Incontri di discernimento e solidarietà
 
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3 aprile 2001

Il Libro di Giobbe

Ritorniamo alla lettura del Libro di Giobbe a cui abbiamo già dedicato diversi incontri, di mese in mese. Siamo arrivati al cap. 28. Abbiamo percorso una certa strada ma ancora il Libro di Giobbe ci viene incontro con la forza di un messaggio che è davvero travolgente.

Il messaggio riguarda la realtà umana, la condizione umana, la storia umana in quanto noi tutti facciamo esperienza di dolore, una ferita che dipende da tutte quelle disfunzioni, contraddizioni, meschinità che riusciamo a individuare spesso in modo un poco confuso e che pure danno alla nostra vita umana una impronta straziante, fino alla morte.

Il Libro di Giobbe ci parla di Dio, del mistero di Dio che si rivela a noi, che entra in relazione con noi – sue creature – proprio attraverso l’esperienza del dolore che è così drammatica, sconvolgente, che spesso sfugge a ogni possibilità di interpretazione, di discernimento. Perché mai questo e quest’altro? E perché nella vita nostra? E perché nella vita mia?

Ed ecco Giobbe che discute, che si interroga, che affronta coloro che vorrebbero dargli delle spiegazioni. Per un pezzo, per ben 28 capitoli, abbiamo accompagnato Giobbe nella sua conversazione, che spesso è una vera e propria disputa con quei tre amici che si sono avvicinati a lui perché volevano aiutarlo dal loro punto di vista. In realtà sono riusciti soltanto ad accentuare il dramma. E Giobbe ha puntualmente ribadito da parte sua che non è con il principio della retribuzione che si risolve il problema, non è continuando a insegnare che Dio premia i buoni e punisce i cattivi. Non è così che si può interpretare in modo persuasivo il senso del grande dramma che coinvolge la vita di tutti gli uomini. E quanto meno Giobbe dice "io non ci sto dentro a quella spiegazione. Io non mi ci ritrovo".

Siamo arrivati al cap. 28 e stasera faremo un piccolo passo in avanti. Leggeremo tre capitoli: 29, 30 e 31. Come al solito seguiremo il testo. Passo in rassegna abbastanza rapidamente i versetti di questa sezione del Libro che potremo intendere come ormai un momento conclusivo dal punto di vista di Giobbe, anche se non c’è ancora la risposta di cui Giobbe andava in cerca e infatti non è qui ancora la conclusione. Il Libro di Giobbe ci porterà più avanti ancora, avremo a che fare con altri momenti ancora più intensi, più impegnativi che mai nella ricerca a cui il nostro Giobbe è sottoposto e per la quale è intimamente toccato da una misteriosa rivelazione di Dio. D’altra parte è così, le risposte non sono facili, non sono immediate, non sono di pronto impiego per nessuno. In ogni caso, dopo che gli amici hanno detto la loro e Giobbe da parte sua ha risposto e controbattuto, li ha anche per così dire "mandati a quel paese", Giobbe rimane tutto solo e come ha dichiarato già a più riprese, Giobbe è convinto che l’unico interlocutore con cui può intendersi è proprio Dio. Si è stufato di parlare con quegli amici che non sanno comprendere dal di dentro il dramma della sua vicenda. Vuole parlare di quelle cose che hanno segnato, piagato la sua vita in modo così profondo e sconvolgente, direttamente con Dio. Già più volte Giobbe ha assunto questo atteggiamento: "con voi non mi intendo, io debbo parlarne con Dio". E i capitoli che adesso leggiamo hanno tutte le caratteristiche di quel discorso con cui Giobbe vorrebbe finalmente rivolgersi a tu per tu, faccia a faccia con il vero interlocutore della sua vita, l’unico con il quale è convinto che potrà spiegarsi e che potrà intendersi: Dio nella sua misteriosa grandezza, nella sua trascendenza assoluta, ma Dio, il compagno della sua vita, l’amico della sua vita, l’interlocutore della sua ricerca di vita.

Noi leggiamo adesso i tre capitoli che vi dicevo in cui parla Giobbe. Ma poi dovremo constatare il mese prossimo che in realtà c’è un’altra interferenza ancora. Giobbe cerca il contatto diretto con il Signore, ma interviene un altro personaggio di cui verificheremo meglio il significato quando leggeremo i capitoli seguenti, la volta prossima. Ci sarà ancora un elemento di disturbo, ancora un’altra voce vorrà inserirsi nel dialogo diretto, a tu per tu, tra Dio e Giobbe, tra Giobbe e Dio.

Intanto Giobbe sviluppa il suo discorso. Ed è un discorso lamentoso perché Giobbe non ha un altro linguaggio. Per come Giobbe si esprime subito la sua voce assume una intonazione dolente, è evidente. Ma è anche vero che il lamento di Giobbe ha assunto un tono meno polemico e in qualche maniera anche meno angoscioso. E’ un tono più pacato, un tono più oggettivo, la situazione oggettivamente terribile nella quale è incappato viene ripresa, illustrata, commentata, documentata in maniera molto più serena, se non fosse vero che comunque la situazione in cui Giobbe si trova è veramente straziante. E anzi, mentre Giobbe litigava con i suoi amici il suo linguaggio era più furente, più irruento e qualche volta proprio sferzante; adesso il linguaggio assume una forma più disinvolta, come se Giobbe parlasse delle cose che hanno reso così drammatica la sua vita in maniera equivalente a chi sta raccontando un fatto, registrando una notizia, rilevando i dati di una diagnosi che in sé e per sé è terrificante, ma come fa il tecnico della situazione che mette a punto le disfunzioni di quell’organismo che è affetto da questa, da quell’altra e da un’altra malattia ancora e così via. Comunque queste pagine che assumono una intonazione più sobria, più analitica, proprio per questo motivo, e a ben ascoltare lasciandoci prendere dalla testimonianza di Giobbe, acquistano anche un rilievo più sconvolgente che mai perché è come se adesso Giobbe testimoniasse a noi la sua esperienza di dolore così come è in una forma così compatta, così consolidata come se tutto fosse acquisito in maniera tale per cui è così e Giobbe non riesce proprio a vedere come potrebbero andare diversamente le cose. Ma è pur vero che la situazione di fatto, nella sua oggettività, sobriamente, pacatamente osservata da Giobbe è una situazione insopportabile. Il punto è proprio questo, di come ciò che è insopportabile nella vita umana diventa realtà quotidiana. Come è possibile stare così male al mondo e starci ancora. Già.

I tre capitoli possono essere presi in considerazione uno dopo l’altro. Sono come tre grandi svolgimenti all’interno dell’unico discorso con il quale Giobbe adesso interviene. Gli amici sono spariti dalla scena.

Primo svolgimento. Cap. 29. Giobbe qui rievoca il passato della sua vita. cinque strofe. La prima strofa fino al v. 6: "Giobbe continuò a pronunziare le sue sentenze e disse: Oh potessi tornare com’ero ai mesi di un tempo, ai giorni in cui Dio mi proteggeva, quando brillava la sua lucerna sopra il mio capo e alla sua luce camminavo in mezzo alle tenebre;". Il tempo di una volta e il ricordo di quella luce che tracciava per lui il percorso della sua vita e anche quando camminava in mezzo alle tenebre la luce valeva per lui come riferimento inconfondibile. E aggiunge: "com’ero ai giorni del mio autunno quando Dio proteggeva la mia tenda". Vedete, i giorni dell’autunno sono poi i giorni della vendemmia e in quel passato anche la notte era illuminata, anche l’autunno era momento di entusiasmo e di festa perché era la stagione della permanenza nelle vigne per vendemmiare.

"Quando l’Onnipotente era con me e i miei giovani mi stavano attorno". Una famiglia che gli faceva corona d’intorno e lo confortava in tutte le sue faccende. "Quando mi lavavo i piedi nel latte e la roccia mi versava ruscelli d’olio!" Il frantoio dell’olio e quindi poi tutti gli altri riferimenti ad una situazione di abbondanza, di benessere di cui godeva la vita di Giobbe in quel passato, più o meno remoto, che non ha più niente a che fare con la sua situazione di adesso. Al centro della strofa c’è quell’affermazione "l’Onnipotente era ancora con me": "l tempo di una volta quando Dio era con me". Ma non è più così.

Seconda strofa, vv da 7 a 10 e con un salto dobbiamo aggiungere il v. 21.

Giobbe continua a rievocare le situazioni del passato di cui ha fatto esperienza in modo così maturo a suo tempo, ma quel passato è ormai perduto per lui e dice: "Quando uscivo verso la porta della città e sulla piazza ponevo il mio seggio". Giobbe era un uomo onorato nell’ambito della vita pubblica. "Vedendomi i giovani si ritiravano e i vecchi si alzavano in piedi". Un uomo rispettato a cui tutti davano credito. "I notabili sospendevano i discorsi e si mettevano la mano sulla bocca". Quando si presentava Giobbe in scena nel consesso dell’assemblea pubblica tutti tacevano per dare a lui l’agio di esprimersi. "la voce dei capi si smorzava e la loro lingua restava fissa al palato". Ammutolivano, restavano a lungo in silenzio desiderosi di ascoltare quale fosse l’opinione di Giobbe riguardo la questione dibattuta.

Bisogna saltare al v. 21: "Mi ascoltavano in maniera fiduciosa e tacevano per udire il mio consiglio".

Il tempo passato non è stato soltanto il tempo del benessere, dell’abbondanza, il tempo della prosperità familiare, è stato anche il tempo della dignità sociale, dell’impegno pubblico accompagnato da un autentico successo.

Terza strofa, proseguiamo con il v. 22, poi il v. 25 e torniamo al v. 11. Qualche piccolo salto, ma ricostruiamo il testo.

V. 22: "Dopo le mie parole non replicavano". Vedete, Giobbe sta ancora rievocando quello che succedeva quando svolgeva il ruolo che tutti gli riconoscevano in quel tempo passato nel contesto della vita pubblica. "e su di loro scendevano a goccia a goccia i miei detti". Altrove, nell’Antico Testamento, questa stessa espressione è usata per quanto riguarda la parola di Dio. Vedete che la parola di Giobbe era ricevuta come la pioggia che scende goccia a goccia. La parola di Giobbe era ricevuta, ascoltata, custodita, apprezzata come parola di Dio, nientemeno. Anzi, aggiunge "mi attendevano come si attende la pioggia e aprivano la bocca come ad acqua primaverile". E ancora il v. 24: "se a loro sorridevo, non osavano crederlo". Vedete che non era soltanto la parola di Giobbe, quella parola che esce dalla bocca, ma era il volto di Giobbe che riscuoteva sulla scena pubblica un particolare riscontro di devozione perché quanti lo incontravano e avevano a che fare con lui o comunque erano coinvolti in quella conversazione a cui Giobbe partecipava scrutavano il suo volto per carpirne il sorriso. "Se a loro sorridevo, non osavano crederlo" perché Giobbe parlava non soltanto con il rumore prodotto dalla bocca, parola, ma si esprimeva anche con il sorriso del suo volto, con il suo portamento, atteggiamento, con la sua presenza, con quella luminosità che splendeva sul suo volto e che diventava motivo di consolazione per molti.

Anzi, dice ancora al v. 24 (bisogna correggere) "Non sfuggiva ad essi la luce del mio volto", "inseguivano i miei sguardi, scrutavano la mia fisionomia, coglievano sul mio volto quel riflesso luminoso da cui tutti prendevano luce". "Indicavo loro la via da seguire e sedevo come capo, e vi rimanevo come un re fra i soldati o come un consolatore di afflitti". Giobbe era un punto di riferimento, Giobbe maestro e guida di tanti altri, Giobbe consolatore per le parole che pronunciava, per la testimonianza della vita con cui si metteva a disposizione di tutti.

Ritorniamo al v. 11 che chiude questa strofa: " con gli orecchi ascoltavano e mi rendevano felice, con gli occhi vedevano e mi rendevano testimonianza". Il v. 11 conclude la strofa che abbiamo letto. "Ascoltavano con le orecchie le mie parole e guardavano con gli occhi il mio volto e le parole da me pronunciate erano per loro motivo di orientamento, la luce che contemplavano sul mio volto era per loro e per tutti motivo di consolazione in mezzo alle difficoltà inevitabili quando si tratta di prendere delle decisioni, di fare delle scelte nella vita personale e nella vita sociale". Giobbe ricorda questo di sé. Giobbe non è uno sprovveduto, lo abbiamo conosciuto fin dall’inizio, Giobbe porta con sé la memoria di questo passato, non ha perso la consapevolezza di questa eredità che ormai è patrimonio acquisito nella storia della sua vita. ma, siccome la situazione presente adesso contraddice totalmente quel passato, il ricordo così ordinato, così pulito, così lucido di quel passato, rincara ancora una volta la dose del dolore.

Per adesso andiamo avanti. V. da 12 a 17. Quarta strofa: "infatti soccorrevo il povero che chiedeva aiuto". In questa strofa Giobbe ricorda come la sua vita in passato fosse segnata dalle caratteristiche di un impegno sollecito nei confronti dei bisognosi, dei deboli, di tutti i poveri con cui aveva a che fare. Giobbe era un uomo giusto, era un uomo pio, era un uomo devoto, era un uomo generoso. E notate bene che Giobbe rievoca questi fatti senza nessuna particolare presunzione, non è proprio il caso, non è il personaggio. Sta semplicemente ricostruendo episodi, li sta mettendo in ordine, sta veramente cogliendo quale fosse il valore di quella testimonianza di vita resa in quel passato ormai remoto.

"Soccorrevo il povero che chiedeva aiuto, l’orfano che ne era privo. La benedizione del morente scendeva su di me e al cuore della vedova infondevo la gioia. Mi ero rivestito di giustizia come di un vestimento; come mantello e turbante era la mia equità. Io ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo. Padre io ero per i poveri ed esaminavo la causa dello sconosciuto". "Anche nel caso di una persona da me sconosciuta, però persona in difficoltà, anche in quel caso io mi impegnavo a comprendere il suo problema e a sostenerlo nelle sue difficoltà." "Rompevo la mascella al perverso e dai suoi denti strappavo la preda". Giobbe, un uomo veramente dotato di un animo grande e nello stesso tempo un uomo energico: in rapporto a situazioni di ingiustizia era sempre pronto ad intervenire con estrema coerenza.

Ultima strofa. V. da 18 a 20: "Pensavo: "Spirerò nel mio nido e moltiplicherò come sabbia i miei giorni". Qui è come la fenice, quell’uccello che nella concezione mitica degli antichi rimetteva le penne quando le perdeva. Giobbe si prospettava un avvenire senza limiti.

"Moltiplicherò come fenice i miei giorni". "La mia radice avrà adito alle acque e la rugiada cadrà di notte sul mio ramo. La mia gloria sarà sempre nuova e il mio arco si rinforzerà nella mia mano". "Io pensavo questo: di avere dinanzi a me un cammino dotato, ricco di sazietà e una positività irrevocabile avrebbe segnato tutto l’itinerario della mia vita, fino a un compimento benefico per me e per tutti. E invece le cose non sono andate così".

E adesso Giobbe nel cap. 30 parla del suo presente. Il presente è in totale contraddizione rispetto a quel passato. Giobbe non sta inventando, è così, quello è il suo passato. Non sta parlando di un altro, sta parlando di se stesso e il Giobbe che è nel dolore è lo stesso Giobbe. E’ lui. "Sono proprio io". Nel presente, come vi suggerivo inizialmente, lo strazio del dolore più insopportabile è divenuto la normalità. Questo rende il dolore ancor più insopportabile, ancor più dolorosa questa trasformazione nella vita di Giobbe. Tutto sembrava già così impostato in modo da diventare definitivo, invece la norma è il disagio, la situazione degradata, la sconfitta, la miseria, la sventura di cui Giobbe è testimone adesso nel suo presente.

Leggiamo, dal v. 1 al v. 8: "Ora invece (Ora invece!) "si ridono di me i più giovani di età, i cui padri non avrei degnato di mettere tra i cani del mio gregge". Giobbe è un uomo umiliato: "anche i cani che non avrei degnato di mettere tra i cani del mio gregge", gente a cui Giobbe adesso rivolge pensieri molto cupi, come se nei versetti seguenti percepissimo una specie di mugolio. E’ Giobbe che sta borbottando tra sé e sé. Espressioni che hanno le caratteristiche di imprecazioni contro quei tali, i figli di quelli sono coloro che oggi lo sberleffano.

"Anche la forza delle loro mani a che mi giova? Hanno perduto ogni vigore". Vedete che qui Giobbe sta borbottando parole molto aspre, taglienti nei confronti di quei tali che in passato erano in confronto con lui personaggi spregevoli, magari proprio quei tali contro cui Giobbe aveva dimostrato a suo tempo sentimenti e anche atteggiamenti di grande benevolenza, ma proprio gli eredi di quelli sono coloro che oggi insultano sfacciatamente il nostro Giobbe. "Disfatti dalla indigenza e dalla fame, brucano per l’arido deserto". Giobbe sta parlando di quei tali, che erano dei miserabili. "Da lungo tempo regione desolata (il deserto), raccogliendo l’erba salsa accanto ai cespugli e radici di ginestra per loro cibo". Erano dei mendicanti squalificatissimi sulla scena del mondo e pure proprio di quelli Giobbe a suo tempo si prendeva cura. "Cacciati via dal consorzio umano, a loro si grida dietro come a un ladro; sì che dimorano in valli orrende, nelle caverne della terra e nelle rupi. In mezzo alle macchie urlano e sotto i roveti si adunano; razza ignobile, anzi razza senza nome, sono calpestati più della terra." Un linguaggio imprecatorio questo. Da parte di Giobbe che (v. 9) testimonia adesso che proprio quei tali o i figli di quei tali sono quelli che si approfittano di lui. "Adesso io sono la loro canzone, sono diventato la loro favola. Hanno orrore di me e mi schivano e non si astengono dallo sputarmi in faccia!" Questa è la situazione in cui si trova Giobbe ed è una situazione terribilmente scompensata rispetto a quella impostazione che Giobbe aveva dato un tempo alla sua vita. "Oggi mi trattano come se fossi motivo di schifo, una presenza che considerano orribile e spregevole, la mia, oggi".

E insiste, dal v. 11 al v. 14: Poiché egli ha allentato il mio arco". Notate bene che qui il soggetto è Dio. Egli ha allentato il mio arco,. Ed è proprio questo il nodo che stringe tutto nel dramma di Giobbe. Ce ne siamo già resi conto, Giobbe su questo ha insistito in tante maniere: "Dio è contro di me". Così Giobbe si esprime. E’ vero, ci sono quello che si approfittano di lui, lo maltrattano, lo insultano, lo disprezzano, addirittura hanno il coraggio di sputargli in faccia, ma se le cose stanno così, dice Giobbe, vuol dire che Dio è contro di me. "Egli ha allentato il mio arco e mi ha abbattuto, essi hanno rigettato davanti a me ogni freno. A destra insorge la ragazzaglia; smuovono i miei passi e appianano la strada contro di me per perdermi. Hanno demolito il mio sentiero, cospirando per la mia disfatta e nessuno si oppone a loro. Avanzano come attraverso una larga breccia, sbucano in mezzo alle macerie." Giobbe è un uomo aggredito, stretto in una morsa, assediato, ma il vero protagonista di tutte queste disgrazie che sta denunciando è proprio Dio. "Dio contro di me. E se le cose stanno andando in questa maniera è perché Dio mi ha rifiutato". Non c’è una visione delle cose che sia più dolorosa di questa ed è una visione delle cose a cui Giobbe è giunto come se fosse ormai una evidenza incontestabile. E’ così e non c’è niente da fare.

Andiamo avanti. V. da 15 a 19: "I terrori si sono volti contro di me (è preso dagli incubi), si è dileguata come vento la mia grandezza e come nube è passata la mia felicità. Ora mi consumo (questa è la situazione attuale) e mi colgono giorni d’afflizione. Di notte mi sento trafiggere le ossa e i dolori che mi rodono non mi danno riposo. a gran forza egli mi afferra per la veste, mi stringe per l’accollatura (si sente soffocare, come se qualcuno lo stringesse per il collo del mantello, del cappotto, "mi manca in fiato", per una qualche disfunzione di ordine fisiologico, ma anche per un disagio psicologico che accompagna la situazione difficile, drammatica, dolorosissima in cui Giobbe si trova adesso. E lo capiamo bene. E aggiunge ancora, v. 19: "Mi ha gettato nel fango: son diventato polvere e cenere".

Essere gettati nel fango significa essere rimescolati con la poltiglia schifosa della terra e Giobbe sta dichiarando che questa è esattamente la sua posizione per quanto riguarda il rapporto con gli altri, con la società umana, con il mondo e con tutte le creature di Dio. Giobbe fa schifo a sé stesso. "Io faccio schifo a me stesso". E ancora, dal v. 20 al v. 23: "io grido a te, ma tu non mi rispondi, insisto ma tu non mi dai retta. Tu sei un duro avversario verso di me. E con la forza delle tue mani mi perseguiti; mi sollevi e mi poni a cavallo del vento". Giobbe sta parlando di Dio, non cita mai il nome di Dio, ma sta parlando di lui. "Tu! Io grido, piango, mi rivolto dentro a questo vortice di affanni. Come mai? Perché? Cosa mi è successo? Che intenzioni hai tu? Comunque la situazione è questa e non cambia. Io grido e tu non rispondi". "Tu sei un duro avversario verso di me". "Mi hai gettato nella tempesta e mi hai abbandonato a me stesso." "Mi fai sballottare dalla bufera. So bene che mi conduci alla morte, alla casa dove si riunisce ogni vivente". E adesso dal v. 24 al v. 27: "Ma qui nessuno tende la mano alla preghiera, né per la sua sventura invoca aiuto". "Nessuno prega più nella morte, nessuno si rivolge più a te nella morte, e tu mi stai buttando, spingendo, sollecitando, mi stai facendo precipitare in quella direzione". "Non ho pianto io forse con chi aveva i giorni duri e non mi sono afflitto con l’indigente?" E’ quello che Giobbe aveva rievocato: "ero così compassionevole verso tutti". "Eppure aspettavo il bene ed è venuto il male, aspettavo la luce ed è venuto il buio. Le mie viscere ribollono senza posa e i giorni d’affanno mi assalgono" .

Ed ecco gli ultimi versetti, da 28 a 31: "Avanzo con il volto scuro, senza sconforto, nell’assemblea mi alzo per invocare aiuto. Sono diventato fratello degli sciacalli e compagno degli struzzi. La mia pelle si è annerita, mi si stacca e le mie ossa bruciano dall’arsura. La mia cetra serve per lamenti e il mio flauto per la voce di chi piange".

"Io sono come un uomo che sta seguendo il suo funerale". L’immagine diventa quasi eccessiva, ci sembra un’assurdità un po’ grottesca, eppure è Giobbe che dice di sé "è l’ultimo residuo di vita che mi rimane. Programmare il mio funerale".

Qualcosa del genere succede qualche volta anche nelle nostre vicende. "In un certo momento nella vita quel che mi rimane è di programmare il mio funerale".

"Tutto della mia vita è ormai ridotto alle misure della celebrazione di un evento funebre".

Vedete come il lamento di Giobbe in queste pagine raggiunge livelli elevatissimi anche se sembra esprimere una situazione ormai consolidata, ormai normalizzata. Proprio per questo il lamento di Giobbe raggiunge una espressività che supera tutti i livelli immaginabili.

Terzo svolgimento, siamo al cap. 31. Giobbe esprime la sua protesta perché in dodici brevi strofe Giobbe rievoca tutti i delitti che lui non ha commesso. Per dodici volte, "non ho fatto, non ho fatto…. Mai ho fatto qualcosa di male". In realtà Giobbe è un peccatore come tutti, ma il problema di Giobbe, come già sappiamo, è quello di un uomo che non riesce a comprendere quale sia il rapporto tra la sua vita che è comunque la vita di un uomo con dei limiti, un uomo che commette errori, un uomo con dei peccati, e il dolore che lo affligge fino alla morte. Non riesce a comprendere questo rapporto. E’ sproporzionato per lui, non c’è logica, non c’è coerenza. Lo ha ripetuto in modo molto chiaro "Dio è contro di me. Perché?".

E adesso dice: "protesto". Dodici brevi strofe: "Avevo stretto con gli occhi un patto di non fissare neppure una vergine. Che parte Dio mi assegna di lassù e che porzione mi assegna l’Onnipotente dall’alto? Non è forse la rovina riservata all’iniquo e la sventura di chi compie il male? Non vede egli la mia condotta e non conta tutti i miei passi?" Dice Giobbe "io non ho gettato sguardi concupiscenti verso donne, semmai è Dio che non controlla bene il suo sguardo perché punta verso di me uno sguardo punitivo ed il non lo merito, perché invece il mio sguardo è stato uno sguardo luminoso e trasparente".

V. da 5 a 8: "Se ho agito con falsità ed il mio piede si è affrettato verso la frode, mi pesi pure sulla bilancia della giustizia e Dio riconoscerà la mia integrità". "Io non ho frodato nessuno. Non ho imbrogliato nessuno". "Se il mio passo è andato fuori strada e il mio cuore ha seguito i suoi occhi, se alla mia mano si è attaccata sozzura, io semini e un altro ne mangi il frutto e siano sradicati i miei germogli". Giobbe invoca una maledizione per sé se fosse che vero che "ho frodato qualcuno, se fosse vero che ho approfittato di qualche tangente, se alla mia mano si fosse attaccata la sozzura (qualcosa di simile alla nostra bustarella), se io mai sono sceso a quei compromessi, maledizione per me. Ma io non sono sceso a quei compromessi, io non ho frodato nessuno".

V. da 9 a 12: "Se il mio cuore fu sedotto da una donna" – qui Giobbe parla della sua vita dicendo che lui non ha mai tramato l’adulterio, non soltanto gli occhi sono rimasti limpidi, ma il cuore suo non ha mai desiderato di approfittare della donna altrui – "e ho spiato alla porta del mio prossimo, mia moglie macini per un altro". Anche qui il linguaggio della maledizione, un linguaggio pesante che è appunto testimonianza di una serietà estrema nel dichiarare queste cose e nel testimoniare la autenticità della sua vita, così come Giobbe l’ha registrata e ce ne dà adesso notizia. "Se mai io ho compiuto qualcosa del genere, se mai ho desiderato la donna d’altri" "mia moglie macini per un altro e altri ne abusino; difatti quello è uno scandalo, un delitto da deferire ai giudici, quello è un fuoco che divora fino alla distruzione e avrebbe consumato tutto il mio raccolto". Giobbe non ha mai nemmeno vagamente immaginato un’ipotesi del genere, di organizzare il progetto di un adulterio.

V. da 13 a 15: Se ho negato i diritti del mio schiavo e della schiava in lite con me, che farei quando Dio si alzerà, e quando farà l’inchiesta, che risponderei? Chi ha fatto me nel seno materno non ha fatto anche lui (lo schiavo)? Non fu lo stesso a formarci nel seno?" Giobbe dice "non ho mai compiuto prepotenze a danno degli schiavi", che sono evidentemente persone deboli ed esposte, "ma io non ho mai approfittato di loro, perché tutti sono figli di donna, io e lo schiavo. E se maltratto lo schiavo Dio sorge in sua difesa. Io questo non l’ho mai fatto."

Dal v. 16 al v. 20: "Mai ho rifiutato quanto brama il povero". Qui Giobbe dice "non ho mai maltrattato i poveri di questo mondo, mai". "Non ho lasciato languire gli occhi della vedova; mai da solo ho mangiato il mio tozzo di pane, senza che ne mangiasse l’orfano, poiché Dio, come un padre, mi ha allevato fin dall’infanzia e sin dal ventre di mia madre mi ha guidato. Se mai ho visto un misero privo di vesti o un povero che non aveva di che coprirsi, e non hanno dovuto benedirmi i suoi fianchi, o con la lana dei miei agnelli non si è riscaldato". Tutto questo Giobbe rievoca per dire "che io sia maledetto". E’ una formula di imprecazione, ma in realtà lui nella sua vita ha sempre preso posizione a vantaggio dei poveri. E’ un uomo retto, Giobbe, un uomo dalla coscienza veramente molto accogliente, un uomo che rispetta fino in fondo le intenzioni di Dio. Ed è convinto che "Dio sia padre dei poveri". Soltanto poi che il problema suo rimane. "Come mai a me capita questo?"

V. da 21 a 23: "Se contro un innocente ho alzato la mano (quello che Giobbe non ha mai fatto, non ha mai infierito contro gli innocenti) perché vedevo alla porta chi mi spalleggiava (si fa presto ad infierire contro gli innocenti solo perché si è più forti, perché c’è qualcuno che ti spalleggia. "Io non l’ho mai fatto, anche quando ero più forte, quando ero spalleggiato, quando potevo esercitare il potere di opprimere i più deboli di me. Se mai è capitato qualcosa del genere "mi si stacchi la spalla dalla nuca e si rompa al gomito il mio braccio, perché mi incute timore la mano di Dio e davanti alla sua maestà non posso resistere".

E ancora, v. 24 e 25: "se ho riposto la mia speranza nell’oro e all’oro fino ho detto "Tu sei la mia fiducia" (in questa altra breve strofa Giobbe dichiara di non aver mai cercato la smisurata ricchezza "non ho mai puntato all’obiettivo dell’arricchimento illimitato, mai") se godevo perché grandi erano i miei beni e guadagnava molto la mia mano". Anche per questo una maledizione. "Ma questo non è avvenuto. Non ho mai proposto a me stesso l’obiettivo della ricchezza, la ricchezza per la ricchezza, il godimento dei beni per motivi di presunzione e di lussuria, mai".

E ancora, v. da 26 a 28: "se vedendo il sole risplendere e la luna chiara avanzare si è lasciato sedurre in segreto il mio cuore e con la mano alla bocca ho mandato un bacio". Sapete di cosa parla qui Giobbe? Parla della idolatria. "Io non ho mai ricercato un idolo da adorare, il sole, la luna", grandi riferimento per la devozione idolatrica degli antichi. Quanto Giobbe dice qui circa l’idolatria sta in stretto rapporto con quanto appena detto circa la ricchezza. Tra l’accumulo della ricchezza e l’idolatria c’è un rapporto diretto nella rivelazione biblica. E dice Giobbe "io non ho mai cercato quella ricchezza per motivi di avarizia, non ho mai dedicato la mia vita al culto degli idoli, non ho mai mandato baci all’idolo concupito nel cuore". Questo sarebbe stato un delitto da tribunale perché avrei rinnegato Dio che sta in alto".

E ancora, v. da 29 a 30: "Ho gioito forse della disgrazia del mio nemico". Quello che Giobbe non ha mai fatto. Non ha mai gioito per la disgrazia altrui. "Ho esultato perché lo colpiva la sventura, io che non ho permesso alla mia lingua di peccare, augurando la sua morte con imprecazioni?" "Questo non l’ho mai fatto". Man mano che Giobbe sta rievocando questi peccati non commessi la sua rievocazione si fa sempre più interiore. E’ l’atteggiamento più profondo del cuore di Giobbe che sta delineandosi, in base a questa testimonianza, come un atteggiamento di grande disponibilità, di vera apertura, di obbedienza alla parola di Dio. Certo con le sue insufficienze, con le sue mancanze, con i suoi limiti, ma l’impostazione che ha dato alla sua vita è stata un’impostazione onesta, con la quale Giobbe fin dall’inizio ha voluto corrispondere alla vocazione ricevuta. Eppure le cose non sono andate.

"Nel cuore io ho sempre augurato bene a tutti, non mi sono mai compiaciuto delle sventure altrui, mai ne ho approfittato a mio vantaggio". E ancora, v. 31 e 32: "Non diceva forse la gente della mia tenda: "A chi non ha dato delle sue carni per saziarsi?" Giobbe non ha mai tradito l’ospitalità. Ha sempre dato da mangiare al viandante, all’ospite, ha sempre offerto tutta la sua disponibilità. "All’aperto non passava la notte lo straniero e al viandante aprivo le mie porte".

E ancora, v. da 33 a 37: "Non ho nascosto, alla maniera degli uomini la mia colpa". Interessante, Giobbe dice di sé che non ha mai tenuto nascoste le sue colpe (questo vuol dire che anche Giobbe è un peccatore come gli altri). "Alla maniera degli uomini", come Adamo – proprio questo è l’episodio che voi tutti ricordate – nel giardino, nell’antico racconto, Adamo si nasconde, vuole nascondersi, vuole coprirsi, vuole camuffarsi. Giobbe dice "io, nella mia colpa non mi sono mai nascosto, non ho tenuto "mai celato il mio delitto in petto, come se temessi molto la folla, e il disprezzo delle tribù mi spaventasse, sì da starmene zitto senza uscire di casa". Anche Giobbe ha accumulato delle colpe nella sua vita, ma si è sempre comportato in modo molto onesto, molto chiaro, risoluto anche nel riconoscere e denunciare le sue insufficienze. "Non mi sono mai mascherato".

V. da 38 a 40: "Se contro di me grida la mia terra", questo è il dodicesimo peccato che Giobbe non ha mai commesso: non ha mai sfruttato il lavoro degli altri e quindi la terra non ha protestato, perché la terra protesta quando è irrorata dal sudore di coloro che sono iniquamente sfruttati, "e i suoi solchi piangono con essa; se ho mangiato il suo frutto senza pagare e ho fatto sospirare dalla fame i suoi coltivatori, in luogo di frumento, getti spine ed erbaccia al posto dell’orzo". "Non ho mai mangiato il frutto della terra senza corrispondere ai coltivatori ciò che era di loro competenza".

E siamo agli ultimi versetti, da 35 a 37 (sono stati spostati, li rimettiamo nella loro posizione finale). Siamo alla fine di tutto il discorso dopo che per dodici volte Giobbe ha detto "io non ho fatto….. ". Conclude così: "Oh, avessi uno che mi ascoltasse!" E’ l’appello di Giobbe. "Ecco qui la mia firma!" Chi è quest’uno a cui Giobbe si rivolge? Non lo ha nominato, ma adesso "l’Onnipotente mi risponda!" Un appello che è rivolto a Dio. Giobbe mette la firma. Tau. E’ l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico, una lettera in forma di croce. Deposita un documento. Già si usava così nel caso di una questione impostata in sede giudiziaria. Si presenta un documento. "Io ci metto la firma". Esigo una risposta. "Il documento scritto dal mio avversario vorrei certo portarlo sulle mie spalle e cingerlo come mio diadema!" "Mi risponda con un documento scritto! E quel documento scritto diventerà il mio vanto", perché Giobbe è sicuro che nel contesto di una disputa giudiziaria avrebbe vittoria. "Mi risponda, mi risponda per iscritto ed il quel documento lo sventolerò, me lo porterò addosso" così come oggi giovani e anche adulti portano sulla maglietta tante figure un po’ curiose. "Io andrò in giro con la mia maglietta che porta scritto il documento con cui il mio avversario mi dà ragione". Un atteggiamento fiero, trionfante di Giobbe, qui, eppure la sua situazione è terribile, ma vedete, Giobbe fa appello a Dio contro Dio, perché nel suo scontro, nel suo conflitto, nel suo dramma Giobbe dice "Dio è contro di me". Giobbe è convinto – non sa neanche lui come mai – che Dio passerà dalla sua parte.

Non è un discorso logico questo, ma è un discorso che coglie esattamente il cuore del mistero. E per noi che siamo sulla soglia della settimana santa è il centro di tutto. Nella rivelazione biblica, nella storia dell’umanità è la storia della salvezza che precipita verso questo segno. Anche in questo caso l’evento definitivo è un segno di croce. Un tau. Dio è passato dalla nostra parte. E’ il mistero di Dio che viene contro di noi per contestarci. Giobbe rimane indifeso, sbalestrato, disorientato, protesta, grida, strepita.

E’ il mistero di Dio che passa dalla nostra parte. E’ il mistero di Dio che non mi viene incontro per spiegarmi come mai, per farmi col bilancino il calcolo del dare e dell’avere, ma è il mistero di Dio che è accanto a me, è con me, è lui che porta in sé il carico straziante del mio dolore, del dolore di tutti gli uomini, di tutta la storia umana. L’Onnipotente


Lectio divina


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Il libro di Giobbe 2000-01