Incontri di discernimento e solidarietà

2001 - La fede

Lettera a un giovane amico




Scrivo a te che sei giovane perché sei forte, e la parola di Dio dimora in te e hai vinto il maligno (cfr. 1 Giov. 2,14). Scrivo a te perché deposta ogni impurità e ogni resto di malizia, accogli con docilità la parola che è stata seminata in te e che può salvare la tua anima. Sei di quelli che mettono in pratica la parola e non solo ascoltatore, illudendo te stesso (cfr. Giac. 1, 21-22)

Io nel settantacinquesimo anno di vita e nel cinquantasettesimo di appartenenza alla compagnia di Gesù sento un vivo desiderio di approfondire la mia fede in Dio e di comunicare quello che in proposito mi sembra di aver capito. Cerco quindi di rientrare in me stesso e di uscirne per una donazione totale. La contrapposizione fra ripiegamento e apertura è solo apparente perché cerco Dio in me stesso e negli altri. Più precisamente è Lui che mi cerca nelle due direzioni.

Al termine dell’anno giubilare si dà un caso assai singolare e felice. Da due analisi profondamente diverse si può arrivare alla stessa conclusione: c’è qualcosa che comunque è necessaria e prioritaria; l’indica con chiarezza la colletta della XXX settimana durante l’anno: “Dio onnipotente ed eterno, accresci in noi la fede, la speranza e la carità”.
Per alcuni le celebrazioni dell’anno giubilare sono state meravigliose: un risveglio di fede, un’esperienza di comunione, un’affermazione della chiesa, una straordinaria testimonianza del papa, un progresso della linea conciliare, eccetera.
Per altri il grande giubileo ha comportato una forte mondanizzazione e banalizzazione della vita cristiana, la mortificazione di innumerevoli altre iniziative spirituali, una inversione nel cammino conciliare, eccetera.
È chiaro che a queste due diverse letture seguiranno impegni diversi e contrastanti sul piano della vita interiore, su quello pastorale, sociale e politico. Sarebbe poco serio non prevedere una forte conflittualità.
C’è però una cosa su cui tutti possono convenire ed è il bisogno di andare in profondità per crescere nella fede, nella speranza e nella carità.
Mi propongo di riflettere e scrivere, per me stesso e per tutti gli amici, cercando di stare alla presenza di Dio, e continuando una comunicazione che ha assunto un ritmo accelerato nell’ultimo anno e mezzo1 .

Mi ripeto? Lo faccio da circa sessant’anni, ma per me non è un problema in quanto se c’è un’eco del vangelo le stesse cose sono sempre nuove. Spero che sia così anche per chi volesse ascoltarmi o leggere quello che vado scrivendo.

Un accenno a quello che intendo comunicare.
Rientrando in me stesso trovo una massa di detriti e una corrente viva. Penso si tratti della fede che non è “mia” ma opera dello Spirito in me. Non è la fede semplice dei piccoli, capolavoro di Dio, né quella semplificata che oggi viene proposta in tante forme diverse. È una fede tormentata e inquieta, in qualche modo crocifissa.
Sono così spinto ad andare in profondità e arrivo a una falda di acqua tranquilla e purissima che sembra non scorrere ma è vivissima, non c’è nulla che la illumini ed è chiarissima per una luce totalmente sua. In questa acqua muoio e vivo di una vita che più non muore. È acqua di speranza e di pace.
A partire da questa falda comincia una risalita che può arrivare alla coscienza politica, alle strutture della convivenza umana, alla pace... fino al medio oriente.
Al lavoro!
È mattino e i giovani con cui vivo vanno all’università. Tutti, donne e uomini, iniziano a lavorare in casa o fuori. Il sole si sposta e l’umanità comincia a lavorare con una grandiosa òla, come un’onda va da oriente ad occidente.
Anche io mi metto a lavorare: resto nella mia stanza e penso a me stesso con la lucidità del mattino. Sembra proprio la negazione del lavoro, eppure sono persuaso che è quello che devo fare per essere utile agli altri. Penso alla mia fede cristiana: sembra un precipitare nell’intimismo, forma raffinata di egoismo, eppure mi sento abbastanza sicuro che fermandomi a pensare alla mia fede vivo seriamente la responsabilità verso gli altri e verso il mondo. È la mia vocazione che qualcuno definirebbe contemplativa.
La contemplazione è una dimensione essenziale della vita cristiana come insegnò il card. Martini nella sua prima lettera pastorale alla diocesi ambrosiana. Qualcuno ogni tanto richiama questo primato ma per tutti è molto facile scordarsene.

Un primo pensiero che mi è passato tante volte per la mente e che ora vorrei in qualche modo fissare è che non ha senso dire: “la mia fede”. Nessuno possiede la fede, la fede possiede noi.
È questa una verità semplicissima che può sconvolgere e rinnovare la vita e l’impegno di tanti cristiani e della chiesa. Si tratta, infatti, di rinunciare con determinazione ad ogni senso proprietario nei confronti della religiosità, della fede e di Dio stesso. È rinuncia al potere che più di ogni altro può sedurre chi lo esercita e coloro nei cui confronti è esercitato.
Sono persuaso che pensando alla fede che è in me realizzo, conformemente alla mia vocazione, il miglior servizio alla chiesa e al mondo.
Ma come è possibile rientrare in se stessi e al tempo stesso uscire da sé per servire gli altri? Rientrando in me stesso non cerco la mia fede ma ciò che lo Spirito opera in me, e se la mia ricerca non va a vuoto faccio esperienza di Dio presente e operante nel più profondo del mio essere, nel mio cuore che, secondo la Bibbia, comprende intelligenza, sentimenti e quanto altro costituisce la mia ultima identità.
Rientrando in me stesso alla ricerca della fede incontro così l’Altro e in lui tutti gli altri.
Per essere quindi presenti, per intervenire, per compromettersi e per operare nel mondo, partecipando “alle gioie e alle speranze, alle tristezze e alle angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di coloro che soffrono” (Gaudium et Spes 1) non c’è nulla di più concreto che l’incontro con Dio che avviene nel più intimo di noi stessi.
Al lavoro, quindi!
Rientrando in me stesso per verificare la fede trovo, sotto un cumulo di detriti, una corrente di acqua viva in cui riconosco un dono dello Spirito e, molto più di un dono, la sua presenza, la comunione con la vita divina.
I detriti sono quel che resta delle mie iniziative distinguendo quel che ho pensato e fatto mosso dallo Spirito da quel che ho fatto per mia iniziativa; discernimento non facile che a sua volta può esser fatto nello Spirito o come mia valutazione autonoma. Tante cose non sono decollate o non sono andate in porto: torri rimaste a metà che oggi mi appesantiscono. Altre cose hanno avuto un seguito, anche qualche vero successo, ma il compiacimento di me stesso ne ha fatto tuttavia un ingombro, un detrito. Queste e tante altre cose sono i detriti che ingombrano il mio spirito con rammarichi, rimpianti, amarezze, attesa di rivalse (non credo di vendette).
La corrente è l’acqua che scorre limpida e fresca, bagna qualche ciottolo della grande fiumara e fa nascere delle piante, forse ci vive anche qualche pesciolino. Quest’acqua è la fede, è la tradizione apostolica, è lo Spirito Santo che opera in me. La sua portata varia con le stagioni o per fenomeni imprevisti.
La fede illumina realtà che ho già conosciuto e affrontato a prescindere dalla fede.
Le prove che in un primo momento affronto con le mie capacità naturali, cercando le soluzioni possibili, in un secondo momento le riconosco nella fede come intervento di Grazia per la mia crescita a gloria di Dio.
La falda.
Si trova molto più in profondità.

Nel cuore del concilio, la Dei Verbum n.8, c’è l’affermazione della crescita della tradizione apostolica. Io sono in attesa di un cambiamento profondo: la mistica popolare.
“Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà”. Ritornare al vangelo che dice: “Pace agli uomini che Dio ama”. La categoria “uomini di buona volontà” sostituisce “gli uomini che egli ama”.
La nostra attenzione va sempre rivolta in primo luogo a Dio in Gesù Cristo, poi a noi stessi. La predicazione e la catechesi sono oggi prevalentemente rivolte al nostro perfezionamento morale e ascetico. L’alternativa corrente è l’impegno caritativo sociale e politico. Dominante poi è la lotta al peccato che solo raramente viene identificato come mancanza di conversione a Dio.
Sembra non ci siano alternative a un cristianesimo inteso come accettazione di dottrina e pratica di morale e ascesi.
Ma questa impostazione è in crisi e si reagisce cercando di “serrare”: stringere le norme e stringere le fila con un esercizio più accentrato e rigoroso dell’autorità clericale. In alternativa si tende ad allentare per rendere il cristianesimo più facile ed appetibile.
Solo alcuni sono alla ricerca della vera alternativa che è il vangelo: il primato di Dio, della fede, della speranza e della carità, il primato dell’apertura al Mistero.
L’alternativa che è il ritorno al vangelo richiede un nuovo discernimento di tutto; è massimamente rivoluzionaria.
Il discernimento evangelico e la metanoia conseguente riguarda anche i legami più stretti che si trovano nell’esercizio del potere clericale.

Un amico buono, serio, lucido e fortemente provato nella vita, mi parla del bisogno di approfondire la sua fede cristiana che oggi gli appare “massimamente improbabile”.
Questa sua espressione trova una forte risonanza in me e in tanti altri che si dichiarano credenti e in non pochi che si ritengono non credenti.
I motivi di questa improbabilità sono tanti.
Sembra che tutto avvenga secondo leggi di natura o per una serie di causalità di cui via via si trova la spiegazione. Il mondo cresce agli occhi degli uomini, sia per i progressi delle scienze sia per la sensibilità profonda di alcuni ai problemi di tutte le donne e di tutti gli uomini, e per la complessità dei meccanismi che generano e che sono generati da tali problemi. Cresce in alcuni la coscienza politica che deve tuttavia fare i conti con la diffusa incoscienza di chi ignora la politica o la gestisce solo come gioco di potere. Il mondo appare sempre più grande e tragico mentre la chiesa, con la sua proposta di fede, sembra ancorata al passato, a un mondo dalle dimensioni incomparabilmente più ridotte.
Massimamente improbabile appare la morale proposta dalla chiesa in tanti campi, dal sesso alla dottrina sociale.

Sul piano sociale.
Molti cristiani e molti che non si professano tali pensano che oggi la voce della chiesa, in particolare quella del papa, sia l’unica che con autorevolezza richiami le esigenze della pace e della giustizia.
L’enfatizzazione di questo fatto da parte dei cristiani non sembra molto evangelica. Non sono in grado di misurare la portata di questo servizio della chiesa in rapporto alla forza inedita della globalizzazione. Quel che constato è che tanti non credenti che apprezzano tale servizio sul piano etico e sociale non sono per questo stimolati ad interessarsi e ad aprirsi ai misteri della fede: quando si parla di resurrezione reagiscono come gli intellettuali di Atene: “su questo ti sentiremo un’altra volta”. E tutto rimane massimamente improbabile.
La chiesa è oggi impegnata a stare al passo con il mondo per poter annunciare il vangelo nel modo migliore. Nel fare questo, anche se con ottime intenzioni, rischia la mondanizzazione e quindi la perdita di senso per tutti quelli che non fanno parte del cosiddetto “mondo cattolico”.
Per non essere emarginata la chiesa pensa che sia oggi essenziale entrare nel mercato. Non so quanto questo possa influire nei grandi giochi del potere economico, comunque non penso che in questo modo si renda meno improbabile il Mistero rivelato di cui la chiesa è chiamata ad essere sacramento.

Ma la fede che è in me, intimamente congiunta alla speranza e alla carità, è accompagnata da tormento e inquietudine, due termini che mi aiutano a raccogliere una gran varietà di sentimenti profondi.
La fede è un tormento (“una pena morale, soprattutto in quanto segreta, continua e sconvolgente” secondo uno dei significati proposti dal vocabolario di Devoto-Oli) perché mette a nudo le sofferenze, i limiti e il male che sono in me e in tutta l’umanità. La fede è un tormento perché per essa siamo investiti dalla compassione universale e radicale di Dio nei confronti di tutte le sue creature. La fede è tormento perché la luce eccessiva sembra accecare.
Il tormento della fede fa gridare e il grido dispone noi stessi e Dio ad accrescere la fede che è in noi.

La scarsa fede che è in me è motivo di grande inquietudine (“insistente agitazione o insoddisfazione o insofferenza” secondo il vocabolario Devoto-Oli). 2
Tale inquietudine in me è certamente anche segno di mancanza di fede: “credo, aiutami nella mia incredulità” (Mc 9,24).
Innumerevoli sono i motivi e le forme dell’inquietudine a causa della fede. Provo a raggrupparli in qualche modo.

Inquietudine per chi pensa e non crede.
Ci sono persone, alcune note e molte ignorate, che pensano in modo serio ed onesto, riconoscono il mistero diffuso in tutto l’universo e, tuttavia, si dichiarano non credenti.
Mi ha colpito in particolare una recente testimonianza di Norberto Bobbio in “Micromega” 2,2000.
Mi domando con gran pena come sia possibile che chi dimostra tanta maturità umana, non riconosca lo Spirito di Dio. Ma poi penso alla mia limitatissima capacità di riconoscere lo Spirito che opera negli altri e in me stesso.
Da parte di molti cristiani e dei loro pastori mi pare ci sia, non di rado, una tranquilla accettazione del fatto che persone che riteniamo di gran valore, non credano. Ci accontentiamo di catalogarle, non so con quali criteri e con quale autorità, come uomini di buona volontà e non ci angustiamo della loro mancanza di fede. È bene non preoccuparsi della loro salvezza fidando nella misericordia di Dio. Tuttavia il contrasto fra la maturità umana e la mancanza di fede dovremmo sentirlo vivamente come una perdita per la chiesa tanto bisognosa di persone che pensino in modo maturo. Ma forse sto ora dimenticando che il Signore esultò nello Spirito, lodando il Padre che aveva nascosto il Mistero ai dotti e ai sapienti e lo aveva rivelato ai piccoli (Luca 10,21; Matteo 11,25; 1Cor 1, 26-31).

Inquietudine per chi crede e non pensa.
Tanti si dicono credenti ma pensano poco e qualche volta non pensano affatto a partire dalla fede.
Per alcuni la fede è dottrina conosciuta e posseduta, riposta in un cassetto o in una cassaforte, che non stimola all’impegno della mente e del cuore e non influisce sul modo di pensare, di sentire, di stare nel mondo, di rapportarsi con le cose, con il prossimo, con la società e con Dio stesso. Sembra talvolta che i cristiani vivano una morale e una religiosità senza Dio, atea.

Inquietudine per chi crede ma propone altro.
Il motivo più forte dell’inquietudine che accompagna la fede che è in me è dato da quanti si professano cristiani credenti e propongono altro. Sono tantissimi: cristiani schierati nel nome di Cristo e della fedeltà alla chiesa che si battono per principi e valori etici a prescindere dalla fede che lo Spirito dona loro. Son queste battaglie perse in partenza, non perché minoritarie, ma perché non inserite nella storia della salvezza mediante il Mistero Pasquale.
Ma forti sono le tentazioni di potere nella chiesa: dominare con la dottrina trascurando l’esperienza profonda del Mistero; puntare sull’emotività trascurando la razionalità e soprattutto l’esperienza del Mistero.
Sant’Ignazio di Loyola negli esercizi spirituali punta sul “sentire ac gustare res interne”.

Inquietudine per chi soffre senza speranza.
L’inquietudine fondamentale che accompagna la fede rimane sempre la sofferenza di tutte le donne e di tutti gli uomini, in quanto non è confortata dalla speranza. La compassione di Dio entra così nella nostra fragile costituzione, la sconvolge e la rifonda verso quell’unica alienazione salvifica che Paolo definisce: “non son più io che vivo ma è Cristo che vive in me” (Gal 2,20).
Il mondo è nei guai e i cristiani pregano per un loro piccolissimo mondo.
Convertire la preghiera del cristiano per convertirne il cuore e ritrovare la loro presenza nel mondo.
La Messa sul mondo.
Quando sto bene nel mio piccolo mondo mi sembra che Dio sia del tutto “improbabile”.
Il piccolo mondo è in relazione a ogni persona a quello che possiede e che spera, come a quello che teme. Non di rado in questo piccolo mondo è compresa una piccola religiosità che si riferisce a un piccolo Dio, costruito da noi con parole cristiane, un idolo.
Quando il piccolo mondo si scompone e si sfascia per l’apparire di un mondo che non è alla mia portata nascono interrogativi meravigliosi e inquietanti e con essi il senso del Mistero.
La piccola religiosità del piccolo mondo salta o si ripiega su se stessa: chi non ha più questa religiosità comincia a inquietarsi e cerca il senso delle cose.

Rientrando quindi in me stesso per verificare la fede trovo, come ho già detto, sotto un cumulo di detriti, una corrente di acqua viva: è la fede che lo Spirito di Dio opera in me, accompagnata da tormento e inquietudine. Andando molto più in profondità trovo una falda di acqua tranquilla e purissima: sembra non scorrere ma è vivissima, nulla la illumina ma è chiarissima di una luce totalmente sua. In quest’acqua muoio e vivo di una vita nuova che più non muore. È acqua di speranza e di pace.
Rientrando in me stesso per verificare la fede trovo finalmente la speranza per me, per la chiesa e per il mondo. E la speranza è questa: che l’acqua di pace cresca dal profondo di ogni donna e di ogni uomo, si espanda e salga fino alla superficie, tutto vivificando nella vita personale e in quella sociale, fino alla pace nel medio oriente.

Questa crescita, opera dello Spirito Santo, è “la salvezza che non si lascia in alcun modo gestire”, che è il titolo di un prezioso scritto del padre Saverio Corradino. 3
Noi tuttavia possiamo, e in un certo senso dobbiamo, individuare, praticare e proporre gli elementi principali di questa crescita che, come i capi di un’unica fune si intrecciano continuamente:

  • liberarsi dall’inautentico

  • concentrarsi sull’essenziale

  • discernere nello Spirito

  • morire e risorgere in Cristo

  • annunciare il Vangelo


Liberarsi dall’inautentico.

Rinunciare ad ogni forma di idolatria.
Staccarsi da tutto ciò che ci da sicurezza in alternativa alla salvezza che viene da Dio in Gesù Cristo.
Tutto ciò che esiste al mondo e che Dio crea per noi può esercitare un’attrazione e un fascino capaci di allontanarci da Dio. Penso in particolare all’inautentico religioso.
Fin dal primo impatto con la vita religiosa, nel noviziato della compagnia di Gesù, incontrai proposte di perfezione mediante l’osservanza di regole e consuetudini, che poteva fare di me un novizio modello e darmi una piena tranquillità. Ma precedenti rapporti ecclesiali mi avevano aiutato a capire e desiderare la via della fede, della speranza e della carità: Gesù via, verità e vita. Così maturò il contrasto, il tormento e l’inquietudine nel cammino di fede.
L’elenco delle inautenticità religiose che mi sono state proposte e che io stesso ho vissuto e proposto ad altri non finirebbe mai. Arrivo subito a qualcosa che ancora oggi mi tenta.
Per tanti motivi di cui mi sento in parte responsabile mi ritrovo nell’età avanzata con una scarsissima conoscenza delle sacre scritture. Per grazia di Dio ho tanti amici che mi aiutano in questa situazione. Mi piacerebbe conoscere la Bibbia come loro e penso che mi darebbe tanta sicurezza, ma mi rendo conto che in questo desiderio c’è qualcosa di inautentico perché la salvezza viene sempre dalla misericordia di Dio e non da un nostro possesso, sia pure il più elevato qual è la conoscenza delle scritture. Non basta conoscere quel che Dio ci ha detto, occorre ascoltare quello che ci dice: questa è la fede. Mi angustio spesso di conoscere così poco la Scrittura e mi dimentico di ascoltare quello che ora mi dice.
In tante manifestazioni di religiosità scorgo un tasso di inautenticità, non di rado in crescita. Non mi passa nemmeno per la mente di giudicare e tanto meno di mettere in crisi chicchessia. Occorre tuttavia fare il possibile per arrivare a ciò che è essenziale nella vita cristiana.
Avere la coscienza tranquilla, le carte in regola, le valigie pronte per andare in Paradiso, sono espressioni che ho sentito sovente proporre come ideale della vita cristiana. Penso lo siano solo in parte. La chiesa insegna anche che nessuno può essere sicuro della propria salvezza e penso che il tormento e l’inquietudine siano, nei modi più diversi, strettamente inerenti alla fede, almeno fino a che non si arriva alle acque profonde di pace.


Concentrarsi sull’essenziale.

“Anche noi dunque, circondati da un così gran nugolo di testimoni, deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede” (Eb 11,39-12,2).
Nei giorni della nostra vita terrena siamo chiamati a correre verso una meta che è la piena comunione con Dio in Gesù Cristo. Per correre senza inutili soste dobbiamo guardare continuamente a Gesù, alla sua passione, morte, resurrezione e ascensione al cielo. Il vero raccoglimento, tanto raccomandato nella vita cristiana, non è solo un rientrare in noi stessi per mettere ordine nella nostra vita ma la conversione di tutta la nostra vita a Gesù Cristo e al mistero pasquale, lasciando che sia lui a raccoglierci e ricomporci in unità. Per questo occorre superare anche la dispersione religiosa che può venire dalle molte devozioni e cercare il Signore al livello più profondo dove sono le acque di pace.


Discernere nello Spirito.

Oggi si parla spesso di discernimento e qualche volta si cerca anche di praticarlo personalmente e comunitariamente. I criteri da cui si parte sono per lo più di carattere etico e scadono facilmente a un livello di ricerca di pura efficienza.
Il discernimento nello Spirito è un dono misterioso di cui possiamo solo balbettare, a partire da qualche esperienza che ci sembra di aver fatto e di fare. Si tratta del discernimento che ci è dato nella fede a partire dalla parola di Dio e dal Mistero rivelato.
In questo discernimento mi sembra di scorgere un primo livello nel riconoscimento dei detriti che ci sono in noi. Intendo per detriti quel che rimane, senza valore, delle iniziative partite da noi a prescindere dalla fede in Dio con autosufficienza idolatrica. Riconoscere tutto ciò come detriti è un primo livello di discernimento spirituale.
Un secondo livello è quando ci si impegna a duplicare la nostra lettura della realtà cercando di penetrarne il senso più profondo alla luce dell’evento principale che è il mistero pasquale.
Il terzo livello è quando si è in qualche modo stabiliti nella contemplazione del mistero pasquale e in questa luce si vede tutto il resto: la storia umana e l’evoluzione cosmica come estensione della morte e resurrezione del Signore.
Per chiarire a me stesso e spero anche a qualcun altro il secondo e il terzo livello ripenso a un grandissimo amico, padre Mario Castelli, in diversi momenti della sua vita.
Seriamente impegnato nello studio dei problemi sociali e della dottrina sociale della Chiesa padre Mario per molti anni ha letto e commentato, specialmente sulla rivista Aggiornamenti Sociali, i fatti della società italiana, con discernimento etico e con un senso raro e profondo della laicità.
A partire da un certo momento la sua attenzione si è rivolta prevalentemente alla parola di Dio, alla lettura assidua della Bibbia, in cui, senza diventare un biblista e senza diminuire l’attenzione alla società, si è mosso sempre più a suo agio. Il suo discernimento è diventato via via sempre più “spirituale” cioè guidato dallo Spirito che ci fa comprendere la Parola.
Negli ultimi anni della sua vita, quando la malattia aveva reso molto difficile la sua comunicazione con gli altri, è maturato in lui uno stato di contemplazione profonda e costante, centrato sui grandi misteri della nostra salvezza. Allora non c’era più in lui uno sforzo di illuminare gli eventi alla luce della Parola, in quanto, nella contemplazione di ciò che la Parola rivela, egli coglieva il senso profondo di quanto accadeva in lui e attorno a lui, nella società e nella storia.
Negli ultimi anni della sua vita quindi era giunto a quel livello più profondo dove si trovano le acque chiarissime di luce propria che illuminano e unificano tutto il resto.


Morire e risorgere in Cristo.

“Sono stato crocifisso con Cristo e non son più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20).
Splendido, ma non è per me, né per tutti quelli che come me non hanno fatto grandi passi nel cammino di perfezione. Eppure è ciò a cui dobbiamo tendere fin dal principio della conversione.
Mi han detto all’inizio della vita religiosa: a questo ci penserai dopo, per ora osserva le regole. Ho reagito ed ho sofferto di questa violenta stroncatura di quanto è più essenziale nella vita cristiana. Ora sono in grado e sento il dovere di annunciare il vangelo del figlio di Dio nostro salvatore che nella sua realtà umana e divina, mediante la croce, salva la nostra vita e dà senso al nostro essere persone. È per noi l’unica alienazione che invece di svilirci, come ogni altra alienazione, fa sì che il nostro io personale si realizzi nel modo più pieno. “Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Matteo 16,25).
L’intangibilità della fede fonda la sacramentalità del reale.
Ho cercato Dio tangibile, luminoso, ecclesiale. La notte e l’abbandono sono esperienze necessarie per entrare nella luce vera e nell’amore puro che è la carità di Cristo.
In noviziato ho cercato una prova tangibile di Dio che mi liberasse da ogni dubbio, convinto che allora tutto sarebbe diventato facile, anche il martirio.
Via via mi sono orientato verso la luminosità dei misteri che rendeva più desiderabile e più facile la fede.
Ho molto sperato in una chiesa più trasparente nei confronti della presenza dello Spirito di Dio e quindi più capace di manifestare le insondabili ricchezze di Cristo.
Comincio ora a capire la necessità della notte oscura: il mistero incomprensibile, la salvezza ingestibile, il protagonismo idolatrico, la purezza della fede.
Per quanto luminoso il mistero è incomprensibile, la fede oscura e la sua attrazione ci accosta all’abisso.
La salvezza non si lascia gestire in alcun modo (v. il testo già citato di Corradino).
Ogni nostro progetto porta al fallimento, ogni nostra aspettativa è delusa, ogni speranza che non sia “teologale” è vana.
Il protagonismo si rivela illusorio e idolatrico.
La purezza si trova salendo verso Gerusalemme e non nello sforzo ascetico di vincere se stessi, nell’abbandono fiducioso in Dio e non nella tensione di tutte le proprie forze per diventare santi.
L’esperienza dell’oscurità è il passaggio essenziale. Questo è chiaro. Ma se è chiaro non è più oscuro? Abbandono nella più grande confusione che non toglie la certezza: tu solo hai parole di vita eterna. Poi tante cose si chiariscono a partire dall’oscurità.
Il sacro è spesso idolatria del tangibile o del luminoso che cerca di evitare il mistero e non incontra il Mistero.
Idolatria: fermarsi alle creature in cerca di salvezza. Quando dall’esperienza del Mistero torno alle creature vivo la vera laicità.
In silenzio davanti al Signore.
L’accettazione della morte come fine di ogni rapporto con le creature che prescinda dal Mistero.


Annunciare il vangelo.

Non si tratta di insegnare una dottrina (non intendo sottovalutare i catechisti) ma offrirsi come testimonianza di ricerca di conversione propria e altrui.
Su questa linea vedo l’intervento della Chiesa... anche politico.


Pio Parisi s.j.


gennaio 2001


1

14/5/99 Lettera a mons. Antonelli

Fede in Cristo risorto - mancanza di profezia e povertà


24/10/99 - Proposta di Incontri Maurizio Polverari

Pensiero profondo


gennaio 2000 - Appello agli umiliati

Stringiamoci a Cristo, pietra viva rigettata


Pasqua 2000 - Lettera a padre Benedetto

Comunicare la speranza. A partire da un’esperienza personale di crisi della religione e di crescita della fede, un discernimento della storia - Chiesa del Mistero e mistero della chiesa: una mistica popolare e politica (Acli, San Pancrazio, Chiesa) + comunicazione di madre Giovanna, madre Chiara Patrizia e suor Maria Benedetta e sorelle.


5 giugno 2000 - comunicazione multipla

Ballestrero, suor Maria Benedetta, consiglio presbiterale, Appello politico.


2 luglio 2000 - resoconto dell’incontro Associazione Maurizio Polverari e Incontri Maurizio Polverari.


19 settembre 2000 - Sta in silenzio davanti al Signore e spera in Lui.


Settembre 2000 - Circolo di pensiero politico.


15 ottobre 2000 - Incontri MP: per proseguire.

Di tutto questo materiale sono disponibili le fotocopie


2 Il domenicano Jean-Marie Tillard scrive in “credo nonostante…. conversazione d’inverno”, EDB: “Si, sono un cristiano inquieto. E’ un’eredità della mia vocazione domenicana. Noi siamo degli inquieti e, se bisogna credere a ciò che il vecchio padre Bochenski bisbigliava alla vigilia della sua morte, questa inquietudine ci rende spesso insopportabili “alla gerarchia desiderosa di saggi discepoli”. Ma qui bisogna distinguere bene i livelli. La fede è innanzitutto, e alla sua stessa radice, fiducia totale in Dio che è “fedele”. A questo livello, non sono affatto un inquieto.
Ma la fede - e questo già nel Nuovo Testamento - è anche l’insieme delle verità legate a questa fiducia, la maniera con cui le Chiese le propongono o le capiscono. Allora sono inquieto. Un fascio d’inquietudini che riguardano punti particolari, non un’inquietudine globale. L’Occidente tiene forse abbastanza conto, nella presentazione della verità evangelica, di tutta la complessità dell’umano, tanto del cuore come della ragione? Si rispetta abbastanza l’essere-nella-storia dell’uomo? Si è in tutto coerenti con i grandi principi dichiarati fondamentali? Si sa captare e comprendere il “sensum fidelium”? Ci si mostra totalmente attenti al rispetto della coscienza quando si parla della morale? Si è convinti, come l’Oriente - più saggio di noi in questo campo - della trascendenza assoluta della verità di salvezza, così che Dio solo può “capire” e dire “come essa è”? Si evita la tentazione di appesantire inutilmente il contenuto delle “verità da credere”? Perché non ci si concentra sull’essenziale? La maniera di esprimersi, soprattutto su questioni importanti, non sa troppo d’altri tempi per essere capita bene? Si ha ancora il senso dell’analogia? Si può capire che il mio lavoro ecumenico accresce questa inquietudine. Basta una parola maldestra - come la menzione delle ordinazioni anglicane nel commento ufficiale della Ad tuendam fidem - perchè tutta una fiducia crolli e si cerchino intenzioni inconfessate. Ogni volta che un documento ufficiale viene promulgato, mi balzano davanti tutte queste domande. E capita che la risposta che ne debbo dare mi faccia soffrire. La Chiesa è impregnata di povertà, e questa non è sempre quella che magnificavo poco sopra”.

(Il Regno, 18/2000, p. 608)


3 Castelli, Corradino, Parisi, Stancari “La laicità difficile”, Morcelliana ’91, pp 17-40





Curinga, 8 aprile 2001.

Caro Pio,
rispondo alla tua lettera come si risponde alla lettera di un amico.
Giusto come si usava in altri tempi, quando la comunicazione scritta costituiva una delle forme essenziali di “dialogo” tra gli esseri umani.
D’altra parte la tua porta il titolo proprio di “lettera a un amico” (mi era sfuggito l’aggettivo “giovane” (!), per me, che tanto giovane non sono più!).
Non so se nello scriverla le tue intenzioni siano state quelle di indirizzarla ad una singola persona, ben individuata, con una sua precisa fisionomia, oppure ai tanti amici, presenti e distribuiti un po’ dappertutto sul territorio del nostro Paese, a quella vasta comunità di persone che nell’arco degli anni della tua vita hai avuto modo di conoscere.
A tutti quegli uomini in carne ed ossa che hanno avuto occasione di apprezzare la semplicità della tua parola, la profondità esemplare del tuo pensiero, la coerenza della tua presenza, che da sola e da sempre costituisce elemento “positivo” di “crisi”, intesa come testimonianza e come “sfida”, a credenti e non credenti..
E pur da posizioni di pensiero e di vita lontane da quelle tue, - l’esperienza del mio percorso esistenziale mi ha portato, infatti, da tanto tempo ad essere “non credente” – trovo nelle tue parole, nella tua lettera “di amico”, mille occasioni di riflessione, tanti stimoli di dialogo, tanti spunti di meditazione sulla necessità di “crescita” dell’uomo, - intesa anche come “ricerca e conversione”, - anche quando ha raggiunto una certa età come la mia!
Perché anch’io, come lo sei tu, e come lo sono tanti altri uomini, sono un uomo inquieto, un uomo che non si dà pace, che non si “dà riposo”!
Io sento di appartenere a quella frazione di uomini che sono parte della tua inquietudine (pag. 4 della tua lettera, 4° capoverso, “Inquietudine per chi pensa e non crede”).
Quegli uomini che pensano, si assillano, spesso senza trovare una risposta alle loro domande, ai loro tormenti, alle loro inquietudini, alla profonda esigenza di spendere la propria vita in modo più produttivo per sé e per i propri simili.
“….. è un fondo religioso, della mia persona,- diceva Norberto Bobbio, nello scritto da te citato e sul quale ti eri già soffermato durante una breve conversazione che avemmo nell’estate scorsa – che mi assilla, mi agita, mi tormenta”.
Eppure, nonostante l’inquietudine di una seria e sincera ricerca, che impegna l’intera esistenza di tante persone, fatta di valori sofferti e testimoniati nella quotidianità della vita, capita di sentire affermazioni come quelle che ascoltavo tempo addietro ad un convegno organizzato dalla vicina parrocchia di Acconia di Curinga dal significativo titolo “Fede, magia e scienza”. In un clima da crociata contro maghi, superstizioni, fattucchiere e magie d’ogni genere, sacerdoti - e qualcuno tra loro che si fregiava anche dell’impegnativo titolo di “specialista in teologia” – definivano tutti coloro che “credenti non sono” come preda di “Satana” , in un fosco quadro di eterno scontro tra il Bene e il Male, tra Dio da una parte e Satana, appunto, dall’altra.
Beati loro, in grado di vivere con tante ostentate certezze!
Personalmente sento di vivere l’inquietudine dell’uomo che non si accontenta della solita routine quotidiana, che pure “appaga” la tranquilla quiete di tanti “cristiani” e dei benpensanti che non sono minimamente sfiorati dall’inquietudine dell’esistenza e vivono nella stanca e piatta ripetizione delle solite giaculatorie d’ ogni giorno.
Avverto la necessità del dialogo e di approfondire in modo serio dette problematiche.
Ho cercato delle risposte nello stoicismo di ispirazione “Senechiana”, ma sono giunto, dopo tanti anni, ad una mia personale conclusione. La nobiltà del pensiero stoico e le sue lucide linee di ispirazione rischiano di inaridire la vita, chiudendola, in modo solitario, in una “turris eburnea” dalla quale si guarda – freddamente – senza alcuna partecipazione - spesso “con sofferenza e con inquietudine”, l’eterno fluire delle cose e del mondo !
Una forma di estraneazione che ti porta quasi a sentirti straniero nella tua terra !
Avverto vivissima la necessità di superare la lezione stoica, difficile, forse umanamente impossibile da vivere e sento, nello stesso momento, di avere appreso, maturato con essa, una lezione importante per la mia vita.
Una lezione che pone alla base delle sue ispirazioni l’imperativo – etico direi – di amare tutto ciò che vive ed opera attorno a noi. Di amare e vivere in simbiosi , non solo – e prima di ogni altra cosa – con gli uomini, con tutti i nostri simili, di qualsiasi razza, religione o credo politico essi siano, ma anche con la natura che ci circonda.
Ricordo Marco Aurelio in uno dei suoi “Pensieri” : “ Quelli che sbagliano sono miei congiunti, non per legami di sangue, ma perché partecipo con loro all’intelligenza divina. E non posso offendermi con chi mi è congiunto: siamo nati per cooperare l’uno con l’altro, come i piedi e le mani.
Una lezione alla cui base c’è la forza dell’amore, della purezza del cuore verso tutto e tutti, in un atteggiamento di semplicità e di sereno candore francescano.
Di purezza evangelica – oserei dire - se con ci fosse di mezzo la divisione della fede!
Che per me non c’è!
Ed io guardo al Vangelo come ad una delle preziose lezioni, delle tante fonti e perenni sorgenti di vita, che la lunga storia dell’uomo ci ha tramandato.
Ma guardo anche la “fede” come un salto al di là dell’umano e della ragione, un salto irrazionale nel buio, che – per me – sembra un salto nel “mondo delle illusioni”, necessario forse, per dare quel “senso alla vita” di cui parla Leopardi nel sua lucida, accorata e pur realista visione dell’esistenza.
Ma oltre la vita, accanto al tormento e alla sofferenza del non credente (di cui parla Bobbio) ci sono gli eterni interrogativi dell’uomo: il dramma della morte e le domande, senza risposta, sui destini ultimi, dopo di essa.
Non c’è dubbio che l’esperienza cristiana – che costituisce per noi la realtà storica di perenne sfida, di quotidiano confronto e anche di continua polemica – rientra tra quelle che sono riuscite a capire meglio il dramma e la vita dell’uomo e a darvi una risposta in termini molto complessi e articolati.
Non c’è dubbio che l’esperienza cristiana sia riuscita a interpretare le istanze e le aspirazioni più profonde dell’uomo e a saper dare risposte serie, chiare, concrete alle mille realtà dei bisognosi e dei sofferenti.
Mi rendo anche conto che oggi, nell’era in cui tanti uomini si sentono orfani di ideologie forse definitivamente morte, di sistemi-partito (o sistemi-chiesa?) che hanno dato, nel passato, un senso alla vita e alla partecipazione di tanta gente alla vita civile della comunità, si avverte un grande bisogno di utopia e di “ulteriorità”.

C’è la consapevolezza che col “crollo” dei muri non siamo finiti nel migliore dei mondi possibili, ma - al contrario – viviamo come tanti elementi atomizzati in balìa di una nuova e più subdola forma di potere che è l’edonismo consumistico, fine a se stesso.
L’edonismo della globalizzazione, sordo ad ogni altra esigenza che non sia quella del profitto, del produrre, del consumare.
Sordo ai bisogni dell’uomo, alle sue esigenze di identità, di socialità, di solidarietà, di comunità.
Sordo alle esigenze di spiritualità dell’uomo in quanto tale.

Proprio in virtù di queste semplici considerazioni io penso che tanta parte della “Chiesa - che io chiamo - trionfalista” o come dir si voglia – della “Chiesa preoccupata soltanto del Potere” - anziché menare crociate, o battaglie di retroguardia, od organizzare grandi raduni in linea con la prevalenza dei messaggi mass-mediatici, si rendesse consapevole che il pericolo non sta più nel “comunismo” o nella “sinistra ancora assatanata”, ma in una nuova forma del Potere, che pare non abbia più bisogno, per i suoi fini, né delle religioni né delle Chiese, anzi da tempo – nella prassi quotidiana - le abbandonate al proprio destino. Cinicamente consapevole che non sono utili per il raggiungimento dei suoi fini, avendo ormai trovato tanti altri strumenti per imbonire e per conquistare – o “acquistare” - la vita degli uomini.
Ed allora non resta che unire gli sforzi di tutti coloro, credenti e non, che hanno a cuore il destino dell’uomo e saper inventare nuove forme di difesa, di aggregazione, di presa di coscienza di sé. Per ridare un messaggio di fiducia nel presente e nel futuro.

Mi rendo conto che pur essendo partito da considerazioni di carattere esistenziale, che traevano spunto dalla tua lettera-riflessione, sono finito inevitabilmente alla “politica”.
Ma sento di appartenere anch’io a quella parte di uomini, orfani di tanti “crolli” e demolizioni, inquieti e – soprattutto – bisognosi di utopia - che vivono il difficile momento presente, di profonda e rapida trasformazione, con sofferenza quasi impotente.
Nella solitudine e nella totale assenza di dialogo.
Perché in giro si trova una scarsissima disponibilità all’ascolto, al confronto sereno per la comune crescita e al dialogo autentico.
Ecco perché ti ringrazio di avermi spedito la tuta “lettera ad un amico”.
Grazie della comunicazione e grazie dell’occasione del dialogo.
Ma oltre il dialogo, serve anche la vita comune, la condivisione di alti valori da comunicare ed eventualmente da sperimentare, ciascuno nella propria esperienza di vita.
Ricchezza e bellezza della pluralità !
Grazie, grazie di cuore.
In alcune occasioni, vedentoTi celebrar Messa mi sono chiesto : è possibile una “vita di comunione” tra un non credente e un cristiano ? – Io credo proprio di si.
Ma resta la divisione della fede !
Affettuosi saluti
Francesco Augruso


P.S: Proprio prima di spedire la lettera, mi è capitato di cominciare la lettura dell’ultimo libro-intervista di Massimo Cacciari, “Duemilauno, politica e futuro”.
Un libro regalatomi da mia figlia e che mi sembra denso di spunti meritevoli di approfondimento e di riflessione.
Riporto alcuni passi dell’introduzione che hanno colpito la mia attenzione:
“Non sei solo in questo destino – bisogna dire. Cos’è fare politica, se non dire al tuo prossimo che non è solo?”
- Personalmente la Politica io l’ho sempre intesa così. Ma, oggi, purtroppo ciò è fuori moda! -
“Il prossimo in questione è l’individuo smarrito del nostro tempo, alienato e insicuro, investito da processi ai quali si dà il nome generico di globalizzazione. L’individuo fagocitato e parlato dalle nuove tecnologie e dai nuovi linguaggi che recano l’illusione di una libertà e di una ricchezza inaudite e alla portata di tutti ma che spesso, nella realtà, per milioni di persone, non sono altro che nuovi strumenti di sfruttamento e espropriazione”.

Viviamo oggi “la solitudine dell’individuo globale” (Bauman) in un’epoca in cui la dimensione culturale dominante è quella “dell’individualismo compiuto”.
Ma ciò può essere sicuramente occasione di successivi approfondimenti.
Di nuovo, affettuosi saluti
Francesco Augruso



Caro Franco,
ti propongo di cercare insieme il senso della nostra vita, come l’intervento più urgente nella politica.
Insieme: tu che ti dichiari non credente ed io che mi ritengo credente in cerca di una fede più matura, e tanti altri che condividono rispettivamente le tue e le mie esperienze, e tutti quelli, ovviamente, che ne hanno delle loro e che non si riconoscono né in te né in me.
Cerchiamo il senso della nostra vita, una ragione per vivere, un orientamento, un punto verso cui tendere, una via da seguire, una passione in cui consumare le nostre energie.
L’intervento più urgente per la politica, quello di cui essa ha maggiormente bisogno; in primo luogo la definizione stessa di politica. Tutti infatti ne parlano dandole per lo più un significato riduttivo: la politica come ricerca e gestione di potere.
Cerchiamo in piena libertà, in pieno rispetto reciproco, comunicando quello che realmente siamo e non quello che abbiamo appreso senza reale assimilazione che abbia fatto crescere la nostra vita.
Provo a comunicarti la mia esperienza.
Tutto mi appare bello ma tutto si guasta e diviene privo di senso.
Rifiuto questa realtà ed ogni spiegazione illusoria.
Rimane in me una speranza che si fa certezza: la Buona Notizia.

Tutto mi si rivela sempre più amabile in un’esperienza tangibile nello spirito.
Tutto si guasta: anche questa è un’esperienza.
Tutto è privo di senso: questa è già una conclusione elaborata da me… e che io rifiuto.
La speranza che si fa certezza: è un’esperienza.

Tutto mi appare bello e mi si rivela sempre più amabile: ogni persona umana con tutti i suoi comportamenti, anche quelli negativi dei quali si scopre una giustificazione, per esempio i torti subiti che portano alla violenza;
tutti gli eventi in cui si realizza l’incontro e la comunione fra più persone: dall’amicizia e dall’innamoramento ai movimenti popolari, agli stati e al formarsi di realtà sovranazionali;
tutti gli sforzi culturali, dall’apprendimento elementare alla ricerca scientifica più avanzata;
tutte le espressioni artistiche.
E’ amabile tutto ciò che esiste, che vive, che lavora, che ama, che gioisce e che soffre.
Ma che significa “è amabile”? Che una persona, una cosa, un fatto sono belli e buoni, se ne desidera l’esistenza, la continuazione e la comunione, e si fa quel che si può perché esistano.
Si scopre l’amabilità anche quando si constata l’impossibilità di essere in comunione o di possedere. Io, per esempio, scopro ogni giorno di più la bellezza della cultura, mentre mi rendo conto della mia irrimediabile arretratezza in proposito.
Al fondo dell’amabilità di tutto e di tutti c’è il mistero racchiuso che entra in comunione con il mistero che è in me. Per questo le cose e le persone che appaiono tutte spiegate ci rimangono sempre in qualche modo estranee, anche quando ci sembra di possederle, di un possesso che sarà comunque violento.

Tutto si guasta. Nella mia esperienza va crescendo la percezione del male e la relativa inquietudine dello spirito, con corrispondenti somatizzazioni. Si tratta del male inteso in tutti i sensi, innumerevoli come le componenti della realtà che si manifesta sempre più complessa e mutevole: l’oceano della sofferenza umana, specialmente quella causata dagli uomini stessi; la mancanza di comunione, gli egoismi, i conflitti.
C’è poi il male di fondo: il tempo che passa e si porta via tutto, la morte che è la fine di tutto ciò che è amabile, anche per chi crede che vi saranno poi cieli e terre nuove.
Amabilità ed esperienza del male portano all’assurdità?
Nel dizionario Devoto-Oli leggo:
Assurdo: Contrario alla logica del pensiero, della parola, dell’azione; contraddittorio, inconseguente, fino ad essere incomprensibile; assolutamente sconveniente, inattuabile, incredibile.
Assurdità: Contraddittorietà annullatrice, e quindi improduttiva o addirittura distruttiva; inattuabilità, incredibilità; sconvenienza assoluta.
Nella esperienza di una realtà sempre più amabile e attraversata dal male il termine che più spesso viene alla mia mente è: assurdo!
Assurdo tutto, assurdo il tutto e assurde tutte le sue componenti, fino ai minimi particolari. Assurdo io, tu, e tutti. Assurdo tutto ciò che è e che accade. Assurdo in tutti i significati sopra indicati dal Devoto-Oli.
Ma questa dichiarazione di assurdità viene dalla mia mente, è la conclusione di un mio ragionamento. Il cuore, intendendo con questo termine tutto me stesso compresa la mente, rifiuta questa assurdità.
Il rifiuto dell’assurdo è la presenza di una speranza che non è la convinzione di qualche probabilità che ci sia un senso, ma una certezza che abita in me e non viene da me; per questo è certezza. Il soggetto, la sorgente di tale certezza non sono io né un altro, è al di là di me e di tutto ciò che in qualche modo è alla mia portata. E’ un mistero, è il Mistero che si incontra con il mistero che è in me, in tutti e in tutto: la comunione si attua in modo assolutamente misterioso, tanto più certa quanto più misteriosa.
Non si tratta di “illusione”: l’esperienza del mistero ed il fatto che questa speranza non viene da me fa sì che essa sfugga al pericolo di essere illusione. Posso illudermi di afferrare qualcosa ma non di essere afferrato da qualcuno.
Al di là di tutti i giri che posso fare con la mia mente e di tutti gli stati d’animo che mi attraversano, mi ritrovo sempre con quel rifiuto dell’assurdo che contiene una speranza certa.
Il rifiuto dell’assurdo e la speranza certa mi dispongono ad accogliere il Vangelo: convertirsi al Vangelo, vie nuove per la politica.
Non si tratta di un cammino intellettuale per conoscere e condividere una dottrina; accogliere è impegno di tutto il nostro essere personale, di tutta la nostra vita, del mistero che è in noi.
Il Vangelo è il Mistero infinito di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo che ci viene incontro, che si rivela nel più profondo di noi stessi, che traspare in tutti e in tutto.
Il Vangelo non è una raccolta di norme né un sistema di valori come spesso si dice nella Chiesa, ma è il Mistero Pasquale per noi, con noi ed in noi.
Ogni sofferenza pone un problema a chi crede in Dio onnipotente e misericordioso. Tutte le sofferenze nella storia dell’umanità costituiscono un immenso ostacolo alla fede in Dio; le sofferenze poi causate dalla malvagità degli uomini da una lato sembrano diminuire la responsabilità di Dio, dall’altro lo caricano di un’ulteriore responsabilità in quanto ci crea peccatori.
C’è chi si acquieta con delle spiegazioni che ricorrono all’esigenza della giustizia divina e della libertà umana, per cui non fa problema nemmeno il pensiero di una sofferenza eterna.
Io non condivido nessuna spiegazione: il mistero rimane profondo ed esteso quanto la storia umana e la stessa evoluzione cosmica.
“La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza.” (Rom 8,19-25).
Ciò che non si spiega può tuttavia essere illuminato e diventare a sua volta sorgente di luce: è il Mistero Pasquale
“Il sole di giustizia
trasfigura ed accende
l’universo in attesa” (Inno di Lodi).
Caro Franco, continuo a comunicarti la mia esperienza sempre con la speranza di conoscere meglio la tua, in quella ricerca di senso che considero come la cosa di cui oggi ha più bisogno la politica.
Nel 1944 la scelta più impegnativa della mia vita è stata fortemente influenzata dalla guerra: esperienza di morte e di fallimento della politica.
Ti ho già detto come vivo la fede, ora provo a comunicarti come sento la Chiesa.
Provo a formulare la mia speranza per il momento storico che la Chiesa vive nel mondo. Comincio dall’obiettivo a cui tendere:

la Chiesa del Mistero, il Mistero della Chiesa.

Quando parliamo di Chiesa siamo spesso aggravati, intristiti e quasi asfissiati dalla riduzione della Chiesa alla gerarchia e ai suoi più immediati collaboratori. Ora vogliamo pensare alla Chiesa del Concilio.
La Chiesa del Mistero è lievito destinato a scomparire nella pasta, è adorazione personale e comunitaria di Dio, con tutto quello che tale atteggiamento richiede: silenzio, nascondimento, operosità, sacrificio, gioia e pace interiore. La Chiesa del Mistero non si definisce con i nostri concetti né si racchiude nei nostri recinti, si trova dappertutto perché lo Spirito riempie l’universo.
Questo è il Mistero della Chiesa rivelato ai piccoli.

Due piste appaiono necessarie per andare verso la Chiesa del Mistero: la mistica popolare e quella politica.
Per comprendere cosa sia la mistica popolare è necessario tener presente che il sentimento del mistero è costitutivo dell’uomo, anche se spesso sepolto e soffocato da bisogni materiali, da ricerca di piaceri, da razionalizzazioni e dalla stessa religiosità.
Se per religione si intende la fede è chiaro che essa non ostacola il sentimento del mistero. Ciò che avviene quando la religione manca di silenzio interiore o viene ridotta a dottrina. Per aiutare la crescita della mistica popolare occorre in primo luogo darle spazio e poi esercitarsi nell’ascolto degli altri che evidenzia il mistero che è in loro ed in noi. E’ soprattutto l’ascolto del Mistero che nutre la mistica popolare.
Penso che la mistica popolare sia una proposta tanto semplice quanto nuova sul piano della catechesi, riguardante la fede e la morale, e sul piano della vita ecclesiale. Dove gli ostacoli appaiono come una barriera insormontabile è nell’impegno politico e oggi in particolare nei progetti culturali ad esso finalizzati.
Non è difficile cogliere la connessione fra la mistica popolare e la politica: il riconoscimento del mistero fonda i rapporti personali e la cultura, penetrando nelle strutture e nelle istituzioni necessarie alla convivenza umana, alla “polis”.

Caro Franco, continuando a comunicare la mia esperienza cerco di dire come sento la necessità dell’aiuto di chi non si professa credente. Aiuto per la crescita della fede nella Chiesa, aiuto soprattutto per la politica, nel senso ampio della convivenza umana nella pace e nella giustizia.
In primo luogo una precisazione dei termini. Credenti e non credenti: ha senso questa distinzione?
In silenzio davanti al Signore, con quel filo d’acqua viva che scorre sotto la montagna di detriti che ho accumulato e accumulo nella mia vita, acqua viva che riconosco come la fede che lo Spirito opera in me, mi domando che significa essere credente.
La mia vita non è credente anche se non ho dubbi circa la fede: vivo le mie giornate senili proteso nella ricerca di Dio; leggo e rileggo l’esortazione della Lettera agli Ebrei:
“Anche noi dunque, circondati da un così gran nugolo di testimoni, deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede. Egli in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia, e si è assiso alla destra del trono di Dio.” (Eb 12-1-2).
Sempre per quel filo di acqua viva non riesco a pensare a qualcuno come “non credente” e mi è di grandissimo conforto l’esortazione di Paolo ai Filippesi: “Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso” (Fil 2,3). Evidentemente non mi passa in alcun modo per la mente la violenza di dire a chicchessia: tu sei credente anche se dici di non esserlo.
Comunque se serve per incontrarsi e comunicare con persone che hanno esperienze diverse, in mancanza di una terminologia più vera, dico pure incontriamoci fra credenti e non credenti.
C’è una esperienza molto bella a cui potremmo ispirarci che è l’amicizia tra P. Benedetto Calati, Pietro Ingrao, Mario Tronti e molti altri credenti e non credenti (cfr. la seconda edizione di: Raffaele Luise, La visione di un monaco, Cittadella, 2001).
Con Michele, un sindacalista vicino di casa che si ritiene non credente, leggevamo, insieme ad un gruppetto di universitari fuori sede, il Vangelo. Dopo la lettura del discorso della montagna, Michele era meravigliatissimo e diceva: quest’uomo è eccezionale, è straordinariamente meraviglioso che un uomo arrivi a questo livello di bontà e di bellezza. Voi forse non lo capite perché pensate che è Dio. Michele mi ha aiutato a prendere coscienza di quanto scarsa sia la mia contemplazione di fede del Mistero del Verbo che si è fatto carne e del Mistero Pasquale.
Giovanni Battista Metz, grande teologo della politica, in un articolo intitolato “Memoria passionis nel pluralismo delle religioni e delle culture” (Il Regno, 15/12/2000) propone un’ “ecumene della compassione” e il riconoscimento dell’autorità superiore dei sofferenti. E’ per lui la risposta alla globalizzazione e si rivolge soprattutto alle grandi religioni monoteiste. Io penso che il suo appello sia ancora più valido se rivolto a tutti, anche ai non credenti.
In un incontro nazionale delle Acli a Ruvo di Puglia con rappresentanti di varie religioni, dopo che si era a lungo discusso se fosse bene pregare insieme con la stessa preghiera, stante il pericolo di perdere l’identità della fede di ognuno, don Tonino Bello, che era il vescovo del luogo, nella celebrazione della messa disse che c’era una cosa che si poteva tranquillamente fare insieme, senza nessun rischio per la propria identità: aiutare seriamente tanta povera gente e in particolare gli immigrati. Questo primato dell’amore vale certamente anche quando si cerca di capire dove sta andando l’umanità: illuminare l’egoismo che c’è in noi, scoprirne le cause, riconoscere la presenza dello Spirito, assecondare la comunicazione delle esperienze liberandole dai condizionamenti dei poteri, eccetera.

Sto vivendo una esperienza che chiamerei mistica se questo termine non rinviasse a una santità da cui mi sento lontanissimo. Ritengo tuttavia che questa esperienza venga dallo Spirito. A partire da questa esperienza personale tento poi un discernimento della storia.
Sotto i colpi quotidiani del male, la mia religiosità va a pezzi. Mi riferisco a tutte le mie costruzioni religiose, dallo studio alle devozioni, alla pastorale, alla stessa preghiera che diventa sempre più ascolto della Parola e inserimento nella liturgia. Cresce così la fede, non oso dire purificata ma certo sempre più desiderata, più universale, più esperienza di passività, che sostiene l’azione più audace, riconoscendo che tutto è dono dello Spirito.
Ed ecco il discernimento: ci stiamo avviando verso una crescita della fede come esperienza del mistero di Dio che rinnova radicalmente il nostro modo di stare insieme al mondo nella convivenza umana così necessaria, così tragica eppure così piena di speranze.
Crescita della fede che si manifesta anche , e forse soprattutto, nella crisi della religiosità: in chi critica in modo sereno o astioso, profondo o superficiale, comunque sofferto; in chi rimane fedele alle pratiche religiose ma le sente inadeguate alle aspirazioni più profonde di comunione con Dio e con l’umanità umiliata.


Caro Franco, concludo questa lettera con una proposta pratica che contiene, a mio avviso, una scelta spirituale profonda e radicale, necessaria nel momento presente.
Organizzare, organizzarsi, promuovere con diligenza l’organizzazione. Questa proposta può sembrare una brusca caduta, un precipitare nella corrente delle logiche economiche e nei gorghi del potere. Non è così e mi spiego.
Organizzarsi per realizzare la comunicazione delle esperienze spirituali, vigilando attentamente che da questo non nasca nessun fatto di potere per sé o per altri. Non si tratta di negare la necessità del potere nella convivenza umana ma di prendere coscienza che la comunicazione autentica fra persone è un dono dato e ricevuto e richiede quindi piena gratuità, la quale è subito insidiata dalla prospettiva di acquistare potere, sia pure in vista di una più efficace comunicazione. Ingenuità, illusione in cui cascano anche quelli che sembrano più avveduti.
Sulla base quindi di una scelta chiarissima di servizio e di non potere organizzarsi e organizzare.

Pio Parisi


Curinga, 14 ottobre 2001.


Caro Pio,
riprendo, forse, con ritardo il bandolo della comunicazione scritta, dopo la mia precedente lettera e la tua risposta del 9 giugno.
Com’è noto, a quella tua lettera è seguito l’incontro di Acquavona, nel mese di luglio. Una bella e straordinaria esperienza di confronto e di scambio tra persone e percorsi provenienti da storie diverse, accomunate però da un fattore comune: il desiderio di ascoltare gli altri con umiltà e con attenzione, la disponibilità a comunicare in modo franco e aperto e, di conseguenza, a lasciarsi “contaminare” da tutto ciò che proviene dall’Altro, che sta vicino a noi e che, come noi, ha bisogno di dialogo, di comunione, di solidarietà, in una parola di amore.
Poi è venuta l’estate, la pausa delle ferie, che ho trascorso nel “mio ritiro” di Lipari in compagnia del tuo libro “La ricerca di Dio e la politica”, ideale prosecuzione del dialogo e delle comunicazioni precedentemente avviati.
Come ti ho accenno per telefono, l’insieme dei sentimenti, scaturiti nel mio essere da queste vicende, costituisce, allo stato attuale, una strana galassia, per molti aspetti nuova e disordinata, fatta di pulsioni, pensieri, scoperte, maturazioni, riflessioni, che, insieme allo stupore ed alle ovvie perplessità, è accompagna da una sensazione di difficoltà nel trovare la sintesi necessaria per comunicarla.
E’ per tale ragione che ho indugiato un po’ di tempo prima di riprendere a scrivere. E’ in queste difficoltà che mi sforzerò di far decantare e di delineare gli aspetti salienti di questa esperienza.

Non ho dubbi ormai sul fatto che la tua lettera del 9 giugno, con tutto ciò che di profondo è contenuto in essa, costituisce per me, nel particolare momento “storico” della mia esistenza e di cui dirò più ampiamente nel seguito, una pietra miliare, una fase importante, un momento di seria riflessione, che porta ad una svolta nel modo di pensare e di agire, in quanto pone in discussione - finalmente - strumenti e categorie di pensiero, sicuramente logorati e superati dai “tempi della mia vita”. Strumenti e categorie che soltanto qualche anno addietro mi sarebbe sembrato semplicemente assurdo mettere in dubbio.

Giusto per cominciare posso dirti di accettare pienamente la tua proposta di “cercare insieme il senso della nostra vita, come l’intervento più urgente nella politica”.
Sono sempre più convinto che il bisogno più serio ed urgente che ci sia oggi, nella fase di generale smarrimento che stiamo attraversando, sia proprio la ricerca “di senso” da dare alla nostra vita.

L’affermazione vale in particolare per la mia personale esperienza esistenziale.

Il tema tocca qualcosa che è molto avvertito in questo delicato momento di grandi trasformazioni. Non è casuale che proprio negli stessi giorni in cui ci siamo incontrati ad Acquavona per discutere di questi problemi, sul giornale Avvenire si svolgeva un interessantissimo dibattito sullo stesso tema, con la pubblicazione di ben cinque riflessioni:

  • Dov’è finita la santità laica, di Massimo Marcocchi (10-7-2001);

  • Etica e solidarietà riguardano anche gli atei, di Sergio Givone (11-7-2001);

  • Più fede, meno lumi, di Salvatore Natoli (12-7-2001);

  • Cari laici, non mettiamo Dio fra parentesi, di Goffredo Fofi (13-7-2001);

  • Quell’altro che ci avvicina, di Enzo Bianchi (15-7-2001).

Ci sono due concetti, se così posso chiamarli, della tua comunicazione che per me costituiscono una nuova ed interessante scoperta e, nello stesso tempo, una positiva occasione di crisi.
Il primo di essi è la realtà del “cuore”, “intendendo con questo termine – come dici tu stesso - tutto il nostro essere, compresa la mente”. Ora mi accorgo che ciò rappresenta per me una novità assoluta, non nel senso che io riconosca di essere stato sinora “senza cuore” – tutt’altro - ma per il fatto che nel mio abituale modo di pensare e di agire, suffragato da una ferrea logica razionalista - la sola che sino a ieri riusciva a darmi le poche valide ed accettabili spiegazioni sulla vita, sulla storia, su tutta la vicenda umana e sulla restante parte animata e inanimata del mondo che ci circonda - non c’era spazio per questa categoria.
Essa era collocata nell’alveo secondario delle cose sensibili e transeunti, nella parte che costituisce l’aspetto debole dell’uomo e perciò, quasi come elemento negativo, da trascurare e da superare !
Ora mi accorgo, e ciò mi capita sempre più spesso, specialmente, riflettendo su tanti aspetti della vita quotidiana, sulle esperienze, sulle piccole storie di ogni giorno e sulla grande storia degli uomini, che “la categoria del cuore” ha un peso non secondario nella formazione delle scelte e negli atti che ne derivano. Non solo, ma mi rendo conto che tanti di quei fatti e di quelle vicende, che stranamente non sono mai riuscito a spiegarmi con la chiara logica razionale, trovano una semplice ed evidente spiegazione se esaminati dal punto di vista di questa diversa e per me “nuova” categoria.
Quante volte non abbiamo sentito bussare nel nostro essere “il cuore”, inteso come sintesi “superiore” – sovrarazionale direi - delle nostre esperienze e delle nostre elaborazioni, come momento apicale delle nostre intuizioni, - e, per dirlo con un’immagine mutuata dalla fisica, - come “risultante” di un eterogeneo insieme di componenti, ciascuna espressione parziale di un determinato aspetto della nostra vita, come risultato finale di un processo che non è soltanto ragione e deduzione logica!
D’altra parte la lunga storia della vicenda umana, nelle piccole e nelle grandi cose, non è forse piena della presenza decisiva dei sentimenti, degli irrazionalismi, del peso che hanno avuto tutti quegli “elementi” radicati nel profondo della vita degli uomini e che non sono riconducibili alla pura e fredda ragione?
Se mai ve ne fosse bisogno queste mie semplici considerazioni trovano eloquente conferma nei fatti terribili “della cronaca” di questi giorni – se così si può chiamare - che polarizzano l’attenzione sgomenta dell’intera umanità.

Il secondo dei due “concetti” di cui parlavo è quello del “mistero”, del “mistero dell’uomo”, che trovo strettamente intrecciato al primo, quello del “cuore”.
Mi accorgo, riflettendo sui molti aspetti della mia esperienza di conoscenza e di relazione con gli altri uomini, che tanti, moltissimi dei ragionamenti che spesso “non tornano” nella ricerca delle reali motivazioni che stanno all’origine di determinati comportamenti umani, sono da ricercarsi proprio in questa parte “arcana”, profonda, irraggiungibile dell’essere umano, che è il mistero che si trova all’interno di ciascuno di noi.
Continuando a riflettere su questo aspetto vedo che la cosa più strana – e forse più bella – è costituita proprio dalla originalità di questo mistero, che assume connotazioni diverse e particolari, tanto quanto diverse ed irripetibili sono le realtà soggettive di ciascun essere umano, visto sia nella dimensione spaziale, quindi nella immensa distribuzione sul pianeta - o nel cosmo ? – sia nella dimensione storico-temporale, nella infinita evoluzione della specie, dalle origini sino ai giorni nostri.
A questo concetto del mistero, così inteso, io collego un’altra preziosa deduzione, per me mutuata dalle nostre comuni radici cristiane, che è quella della originalità di ogni singola esperienza umana. L’originalità, irripetibile, della storia di ogni singolo uomo, che porta alla unicità, al valore, alla “sacralità” della singola persona, semplicemente vista come tale.
Guardando allora a ritroso, dall’alto dei miei cinquant’anni, gli ultimi trenta, trascorsi nelle “certezze” e nelle vecchie conquiste della mia concezione materialistica della storia, che ben si coniugava con la mia formazione scientifica e tecnica, mi rendo conto che tante delle vecchie certezze sono irrimediabilmente entrate in crisi.
Ma ciò non mi turba, perché il cambiamento e l’evoluzione continua sono caratteristiche intrinseche alla natura dell’uomo e sono da considerare sempre come segni di vitalità e di apertura.
Mi rendo conto però, approfondendo e scavando in questo lungo processo di evoluzione e di crisi, che tutto ciò non passa sulla nostra pelle in modo indolore, ma lascia tracce evidenti e sensibili, quando spesso non scava solchi profondi pieni di lacerazioni, di sofferenze e di dolore, che si riflettono nella nostra vita e che cambiano, spesso anche radicalmente, l’abituale quiete e la routine della nostra quotidianità.
Ecco perché riprendendo il tuo invito, seguìto alla comunicazione della tua esperienza, di comunicarti la mia, cercherò di farlo, animato da due diversi sentimenti.
Il primo è quello che trova contemporaneamente bello e “strano” il parlare delle proprie cose, delle proprie esperienze, dopo lunghi anni di silenzio sulle “cose” interiori, presi soltanto dall’interesse e dall’attenzione verso i problemi “oggettivi” della vita.

Bello, perché risponde ad un’esigenza interiore, intima direi, - connaturata alla profonda natura dell’uomo - di comunicare e di essere ascoltati, in un’esperienza sicuramente proiettata verso la crescita e la maturazione.

Strano, perché l’attuale “tenore” della nostra società e forse il tipo di cultura del mondo o dei mondi in cui personalmente sinora ho vissuto, non concedono né spazi né tempi per le comunicazioni dei singoli, tutti avvolti e distratti come siamo entro i binari “obbligati” del lavoro, della carriera, del successo, del produrre, del guadagnare, degli affari, della “politica”, in un orizzonte che ha come unico motore l’egoismo dei singoli e dei gruppi e dimentica i bisogni e l’essenza vera dell’Altro che sta accanto a noi, che poi sono i nostri stessi bisogni, le nostre stesse aspirazioni, l’essenza stessa della nostra umana individualità.

Strano perché da tanti anni ormai mi sento disabituato a questa forma di dialogo, che pure avverto come un’esigenza vitale del mio, del nostro essere uomini e che spesso, forse in una strana, distorta ed irreale idea perfezionista dell’uomo, ho considerato - e forse inconsciamente considero ancora - come una pecca, una macchia che inficia l’invulnerabilità di un uomo virtuale, astratto.

E’ alla luce di queste premesse che avverto l’altro sentimento di comunicarti la mia esperienza, anche come bisogno di verifica e di umano confronto, in un rapporto di scambio fraterno, nell’ambito di un mondo che, come ti dicevo nella mia precedente lettera, scopro sempre più sordo, arido, chiuso verso i bisogni profondi dell’uomo di “vivere”, di comunicare e di crescere “comunitariamente”.

Ogni tanto la vita ci chiama a rivedere retrospettivamente, con spirito critico e con disincanto, tutto ciò che abbiamo costruito o “prodotto” negli anni precedenti. E’ come se uno strano ed invisibile “Consiglio di Amministrazione” ci chiamasse a rendere conto del nostro operato.
E’ tempo di bilanci!!
Può essere un fatto salutare, da intendere come una revisione critica di quanto sinora abbiamo fatto, al fine di migliorare contemporaneamente noi stessi e ciò che noi “produciamo”.
Se ancora siamo in tempo, forse si prospetta l’occasione di lavorare in un’ottica non più e soltanto rivolta al soddisfacimento dei bisogni primari (primo fra tutti il lavoro, necessario per il sostentamento nostro e di chi da noi dipende, con i suoi inevitabili risvolti di gratificazione morale e sociale) ma anche per costruire qualcosa di più duraturo, nell’ambito dei rapporti interpersonali e sociali.

Lavorare – finalmente - per “produrre” il Bene, nel campo illimitato di tutto ciò che è riconducibile ai valori immortali dello Spirito.

So di essere vicino a quel valore prezioso che i cristiani chiamano la Carità, ma alla luce di quanto sinora ho potuto sperimentare, sono convinto che questo è il terreno sul quale l’uomo può costruire qualcosa di veramente utile e duraturo, per sé e per gli altri.
Riecheggiano nei miei ricordi lontane reminiscenze “di quando ero cristiano”, e mi sovviene una lettera di San Paolo, che mai come adesso sento di condividere profondamente, nella quale in sostanza diceva, che “…. posso avere tutti i beni e le virtù di questo mondo ma se non ho la carità io sono un cembalo ……. sonante”…… ….(o stonato ??!! …non ricordo bene).
Mi rendo conto, per questa ragione, che soltanto nel variegato e controverso mondo della Chiesa è possibile trovare ancora tante persone, tanti uomini che vivono e lavorano quotidianamente nello spirito della Carità e della gratuità. Che accanto a coloro che si muovono nell’ottica del Potere e della logica “mondana vi sono gli “apostoli”, i semplici, i quali vivono e lavorano in silenzio, ispirati soltanto dalla Carità.
Su questo terreno credo oggi si possano ritrovare assieme tutti quegli uomini di buona volontà che avvertono ancora vivo il bisogno di spendere utilmente i “propri talenti” per il Bene dell’Umanità.
Qualsiasi sia l’origine, la formazione culturale e politica, la provenienza.

Inevitabilmente, in tempi di bilanci, sono portato a guardare a ritroso gli ultimi trent’anni della mia esistenza.

  • In essa vi scorgo, in una prima fase, il rigetto di un Cristianesimo male imposto e subìto, vissuto come rigida regola proibizionista, come complesso dottrinale ispirato da uno strano e sadico sentimento, finalizzato alla privazione e alla mortificazione dell’essere umano, anziché alla sua promozione e valorizzazione; è il Cristianesimo appreso sin dall’infanzia, nei primi anni di catechismo.

  • Ritrovo il distacco da una Chiesa, eurocentrica e colonialista, illiberale, maldestramente schierata contro il moderno spirito critico, che appariva lontana dal messaggio evangelico e dalla Carità, preoccupata più di mantenere una sua posizione di potere nel mondo e sugli uomini che di annunciarsi come strumento di liberazione degli uomini stessi, collaterale e sempre compromessa o schiacciata sulle posizioni del partito di governo.

  • Contemporaneamente e negli anni che seguivano, nel periodo del sessantotto, durante il quale cadevano l’uno dopo l’altro molti dei miti e degli stereotipi del passato, maturava la lenta e progressiva adesione al razionalismo scientifico ed alla filosofia della prassi o materialismo storico, filtrata attraverso l’originale esperienza gramsciana, con la naturale conseguente adesione ad un “credo politico” nel quale s’intravedeva la concreta possibilità di costruire, finalmente, su “basi scientifiche e materiali”, quel mondo dei liberi e degli eguali, quel paradiso terrestre sul quale aveva fallito storicamente la Chiesa – nei suoi duemila anni di ininterrotta presenza sulla scena mondiale – e nel quale sarebbe stato possibile eliminare le ingiustizie, i soprusi, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Questo era stato per noi, per tanti come me, l’adesione al gran partito dei proletari: la concreta possibilità di impegnare la propria vita - in modo totalmente gratuito - per un fine nobile di crescita e di emancipazione degli uomini, specie dei piccoli, dei poveri, dei deboli.
Un’utopia? Un’illusione? Una chimera ?
Forse!
Sogni e illusioni tutti miseramente naufragati sotto le macerie del muro di Berlino e sotto il fallimento di organismi politici residuali, i quali anziché cogliere l’occasione per rinnovarsi e tessere la tela di un nuovo e robusto solidarismo, fondato su forti idealità, sul coraggio e sull’esigenza di costruire una “profonda riforma morale e intellettuale del Paese” oltreché sull’etica della responsabilità personale e della sussidiarietà, sono diventati scatole vuote in mano a ristretti gruppi di oligarchi e di addetti ai lavori, i quali, una volta venuti meno i vecchi vincoli di tipo gerarchico e ideologico, le utilizzano soltanto come strumento per accrescere il proprio potere personale o di clan.
Avverto ancora una volta, con sgomento, la riscoperta della parte meno nobile degli uomini e del loro connaturato e spregiudicato cinismo, anche in quella che, in un’ingenua e forse infantile ottica, doveva essere – per me - “l’oasi dei puri e dei diversi”, tutti votati alla gran causa del bene e dell’azione volontaria, libera e disinteressata, finalizzata a costruire un “Mondo Migliore”.
Riscopro ancora una volta il disinganno, la necessità di una profonda revisione, l’esigenza di dover ricominciare un’altra volta daccapo.
Scopro ancora l’amarezza …… di ritrovarmi …..tra i “perdenti”!
Quante volte ahimè!

  • Emerge, nella fase più recente, la lenta presa di coscienza di un mondo inesorabilmente entrato in crisi e, nella fattispecie del mio personale piccolo mondo, scopro la seria messa in discussione di tre pilastri portanti (mi si perdoni l’ovvio e per me scontato linguaggio di tipo meccanico) sui quali si reggeva il complesso edificio, faticosamente costruito in lunghi anni d’abnegazione e di sacrificio. In ordine: la politica, la famiglia, il lavoro.

Esaminiamoli separatamente.

- Il primo: la politica, comprendendo in essa tutta la fase dell’89 e quella successiva, di cui ho parlato sopra, il venire meno dei partiti e delle occasioni di impegno e di intervento nella società, la perdita di un prezioso momento di impegno e di proiezione nel sociale. Ne consegue, inevitabilmente, il progressivo affievolirsi, sino al definitivo, naturale esaurimento, di un determinato modo di essere e interpretare un ruolo sociale e politico.

- Il secondo: la famiglia, che pur nelle inevitabili e tormentate vicende da sempre conosciute, ma in qualche modo ogni volta superate, ha incontrato nell’ultimo quinquennio serie difficoltà.

- Il terzo: il lavoro, elemento di importanza cardinale per ognuno di noi, che rappresenta da una parte un importante momento di estrinsecazione, di naturale espressione e realizzazione della personalità dell’individuo e dall’altra insostituibile fattore di stabilità, di tranquillità economica per la sussistenza propria e della famiglia che direttamente ne dipende.

Continuando a comunicarti la mia esperienza, mi accorgo che sto sperimentando negli ultimi tempi,
l’ovvia risultante di tutto il processo di contraddizioni e di “delusioni” via via incontrate, con le
inevitabile umane preoccupazioni, le incertezze, le ansie, gli interrogativi sul futuro, sulla possibilità
concreta del crollo di un mondo nel quale avevo investito tutta la mia vita. Ne discende pertanto il
venire meno della fiducia in se stessi, in un mondo ed in sistema di relazioni, per molti aspetti
banale ma che - probabilmente - era considerato dal “mio essere” come un sistema di certezze e di
sicurezze, acquisite definitivamente.
Scopro la CRISI, in una fase della vita che ritenevo ormai – erroneamente – come tranquilla, “invulnerabile” e consolidata in un determinato sistema di rapporti e di valori. Si ritrovano le incertezze, le debolezze - e quante ! – le tensioni, le lacerazioni, le inquietudini profonde dello spirito, le ansie e le paure dell’incognito, del domani, di qualcosa che non è facilmente definibile, che è inafferrabile, misterioso. E tutto ciò avviene non in modo indolore ma con sofferenze, “con somatizzazioni”. Trovo che in questa terribile fase mi riscopro, ci riscopriamo, quasi nuovamente bambini, bisognosi di nuove certezze, di nuovi valori, di nuove conquiste?
Avverto di ritrovarmi bisognoso di un nuovo inizio, se non è troppo tardi per ricominciare!
E’ in questa strana, singolare, inaspettata fase della vita che attualmente vivo, con molta trepidazione, il momento presente. Momento che io vedo come una delicata fase di transizione dall’esito incerto, simile all’oscura “caverna” in cui gli strani intrecci del destino spesso ci obbligano a transitare, ma al fondo della quale spero di ritrovare una nuova luce di tranquillità e di serenità.
E’ in questa fase, nella quale io ritrovo visibili i segni della mia debolezza, dei miei limiti e delle mie angustie, che s’inserisce la profonda riflessione sulle tue comunicazioni, sull’essenza profonda del loro contenuto.
Oggi, per la prima volta, dopo lunghi anni di sufficiente e “altezzoso” senso di padronanza, di razionale spiegazione di tutto ciò che riguarda la complessa vicenda umana, dopo lo stanco pragmatico ripetersi di un logorato sistema di vita e di relazioni, cui però non è mancata mai una convinta ispirazione di carattere umanitario, scopro che si rende necessario un radicale ripensamento di quanto fatto sinora.
E’ come se, dopo tanti sacrifici impiegati per costruire un determinato obiettivo, mi rendessi conto di un sostanziale fallimento di tutte le energie profuse e dell’incontestabile necessità di dover ripartire, circondato soltanto dalle macerie residuali che ritrovo attorno a me.
E’ una realtà amara e desolante ma è la realtà!
E’ la realtà dei “perdenti” ai quali non resta altra certezza se non il rammarico di ciò che avremmo potuto fare meglio e la desolante sensazione di irrecuperabili momenti e occasioni perdute.
In questa tormentata fase trovo che tutte le precedenti conquiste, anche quelle più elementari, sono diventate incertezze, dubbi, lacerazioni e anch’io, con te “mi domando: chi sono, perché sono nato, che ci sto a fare, perché soffro, perché amo, perché i miei giorni se ne vanno, perché muoio. Guardando dentro di me mi chiedo perché sono io e non sono un altro, perché ci sono in me tante contraddizioni, perché sono buono e perché sono cattivo, perché vorrei essere solo e poi soffro la solitudine, ma sono veramente libero, quando e come?” (dal tuo scritto Lo scasso, ritorno alle radici, nel libro La ricerca di Dio e la politica, pag. 121).
Ancora mi chiedo: perché tutto questo insieme di domande e di dubbi attanaglia in modo così coinvolgente la mia vita, mentre la maggior parte degli uomini, di coloro che stanno vicino a me, a noi, dei nostri amici – buon per loro, perché non ne sono affatto “invidioso” – vivono placidamente lo scorrere del tempo e della vita senza porsi tanti pesanti interrogativi? Oppure – mi domando - anche loro, o buona parte di loro, vivono lo stesso genere di problemi e soffrono in silenzio, senza riuscire a trovare la via di comunicare con i propri simili e individuare, assieme, uno sbocco positivo?
Al fondo di questa singolare fase del mio percorso esistenziale, che soltanto alcuni anni addietro non avrei nemmeno potuto pensare, trovo la coesistenza di due diversi e opposti sentimenti o tendenze.
Da una parte la sofferenza, la propensione alla rassegnazione, alla disperazione, la silenziosa coabitazione con la cognizione del dolore.
Dall’altra parte è come se avvertissi con l’intuito, con una particolare e singolare propensione del mio essere, - per dirla con te, - con quella bella ed affascinante parte di noi che è il “cuore”, che al di là di ogni sofferenza resta la necessità di una speranza che dia “senso” alla nostra vita, che vada oltre l’apparente e cruda assurdità della realtà.
In questo mi ritrovo d’accordo con te. Sull’assurdità della vita che da una parte presenta aspetti belli e amabili e dall’altra ci riserva “guasti” e sofferenze.
“Tutto mi appare bello e mi si rivela sempre più amabile”!
“Tutto si guasta”!
……Non vado oltre su questo terreno, perché servono ….meditazione, tempo e …forse, il silenzio.
Francamente, mi sembra troppo bello il semplice ed affascinante discorso che fai nel collegare l’assurdità di alcuni aspetti della realtà, col mistero che è in noi, col Mistero Pasquale e con la Buona Notizia.
Io non ti nascondo che vorrei tanto riuscire a capire e ad accettare il Mistero, ad essere coinvolto nella totalità della mia esistenza dalla vissuta santità quotidiana di tanti semplici e umili cristiani, che come te, testimoniano l’attualità, l’originalità e la necessità della lezione evangelica.
Sono convinto anch’io della profonda attualità del messaggio che da esso scaturisce e dell’imprenscindibile verità che “la vera alternativa è la conversione della vita” senza la quale non esiste alcuna concreta possibilità di “rifondare” la “politica”, intesa come vita comune degli uomini nella polis.
In mezzo a tante nuove “scoperte” e revisioni mi tormenta il dubbio che questa mia propensione all’apertura verso il Mistero scaturisca da un particolare status di debolezza che porta a cercare vie di fuga e a rifugiarsi nel mondo delle “illusioni”, tornando ad una mia vecchia convinzione che la religione sia il risultato di una complessa e necessaria “opera di creazione”, proveniente dal bisogno dell’uomo.
Avverto vivissima la contraddizione tra fede e ragione ma col cuore “sento” anch’io che “la purezza si trova salendo verso Gerusalemme e non nello sforzo ascetico di vincere se stessi, nell’abbandono ….in Dio e non nella tensione di tutte le proprie forze per diventare santi” (2001, la fede: lettera a un giovane amico).

Credo sia venuto il momento di mettere una pausa a questa mia lunga riflessione e comunicazione, riservandomi di riprendere successivamente, ringraziandoti intanto per avermi ascoltato, ringraziandoti per i momenti di speranza e di serenità che mi hai dato con la tua precedente lettera e con la bella iniziativa di Acquavona, ringraziandoti per lo straordinario contributo di riflessione, offertomi dal tuo stupendo libro “La ricerca di Dio e la politica”.
Come ti ho comunicato telefonicamente vedo questo attuale canale di comunicazione come un nuovo terreno su cui far crescere l’amicizia e come uno spiraglio di speranza. Non so se intenderlo come momento di “confessione”, cui non sono più abituato o altro. Sicuramente è il bisogno di confidarsi e di affidarsi nelle mani di un Amico, di una Guida Spirituale, che dia conforto e speranza alle mie afflizioni e tribolazioni quotidiane, in un mondo dal quale l’amicizia sembra irrimediabilmente scomparsa e dove ognuno sembra solo indaffarato e preoccupato di curare le proprie cose ed i propri interessi, sordo e chiuso all’altro, ai bisogni di dialogo e di umanità che vengono dal proprio vicino.
Questo momento mi ricorda gli anni di formazione giovanile che assieme a tanti amici abbiamo vissuto, a Lamezia, con l’amato don Saverio Gatti e gli anni dell’Università, a Roma, in cui, ci sei stato tanto vicino, aiutandoci nella crescita e nelle difficoltà. Anni belli e indimenticabili, basilari nella nostra formazione umana.
Scusami se sono stato troppo lungo e scusami gli inevitabili errori, dovuti anche alle sviste derivanti da questo nuovo strano modo di scrivere!

Giusto come ti dicevo anche per telefono vorrei potere approfondire tutte la tematiche riguardanti:
- Laicità come profezia (ho già il tuo libro scritto per ricordare Mario Castelli e Saverio Corradino);
- La cattedra dei piccoli e dei poveri;
- Aprirsi al mistero.
Ti sarò grato se mi indicherai ulteriori testi e occasioni di approfondimento.
Ho ricevuto in questi giorni la tua “lettera al cardinale Tettamanzi” e le riflessioni sull’Apocalisse, sulle quali mi riprometto di dare un mio contributo.
Fraternamente ti saluto e ti abbraccio

Franco Augruso