Incontri di discernimento e solidarietà
 
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Memoria condivisa e purificazione della memoria


Sergio Tanzarella




Introduzione


La proposta giubilare della “purificazione della memoria” che Giovanni Paolo II, in questi ultimi anni, ha ripetutamente avanzato con gesti coraggiosi di riconoscimento delle colpe della cristianità, è una proposta particolarmente gravida di conseguenze. Essa, pur coinvolgendo inizialmente soltanto la Chiesa cattolica, è un appello alle altre Chiese cristiane e alle altre religioni. E ha in sé una forza tale da chiamare in causa anche le comunità civili direttamente coinvolte nella possibilità di riconoscere nella propria storia


«un pesante fardello di violenze e di conflitti, di cui non è facile sbarazzarsi. Soprusi, oppressioni, guerre hanno fatto soffrire innumerevoli esseri umani e, anche se le cause di quei fenomeni dolorosi si perdono in tempi remoti, i loro effetti rimangono vivi e laceranti, alimentando paure, sospetti, odi e fratture tra famiglie, gruppi etnici, intere popolazioni. Sono dati di fatto che mettono a dura prova la buona volontà di chi vorrebbe sottrarsi al loro condizionamento. Eppure resta vero che non si può rimanere prigionieri del passato: occorre, per i singoli e per i popoli, una sorta di “purificazione della memoria” affinché i mali di ieri non tornino a prodursi ancora. Non si tratta di dimenticare quanto è avvenuto, ma rileggerlo con sentimenti nuovi, imparando proprio dalle esperienze sofferte che solo l’amore costruisce, mentre l’odio produce devastazione e rovina»1.


La “purificazione della memoria” intende allora ricomporre le fratture del passato e le divisioni che permangono nel presente sia tra popoli storicamente nemici sia tra gruppi che compongono la stessa unità nazionale. Infatti, la purificazione, proprio avendo come obiettivo l’edificazione della pace, esige che vi sia un recupero del passato perché in esso possano essere verificate debolezze, contraddizioni, errori, violenze, sopraffazioni2. La purificazione, per poter operare, ha quindi l’assoluta necessità che si recuperi la memoria e che essa venga condivisa all’interno di ogni comunità particolare. Ma appunto questa memoria condivisa sembra scarseggiare nella comunità italiana, la cui condizione potrebbe essere paragonata, in certa misura, a quella descritta nel romanzo di George Orwell, 1984, purtroppo noto più per l’invasiva presenza del Grande Fratello che per il quadro complessivo disegnato dall’autore sul trattamento riservato, in quella società futuribile, al passato. Winston Smith, protagonista della storia, osserva come il passato, anche quello prossimo dell’ieri, fosse stato virtualmente abolito.


«Noi non conosciamo, letteralmente, nulla della Rivoluzione e degli anni precedenti alla Rivoluzione. Ogni documento è stato distrutto o falsificato, ogni libro è stato riscritto, ogni quadro è stato ridipinto, ogni statua, ogni strada, ogni edificio hanno avuto mutato il nome, ogni data è stata alterata. E questo processo va avanti ogni giorno, minuto per minuto. La Storia si è fermata. Non esiste nulla se non un presente senza fine»3.


In questa spaventosa strategia che pretendeva di controllare il passato attraverso il suo continuo aggiornamento e mutamento fino al punto di costringere a dimenticare di averlo modificato4 e a cancellare i nomi delle persone uccise (vaporizzate), così che non fossero mai esistite5, il potere aveva ben compreso quanto fosse necessaria l’eliminazione di ogni oggetto che potesse sorreggere la memoria6, quasi come in un’altra opera di fantascienza, Fahrenheit 451, i pompieri apparivano impegnati a bruciare qualsiasi libro o frammento di carta stampata7.

Il possesso del passato veniva, dunque, concepito nell’universo di Orwell come elemento decisivo per il mantenimento del potere. Proprio per questo lo slogan del Partito che governava quel Paese affermava


«Chi controlla il passato, controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato»8.


A questo principio si sono ispirati i regimi totalitari del XX secolo, ma più in generale tutti i poteri sono ben consapevoli di quanto la storia non sia innocua e come il suo controllo e condizionamento risulti indispensabile per prevenire qualsiasi forma di autonomia critica del pensiero. Schiere di storici hanno offerto le proprie competenze ponendole a servizio della propaganda politica e dell’apologetica governativa. La “purificazione della memoria” sconta quindi questa diffusa e feroce opposizione al ricordo o una vera manomissione del passato. Appare evidente, quindi, che si dovrà prima recuperare la memoria schiacciata da questa volontaria e scientifica azione dell’oblio e soltanto dopo essa potrà essere efficacemente purificata.



1. Ma la guerra è davvero finita?


C’è una canzone napoletana che molti probabilmente conosceranno, una canzone famosa che forse avranno innocentemente cantato a squarciagola negli incontri goliardici dei vecchi compagni di scuola o nei cori improvvisati durante le gite in torpedone. Una canzone dal titolo patriottico, Simmo ’e Napule, paisà, e dalla facile musicalità. Forse però pochi sanno che essa fu scritta nell’immediato dopoguerra e che la strofa più nota: «Chi ha avuto, avuto, avuto…, chi ha dato, ha dato, ha dato…, Scurdammoce ’o passato»9 racchiude in sé il programma di quelle generazioni italiane sopravvissute agli orrori della II guerra mondiale e che intravedevano nella possibilità dell’oblio, nel cancellare il passato, l’unica terapia – illusoria medicina – per progettare il futuro della ricostruzione del Paese. Si trattava però di una semplice ricostruzione economica, poiché quella civile non avrebbe potuto prescindere dal passato prossimo di una guerra che aveva annientato milioni di esseri umani grazie all’azione diretta di alcuni e alla convinta complicità di molti italiani. La strategia di dimenticare collettivamente il passato, e quindi la guerra, traspare anche da un opera teatrale di grande successo scritta da Eduardo De Filippo nello stesso tornante di anni. Infatti, in Napoli milionaria10 il protagonista Gennaro Jovine, tranviere disoccupato, ritorna in famiglia dopo una lunga prigionia in un campo di concentramento nazista e un interminabile viaggio attraverso l’Europa sconvolta e distrutta dalla guerra. È uno scampato che vorrebbe raccontare la propria storia, ma a cui nessuno, nell’euforia del dopoguerra, vuole più dare ascolto. L’universo del vicolo napoletano, rappresentativo come in uno specchio di quella parte della società italiana che più duramente aveva subito l’esperienza bellica, appare totalmente intento, dopo i bombardamenti e gli stenti della guerra, a progettare un futuro nel quale la perentoria e comune affermazione “la guerra è finita” sembra in realtà voler significare l’indisponibilità al ricordo fino al punto estremo di negare perfino che ci sia mai stata una guerra - «Oramai ccà stammo cuiete… È fernuto tutto cosa…»11.

Se il tempo della deportazione è percepito da Gennaro Jovine, nel primo abbraccio alla moglie, come «nu sèculo», è proprio la percezione di questo tempo, nel quale egli è stato testimone e protagonista di fatti inauditi - «Che sacrileggio, Ama’… Paiese distrutte, creature sperze, fucilazione… E quanta muorte…, ’E lloro ’e nuoste… E quante n’aggio viste…»12 - a tracciare un solco incolmabile tra la propria esperienza di scampato e quella della famiglia e degli amici del vicolo, già totalmente proiettati nel nuovo clima della spensieratezza postbellica. E a questi che don Gennaro ripete ossessivamente, inascoltato, l’accorato appello alla memoria: «’A guerra nun è fernuta… E nun è fernuto niente!»13.

Proprio quell’appello appare oggi come il disatteso richiamo ad un recupero e ad una ricomposizione della memoria cui la società italiana, dal ’45 in poi, non seppe e non volle rispondere14. L’affermarsi, infatti, del principio della smemoratezza ha prodotto il risultato d’essere, quello italiano, un popolo senza memoria. Ma anche quando la memoria dell’ultimo secolo appare sopravvissuta all’oblio, essa è completamente distorta sia dal mito del buon italiano colonizzatore bonaccione e fraterno, sia dalla retorica patriottico-bellicista del soldato italiano estraneo alla violenza e capace degli atti di più grande eroismo, o bendisposto a fraternizzare con le popolazioni nemiche come il film Mediterraneo di Salvatores ha inteso far credere. Nonostante l’evidente inconsistenza storica di queste immagini, esse sono penetrate nelle certezze indiscutibili degli italiani, complice in questo non soltanto la propaganda del ventennio, ma anche l’età repubblicana che per molti decenni promosse una semplice continuità con la storiografia fascista in ordine, per esempio, alla I guerra mondiale e alla colonizzazione italiana. Di quella guerra si è continuato a parlare ai giovani nei termini del trionfalismo degli eserciti vittoriosi definendola ancora come la IV guerra d’Indipendenza, ma tacendo cosa era realmente stata per i 600.000 soldati italiani morti, per le famiglie dei combattenti, per gli orrori della vita di trincea, per l’impiego di armi chimiche - asfissianti, caustiche, vescicanti - utilizzate in modo indiscriminato e con l’obiettivo dell’annientamento totale del nemico tanto da provocare100.000 morti e quasi un milione e mezzo di intossicati gravi15. Una guerra voluta in Italia da pochi e imposta a un intera nazione16, la cui reale dimensione, fuori dai beceri patriottismi o dalle pseudo scientifiche teorie della psicologia del soldato in guerra sostenute da padre Gemelli17, ci è fornita da raccolte di fonti come quella dedicata alle sentenze dei tribunali militari contro i presunti disfattisti e codardi, e dalla incessante attività dei plotoni d’esecuzione18. Chi volesse realmente comprendere le conseguenze di quella guerra legga come si organizzava il tempo libero dei soldati con l’istituzione di appositi bordelli militari19 e provi se riesce più a rispolverare la retorica dannunziana o quella dei discorsi che i generali tengono ancora oggi in occasione dei giuramenti delle reclute. Una guerra dalla quale trassero enormi vantaggi economici alcuni gruppi industriali, come lasciò appena intravedere il lavoro, solo parzialmente realizzato, della “Commissione parlamentare d’inchiesta sulle spese di guerra”20.

Della colonizzazione è rimasto nella memoria nazionale un ricordo talmente pallido e inverosimile che gli studi di Angelo Del Boca hanno continuato ad essere snobbati, tanto che i famigerati bombardamenti all’iprite, autorizzati da Mussolini e compiuti dall’aviazione italiana sugli inermi abitanti dell’Etiopia21, sono stati negati per molto tempo anche di fronte alle prove più incontestabili22. Ma la totale rimozione delle responsabilità dell’Italia colonizzatrice è tanto forte che, ancora negli anni ’80, a un film come il Il Leone del deserto, impegnato a raccontare la storia del patriota libico Omar al Mukhtàr condannato a morte e impiccato nel 1931 all’età di 74 anni dall’esercito fascista, veniva proibita la proiezione nelle sale cinematografiche italiane23. L’esercito italiano in Africa, in tutte le guerre coloniali, tanto si macchiò di nefandezze e inaudite violenze quanto non fu chiamato mai a risponderne, sebbene si sia trattato palesemente di crimini di guerra.

Ma questa volontà di affermare una continuità della storia nazionale non va cercata esclusivamente in una parte della storiografia accademica o nella memorialistica militare, poiché essa ha avuto un decisivo riverbero nel processo formativo diffuso che fu assolto dalla scuola. Istituzione dove la memoria nazionale viene codificata e dove la storia insegnata diventa la storia e la memoria condivisa di un popolo.

Se nell’emergenza dell’immediato dopoguerra appare comprensibile aver dovuto strappare dai manuali scolastici gli ultimi capitoli dedicati dal regime fascista a se stesso, non è assolutamente giustificabile che ancora sul finire degli anni ’50 si discutesse addirittura in Parlamento se e come inserire gli avvenimenti compresi tra la fine della I guerra mondiale e il presente di allora. Ma anche quando l’arco cronologico fu finalmente allargato, esso non mutò nei fatti il reale programma proposto agli studenti, anche a causa dell’inverosimile spettro della possibile politicizzazione dell’insegnamento e in ossequioso rispetto dell’indimostrabile tesi “a scuola non si fa politica”. Così, le prime generazioni degli anni repubblicani vennero di fatto private delle più elementari conoscenze del proprio passato prossimo. Condannate, nonostante la scolarizzazione di massa, ad apprendere una versione retorica e patriottarda della I Guerra Mondiale e ad ignorare cosa fossero stati realmente il fascismo e il nazismo con le loro persecuzioni e i loro eccidi e cosa fosse realmente avvenuto nei primi anni della Repubblica. Come in questa desolante ignoranza, farcita dai più vieti luoghi comuni e abbondantemente irrorata dalle menzogne della guerra fredda, fosse impossibile che si affermasse una coscienza civile degli italiani è ben evidente. Poiché lo sviluppo della coscienza civile ha sempre bisogno del costante recupero della memoria e dell’affermazione della verità storica. Questa coscienza civile non si matura certo attraverso il recupero della festa della Repubblica celebrata con una sfilata militare, riducendola impropriamente ad una festa delle Forze Armate, né tanto meno suggerendo ad ogni famiglia di conservare in casa una bandiera tricolore .



2. Dal consenso al fascismo alle mancate epurazioni repubblicane

Di questa mancanza di cultura storica possono essere individuati molteplici responsabili e numerose concause, complice anche la nostra infelice tradizione scolastica che in Italia continua a confondere, escluse talune lodevoli eccezioni, la cronologia con la storia, l’araldica con la storia dei popoli. Una storia insegnata che resta debitrice di una visione eurocentrica del mondo, nella quale gli altri da noi sono destinati a restare sempre barbari e invasori da civilizzare. Pur tuttavia, anche il recente sforzo di modifica dei programmi scolastici di storia, che ha riservato all’ultimo anno della scuola secondaria la trattazione esclusiva del Novecento, scelta dettata da una condivisibile priorità civile24, non sembra ancora avere prodotto frutti particolarmente rilevanti per sanare l’ignoranza dilagante della nostra storia recente. Ne sono prova i risultati di una indagine, commissionata dalla sezione milanese dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia e intitolata Sondaggio sulla Resistenza e sulla memoria storica che ne hanno i giovani lombardi. Da essa risulta che quasi uno studente su due si dichiara poco o nulla informato della storia della II guerra mondiale, mentre tre su quattro ammettono di non avere quasi alcuna conoscenza della Resistenza; e ancora, la metà del campione afferma di non aver mai sentito parlare della Repubblica Sociale Italiana. Nel giudizio complessivo su quegli anni sembra infine emergere, da parte degli studenti, un’attribuzione di responsabilità riconducibile esclusivamente al solo Mussolini. E questa idea appare debitrice di quella tesi pseudostoriografica che, già a partire dall’immediato dopoguerra, dinanzi alla catastrofe aveva individuato l’imputabilità di uno solo, così da rendere possibile salvare e giustificare qualsiasi altro fascista e offrire la possibilità di continuità tra lo Stato prefascista e quello neorepubblicano.

Questa indagine offre lo spunto per focalizzare l’attenzione su alcune vicende storiche sulle quali ha più pesato la scelta del silenzio e del prevalente oblio. Infatti, mentre si andava costituendo un antifascismo ideologico, teso al servizio del mantenimento del potere, si tradiva in modo compiuto qualsiasi possibilità di richiamare alle proprie responsabilità coloro che al Regime avevano offerto il più convinto dei consensi. Questo coinvolgimento chiama in causa trasversalmente tutta la società italiana a cominciare dal mondo intellettuale25 e da quello ecclesiastico26 fino ai vertici della burocrazia ministeriale. Ma di essi quasi nessuno fu chiamato a rispondere nell’Italia repubblicana. Una malintesa pacificazione nazionale, concepita come impunità, oltre all’interesse di annettere nel consenso partitico settori di società compromessi con il regime, permise una tale opera di dissoluzione delle responsabilità27. E’ davvero esemplare il caso di coloro che fornirono i presupposti pseudoscientifici alle leggi razziali, di coloro che le promulgarono e di quelli che le applicarono con la giustificazione che dopo tutto si trattava di leggi che era necessario rispettare. A costoro non furono nemmeno inflitte le già blande sanzioni previste dal legislatore del dopoguerra, mentre inverosimilmente proprio le vittime sopravvissute a quelle leggi, soprattutto nel modo accademico28, furono percepite come intrusi o usurpatori29. Addirittura, convinti sostenitori dei principi razzisti si trovarono chiamati negli anni ’50 a ricoprire ruoli di grandissima responsabilità nelle istituzioni repubblicane30.

Fu proprio con la scelta di una amnistia di legge e di fatto, che cancellò tutte le responsabilità della connivenza col fascismo, che si rinunciò a costruire una nuova nazione. Magistrati, alti funzionari ministeriali, docenti universitari, prefetti e questori sostenitori del fascismo ed acritici esecutori degli ordini più efferati rimasero tutti al proprio posto e la Repubblica dovette servirsi di questo personale in grandissima parte monarchico e fascista, vuoi per convinzione vuoi per appartenenza a quella zona grigia della società, che non si schiera con nessuno per sostenere esclusivamente gli interessi dettati dalla propria passività morale31. Fu con le mancate sanzioni ai fascisti e con l’illusione di una pacificazione indolore che probabilmente si perse l’occasione decisiva per fondare una coscienza civile condivisa. Dopo di allora tutto fu possibile: dai condoni alle tangenti. Era davvero ben difficile che con questo genere di classe dirigente i principi costituzionali e repubblicani potessero trovare concreta applicazione in luogo di generiche affermazioni di assenso. La stessa Costituzione, scritta in un linguaggio totalmente inaccessibile alla maggioranza dei cittadini, era destinata a rimanere in vari articoli per lungo tempo disattesa e in altri articoli praticamente inattuabile, anche attraverso la speciosa distinzione tra norme programmatiche e norme precettizie. I principi costituzionali, che mancarono per molti anni di leggi applicative, furono dunque messi nelle mani di coloro che, per formazione e per convinzione, li rifiutavano alla radice32.

Infatti, come scriveva il grande storico Marc Bloch, che non si sottrasse all’impegno nella Resistenza francese anche a costo della vita,


«Qualunque sia la natura del governo, il paese soffre se gli strumenti del potere sono ostili alla spirito medesimo delle pubbliche istituzioni. A una monarchia occorre un personale monarchico. Una democrazia si indebolisce, con le peggiori conseguenze per gli interessi comuni, se i suoi alti funzionari, educati a disprezzarla e usciti per ragioni di censo da quelle stesse classi di cui essa ha preteso abolire il dominio, non la servono che di malavoglia»33.



3. Il deficit della memoria: dalle lotte agrarie alla stragi di Stato


È con queste premesse che apparirà evidente quali sviluppi potevano avere nel dopoguerra conflitti sociali acuti come quello della questione agraria. Non solo per molto tempo venne protetto il latifondo, ma le forze dell’ordine furono utilizzate nella repressione armata contro masse di donne, di uomini, di bambini. I morti furono molte decine, migliaia gli arresti indiscriminati e le detenzioni arbitrarie contro un popolo di poveri affamati che aveva osato, con lo sciopero alla rovescia, vangare qualche terreno incolto e violare così il sacro diritto alla proprietà privata, sebbene questa totalmente improduttiva. I nomi degli uccisi in quegli eccidi e la grama esistenza delle comunità a cui appartenevano, avrebbero dovuto costituire il fondamento condiviso della nostra memoria nazionale; oggi è come non fossero mai esistiti. Infatti, chi ricorda qualcosa dell’eccidio di Melissa del 30 ottobre 1949? Della tragica vicenda di quei tre poveri contadini disarmati – Angelina Mauro, Francesco Nigro e Giovanni Zito – che il reparto della Celere denominato “Pugile”, e inviato di proposito da Bari nel crotonese, massacrò a mitragliate mentre con altri contadini occupavano un fondo incolto rivendicando terra, lavoro e pane34. Ma è su tutta la questione del diritto al lavoro e alla sua tutela che, nella storia repubblicana, si affaccia – complice anche il progressivo scivolare del sindacato verso forme di protezione corporativa – una insanabile omissione di memoria.

Come definire altrimenti, a questo proposito, le centinaia di migliaia di “schedature” realizzate in quegli anni, dal 1949 fino al 1971, dall’Ufficio Servizi Generali della Fiat a danno dei propri lavoratori con la collaborazione illegale delle forze dell’ordine e di membri dei servizi segreti35, un’attività di spionaggio nella quale la Fiat investiva ingenti risorse sia per compensi in denaro sia in doni36. Dovranno passare molti anni di questo sconcio controllo perché questa linea di spregiudicata e illegale politica industriale possa essere conosciuta. Infatti, soltanto nel 1971 «venne fuori l’intero schedario della Fiat, migliaia e migliaia di schede in cui erano registrate notizie sulla vita privata degli operai, le loro amicizie, le loro situazioni coniugali, la loro “indole” e, soprattutto, le loro inclinazioni politiche37. Anni e anni di discriminazioni, violenze, arbitrii, vere e proprie illegalità affioravano, nero su bianco, attraverso i loro strumenti più odiosi: lo spionaggio, la delazione, il pettegolezzo maligno. Era l’altra faccia della Fiat modernamente capitalistica; era il lato oscuro del potere vallettiano, un mondo fangoso e lutulento costruito con la connivenza esplicita e documentata dei pubblici poteri.»38. L’intera vicenda rappresenta una delle pagine più vergognose della storia industriale italiana. Tanto più se si ricorda il trasferimento del processo a Napoli, i rinvii delle udienze, le difficoltà operative in cui si trovarono le parti civili, la prescrizione di molti reati. Questi aspetti dimostrano la volontà d’insabbiamento dell’inchiesta e l’esigenza di ridurre le responsabilità di Gianni e Umberto Agnelli, rispettivamente presidente e amministratore delegato della Fiat, i quali sostennero l’indifendibile tesi di essere all’oscuro dell’attività di spionaggio, negando la conoscenza delle 354.077 schede39. Una storia scomoda che gli Agnelli cercarono di rimuovere e che ancora oggi fa tanto problema da essere incredibilmente riferita in modo fugace ai limiti dell’omissione40, e che nessuna forza politica sembra voler ricordare, soprattutto da quando Giovanni Agnelli è diventato senatore a vita.

Ma non fu certo il solo immenso potere della Fiat41 e dei suoi rassicuranti miti42 a calpestare in quegli anni i lavoratori43; lo testimoniano in maniera più generale e diffusa in tutta Italia i dati della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni dei lavoratori in Italia44 che, istituita nel 1955, concluse i suoi lavori tre anni dopo tracciando in sedici volumi un quadro agghiacciante in ordine alle condizioni di violenza e sopruso di cui erano vittime i lavoratori. Dalla inosservanza delle norme protettive, igieniche e di sicurezza del lavoro, agli abusi relativi alle retribuzioni e agli orari di servizio, alla violazione della tutela e previdenza sociale, alle precarie condizioni del lavoratore all’interno e all’esterno dell’azienda. I numerosi e allarmanti elementi emersi non esercitarono però influenza alcuna sulla società italiana, poiché i lavori e le conclusioni contenute nella relazione finale della Commissione, pubblicata con incredibile ritardo soltanto nel 1964, rimasero quasi totalmente ignorati45.

A quei dati si possono aggiungere quelli raccolti dalle Acli46 e quelli relativi alla condizione delle donne lavoratrici, ancora negli anni ‘50 oggetto di gravissime discriminazioni47 e costrette, sia nell’impiego privato sia in quello parastatale, al licenziamento in caso di matrimonio48. Il quadro complessivo che si ricava dalla raccolta di testimonianze di operai e della loro vita di fabbrica49, dallo studio e dalla comparazione delle strategie industriali di quegli anni e dalle relazioni del padronato con i lavoratori è quello di una strenua resistenza al riconoscimento di diritti elementari come il riposo e il giusto salario, la proibizione di sposarsi e aver figli per le donne, il divieto alla libertà politica e di pensiero, l’intrusione nella sfera privata e riservata del lavoratore secondo una dubbia esigenza di affidabilità che giustificava quindi sospetti, indagini e prevaricazioni di ogni sorta utilizzando sovente l’arma delle multe e la minaccia del licenziamento.

In questo clima di controllo dei lavoratori la Chiesa italiana svolse un ruolo di intermediazione decisivo, come testimonia la seguente lettera circolare di una parrocchia di Torino per spiegare le modalità di iscrizione all’oratorio.



«RISERVATO AI GRANDICELLI


Non sveliamo nessun segreto, lo sanno tutti. Quando cercate un lavoro, un impiego in una Ditta seria, c’è sempre chi viene a cercare da noi notizie sul vostro conto. Se siete iscritti sui nostri elenchi, se frequentate e partecipate alla nostra vita... diremo (e quante ne abbiamo dette) diremo una parola incoraggiante. Altrimenti... “non lo conosciamo”. Pensateci.

Iscrizione - Consiste in questo. I genitori presentano il loro ragazzo. Si iscrivono i dati, i genitori fanno un’offerta per l’Oratorio e ricevono un tesserino impegnandosi come sopra.

Rivolgersi a Don Armando nelle ore di Oratorio o per telefono: 25194»50.


Così come non mancava un impegno diretto e sostitutivo del collocamento da parte del clero. Lo dimostra, a titolo di esempio, questo incredibile “attestato di buona condotta”.



«Parrocchia di S.Maria Assunta

Pieve di Scalenghe


Pieve Scalenghe, li 5-X-1955

Onorevole Direzione

Stabilimento Fiat Mirafiori

TORINO


Il sottoscritto Parroco, in seguito a richiesta fattegli, rilascia il presente attestato di BUONA CONDOTTA a favore del sig. Losano Giovanni fu Giovanni, d’anni 42, il quale desidera essere assunto alle dipendenze di codesto Spettabile Stabilimento.

Nell’appoggiare la domanda di questo suo parrocchiano, il sottoscritto fa presente che il medesimo trovasi in condizioni piuttosto necessitose.

Il Pievano

F.to Sac. Vacchieri Carlo»51.



Né deve meravigliare che nella primavera del 1958 il “Gazzettino di Venezia” riportasse la proposta di una facoltosa famiglia veneziana, la quale, cercando cinque unità di personale domestico per la propria casa chiedeva che i candidati potessero dimostrare la propria buona condotta provando l’iscrizione al sindacato cattolico e le referenze personali garantite dal parroco52.

La situazione dell’Italia in quel 1958 è documentata ampiamente dal Libro bianco sulle “illegalità” del governo Fanfani53. In questo libro sono raccolti gli interventi repressivi di questure e prefetture d’Italia contro esponenti dei partiti di sinistra, proibizioni o interruzioni di comizi e sequestro di manifesti, volantini e giornali. Una linea di negazione delle libertà costituzionali difficilmente giustificabile con il semplice ricorso al clima politico di quell’anno. Come giudicare altrimenti il sequestro da parte del Prefetto di Salerno di striscioni contenenti la frase «Viva la pace» ritenuti dal solerte funzionario «per il loro contenuto, in rapporto al momento politico, tali da determinare confusione nella pubblica opinione ed allarme, sì da turbare l’ordine pubblico»54. Misure repressive che raggiungono il ridicolo come quella del Prefetto di Siena:



«N. 05996/P.S.


IL PREFETTO DELLA PROVINCIA DI SIENA


Visto il manifesto stampato dalla tipografia La Diana a cura della Federazione Comunista Senese dal titolo “difendiamo la pace”, del seguente tenore: «serpeggiano infatti latenti germi di discordia che di tratto in tratto minacciosamente erompono e tengono gli animi in ansiosa trepidazione, tanto più che le spaventose armi, scoperte ora dall’umano ingegno sono di sì immane potenza da travolgere e sommergere nell’universale sterminio non solo i vinti, ma altresì i vincitori e l’umanità intera»;

attesa la delicata situazione internazionale, per cui ogni riferimento allarmistico può ingenerare ingiustificati timori, turbare le coscienze dei cittadini attraverso interessate versioni degli avvenimenti nel Medio Oriente, con conseguente turbamento dell’ordine pubblico;

ritenuto che il contenuto del manifesto, se affisso, integra gli estremi del reato di cui all’art. 656 del Codice Penale;

attesa la necessità e l’urgenza di provvedere in merito;

visto l’art. 2 del T.U. Leggi di P.S., R.D. 18 giugno 1931 n. 772:

ordina

è vietata, per motivi di ordine e sicurezza pubblica, l’affissione e la diffusione del suindicato manifesto in tutto il territorio della provincia di Siena e qualora affisso dovrà essere immediatamente defisso.

Siena, 24 luglio 1958

Il Prefetto Ferro»55.



Si tratta di un intervento intempestivo e grottesco considerando che la frase virgolettata, ritenuta pericolosa e che il Libro Bianco attribuisce genericamente a Pio XII, era contenuta nell’enciclica Meminisse iuvat56, emanata dieci giorni prima per invitare a pubbliche preghiere per la novena dell’Assunta a favore delle Chiesa dell’est e della Cina. Ma questo il buon prefetto Ferro e gli oscuri funzionari del Ministero dell’Interno, tutti ligi ad eseguire gli ordini superiori, non potevano saperlo.

Un ulteriore indagine, Il ricordo delle stragi impunite fra gli studenti delle scuole superiori, è stata compiuta in dieci istituti secondari di Milano e promossa dall’ “Istituto milanese per la storia dell’età contemporanea della Resistenza e del movimento operaio”.

Meno di un quarto degli studenti si sente abbastanza informato sulle stragi italiane nonostante la maggioranza affermi di aver sentito parlare di Piazza Fontana, di Ustica, della stazione di Bologna, fino a percentuali molto basse per Piazza della Loggia e l’Italicus. Ma è indicativo che la metà degli studenti attribuisca queste stragi alle Brigate Rosse e che solo il 17% riferisca di essere stato informato, riguardo alle stragi, dalla scuola. Dunque la storia contemporanea resta quasi totalmente esclusa dalla formazione dei giovani. Ma forse, a pensare bene, non è un gran danno.

Da piazza Fontana in poi la certezza dell’insabbiamento, grazie al ruolo decisivo dei servizi segreti italiani, è indiscutibile. E pure a interrogativo s’aggiunge interrogativo, a strage è seguita strage, sempre senza che almeno un responsabile abbia un nome ed un volto. I fatti avvenuti nei cieli di Ustica nel 1980 sono esemplari al riguardo. Gli inganni dell’Aeronautica militare italiana e di alcuni suoi altissimi ufficiali, i depistaggi, l’inverosimile tesi della bomba a bordo e dell’attentato, le morti tragiche e sospette di molti testimoni hanno segnato la nostra storia nazionale, mostrando che non ci sarà forse mai un Governo che vorrà dire cosa realmente avvenne in quel giugno di vent’anni fa. Senza dare una spiegazione a quegli 81 corpi sprofondati nelle acque del Tirreno è forse meglio che i nostri giovani restino nell’ignoranza e non studino la storia contemporanea nelle scuole. Infatti, che lezione di fiducia nelle istituzioni potremo dare loro? Su quali elementi potremo costruire quel senso dello Stato a cui si richiamano taluni politici utilizzandolo a mo’ di scudo per coprire ogni menzogna? Se ancora sull’omicidio di Ilaria Alpi non si vogliono ammettere le implicazioni della cooperazione italiana in Somalia, e sul povero paracadutista Emanuele Scieri, che muore in una caserma alla vigilia di Ferragosto, si sostiene l’inverosimile tesi che sia caduto da solo da una scala con le mani legate.

A questa condizione di diffusa ignoranza corrisponde in entrambe le indagini un dato particolarmente confortante. I giovani chiedono di essere informati e manifestano straordinario interesse per le vicende del XX secolo. Intuiscono certo che è lì il nodo per conquistare il senso profondo delle motivazioni per diventare definitivamente cittadini e non più sudditi. C’è da chiedersi chi si farà carico di questa richiesta che non è una generica domanda di informazione, quanto il riconoscimento della necessità di strumenti per decifrare il passato ed essere quindi in grado di tentare di comprendere il presente. Per il momento, invece, si affacciano iniziative di propaganda revisionista che preannunciano riabilitazioni generali del ventennio e dei suoi protagonisti. Non mancano, infatti, le prime strade dedicate a Mussolini, scuole elementari sul cui muro d’ingresso si restaura la scritta “Credere – Obbedire – Combattere” e ritratti di podestà deportatori di ebrei trovano posto nelle gallerie comunali57, mentre nel liceo milanese “Carducci” il preside si impegna a tradurre un libro negazionista sulle camere a gas asserendo di offrire esclusivamente un contributo tecnico-scientifico.



4. L’armadio nascosto dei criminali di guerra


La vicenda dei criminali di guerra mai perseguiti ha tanti aspetti inverosimili e assurdi che metto in conto che più d’uno potrà rimanere incredulo.

Si tratta della vicenda di circa 15.000 omicidi di cittadini disarmati, di prigionieri, degli abitanti di interi paesi – donne, bambini, anziani, 400 stragi compiute tra il ’43 e il ’45 dall’esercito tedesco, talvolta con l’appoggio dei fascisti italiani, restate fino ad oggi praticamente impunite. Tutto ciò portò alla celebrazione di poco più di 13 processi riguardanti appena 25 imputati la maggioranza dei quali in contumacia.

Gli atti di 2000 fascicoli non furono trasmessi ai pubblici ministeri, ma vennero sottoposti nel biennio ’47-’48 dalla Procura Generale Militare ad una insolita archiviazione provvisoria, di fatto un insabbiamento definitivo, fino all’occultamento materiale degli atti per circa mezzo secolo. Questa scelta fu provocata da motivazioni di equilibrio internazionale che sconsigliavano di sottoporre a giudizio i militari tedeschi nel momento in cui la Germania era chiamata, con l’avvento della guerra fredda, a svolgere un ruolo di difesa antisovietica nel quadro della strategia della NATO. Si trattò di un scelta politica che fu in grado di esercitare una gravissima interferenza sulla giustizia militare condizionandone il corso al punto di farle operare scelte palesemente illegali. Così soltanto può essere definita la volontà di non fornire alle procure militari competenti gli atti relativi alle denunce e alle indagini compiute dalle forze d’occupazione alleate e dalle forze dell’ordine italiane. Ma all’indebito e protratto trattenimento seguì il vero e proprio occultamento degli atti, collocati in un armadio opportunamente nascosto. Infatti, dove fu rinvenuto l’armadio nel 1994?


«Si trattava di una delle stanze del pianterreno […] adibite ad archivio, questo per niente abusivo, degli atti dei Tribunali di Guerra soppressi e del Tribunale speciale per la Difesa dello Stato. Nel locale poi esisteva uno stanzino più interno, chiuso da un cancello di ferro con grata. E i fascicoli si trovavano qui, in un armadio di legno con le ante chiuse rivolte verso la parete: quasi nei più profondi recessi del palazzo. Inoltre, a partire dal 1991, quei locali erano passati nella disponibilità di un diverso Ufficio, la procura Generale presso la Corte Militare d’Appello»58.


L’aspetto grottesco di questa invereconda vicenda non è soltanto quello che in un ufficio pubblico, addirittura una Procura Generale Militare, possa scomparire un armadio con un contenuto così importante, ma che per quasi trent’anni nessuno se ne sia accorto, che nessuno abbia cercato più quei fascicoli relativi ai criminali di guerra e ai loro delitti che colpirono un numero tanto elevato di persone. Questa mancanza di interesse da sé sola è già indicativa della scelta politica nazionale, non casuale, dell’oblio. Una volontà di cancellare ogni fonte che possa richiamare le responsabilità criminali di alcune centinaia di militari carnefici, uno strenuo opporsi alla giustizia, ma anche al futuro lavoro degli storici. È soprattutto un’esemplare lezione di omissione. Alla quale si possono unire le prove che ha fornito recentemente Filippo Focardi59 in un articolo agghiacciante, nel quale si dimostra di quali atrocità si macchiarono numerosi soldati italiani durante la II Guerra Mondiale: stupri, eccidi, violenze di ogni genere. Questi criminali di guerra hanno potuto godere di una totale impunità e copertura da parte dei Governi dell’epoca; nonostante le richieste di estradizione presentate da numerosi Paesi, quasi nessuno venne processato e fu condannato. Molti di costoro continuarono la propria carriera con onori e riconoscimenti. Anche per questo l’Italia si interessò così poco per ottenere i criminali nazisti autori degli eccidi italiani. Si temeva un effetto a catena che avrebbe costretto a mettere a disposizione delle autorità straniere richiedenti i nostri assassini e torturatori dell’esercito del Regno.

Se questa è la condizione del nostro Paese, l’armadio nascosto nello stanzino con le ante rivolte alla parete è davvero la metafora efficace dell’annullamento della memoria civile e dell’impossibilità di qualsiasi percorso di custodia del ricordo. In questo clima appare ben difficile che qualcuno risponda più o meno direttamente delle violenze perpetrate dai nostri soldati della “Folgore” impegnati nella fantasiosa missione di pace “Italfor – Ibis 2” in Somalia e delle quali esistono, oltre a numerosi riscontri verbali, incontestabili documentazioni fotografiche.



Conclusioni


La proposta della purificazione della memoria propone quindi di inoltrarsi senza paura in alcuni degli immensi territori inesplorati della nostra storia nazionale recente che dovrebbero essere posti a disposizione di tutti. E come questa possibilità costituisca uno degli elementi insostituibili per lo sviluppo in Italia di un responsabile senso civico, in particolare per i giovani. Ma le acque del fiume Lete, quelle acque che dissolvono definitivamente il ricordo, sembrano sommergere ogni memoria fino a lambire minacciosamente perfino le rive del dolore. E ciò che scampa dall’inondazione rischia comunque di restare invischiato nelle trappole dei revisionisti che sono in grado di riscrivere ogni giorno una storia nuova ed esteticamente mirabile se questa risulta gradita ai detentori del potere. Quasi come nel già citato 1984 la storia era continuamente aggiornata facendo scomparire i vecchi libri e stampandone instancabilmente di nuovi60. Revisionisti incensati e lautamente sovvenzionati nei programmi televisivi e nei quotidiani nazionali – opinion leaders, giornalisti e diplomatici che si occupano di storia61, politici professionisti cultori di storia – lavorano alacremente per dimostrare che i morti non sono morti, che la storia dell’Occidente non è l’affollato cimitero che abbiamo innanzi, che la sopraffazione e la violenza non sono state la norma indiscussa operante in questi secoli e soprattutto in quello appena trascorso. Laddove è proprio il XX secolo, quello dello straordinario progresso tecnologico dell’Occidente, che ha utilizzato il campo di concentramento come comune e diffuso metodo di trattamento degli esseri umani62. Che questi cosiddetti storici siano denominati revisionisti, negazionisti o cos’altro, non importa. Leggi non scritte che hanno armato e giustificato persecuzioni d’ogni genere, dalle minoranze linguistiche a quelle religiose, dai tribunali dell’Inquisizione alle teorie della superiorità della razza, dalle guerre coloniali fino agli inauditi anni della Shoah, per questi maestri spensierati non sono argomenti all’ordine del giorno. Ovvero lo diventano quando essi possono dimostrare che le vittime erano veramente colpevoli o che le persecuzioni sono state nient’altro che una invenzione. Per alcuni di costoro, dalle stanze di tortura fino alle camere a gas, dai desaparecidos fino alle fosse comuni deve essersi trattato di una enorme messinscena o di un deplorevole equivoco per gettare discredito sull’Occidente. In questo clima è sorprendente che qualcuno si meravigli delle affermazioni di un preminente uomo politico italiano riguardo alla superiorità della cultura occidentale sulle altre culture. Sembra anzi evidente che le sue affermazioni rappresentino, purtroppo, in buona misura il comune sentire di molti suoi concittadini e siano il frutto di una formazione scolastica meticolosamente eurocentrica, storicamente carente e certamente lontana dalla dimensione cristiana del riconoscimento della colpa compiuta dal regime di cristianità e lontana anche dalla nuova sensibilità dell’inculturazione.

E gli storici? Vorrei rispondere a questa domanda con le parole indirizzatemi recentemente in una lettera personale dal professor Adriano Prosperi, tra i più attenti studiosi della storia dell’Inquisizione.

«Quanto agli storici chi li ascolta più? A meno che non diventino paradossali, divertenti, capaci di intrattenere e di offrire giustificazioni e legittimazioni».

Sono parole amare quanto vere, di fronte alle quali ogni storico dovrebbe assumere responsabilmente il senso ultimo del proprio mestiere. Un mestiere inteso nell’accezione corretta del ministerium reso con onestà e competenza alla collettività per una ricostruzione etica della memoria. Un ministerium svolto con libertà di giudizio e scientificità di metodo, anche quando dovesse scontentare quei poteri – politici, religiosi, economici, corporativi – che altro non chiedono alla storia che di legittimare e giustificare le condizioni di ingiustizia del presente nascondendo gli errori, le persecuzioni, le violenze compiute nel passato. Ma poiché in ciò che si tenta di nascondere o mistificare ci sono state quasi sempre delle vittime, degli esseri umani soppressi dalle necessità superiori del potere, dalle inderogabili ragioni di Stato o da un progetto mirato di annientamento di un popolo, allora allo storico fedele al proprio ministerium non resta che rifiutare quelle proposte suadenti di pacificazione che altro obiettivo non hanno che la cancellazione definitiva della memoria. E tentativi di queste pacificazioni non mancano, dai risarcimenti per i sopravvissuti alla Shoah fino alla proposta di pacificazione nazionale argentina sulle vicende dei desaparecidos, proposta sostenuta attraverso la legge del Punto final e dell’Obediencia Debida le quali solo ultimamente sono state giudicate incostituzionali. È davvero incredibile che in queste pacificazioni ai carnefici non venga chiesto in alcun modo il riconoscimento delle colpe commesse. Allora allo storico è affidato il compito, nonostante la generalizzata omissione, di pronunciare il nome dei morti, perché la loro vita non sia cancellata ancora una volta e i meccanismi mimetici della violenza e del dominio eurocentrico vengano smascherati. In caso contrario sarebbe certo più onesto cambiare lavoro. Tanto più per questo le parole di Vladimir Jankélévitch, riferite alla diffusa volontà di oblio della Shoah e alla necessità di preservare la memoria delle vittime, assumono uno straordinario valore generale:

«Nell’universale amnistia morale concessa da molto tempo agli assassini, i deportati, i fucilati, i massacrati hanno soltanto noi che pensiamo a loro. Se cessassimo di farlo finiremmo per sterminarli, ed essi sarebbero annientati definitivamente. I morti dipendono interamente dalla nostra fedeltà… Questo è proprio del passato: il passato ha bisogno che lo si aiuti, che lo si ricordi agli smemorati, ai frivoli e agli indifferenti, che le nostre celebrazioni lo salvino continuamente dal nulla, o almeno ritardino il non essere a cui è votato; il passato ha bisogno che ci si riunisca appositamente per commemorarlo: perché il passato ha bisogno della nostra memoria […] perché il passato non si difende da solo come si difendono il presente e il futuro, e la gioventù chiede di conoscerlo, e sospetta che nascondiamo qualcosa […] non siamo a posto con queste vite preziose, con questi resistenti e questi massacrati, perché celebriamo una volta l’anno la giornata della deportazione, pronunciamo un discorso, mettiamo un fiore su una tomba»63.


È proprio questa volontà di custodire la memoria ad opporsi alla storia occultata o troppo presto dimenticata di alcune vicende nazionali, sebbene ciò non può non dare un senso di vertigine e di smarrimento. Quanto dolore, quanti morti e soprattutto quanto complice silenzio. Tuttavia, se la purificazione della memoria non è uno slogan innocuo, e nemmeno una comoda assoluzione dei carnefici, occorre che vi sia innanzitutto una memoria storica perché si possa operare la sua purificazione.

Nel caso della nostra memoria nazionale, essa deve essere ancora recuperata e condivisa, processo certo non privo di sofferenze, ma indispensabile affinché la purificazione non diventi surrettiziamente una generica assoluzione e una seconda e definitiva pietra tombale per le vittime. La purificazione chiama in causa le responsabilità umane, ne riconosce le colpe personali e collettive. Denuncia le ingiustizie del passato organizzate a sistema di oppressione verificandone conseguenze e permanenze nel presente. E ciò vale tanto più per i cristiani, per i quali:


«il segno della purificazione della memoria: chiede a tutti un atto di coraggio e di umiltà nel riconoscere le mancanze compiute da quanti hanno portato e portano il nome di cristiani»64.


Ma il riconoscimento delle responsabilità non è sufficiente se proprio il presente resta escluso dal processo della purificazione. A che vale ammettere l’orrore delle guerre e il coinvolgimento dei cristiani che le hanno combattute, e soprattutto di coloro che le hanno approvate, giustificate e talvolta benedette, se poi dinanzi alle guerre del presente si continua ad utilizzare come giustificazione l’obsoleto principio della guerra giusta? La memoria purificata chiede che si abbandoni l’uso mistificante e ipocrita della storia grazie al quale si è genericamente contrari alla guerra ad esclusione di quelle giuste e di quella che si vuole combattere. È con quest’uso che si giustifica il proprio favore alla guerra del presente, guerra sempre doverosa, eccezionale e assolutamente necessaria per ottenere la giustizia: quindi una guerra giusta. Con tali convinzioni e il cuor leggero si può anche votare in Parlamento per la guerra, andare a salutare commossi i soldati che partono per combatterla e al tempo stesso prendere parte di buon passo alle innocue marce della pace.

Al contrario, custodire una memoria condivisa richiede che sia proprio il presente, quindi, il banco di prova della purificazione della memoria. È esso a pretendere scelte dirimenti, umili e coraggiose ad un tempo, di giustizia e di rispetto della vita di tutti. Solo dopo può farsi strada la possibilità del perdono. Un perdono che soltanto i torturatori, gli aguzzini, gli assassini di ogni guerra, dittatura e repressione possono implorare dalle proprie vittime. Una richiesta nella quale debbono assumersi la responsabilità delle colpe commesse. Poiché non esisterà mai un perdono generico e anonimo, infatti – fosse anche possibile e giusto con il perdono riuscire a dimenticare – come sosteneva il drammaturgo ed esule cileno Ariel Dorfman: «Prima di dimenticare bisogna almeno sapere chi perdonare».
















1 Giovanni Paolo II, Offri il perdono ricevi le pace, AAS 89 (1997) 193.

2 Cf per uno sviluppo generale di questa tesi: S. Tanzarella, La purificazione della memoria. Il compito della storia fra oblio e revisionismi, EDB, Bologna 2001.

3 G. Orwell, 1984, Mondadori, Milano 1989 [ed. orig. ingl. 1949], 164.

4 Ib., 222

5 Ib., 46.

6 «Quando non ci sono oggetti esterni cui ancorare le memorie, anche l’immagine stessa della propria vita comincia a perdere la forma» (Ib., 36).

7 R. Bradbury, Fahrenheit 451, Mondadori, Milano 1989 [ed. orig. americana 1953].

8 G. Orwell, cit., 260.

9 G. Borgna, Storia della canzone italiana, Mondadori, Milano 1998, 194.

10 E. De Filippo, Napoli milionaria, Einaudi, Torino 1950.

11 Ib., 71.

12 Ib., 68.

13 Ib., 81.

14 Per il problema del diverso sopravvivere della memoria dell’esperienza bellica e dei movimenti resistenziali cf G. Miccoli – G. Neppi Madona – P. Pombeni (edd.), La grande cesura. La memoria della guerra e della resistenza nella vita europea del dopoguerra, Il Mulino, Bologna 2001.

15 Cf N. Mantoan, La guerra dei gas (1914-1918), Gaspari, Udine 1999, 106-107. .

16 Davvero straordinaria la testimonianza, contemporanea alla guerra, di Bruno Misèfari, obiettore di coscienza, sulla partecipazione italiana al conflitto mondiale: «La guerra è stata dichiarata. L’infamia dunque ha vinto. Era necessario un tuffo nel sangue per lavare le ferite al popolo angariato. Era necessaria un’ubriacatura di odio per stornare dal suo capo le ire accumulate dall’ingiustizia. Ma non solo l’infamia ha vinto; ha vinto anche la mediocrità. Conosciamo bene e i fatti e gli uomini. Quattro delinquenti in marsina di ministri dovevano scrivere il loro nome, accanto a quello “dell’ultimo re”, sulle pagine insanguinate della patria storia, una manata di generali, valorosi solo negli eccidi proletari, e tutta una gerarchia di militari di professione dovevano pur dimostrare che non s’ingrassa ad ufo nel trogolo dell’erario; una schiera d’industriali doveva guadagnar milioni per insifilidire la vita del nostro paese» (Fulvio Sbarnemi, Diario di un disertore, La Nuova Italia, Firenze 1973, 5).

17 Cf A. Gemelli, Il nostro soldato: saggi di psicologia militare, Treves, Milano 1997.

18 Cf E. Forcella – A. Monticone, Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Laterza, Bari 1968.

19 Cf E. Franzina, Casini di guerra. Il tempo libero dalla trincea e i postriboli militari nel primo conflitto mondiale, Gaspari, Udine 1999.

20 Cf M. Simoncelli, «Tra etica e normalizzazione. La Commissione parlamentare d’Inchiesta sulle spese di guerra», in Ricerche Storiche 30 (2000) 267-293.

21 Riferisce il ras Immirù di un bombardamento italiano: «Quel mattino, però non lanciarono bombe, ma strani fusti che si rompevano, appena toccavano il suolo o l’acqua del fiume, e proiettavano intorno un liquido incolore. Prima che mi rendessi conto di ciò che stava accadendo, alcune centinaia fra i miei uomini erano rimasti colpiti dal misterioso liquido e urlavano di dolore, mentre i loro piedi nudi, le loro mani, i loro volti si coprivano di vesciche. Altri, che si erano dissetati al fiume, si contorcevano a terra in una agonia che durò ore. Fra i colpiti c’erano anche dei contadini che avevano portato le mandrie al fiume, e gente dei villaggi vicini» (A. Del Boca, L’Africa nella coscienza degli italiani, Laterza, Bari 1992, 70-71).

22 Cf A. Del Boca (ed.), I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia, Editori Riuniti, Roma 1996.

23 Cf A. Del Boca, L’Africa nella coscienza degli italiani, cit., 125-126.

24 Cf Il novecento a scuola. Un ciclo di lezioni, Donzelli, Roma 2001.

25 Si pensi allo sparuto gruppo di appena dodici docenti universitari (su un totale di 1250) che nel 1931 rifiutarono il giuramento di fedeltà al fascismo perdendo insegnamento e libertà. Vicenda sulla quale ha scritto un pregevole libro G. Boatti, Preferire di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini, Einaudi, Torino, 2000.

26 Cf M. Franzinelli, Il clero del duce / il duce del clero. Il consenso ecclesiastico nelle lettere a Mussolini (1922-1945), La Fiaccola, Ragusa 1998.

27 Cf R.P. Domenico, Processo ai fascisti. 1943-1948: storia di un’epurazione che non c’è stata, Rizzoli, Milano 1996; H. Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia 1943-1948, Il Mulino, Bologna 1997.

28 Cf R. Finzi, L’università antiebraica e le leggi antiebraiche, Editori Riuniti, Roma 1997.

29 Cf M. Sarfatti (ed.), Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, Il ritorno alla vita: vicende e diritti degli ebrei in Italia dopo la seconda guerra mondiale, Giuntina, Firenze 1998.

30 Si pensi a Gaetano Azzariti, già presidente del “Tribunale della razza”, che divenne presidente della Corte Costituzionale e ad Antonino Azara, già membro del comitato scientifico Diritto razzista, che fu per vent’anni senatore e nel ’53 ministro di Grazia e Giustizia.

31 Sulla definizione di “zona grigia”, cf C. Pavone, «Caratteri ed eredità della zona grigia», in Passato e Presente 16 (1998/43) 5-12.

32 Affermava Piero Calamandrei a metà degli anni ’50: «La Costituzione apparentemente entrata in vigore il 1° gennaio 1948, in realtà non è mai stata osservata così come è scritta: è accaduto invece che in questi anni si è venuto lentamente creando attraverso un lavoro di restaurazione dei vecchi ordinamenti, un regime del tutto diverso da quello scritto nella Costituzione» (Costituzione e leggi di Antigone. Scritti e discorsi politici, La Nuova Italia, Firenze 1996, 197).

33 M. Bloch, La strana disfatta, Guida, Napoli 1970, 156.

34 Cf P. Bevilacqua, Le campagne del Mezzogiorno tra fascismo e dopoguerra. Il caso Calabria, Einaudi, Torino 1980, 447ss.

35 Cf G. Cipriani, Giudici contro. Le schedature dei servizi segreti, Editori Riuniti, Roma 1974, 43-53; ma cfr. soprattutto B. Guidetti Serra, Le schedature fiat. Cronaca di un processo e altre cronache, Rosenberg & Sellier, Torino 1984; nell’introduzione a questo esemplare volume S. Rodotà affermerà come «la cronaca delle schedature Fiat coglie una realtà sospesa tra passato e avvenire. Senza forzature retoriche o ideologiche, mette realisticamente a nudo qual era il vero governo delle relazioni industriali, negli anni del “miracolo economico”, nella più grande, nota, celebrata fabbrica italiana. […]. Le schede si sa non nascono dal nulla. Bisogna cercare gli schedatori, quindi. E anche questi stanno oltre i cancelli della fabbrica, nella questura, tra i carabinieri, tra gli uomini dei servizi di sicurezza» (7-8). Sconcertante anche la vicenda editoriale del libro della Guidetti Serra, la cui pubblicazione, accettata con contratto dalla casa editrice Einaudi nel 1977 viene bloccata nel 1983, a volume ormai stampato, poiché l’autrice si oppone all’omissione del nome Fiat dal titolo e dalla copertina. Al rifiuto dell’autrice il contratto viene risolto e il volume sarà pubblicato successivamente da altra casa editrice (cf 157-159).

36 Per un elenco dei beneficati dalla Fiat (ufficiali dei carabinieri, funzionari di questura, membri dello Stato Maggiore della Difesa, dell’Esercito, dell’Aeronautica) e della tipologia merceologica degli omaggi o della consistenza delle somme in denaro cf B. Guidetti Serra, cit., 110-128.

37 Per esempi sul contenuto e sulle modalità di stesura delle schede cf Ib., 35-74.

38 G. De Luna, «Storiografiat», in Belfagor, 39 (1984) 46. Singolare e contraddittoria la posizione giustificazionista sostenuta, dinanzi all’evidenza e alla gravità dei fatti prima richiamati, da biografie come quella di P. Bairati nel suo Vittorio Valletta, Utet, Torino 1983.

39 Una parte delle dichiarazioni rese dagli Agnelli al pubblico ministero può essere letta in B. Guidetti Serra, cit., 128-130. E’ il caso di precisare che i loro uffici si trovavano nello stesso stabile di via Marconi 20 di Torino dove era pure l’Archivio delle schede e dove era l’ufficio dell’addetto ai servizi di sicurezza che dirigeva l’opera di schedatura.

40 Mi riferisco qui a due recenti monografie dedicate alla storia della Fiat e che offrono poche righe allo scandalo delle schedature. Una presentazione in tono minore ed episodico quasi che non si trattasse di una precisa scelta di politica aziendale durata molti anni e riguardante decine di migliaia di lavoratori (cf A.S. Ori, Storia di una dinastia. Gli Agnelli e la Fiat, Editori Riuniti, Roma 1996, 231-232; V. Castronovo, Fiat 1899-1999. Un secolo di storia italiana, Einaudi, Torino 1999, 1246-1248).

41 Così racconta G. La Pira a E. Balducci: «Chi fosse il vero padrone in Italia lo capii di colpo un giorno quando ero sottosegretario al lavoro. Uscendo da una riunione in cui c’erano anche De Gasperi e l’ing. Valletta della FIAT, De Gasperi, capo del governo, prese il cappotto di Valletta e glielo infilò con premura» (E. Balducci, Giorgio La Pira, Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole 1986, 35).

42 Si pensi al mito dell’utilitaria: dalla nuova Topolino (1946), alla 600 (1954) fino alla 500 (1956); cf O. Calabrese, L’utilitaria, in M. Isnenghi (ed.), I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia, Laterza, Bari 1996, in particolare 544-547.

43 Lo testimonia l’agghiacciante risultato dell’indagine condotta nella Piaggio di Pontedera «la “proibizione” più scandalosa è quella di [...] ammalarsi o di infortunarsi. [...] così che durante l’ “asiatica” moltissimi lavoratori con la febbre alta sono andati ugualmente in fabbrica per non regalare soldi a Piaggio e stringere un buco di più la cintola. [...] è “permesso” dopo aver chiesto l’autorizzazione, andare al gabinetto ma se qualcuno in fila scambia una parola col vicino ecco alle sue spalle la guardia che fa fioccare la multa [...] i tempi per misurare il cottimo vengono fissati unilateralmente dalla direzione così che l’operaio non può più contrattare il prezzo del suo lavoro» (M. Pirani, «Nella città del Presidente della Repubblica vigono leggi e ordinanze del “ re della Vespa”», in L’Unità, 8 febbraio1958.

44 Essa fu la prima commissione d’inchiesta bicamerale del Parlamento repubblicano.

45 Probabilmente se si fosse prestata attenzione agli elementi raccolti dalla Commissione parlamentare in ordine al problema della sicurezza sul lavoro e al clima generale di prevaricazione del patronato un’ecatombe come quella degli operai del petrolchimico di Porto Marghera non sarebbe stata possibile. La deliberata scelta di non effettuare la manutenzione degli impianti e di esporre i lavoratori a sostanze cancerogene (cloruro di vinile monomero) di cui si conosceva perfettamente la letalità, sono aspetti di una vicenda purtroppo rappresentativa ed estesa della realtà industriale italiana (Cf P. Rabitti, Cronache dalla chimica. Marghera e le altre, CUEN, Napoli 1998, 16-19; 41ss). Si pensi ai nomi di coloro che, dirigendo Montedison prima ed Enichem dopo, devono oggi rispondere come rinviati a giudizio, o avrebbero dovuto rispondere se fossero vivi, di quegli omicidi: Eugenio Cefis, Mario Schimberni, Lorenzo Necci, Raul Gardini, Gabriele Cagliari.

46 La classe lavoratrice si difende. Dal “Libro Bianco” delle ACLI milanesi all’Inchiesta Parlamentare sulle condizioni dei lavoratori nelle fabbriche, Acli, Milano s.d. .

47 Ve ne è una pallida eco perfino in una relazione di una delle moderatissime Settimane Sociali: “Non è lecito rendere difficile l’accesso e la conservazione dei posti di lavoro alla donna, escogitare restrizioni, porre condizioni difficili, esercitare vere e proprie tirannie” (M. Federici, Presenza della donna nella vita sociale, in Famiglia di oggi e mondo sociale. XXVII Settimana Sociale dei Cattolici d’Italia – Pisa 18-25 settembre 1954, Ed. I.C.A.S., Roma 1954, 163. Cf anche C. Rossi, La donna e il lavoro, in “Studi Cattolici” 2 [1958] 4, 38-41).

48 Cf il Libro bianco su: I licenziamenti per causa di matrimonio in Italia. Situazioni e documentazioni, Roma 1961. Il volume, edito da alcune deputate facenti parte dell’Unione Donne Italiane, è una sconcertante raccolta di testimonianze sull’allora diffusissima pratica dei licenziamenti per matrimonio e sulla clausola del nubilato imposto alle lavoratrici neoassunte. Le denunce delle lavoratrici e la documentazione chiamano in causa ditte di livello nazionale come p.es. Squibb, Istituto Farmacologico Seronio, Ceat, Lancia, Rinascente, Standa, Piaggio, Motta, Zaini, istituti di credito come la Banca Nazionale del Lavoro, Banca Commerciale, Banca di Roma, Banco di Sicilia, Credito Italiano e perfino la casa editrice S.E.I.

49 Cf A. Accornero, Gli anni ’50 in fabbrica, De Donato, Bari 1973; P. Crespi, Esperienze operaie. Contributo alla sociologia delle classi subalterne, Jaca Book, Milano 1974, 29-237 (si tratta di significative testimonianze dell’area del Pavese).

50 G. Carocci, «Inchiesta alla Fiat. Indagine su taluni aspetti della lotta di classe nel complesso Fiat», in Nuovi Argomenti, (1958) 41.

51 Ib.

52 Notizia riportata da L’Espresso del 1° giugno 1958.

53 Roma 1958. Il volume, curato all’epoca dal P.C.I., venne riedito nel 1971 a cura di Lotta Continua. Le citazioni sono tratte da quest’ultima edizione.

54 Ib. 12

55 Ib. 11.

56 AAS 50 (1958), 449s.

57 Cf L’Unità 27 ottobre 2001, 13.

58 Relazione conclusiva approvata dal Consiglio della Magistratura Militare (CMM) il 23 marzo 1999.

59 «La questione della punizione dei criminali di guerra in Italia dopo la fine del secondo conflitto mondiale», in Quellen und Forscungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken (2000/80) 543-624. Cf anche F. Focardi – L. Klinkhammer (ed.), «La questione dei “criminali di guerra” italiani e una Commissione d’inchiesta dimenticata», in Contemporanea 4 (2001/3) 497-528.

60 «Anche i libri venivano sequestrati e riscritti di nuovo più volte, ed erano invariabilmente ristampati senza che si ammettesse per questo che era intervenuto in essi alcun mutamento» (G. Orwell, cit., 44).

61 Un caso esemplare di questa categoria di cultori di storia alla moda è per esempio quello dell’ex ambasciatore Sergio Romano, sulle cui attitudini di storico e sulle cui precomprensioni tratteggia un ritratto particolarmente convincente A. Hertzberg («Sergio Romano, antisemita», in Micromega [1999/2] 237-243).

62 Cf A.J. Kamiński, I campi di concentramento dal 1896 a oggi. Storia, funzioni, tipologia, Bollati Boringhieri, Torino 1998.

63 V. Jankélévitch, Perdonare?, Giuntina, Firenze 19882, 47-48.

64 Giovanni Paolo II, Incarnationis mysterium 11 (AAS 91[1999] 139).