Incontri di discernimento e solidarietà
 
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GEREMIA. I FICHI BUONI E I FICHI CATTIVI

di Pino Stancari

Il profeta dell’esilio

Geremia si potrebbe senz’altro definire come il profeta dell’esilio. L’esilio è un tema dominante nella sua predicazione e nella sua testimonianza. Geremia è profeta dell’esilio non soltanto perché vive nell’epoca che dal punto di vista storico può essere definita l’epoca dell’esilio, ma per qualcosa di più profondo e determinante.
Geremia appartiene a una discendenza sacerdotale che fin dal tempo di Salomone fu esclusa dal culto, allontanata dal tempio, discendenti di Ebiatar. Ebiatar aveva acquisito dei meriti per essersi schierato dalla parte di Davide contro Saul. Nel momento in cui Salomone succede a Davide, in un contesto di confusione piuttosto drammatica, Ebiatar si schiera dalla parte del figlio di Davide Adonia, e Salomone, che viene invece intronizzato, allontana Ebiatar e i suoi discendenti in modo drastico e risolutivo. Nei testi biblici la sorte di Ebiatar e dei suoi discendenti era stata anticipata, stando a quel che leggiamo in 1Samuele, già dall’epoca di Eli, che vive al tempo di Samuele. Lo steso Samuele fu educato accanto ad Eli, nella casa di Eli. I figli di Eli sono personaggi squallidi, che vengono aspramente contestati, così che già a riguardo di quella discendenza viene anticipato un giudizio estremamente severo che matura al tempo in cui Salomone sale al trono. I discendenti di Ebiatar vengono relegati in una località di nome Anatot, che sta a nord- nord-est di Gerusalemme e li risiedono per generazioni e per secoli. Geremia appartiene a quella discendenza, una discendenza condannata, scomunicata, una discendenza maledetta che porta in sé come un marchio indelebile la vergogna di una clamorosa espulsione.
Geremia è personaggio che ha assorbito l’esperienza dell’esilio nella sua stessa identità di carne e di sangue, per il fatto stesso di appartenere alla discendenza dei maledetti, la discendenza di quelli che vengono segnati a dito e sono ufficialmente esclusi, e in modo irrevocabile, dalla partecipazione al culto e a tanti altri momenti della vita civile. Geremia appartiene a quella gente di Anatot.
Sono passati alcuni secoli da Salomone. Geremia nasce circa a metà del secolo VII, ma la situazione che definisce in modo cosi drammatico la sorte di coloro che appartengono a quella discendenza di sacerdoti decaduti, non è affatto venuta meno. Libro di Geremia, 1,1-3.
«Parole di Geremia figlio di Chelkia, uno dei sacerdoti che dimoravano in Anatòt, nel territorio di Beniamino. A lui fu rivolta la parola del Signore al tempo di Giosia figlio di Amon, re di Giuda, l'anno decimoterzo del suo regno, (627 a.C.) e quindi anche al tempo di Ioiakìm figlio di Giosia, re di Giuda, fino alla fine dell'anno undecimo di Sedecìa figlio di Giosìa, re di Giuda, cioè fino alla deportazione di Gerusalemme avvenuta nel quinto mese».

Un lunghissimo ministero profetico, sono decenni di attività. Geremia è giovanotto quando viene chiamato e dà inizio al suo ministero, e in età molto avanzata è ancora sulla breccia, cioè fino alla deportazione di Gerusalemme, cioè fino all’esilio (587/6 a.C.).

Giosia

Nei primi versetti, che ci danno i riferimenti fondamentali di ordine anagrafico e storico, viene citata già la deportazione. C’è un personaggio con il quale Geremia è in contatto, che già è stato citato e non poteva essere altrimenti che così, nell’esordio del libro. Si tratta di Giosia che regna dall’anno 640 a.C. Giosia è una figura estremamente positiva. Nella serie dei re successori di Davide non si dice di nessuno, se non di Giosia, che è stato uomo di valore, sovrano meritevole di stima. Degli altri si dice sempre male, di lui no. Il loro cuore non era con il Signore, uno dopo l’altro, come un ritornello, nessuno sfugge. Giosia è invece personaggio che attrae a sé l’attenzione dei contemporanei, che trascina il popolo in una avventura davvero entusiasmante per la sua positività. Giosia è un grande re riformatore, favorito in questo dal fatto che nel frattempo l’impero assiro è in decadenza, una decadenza precipitosa per cui nel giro di pochi decenni dal massimo dello splendore il grande impero svanirà quasi nel nulla.
L’altra potenza che sta emergendo, e che oramai domina la scena del vicino oriente antico, è il regno neo-babilonese. Nell’anno 612 a. C. Ninive è distrutta, ma già da qualche decennio il regno assiro non ha più alcuna capacità di impatto politico e militare su uno scenario che aveva dominato per due secoli. L’impero assiro sta scomparendo ed ecco un respiro di sollievo, un sentimento di esultanza scuote gli animi di quelle popolazioni che per tante e tante generazioni erano state sottoposte al suo giogo.
Il piccolo regno di Giuda rivive e Giosia sale al trono nell’anno 640 a.C.. E’ un giovane molto intelligente, brillante, sensibile, uomo molto devoto. Giosia è il re riformatore per antonomasia: riforma di ordine civile, politico, religioso. Tra l’altro favorisce in modo quanto mai risoluto la concentrazione del culto nell’unico tempio di Gerusalemme, eliminando tutti i santuari nei quali il culto avveniva in modo ambiguo, aperto come era all’idolatria.
Giosia dall’anno 632 a.C. dà avvio a questa politica di riforme e il paese gli va dietro, la gente si entusiasma, i risultati non mancano. Lo stesso Geremia si inserisce a suo modo nella sua prima predicazione in questa grande politica di riforme promosse dal re Giosia. Non a caso il nome del re è citato in modo molto marcato proprio nell’esordio del libro: al tempo di Giosia, figlio di Amon, a lui, Geremia, fu rivolta la parola del Signore.

I

Due sorelle

Cap. 3. Primo nucleo: testi relativi alla predicazione di Geremia nel periodo delle riforme promosse dal re Giosia, riforme alle quale Geremia collabora, a suo modo. Geremia manifesta nei confronti del giovane sovrano segni di stima, di vero e sincero apprezzamento. Soltanto che le riforme che il re Giosia promuove con tanto impegno non ottengono gli effetti desiderati. La sua politica riformatrice risulta inutile. Geremia è spettatore di questi eventi, ne è testimone, ne patisce intimamente il dramma. Con Geremia compare una nuova tipologia profetica nella storia della salvezza. Non abbiamo a che fare soltanto con un uomo in ascolto della parola e che diventa tramite, perché quella parola sia annunciata e testimoniata; abbiamo a che fare con un profeta che da voce a una risonanza interiore profondissima, che sconvolge l’animo. E’ profeta che parla con una voce che scaturisce direttamente dall’intimo del cuore. Geremia, a questo riguardo, può essere considerato come il creatore di un nuovo linguaggio.
E’ la sua particolare vibrazione interiore che diventa voce, messaggio, testimonianza: il profeta offre come predicazione non già dei contenuti di ordine teologico e pastorale accompagnati dai gesti corrispondenti, ma la testimonianza di quel che avviene in lui, di come si agitano le sue viscere, di come è sconquassato il suo cuore. E’ davvero un linguaggio nuovo.
Geremia favorevole alle riforme di Giosia è costretto a verificarne l’inutilità. Primo nucleo di testi, 3, il primo dei quali al cap. 3,6-13:
«Il Signore mi disse al tempo del re Giosia: Hai visto ciò che ha fatto Israele, la ribelle?»

Per Israele si intende il regno del nord, che già è sparito da tanto tempo, in quanto è dal 721 che non esiste più, mentre Geremia nasce nel 650. Reminiscenze. Israele la ribelle. Il nostro profeta parla dei due regni come di due sorelle e attribuisce al regno d’Israele il titolo di ribelle, mentre attribuirà al regno di Giuda il titolo di perfida. Sono due sorelle.
«Si è recata su ogni luogo elevato e sotto ogni albero verde per prostituirsi. E io pensavo..».
E’ il Signore che pensa, il Signore che dice nel suo cuore. Il profeta Geremia è particolarmente attento a questa auscultazione del cuore del Dio onnipotente, il Signore pensava:
«Dopo che avrà fatto tutto questo tornerà a me, ma essa non è ritornata
. La perfida Giuda sua sorella ha visto ciò, ha visto che ho ripudiato la ribelle Israele proprio per tutti i suoi adultèri, consegnandole il documento del divorzio, ma la perfida Giuda sua sorella non ha avuto alcun timore».
La perfida Giuda non ha imparato nulla dalla sorte di sua sorella, Israele la ribelle. Per cui Giuda si trova in una situazione peggiore di quella in cui si trovò Israele, perché Giuda non ha approfittato dell’opportunità che le era stata offerta dalla la disgrazia di cui fu vittima Israele, la ribelle. La perfida Giuda non ha avuto alcun timore.
«Anzi anch'essa è andata a prostituirsi; e con il clamore delle sue prostituzioni ha contaminato il paese; ha commesso adulterio davanti alla pietra e al legno. Ciò nonostante, la perfida Giuda sua sorella non è ritornata a me con tutto il cuore, ma soltanto con menzogna. Parola del Signore»
.
Menzognere sono le riforme, è tornata a me, ma in modo fasullo, inconsistente, anzi in questa ambiguità di una presunta conversione, dichiarata ufficialmente, la perversione più insopportabile è la menzogna.
«Allora il Signore mi disse: Israele ribelle si è dimostrata più giusta della perfida Giuda. Và e grida tali cose verso il settentrione dicendo».

Il profeta è mandato per gridare verso il settentrione, il nord. Dal nord viene il male. E’ un modo di intendere le cose, non soltanto in senso politico. Proprio dal nord in questo periodo cominciano ad affacciarsi le minacce di invasori. L’impero assiro veniva dal nord. Il nord è una entità simbolica, è il buoi della mezzanotte, è il gelo della tenebra.
«Và e grida tali cose verso il settentrione dicendo: Ritorna, Israele ribelle, dice il Signore. Non ti mostrerò la faccia sdegnata, perché io sono pietoso, dice il Signore. Non conserverò l'ira per sempre»
.
E’ più facile che Israele ritorni che non la conversione di Giuda. Israele è già in esilio da un pezzo, mentre il regno di Giuda sopravvive, anzi è in un’epoca di euforia traboccante.
«Su, riconosci la tua colpa, perché sei stata infedele al Signore tuo Dio; hai profuso l'amore agli stranieri sotto ogni albero verde e non hai ascoltato la mia voce. Oracolo del Signore».

Certamente il ritorno di Israele che qui viene prospettato non sarà disinvolto, sarà un’impresa quanto mai impegnativa ed esigente. E’ comunque più facile che le cose vadano in questo modo che non ottenere una autentica conversione da parte di Giuda

Un allarme

Secondo testo 4,5-31.

«Annunziatelo in Giuda, fatelo dire a Gerusalemme; suonate la tromba nel paese, gridate a piena voce e dite: Radunatevi ed entriamo nelle città. Alzate un segnale verso Sion; fuggite, non indugiate, perché io mando da settentrione una sventura ed una grande rovina».
Un allarme. Sono otto imperativi quelli che leggiamo qui, in modo martellante. Questo allarme viene sottolineato, rimarcato, rilanciato. Bisogna cercare un rifugio prima che sia possibile nelle città murate, nella città per eccellenza: Gerusalemme. Si delinea all’orizzonte settentrionale l’ombra di una minaccia quanto mai pericolosa. Forse Geremia sta ricostruendo una situazione che proprio nel corso di quegli anni segnò la storia del regno di Giuda in rapporto a una invasione di popolazioni Scite, scese dal Caucaso. Il crollo dell’impero assiro ha aperto la strada a popolazioni che risiedevano in regioni ancora più settentrionali. Non c’è più il grande blocco e quindi si ha l’invasione nel 625 a.C. E’ dal nord che si comincia a intravedere l’ombra dell’invasore che nel corso degli anni successivi incalzerà in maniera sempre più prepotente; è la nuova potenza internazionale, il giovane regno neobabilonese, che avrà una storia breve rispetto a quella dei grandi imperi, però una storia dinamica, vivace. Risuona l’allarme, bisogna cercare rifugio: io mando da settentrione una grande rovina.
«Il leone è balzato dalla boscaglia, il distruttore di nazioni si è mosso dalla sua dimora per ridurre la tua terra ad una desolazione: le due città saranno distrutte, non vi rimarranno abitanti».

Un invasore ferocissimo che si muove con la massima sfacciataggine e dichiara espressamente la sua intenzione di fare piazza pulita.
«Per questo vestitevi di sacco, lamentatevi ed alzate grida, perché non si è allontanata l'ira ardente del Signore da noi. E in quel giorno - dice il Signore - verrà meno il coraggio del re ed il coraggio dei capi; i sacerdoti saranno costernati e i profeti resteranno stupiti».

Lo sbando è generale e tutte le categorie dei responsabili vengono meno, ci fanno veramente una meschina figura: re, sacerdoti, profeti, e ora si inserisce il nostro Geremia. Non è: "essi diranno", ma: "io dissi". Il profeta in prima persona singolare. Questo è proprio il linguaggio tipico di Geremia, che assorbe il dramma nell’intimo, che rivive interiormente gli avvenimenti che sconvolgono la sua generazione. Il profeta freme, è agitato, è intimamente sconvolto:
«Ahimè, Signore Dio hai dunque del tutto ingannato questo popolo e Gerusalemme, quando dicevi: voi avrete pace, mentre una spada giunge fino alla gola».

La politica delle riforme non ha avuto l’esito desiderato. Il profeta interviene con questa testimonianza immediata di capacità dialogica, a tu per tu, che nessun altro profeta si era permesso nella relazione con il Signore. Il libro di Geremia darà altre testimonianze, grandiose testimonianze, nella conversazione a tu per tu che giunge fino alla polemica, al litigio, anche all’imprecazione, a conferma di una intensità di affetto che nessun latro, prima di Geremia, aveva dimostrato nella relazione con il Signore vivente. Qui dice: "tu hai ingannato". E’ in questione tutta la politica delle riforme, è in questione il significato di Giosia e del suo servizio, a cui tutti davano fiducia, è in questione la sorte di una generazione intera.
«In quel tempo si dirà a questo popolo e a Gerusalemme: Il vento ardente delle dune soffia dal deserto verso la figlia del mio popolo, non per vagliare, né per mondare il grano».

Non è un vento buono che serve a qualche scopo benefico.
«Un vento minaccioso si alza al mio ordine. Ora, anch'io voglio pronunziare contro di essi la condanna. Ecco, egli sale come nubi»
.
Il soffio di questo vento devastatore, che è sollecitato dal Signore Dio, si configura oramai come l’arrivo di uno spietato invasore:
L’annuncio che Geremia sta riecheggiando colpisce nell’intimo. Il contesto è spettacolare, c’è di che rimanere incantati, quasi affascinati. Il profeta sa bene che gli avvenimenti stanno precipitando in una catastrofe amarissima. Non è soltanto una catastrofe fisica, ma una catastrofe interiore, una catastrofe amara, come è amaro scoprire che le cose vanno in questo modo perché la malvagità non si è convertita, le riforme sono state inutili.
«Le mie viscere, le mie viscere! Sono straziato».
Questo è il modo di recepire la parola e di riecheggiarle per noi. Offre a noi lo strazio delle sue viscere. Un lamento, gli si spacca il cuore, nessuno ha parlato mai prima di Geremia:
«Le pareti del mio cuore! Il cuore mi batte forte; non riesco a tacere, perché ho udito uno squillo di tromba, un fragore di guerra. Si annunzia rovina sopra rovina: tutto il paese è devastato. A un tratto sono distrutte le mie tende, in un attimo i miei padiglioni. Fino a quando dovrò vedere segnali e udire squilli di tromba?».

Il v. 22 nella nostra Bibbia è tra virgolette perché qui interviene la voce di Dio, che rimbomba nel cuore tumultuante del profeta:
«Stolto è il mio popolo: non mi conoscono, sono figli insipienti, senza intelligenza; sono esperti nel fare il male, ma non sanno compiere il bene».
E’ la voce di Dio che denuncia la presunzione del popolo, voce che risuona nell’animo del profeta, ma nello stesso tempo è il profeta che ausculta per così dire quel che il Signore onnipotente sta dicendo tra sé e sé, quel discorso che il Signore onnipotente sta elaborando nel suo intimo: ecco cosa dice Dio nel suo cuore, ecco come il cuore di Dio onnipotente si apre per il profeta che vi si affaccia, che vi si cala. E’ in ascolto della parola, è entrato nel cuore e nelle viscere del Signore Dio.
E allora: «Guardai la terra». Il profeta si guarda attorno, cerca di prendere fiato, cerca di ritrovare riferimenti che lo confermino in quella che era la sua fiducia di partenza, in quella che era la fiducia dei suoi contemporanei in un contesto di storia luminosa come è quell’epoca segnata dalla presenza di Giosia e dalla riforme promosse da lui.
«Ed ecco solitudine e vuoto, i cieli, e non v'era luce. Guardai i monti ed ecco tremavano e tutti i colli ondeggiavano. Guardai ed ecco non c'era nessuno e tutti gli uccelli dell'aria erano volati via. Guardai ed ecco la terra fertile era un deserto e tutte le sue città erano state distrutte dal Signore e dalla sua ira ardente. Poiché dice il Signore: Devastato sarà tutto il paese; io compirò uno sterminio».
Qui probabilmente bisogna correggere la traduzione: "non compirò uno sterminio". C’è comunque una correzione da parte del Signore che allude alla permanenza di un resto: non compirò uno sterminio,
«Pertanto la terra sarà in lutto e i cieli lassù si oscureranno, perché io l'ho detto e non me ne pento, l'ho stabilito e non ritratterò».
Ancora la prospettiva di un recupero possibile, nel contesto di un lutto cosmico, la permanenza ancora di un punto di luce. Ma ci risiamo:
«Per lo strepito di cavalieri e di arcieri ogni città è in fuga, vanno nella folta boscaglia e salgono sulle rupi. Ogni città è abbandonata, non c'è rimasto un sol uomo. E tu, devastata, che farai? Anche se ti vestissi di scarlatto, ti adornassi di fregi d'oro e ti facessi gli occhi grandi con il bistro, invano ti faresti bella. I tuoi amanti ti disprezzano; essi vogliono la tua vita. Sento un grido come di donna nei dolori, un urlo come di donna al primo parto, è il grido della figlia di Sion, che spasima e tende le mani: "Guai a me! Sono affranta, affranta per tutti gli uccisi"»
.
Rimane questo rantolo, che è il rantolo di una partoriente, ma rantolo che diventa spasimo mortale dal momento che l’evento della fecondità viene oramai vissuto come pena di sterilità.

Un popolo ribelle

Siamo al cap. 8, dal v. 4. «Tu dirai loro: "Così dice il Signore: Forse chi cade non si rialza e chi perde la strada non torna indietro? Perché allora questo popolo si ribella con continua ribellione?».
In ebraico viene usato ripetutamente il verbo ritornare: shuv, che è il verbo con il quale si indica la conversione. Ma questa conversione non avviene:
«Persistono nella malafede, rifiutano di convertirsi. Ho fatto attenzione e ho ascoltato; essi non parlano come dovrebbero. Nessuno si pente della sua malizia, dicendo: Che ho fatto? Ognuno segue senza voltarsi la sua corsa come un cavallo che si lanci nella battaglia. Anche la cicogna nel cielo conosce i suoi tempi; la tortora, la rondinella e la gru osservano la data del loro ritorno; il mio popolo, invece, non conosce il comando del Signore».

Al contrario degli animali che si convertono, il mio popolo non conosce il comando del Signore. E’ un popolo che non conosce, che non corrisponde, che non entra in relazione con il Signore, in modo corrispondente alle intenzioni che Egli ha così intensamente, affettuosamente dimostrato. C’è qualcosa di animalesco in questo popolo che non si converte, mentre gli animali si convertono.
E Geremia insiste:
«Come potete dire: Noi siamo saggi, la legge del Signore è con noi?».
Noi siamo pienamente impegnati, siamo sulla cresta dell’onda, siamo sintonizzati con tutte le procedure della sapienza, della legislazione, che Giosia ha recuperato e restituito al suo antico splendore:
«A menzogna l'ha ridotta la penna menzognera degli scribi! I saggi saranno confusi, sconcertati e presi come in un laccio. Essi hanno rigettato la parola del Signore, quale sapienza possono avere?»

V. 18. Il popolo non ha preso sul serio. Per quanto abbia applaudito, per quanto abbia fatto dichiarazioni, per quanto abbia addirittura sottoscritto gli impegni delle riforme, ma non li ha presi sul serio. I fatti dimostrano che non c’è autentica conversione. Tutto è inutile.
«Cercai di rasserenarmi, superando il mio dolore, ma il mio cuore viene meno»
. Geremia è sconvolto, nauseato, i conti non quadrano.
«Ecco odo le grida della figlia del mio popolo da una terra lunga e larga: "Forse il Signore non si trova in Sion, il suo re non vi abita più?"».
Ci sono tutti quelli che rivendicano i diritti di coloro che, appartenendo al popolo d’Israele, possono contare sulla presenza del tempio e sulla presenza del Signore nel tempio a Gerusalemme, ma sono garanzie fasulle dal momento che la conversione necessaria non è stata registrata. E’ la voce di Dio che adesso si fa udire:
«Perché mi hanno provocato all'ira con i loro idoli e con queste nullità straniere?».
E adesso c’è la voce del popolo:
«E’ passata la stagione della messe, è finita l'estate e noi non siamo stati soccorsi».
Il popolo protesta, si aspettava chissà cosa. E di nuovo il profeta:
«Per la ferita della figlia del mio popolo sono affranto»
.
Per quella ferita sono ferito io. E’ usata qui una forma del verbo ebraico che deriva dalla stessa radice del termine "ferita". Per la ferita della figlia del mio popolo sono ferito io, sono fratturato io, sono spaccato io, è una spaccatura dell’intimo:
«sono costernato, l'orrore mi ha preso. Non v'è forse balsamo in Gàlaad? Non c'è più nessun medico? Perché non si cicatrizza la ferita della figlia del mio popolo?»
. Quella ferita non guarisce, ma non guarisce la ferita che il profeta ha subito in se stesso e che fa tutt’uno con la ferita che sconvolge la storia della sua generazione, con un particolare davvero molto eloquente: questa ferita che ha spaccato l’animo del nostro profeta, si manifesta come un versamento di dolore all’interno. E proprio lui, Geremia, invece, chiede aiuto per poter finalmente espellere da sé in un’onda di lacrime quel dolore che ristagna in modo così incontenibile nell’animo suo, fino a scoppiare:
«Chi farà del mio capo una fonte di acqua, dei miei occhi una sorgente di lacrime, perché pianga giorno e notte gli uccisi della figlia del mio popolo?»
.
E’ perfettamente solidale il profeta con quello che avviene alla sua generazione, alla sua gente, alla figlia del popolo che poi è la capitale Gerusalemme. Vorrebbe piangere, ma non trova le lacrime per piangere. Il dolore lo invade e lo penetra sempre più in profondità, spazi sempre più inesplorati che gli spalancano dentro il cuore. E vorrebbe piangere e chiede aiuto perché qualcuno apra qualche fessura, apra qualche ferita da qualche parte, qualcuno gli spacchi la testa in modo che possa saltar fuori questo zampillo di lacrime che dia sfogo al dolore accumulato.
E siamo a 9,1-2: «Chi mi darà nel deserto un rifugio per viandanti?».
Qui di nuovo è la voce di Dio. E interessante. Il Signore si presenta come un forestiero, cerca nel deserto un rifugio al modo dei viandanti di passaggio:
«Io lascerei il mio popolo e mi allontanerei da lui, perché sono tutti adulteri, una massa di traditori. Tendono la loro lingua come un arco; la menzogna e non la verità domina nel paese. Passano da un delitto all'altro e non conoscono il Signore».

Il Signore è uno sconosciuto, proprio in seno a quel popolo che pure dichiaratamente, pubblicamente, ufficialmente è dedito ad accogliere la politica delle riforme promosse da Giosia. Il profeta si rende conto di tutto questo e ne è sconcertato, dolentissimo testimone. Il vero sconosciuto è proprio il Signore, è proprio lui rifiutato nelle sue esigenze, come quel viandante che non trova rifugio. E’ proprio lui che non è compreso nella sua autentica identità. In questi versetti scopriamo all’improvviso come in tutta questa vicenda il vero esule è il Signore, è lui già in esilio, è lui lo sconosciuto che non trova rifugio in cui dimorare.
Questi due versetti stanno sullo sfondo di quella pagina evangelica famosissima che leggiamo induca 24, i discepoli di Emmaus: Gesù è lo sconosciuto, il vero esule, è già in esilio Lui.

II

Dai Recabiti

Un secondo nucleo di testi. Cap. 35. Gli avvenimenti si sono oramai sviluppati nel corso degli anni. Qui siamo quasi 30 anni dopo. Prima del 597, perché quello è l’anno in cui avviene la prima deportazione. Nabucodonosor, re di Babilonia, assedia Gerusalemme, non la distrugge, ma decide di trasferire a Babilonia in ostaggio una certa porzione, modesta dal punto di vista quantitativo, ma molto qualificata dal punto di vista civile e istituzionale, degli abitanti di Gerusalemme, i rappresentanti delle categorie più abbienti e prestigiose. Tra quelli che sono condotti a Babilonia in quella occasione ci fu anche Ezechiele, un sacerdote.Giosia è morto nell’anno 609 a.C. Quell’anno segna una svolta. Giosia muore in battaglia e da quel momento la situazione precipita. La morte di Giosia non era prevista: il faraone gironzolava nelle regioni del nord con il suo esercito e Giosia si trovò per strada, ingaggiò una battaglia e morì. Sconcerto generale, non si capisce più niente. Gli avvenimenti vanno maturando nella direzione che già Geremia ha prospettato, per quel che ha potuto, rivolgendosi alla sua gente.
Nabucodonosor regna dal 605 a.C. e ormai fa il buono e cattivo tempo. Impone un tributo molto esoso, assedia Gerusalemme nel 597 a.C. Nel periodo precedente a quella data, qui nel cap. 35 un episodio che possiamo richiamare in modo solo ricapitolativo.
«Questa parola fu rivolta a Geremia dal Signore nei giorni di Ioiakìm figlio di Giosia, re di Giuda: "Và dai Recabiti e parla loro».

I Recabiti sono discendenti di un certo Ionatab, e malgrado siano passati secoli dall’ingresso nella terra di Canaan, che oramai è la terra d’Israele, questi Recabiti continuano a vivere come dei nomadi, non hanno mai accettato di sistemarsi, di accomodarsi nel territorio, abbandonando l’attività pastorale per acquisire invece le tecniche che sono proprie dell’attività agricola; non hanno mai accettato di abitare in case di pietra. Sono rimasti nomadi e rifiutano di bere il vino, un emblema vistoso che assume prerogative ascetiche piuttosto evidenti. Non bevono vino, sono pastori, continuano ad allevare i loro animali, continuano a muoversi sotto le tende. Sono dei fanatici, degli oltranzisti, rimpiangono un’epoca che ormai è tramontata. Comunque sia quel che conta, per Geremia, è mettere in evidenza come questi Recabiti già sono in esilio, sono in esilio prima ancora che il tempo dell’esilio sia maturato. Questi Recabiti, in realtà, sono i veri abitanti del paese. Sono proprio loro gli abitanti di Gerusalemme oggi, sono proprio loro che abitano questa terra perché sono già in esilio. L’esilio è inevitabile. Oramai la situazione si sta evolvendo in modo tale che Geremia non ha più incertezze. Noi non abbiamo altra sorte, dinanzi a noi, che intraprendere la strada dell’esilio, lungo quella strada saremo condotti, in quella strada saremo trascinati, inevitabilmente. Geremia da questo momento in poi annuncia una predicazione che urta contro resistenze poderose. La gente non vuole sentirsele dire queste cose, non sopporta, non accetta che il profeta sviluppi una predicazione così deleteria, così disfattista. Eppure il profeta non ha alcun dubbio: l’esilio, una necessità ineluttabile, un precipizio nel quale implacabilmente sprofonderemo. Per il profeta la prospettiva dell’esilio si configura oramai come l’unica, reale prospettiva di abitazione nella terra. Non c’è altro modo per prendere dimora in questa terra che non sia per noi accettare fino in fondo il dramma dell’esilio. Non possiamo più evitarlo, ci sprofondiamo dentro. Ma questo non è più un giudizio di condanna che semplicemente segna il punto di arrivo di una storia sbagliata; questa è una prospettiva fecondissima che ha in sé la capacità di rigenerare tutta una storia e rilanciare per il futuro il dramma di una conversione mancata. Proprio l’esilio diventerà il tempo e il luogo in cui finalmente avrà compimento quella conversione che non è avvenuta quando tutto era predisposto a quello scopo. Non c’è alternativa oramai, c’è solo l’esilio, ma l’esilio ci consentirà di abitare in questa terra. Per abitare, l’esilio. E i Recabiti, che già sono in esilio, che sono sempre rimasti in esilio, sono loro i veri abitanti.
Cap. 36 ci rimanda a un episodio di qualche anno precedente, 605 a.C., al tempo del re Ioiakim, che muore nel 597 a.C. Geremia chiama Baruc e gli dice: "scrivi". E gli detta tutti i messagi che nel corso degli anni ha trasmesso ai suoi ascoltatori e ne viene fuori un rotolo. E gli dice: adesso va, e leggi. E Baruc va e legge. Qualcuno ascolta e si impressiona, vanno dal re e dicono: Guarda che Baruc sta dicendo questo e questo. Il re fa venire non Baruc, perché questi sparisce e si nasconde, ma quelli che hanno requisito il rotolo e il rotolo viene letto alla presenza del re (36,21ss).
«Allora il re mandò Iudi a prendere il rotolo. Iudi lo prese dalla stanza di Elisamà lo scriba e lo lesse davanti al re e a tutti i capi che stavano presso il re».

Questo rotolo di Geremia è il nucleo originario del libro di Geremia che noi ancora leggiamo.
«Il re sedeva nel palazzo d'inverno si era al nono mese con un braciere acceso davanti. Ora, quando Iudi aveva letto tre o quattro colonne, il re le lacerava con il temperino da scriba e le gettava nel fuoco sul braciere, finché non fu distrutto l'intero rotolo nel fuoco che era sul braciere»
.
Questa è la sorte del libro, ma è anche la sorte del profeta, bruciato striscia per striscia, il rotolo è bruciato. E’ un messaggio che non si può proclamare, che non si può annunciare: è bruciato il libro, è bruciata la parola, è bruciato… Ma la parola non è zittita, non può essere zittita. E infatti il Signore chiama Geremia e Geremia riparte da capo. Scrivi, dice a Baruc e questi riscrive e ancora. La parola deve rimanere attraverso lo scritto. Mentre siamo ancora relativamente lontani dall’esilio, quello empirico, già il libro è in esilio, la parola è in esilio, il profeta è già in esilio. Noi sappiamo che Geremia è in esilio da quando è nato in quella discendenza di sacerdoti scomunicati, espulsi, reietti. E’ in esilio il suo libro, è in esilio lui. Così come i Recabiti. Ma anche questo già sappiamo: è proprio la prospettiva dell’esilio oramai la strada che si apre per il futuro. Non c’è possibilità di affacciarsi a un futuro che sia corrispondente alle promesse antiche se non passando attraverso l’esilio, l’esilio è una necessità storica, teologica, una necessità profetica.

III

I fichi buoni e i fichi cattivi

Cap. 24, terzo nucleo. Il cap. 24 ci parla di quel che succede dopo l’anno 597 a.C. quando ormai l’esilio è in atto, una certa parte della popolazione di Gerusalemme è stata deportata. Bisognerà aspettare ancora qualche anno per arrivare alla deportazione più ampia e più drammatica, dopo la distruzione di Gerusalemme nel 586 a.C. Geremia sarà spettatore di questi avvenimenti, sarà direttamente coinvolto.
«Il Signore mi mostrò due canestri di fichi posti davanti al tempio, dopo che Nabucodònosor re di Babilonia aveva deportato da Gerusalemme Ieconia figlio di Ioiakìm re di Giuda, i capi di Giuda, gli artigiani e i fabbri e li aveva condotti a Babilonia. Un canestro era pieno di fichi molto buoni, come i fichi primaticci, mentre l'altro canestro era pieno di fichi cattivi, così cattivi che non si potevano mangiare. Il Signore mi disse: Che cosa vedi, Geremia?. Io risposi: Fichi; i fichi buoni sono molto buoni, i cattivi sono molto cattivi, tanto cattivi che non si possono mangiare. Allora mi fu rivolta questa parola del Signore: Dice il Signore Dio di Israele: Come si ha riguardo di questi fichi buoni, così io avrò riguardo, per il loro bene, dei deportati di Giuda che ho fatto andare da questo luogo nel paese dei Caldei».

Ecco l’esilio, i deportati di Giuda sono i fichi buoni perché la storia va da quella parte, le promesse si compiono in quella direzione, quelli sono i fichi buoni. Nella situazione oggettiva quelli che andavano in esilio erano dei disgraziati, degli sfortunati. Per loro bisognava rivendicare al più presto il ritorno. Invece Geremia è presso i suoi contemporanei annunciatore di un messaggio sconcertante, istintivamente e visceralmente rifiutato da tutti: quelli che sono in esilio, proprio loro rappresentano la vocazione del nostro popolo che si realizza, perché la conversione va di là. Fichi buoni.
«Io poserò lo sguardo sopra di loro per il loro bene; li ricondurrò in questo paese, li ristabilirò fermamente e non li demolirò; li pianterò e non li sradicherò mai più. Darò loro un cuore capace di conoscermi, perché io sono il Signore».

L’esilio come tempo e luogo adatti per acquisire un cuore capace di conoscere il Signore: «essi saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio, se torneranno a me con tutto il cuore. Come invece si trattano i fichi cattivi, che non si possono mangiare tanto sono cattivi così parla il Signore così io farò di Sedecìa re di Giuda, dei suoi capi e del resto di Gerusalemme, ossia dei superstiti in questo paese, e di coloro che abitano nel paese d'Egitto. Li renderò oggetto di spavento per tutti i regni della terra, l'obbrobrio, la favola, lo zimbello e la maledizione in tutti i luoghi dove li scaccerò. Manderò contro di loro la spada, la fame e la peste finché non scompariranno dal paese che io diedi a loro e ai loro padri».
Fichi cattivi sono quelli che ancora sono rimasti, che ancora non sono andati in esilio.
Cap. 27: «Al principio del regno di Sedecìa».
Sedecìa regna dal 597 a.C. E’ Nabucodonosor che impone Sedecìa come re di Giuda, suo vassallo. Sedecìa si barcamena come può, poi è molto indeciso, incerto. I partiti politici che dominano a corte lo costringono a ribellarsi a Nabucodonosor e sarà la fine.
«Al principio del regno di Sedecìa figlio di Giosia, re di Giuda, fu rivolta questa parola a Geremia da parte del Signore. Mi dice il Signore: Procùrati capestri e un giogo e mettili sul tuo collo. Quindi manda un messaggio al re di Edom, al re di Moab, al re degli Ammoniti, al re di Tiro e al re di Sidòne per mezzo dei loro messaggeri venuti a Gerusalemme da Sedecìa, re di Giuda»
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Sono ambasciatori di questi regni confinanti che si sono riuniti a Gerusalemme in una prospettiva antibabilonese, cercano di organizzare come possono una forma di resistenza, ma non possono niente.
«Affida loro questo mandato per i loro signori: Dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele, così parlerete ai vostri signori: Io ho fatto la terra, l'uomo e gli animali che sono sulla terra, con grande potenza e con braccio potente e li do a chi mi piace. Ora ho consegnato tutte quelle regioni in potere di Nabucodònosor re di Babilonia, mio servo; a lui ho consegnato perfino le bestie selvatiche perché lo servano».

Attraverso Geremia, il Signore manda a dire che Nabucodonosor è servo sio, l'ha mandato lui. Questo messaggio è sconvolgente, Geremia viene accusato di essere filobabilonese, di essere passato dalla parte dei nemici, un traditore. Nabucodonosor è il mio servo:
«Tutte le nazioni saranno soggette a lui, a suo figlio e al nipote, finché anche per il suo paese non verrà il momento. Allora molte nazioni e re potenti lo assoggetteranno».

Poi verrà il momento di Nabucodonosor e dei suoi, anche il suo regno sarà assoggettato ad altri che verranno.
«La nazione o il regno che non si assoggetterà a lui, Nabucodònosor, re di Babilonia, e che non sottoporrà il collo al giogo del re di Babilonia, io li punirò con la spada, la fame e la peste dice il Signore finché non li avrò consegnati in suo potere».

Adesso la situazione è questa, bisogna sottostare a Nabucodonosor, che è come dire: è inevitabile per noi affrontare la strada dell’esilio. Ci sono i falsi profeti che dicono: non sarete soggetti al re di Babilonia, ma sono falsi profeti. La polemica di Geremia contro questi profeti di menzogna che annunciano la pace, ma pace non c’è. Non sarete soggetti: ma si sbagliano:
«Costoro vi predicono menzogne per allontanarvi dal vostro paese e perché io vi disperda e così andiate in rovina. Invece io lascerò stare tranquilla sul proprio suolo dice il Signore la nazione che sottoporrà il collo al giogo del re di Babilonia e gli sarà soggetta; essa lo coltiverà e lo abiterà»
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Qui c’è un gioco di parole: il verbo ‘abad, gli sarà soggetta, ‘ebed è il servo, gli sarà sottoposta come serva, come schiava, quella nazione, essa coltiverà, qui di nuovo il verbo ‘abad: servire, ma anche lavorare con fatica, con sudore. Per cui succede che il Giogo che rappresenta la posizione di un servo, è anche il giogo che conferma l’appartenenza a un disegno di fecondità positiva, benefica, una prospettiva penosa, ma feconda. La nazione che sarà sottoposta a quel giogo, coltiverà il paese e lo abiterà. Essere servi di Nabucodonosor significa ricadere nel disegno che la provvidenza del Signore ha preparato per coloro che si convertono e che si preparano così ad accoglier ei frutti sovrabbondanti del suo amore.
Cap. 29, ultimo testo.
«Queste sono le parole della lettera che il profeta Geremia mandò da Gerusalemme al resto degli anziani in esilio, ai sacerdoti, ai profeti e a tutto il resto del popolo che Nabucodònosor aveva deportato da Gerusalemme a Babilonia».

Geremia scrive da Gerusalemme a coloro che sono deportati a Babilonia, tra cui c’è anche Ezechiele.
«La mandò dopo che il re Ieconia, la regina madre, i dignitari di corte, i capi di Giuda e di Gerusalemme, gli artigiani e i fabbri erano partiti da Gerusalemme».

Nabucodonosor ha condotto a Babilonia come ostaggi gli esponenti di queste categorie qualificate. «Fu recata per mezzo di Elasà figlio di Safàn e di Ghemarìa figlio di Chelkia, che Sedecìa re di Giuda aveva inviati a Nabucodònosor re di Babilonia, in Babilonia. Essa diceva: Così dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele, a tutti gli esuli che ho fatto deportare da Gerusalemme a Babilonia: Costruite case e abitatele, piantate orti e mangiatene i frutti; prendete moglie e mettete al mondo figli e figlie, scegliete mogli per i figli e maritate le figlie; costoro abbiano figlie e figli. Moltiplicatevi lì e non diminuite». Lì, a Babilonia! «Cercate il benessere del paese in cui vi ho fatto deportare». Benessere, cioè pace, shalom, a Babilonia. «Pregate il Signore per esso» per Babilonia pregate, «perché dal suo benessere dipende il vostro benessere».
Tutto questo a conferma del fatto che non c’è alternativa, l’unica prospettiva che rimane da affrontare per il popolo che non ha rispettato l’appuntamento della conversione, l’unica prospettiva è l’esilio. E a Babilonia voi costruite case, abitate, piantate orti, prendete mogli, generate figli, pregate per quel paese.
«Così dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele: Non vi traggano in errore i profeti che sono in mezzo a voi e i vostri indovini; non date retta ai sogni, che essi sognano».
Falsi profeti. Coloro che vi annunciano un avvenire che eviti per voi l’esperienza, il dramma, il dolore dell’esilio: non è possibile, di là bisogna passare. E’ falsa quella profezia, essi sognano
«poiché con inganno parlano come profeti a voi in mio nome; io non li ho inviati. Oracolo del Signore. Pertanto dice il Signore: Solamente quando saranno compiuti, riguardo a Babilonia, settanta anni»
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Un tempo lungo che solo il Signore sa quanto durerà.
«Vi visiterò e realizzerò per voi la mia buona promessa di ricondurvi in questo luogo. Io, infatti, conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo dice il Signore progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza. Voi mi invocherete e ricorrerete a me e io vi esaudirò; mi cercherete e mi troverete, perché mi cercherete con tutto il cuore; mi lascerò trovare da voi dice il Signore cambierò in meglio la vostra sorte e vi radunerò da tutte le nazioni e da tutti i luoghi dove vi ho disperso dice il Signore vi ricondurrò nel luogo da dove vi ho fatto condurre in esilio».
Versetto 20: «Voi però ascoltate la parola del Signore, voi deportati tutti, che io ho mandato da Gerusalemme a Babilonia». Oramai sembra che solo l’esilio costituisca il contesto adatto in cui la parola del Signore possa essere ascoltata.


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