.
Lavorare – finalmente - per “produrre” il Bene, nel campo illimitato di tutto ciò che è riconducibile ai valori immortali dello Spirito.
So di essere vicino a quel valore prezioso che i cristiani
chiamano la Carità,
ma alla luce di quanto sinora ho potuto sperimentare, sono convinto
che questo è il terreno sul
quale l’uomo può costruire qualcosa di veramente utile
e duraturo, per sé e per gli altri.
Riecheggiano nei miei ricordi lontane reminiscenze “di quando
ero cristiano”, e mi sovviene una lettera di San Paolo, che
mai come adesso sento di condividere profondamente, nella quale in
sostanza diceva, che “…. posso avere tutti i beni e le
virtù di questo mondo ma se non ho la carità io sono
un cembalo ……. sonante”……
….(o stonato ??!! …non ricordo bene).
Mi rendo conto, per questa ragione, che soltanto nel variegato e
controverso mondo della Chiesa è possibile trovare ancora
tante persone, tanti uomini che vivono e lavorano quotidianamente
nello spirito della Carità e della gratuità. Che
accanto a coloro che si muovono nell’ottica del Potere e
della logica “mondana vi sono gli “apostoli”, i
semplici, i quali vivono e lavorano in silenzio, ispirati soltanto
dalla Carità.
Su questo terreno credo oggi si possano ritrovare assieme tutti
quegli uomini di buona volontà che avvertono ancora vivo il
bisogno di spendere utilmente i “propri talenti” per il
Bene dell’Umanità.
Qualsiasi sia l’origine, la formazione culturale e politica,
la provenienza.
Inevitabilmente, in tempi di bilanci, sono portato a guardare a ritroso gli ultimi trent’anni della mia esistenza.
In essa vi scorgo, in una prima fase, il rigetto di un Cristianesimo male imposto e subìto, vissuto come rigida regola proibizionista, come complesso dottrinale ispirato da uno strano e sadico sentimento, finalizzato alla privazione e alla mortificazione dell’essere umano, anziché alla sua promozione e valorizzazione; è il Cristianesimo appreso sin dall’infanzia, nei primi anni di catechismo.
Ritrovo il distacco da una Chiesa, eurocentrica e colonialista, illiberale, maldestramente schierata contro il moderno spirito critico, che appariva lontana dal messaggio evangelico e dalla Carità, preoccupata più di mantenere una sua posizione di potere nel mondo e sugli uomini che di annunciarsi come strumento di liberazione degli uomini stessi, collaterale e sempre compromessa o schiacciata sulle posizioni del partito di governo.
Contemporaneamente e negli anni che seguivano, nel periodo del sessantotto, durante il quale cadevano l’uno dopo l’altro molti dei miti e degli stereotipi del passato, maturava la lenta e progressiva adesione al razionalismo scientifico ed alla filosofia della prassi o materialismo storico, filtrata attraverso l’originale esperienza gramsciana, con la naturale conseguente adesione ad un “credo politico” nel quale s’intravedeva la concreta possibilità di costruire, finalmente, su “basi scientifiche e materiali”, quel mondo dei liberi e degli eguali, quel paradiso terrestre sul quale aveva fallito storicamente la Chiesa – nei suoi duemila anni di ininterrotta presenza sulla scena mondiale – e nel quale sarebbe stato possibile eliminare le ingiustizie, i soprusi, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Questo era stato per noi, per tanti come me, l’adesione al
gran partito dei proletari: la
concreta possibilità di impegnare la propria vita - in modo
totalmente gratuito - per un fine nobile di crescita e di
emancipazione degli uomini, specie dei piccoli, dei poveri, dei
deboli.
Un’utopia? Un’illusione? Una chimera ?
Forse!
Sogni e illusioni tutti miseramente naufragati sotto le macerie del
muro di Berlino e sotto il fallimento di organismi politici
residuali, i quali anziché cogliere l’occasione per
rinnovarsi e tessere la tela di un nuovo e robusto solidarismo,
fondato su forti idealità, sul coraggio e
sull’esigenza di costruire una “profonda riforma morale
e intellettuale del Paese” oltreché sull’etica
della responsabilità personale e della sussidiarietà,
sono diventati scatole vuote in mano a ristretti gruppi di
oligarchi e di addetti ai lavori, i quali, una volta venuti meno i
vecchi vincoli di tipo gerarchico e ideologico, le utilizzano
soltanto come strumento per accrescere il proprio potere personale
o di clan.
Avverto ancora una volta, con sgomento, la riscoperta della parte
meno nobile degli uomini e del loro connaturato e spregiudicato
cinismo, anche in quella che, in un’ingenua e forse infantile
ottica, doveva essere – per me - “l’oasi dei puri
e dei diversi”, tutti votati alla gran causa del bene e
dell’azione volontaria, libera e disinteressata, finalizzata
a costruire un “Mondo Migliore”.
Riscopro ancora una volta il disinganno, la necessità di una
profonda revisione, l’esigenza di dover ricominciare
un’altra volta daccapo.
Scopro ancora l’amarezza …… di ritrovarmi
…..tra i “perdenti”!
Quante volte ahimè!
Emerge, nella fase più recente, la lenta presa di coscienza di un mondo inesorabilmente entrato in crisi e, nella fattispecie del mio personale piccolo mondo, scopro la seria messa in discussione di tre pilastri portanti (mi si perdoni l’ovvio e per me scontato linguaggio di tipo meccanico) sui quali si reggeva il complesso edificio, faticosamente costruito in lunghi anni d’abnegazione e di sacrificio. In ordine: la politica, la famiglia, il lavoro.
Esaminiamoli separatamente.
- Il primo: la politica, comprendendo in essa tutta la fase dell’89 e quella successiva, di cui ho parlato sopra, il venire meno dei partiti e delle occasioni di impegno e di intervento nella società, la perdita di un prezioso momento di impegno e di proiezione nel sociale. Ne consegue, inevitabilmente, il progressivo affievolirsi, sino al definitivo, naturale esaurimento, di un determinato modo di essere e interpretare un ruolo sociale e politico.
- Il secondo: la famiglia, che pur nelle inevitabili e tormentate vicende da sempre conosciute, ma in qualche modo ogni volta superate, ha incontrato nell’ultimo quinquennio serie difficoltà.
- Il terzo: il lavoro, elemento di importanza cardinale per ognuno di noi, che rappresenta da una parte un importante momento di estrinsecazione, di naturale espressione e realizzazione della personalità dell’individuo e dall’altra insostituibile fattore di stabilità, di tranquillità economica per la sussistenza propria e della famiglia che direttamente ne dipende.
Continuando a comunicarti la mia esperienza, mi accorgo che sto
sperimentando negli ultimi tempi,
l’ovvia risultante di tutto il processo di contraddizioni e
di “delusioni” via via incontrate, con le
inevitabile umane preoccupazioni, le incertezze, le ansie, gli
interrogativi sul futuro, sulla possibilità
concreta del crollo di un mondo nel quale avevo investito tutta la
mia vita. Ne discende pertanto il
venire meno della fiducia in se stessi, in un mondo ed in sistema
di relazioni, per molti aspetti
banale ma che - probabilmente - era considerato dal “mio
essere” come un sistema di certezze e di
sicurezze, acquisite definitivamente.
Scopro la CRISI, in una fase della vita che ritenevo ormai –
erroneamente – come tranquilla, “invulnerabile” e
consolidata in un determinato sistema di rapporti e di valori. Si
ritrovano le incertezze, le debolezze - e quante ! – le
tensioni, le lacerazioni, le inquietudini profonde dello spirito,
le ansie e le paure dell’incognito, del domani, di qualcosa
che non è facilmente definibile, che è inafferrabile,
misterioso. E tutto ciò avviene non in modo indolore ma con
sofferenze, “con somatizzazioni”. Trovo che in questa
terribile fase mi riscopro, ci riscopriamo, quasi nuovamente
bambini, bisognosi di nuove certezze, di nuovi valori, di nuove
conquiste?
Avverto di ritrovarmi bisognoso di un nuovo inizio, se non è
troppo tardi per ricominciare!
E’ in questa strana, singolare, inaspettata fase della vita
che attualmente vivo, con molta trepidazione, il momento presente.
Momento che io vedo come una delicata fase di transizione
dall’esito incerto, simile all’oscura
“caverna” in cui gli strani intrecci del destino spesso
ci obbligano a transitare, ma al fondo della quale spero di
ritrovare una nuova luce di tranquillità e di
serenità.
E’ in questa fase, nella quale io ritrovo visibili i segni
della mia debolezza, dei miei limiti e delle mie angustie, che
s’inserisce la profonda riflessione sulle tue comunicazioni,
sull’essenza profonda del loro contenuto.
Oggi, per la prima volta, dopo lunghi anni di sufficiente e
“altezzoso” senso di padronanza, di razionale
spiegazione di tutto ciò che riguarda la complessa vicenda
umana, dopo lo stanco pragmatico ripetersi di un logorato sistema
di vita e di relazioni, cui però non è mancata mai
una convinta ispirazione di carattere umanitario, scopro che si
rende necessario un radicale ripensamento di quanto fatto
sinora.
E’ come se, dopo tanti sacrifici impiegati per costruire un
determinato obiettivo, mi rendessi conto di un sostanziale
fallimento di tutte le energie profuse e dell’incontestabile
necessità di dover ripartire, circondato soltanto dalle
macerie residuali che ritrovo attorno a me.
E’ una realtà amara e desolante ma è la realtà!
E’ la realtà dei “perdenti” ai quali non
resta altra certezza se non il rammarico di ciò che avremmo
potuto fare meglio e la desolante sensazione di irrecuperabili
momenti e occasioni perdute.
In questa tormentata fase trovo che tutte le precedenti conquiste,
anche quelle più elementari, sono diventate incertezze,
dubbi, lacerazioni e anch’io, con te “mi domando: chi sono, perché
sono nato, che ci sto a fare, perché soffro, perché
amo, perché i miei giorni se ne vanno, perché muoio.
Guardando dentro di me mi chiedo perché sono io e non sono
un altro, perché ci sono in me tante contraddizioni,
perché sono buono e perché sono cattivo,
perché vorrei essere solo e poi soffro la solitudine, ma
sono veramente libero, quando e come?” (dal tuo
scritto Lo scasso, ritorno alle radici, nel libro La ricerca di Dio
e la politica, pag. 121).
Ancora mi chiedo: perché tutto questo insieme di domande e
di dubbi attanaglia in modo così coinvolgente la mia vita,
mentre la maggior parte degli uomini, di coloro che stanno vicino a
me, a noi, dei nostri amici – buon per loro, perché
non ne sono affatto “invidioso” – vivono
placidamente lo scorrere del tempo e della vita senza porsi tanti
pesanti interrogativi? Oppure – mi domando - anche loro, o
buona parte di loro, vivono lo stesso genere di problemi e soffrono
in silenzio, senza riuscire a trovare la via di comunicare con i
propri simili e individuare, assieme, uno sbocco positivo?
Al fondo di questa singolare fase del mio percorso esistenziale,
che soltanto alcuni anni addietro non avrei nemmeno potuto pensare,
trovo la coesistenza di due diversi e opposti sentimenti o
tendenze.
Da una parte la sofferenza, la propensione alla rassegnazione, alla
disperazione, la silenziosa
coabitazione con la cognizione del dolore.
Dall’altra parte è come se avvertissi con
l’intuito, con una particolare e singolare propensione del
mio essere, - per dirla con te, - con quella bella ed affascinante
parte di noi che è il “cuore”, che al di
là di ogni sofferenza resta la necessità di una speranza che dia
“senso” alla nostra vita, che vada oltre
l’apparente e cruda assurdità della
realtà.
In questo mi ritrovo d’accordo con te.
Sull’assurdità della vita che da una parte presenta
aspetti belli e amabili e dall’altra ci riserva
“guasti” e sofferenze.
“Tutto mi appare bello e mi
si rivela sempre più amabile”!
“Tutto si
guasta”!
……Non vado oltre su questo terreno, perché
servono ….meditazione, tempo e …forse, il
silenzio.
Francamente, mi sembra troppo bello il semplice ed affascinante
discorso che fai nel collegare l’assurdità di alcuni
aspetti della realtà, col mistero che è in noi, col
Mistero Pasquale e con la Buona Notizia.
Io non ti nascondo che vorrei tanto riuscire a capire e ad
accettare il Mistero, ad essere coinvolto nella totalità
della mia esistenza dalla vissuta santità quotidiana di
tanti semplici e umili cristiani, che come te, testimoniano
l’attualità, l’originalità e la
necessità della lezione evangelica.
Sono convinto anch’io della profonda attualità del
messaggio che da esso scaturisce e dell’imprenscindibile verità che “la
vera alternativa è la conversione della vita”
senza la quale non esiste alcuna concreta possibilità di
“rifondare” la “politica”, intesa come vita
comune degli uomini nella polis.
In mezzo a tante nuove
“scoperte” e revisioni mi tormenta il dubbio che questa
mia propensione all’apertura verso il Mistero scaturisca da
un particolare status di debolezza che porta a cercare vie di fuga
e a rifugiarsi nel mondo delle “illusioni”, tornando ad
una mia vecchia convinzione che la religione sia il risultato di
una complessa e necessaria “opera di creazione”,
proveniente dal bisogno dell’uomo.
Avverto vivissima la contraddizione tra fede e ragione ma col cuore
“sento” anch’io che “la purezza si trova salendo verso Gerusalemme
e non nello sforzo ascetico di vincere se stessi,
nell’abbandono ….in Dio e non nella tensione di tutte le proprie forze
per diventare santi” (2001, la fede: lettera a un
giovane amico).
Credo sia venuto il momento di mettere una pausa a questa mia
lunga riflessione e comunicazione, riservandomi di riprendere
successivamente, ringraziandoti intanto per avermi ascoltato,
ringraziandoti per i momenti di speranza e di serenità che
mi hai dato con la tua precedente lettera e con la bella iniziativa
di Acquavona, ringraziandoti per lo straordinario contributo di
riflessione, offertomi dal tuo stupendo libro “La ricerca di
Dio e la politica”.
Come ti ho comunicato telefonicamente vedo questo attuale canale di
comunicazione come un nuovo terreno su cui far crescere
l’amicizia e come uno spiraglio di speranza. Non so se
intenderlo come momento di “confessione”, cui non sono
più abituato o altro. Sicuramente è il bisogno di
confidarsi e di affidarsi nelle mani di un Amico, di una Guida
Spirituale, che dia conforto e speranza alle mie afflizioni e
tribolazioni quotidiane, in un mondo dal quale l’amicizia
sembra irrimediabilmente scomparsa e dove ognuno sembra solo
indaffarato e preoccupato di curare le proprie cose ed i propri
interessi, sordo e chiuso all’altro, ai bisogni di dialogo e
di umanità che vengono dal proprio vicino.
Questo momento mi ricorda gli anni di formazione giovanile che
assieme a tanti amici abbiamo vissuto, a Lamezia, con l’amato
don Saverio Gatti e gli anni dell’Università, a Roma,
in cui, ci sei stato tanto vicino, aiutandoci nella crescita e
nelle difficoltà. Anni belli e indimenticabili, basilari
nella nostra formazione umana.
Scusami se sono stato troppo lungo e scusami gli inevitabili
errori, dovuti anche alle sviste derivanti da questo nuovo strano
modo di scrivere!
Giusto come ti dicevo anche per telefono vorrei potere
approfondire tutte la tematiche riguardanti:
- Laicità come profezia (ho già il tuo libro scritto
per ricordare Mario Castelli e Saverio Corradino);
- La cattedra dei piccoli e dei poveri;
- Aprirsi al mistero.
Ti sarò grato se mi indicherai ulteriori testi e occasioni
di approfondimento.
Ho ricevuto in questi giorni la tua “lettera al cardinale
Tettamanzi” e le riflessioni sull’Apocalisse, sulle
quali mi riprometto di dare un mio contributo.
Fraternamente ti saluto e ti abbraccio
Franco Augruso