Incontri di discernimento e solidarietà
 
  • Download

  • Puoi scaricare l'intero file nei seguenti formati:
  • Microsoft Word - Scarica in formato Microsoft Word (56 KB)
  • Adobe Acrobat PDF - Scarica in formato Adobe Acrobat PDF (374 KB)
 

IN ATTESA

di Pino Stancari

nostalgia

Mi limito a rievocare quella nota di nostalgia che abbiamo colto leggendo i versetti da 2 a 4, lasciando da parte il titolo, v. 1. E’ la nostalgia di cui dà testimonianza la creatura, che qui si espone direttamente in prima persona. Tale creatura è il popolo di Dio, ma tutta l’umanità è già riconoscibile, senza trascurare la qualità insostituibile, preziosa, unica, irripetibile di ogni singola persona umana.

Una nota di nostalgia per quanto riguarda la relazione con colui che è invisibile, inafferrabile, sfuggente, colui con il quale già è stata intrattenuta una relazione, ma una relazione che sembra compromessa e momentaneamente interrotta. Una ricerca, tuttavia, è in atto, testimonianza di una comunione che è già in grado di superare tutte le distanze: la nostalgia del diletto, anche se qui non è ancora citato con questo nome.

Il Cantico dei Cantici si apre con un sospiro che manifesta la aspirazione irriducibile ad un evangelo da cui già si è ricevuto un dono di vita che rimane valore inequivocabile, anche se si ha l’impressione che l’evangelo sia scivolato via, passato, se ne è andato. E’ vero che del diletto rimane uno strascico di profumo, ma rimane la sconcertante esperienza di una relazione senza contatto. O meglio: una relazione che comporta una evoluzione degli atteggiamenti interiori, l’imparare ad accogliere quel profumo, a discernerne il valore, a seguirne l’effluvio.

Il Cantico dei Cantici si apre con questa testimonianza appassionata: siamo catturati da una nostalgia dell’evangelo, che è la sorgente della nostra vita e di cui pure ci sembra di aver perso la presenza; siamo in corsa della ricerca di un evangelo che ci attrae, eppure avvertiamo il dramma di non poterlo raggiungere.

bruna ma bella

Primo poema (1,5-2,7).

Il poema si apre con una strofa (vv. 1,5-7) nella quale si fa udire la voce della creatura che arranca sospirosa ed incerta, impegnata in una ricerca che ancora non è giunta a compimento, anzi una ricerca che per il momento sembra essere assai lontana da una conclusione favorevole.

«Bruna sono ma bella, o figlie di Gerusalemme, come le tende di Kedar, come i padiglioni di Salma».

Si rivolge alle figlie di Gerusalemme, c’è qualcuno che ha la pazienza di ascoltare i suoi sospiri, i suoi gemiti, le sue invocazioni; c’è qualcuno che si accorge di lei, ci siamo noi che stiamo leggendo il Cantico dei Cantici, ci sta interpellando in modo diretto ed esplicito. Si presenta «bruna sono, ma bella». Si presenta così in modo un po’ brusco e diretto; tutto quel che dice di se stessa ci lascia intendere che ci sia un antefatto. Chissà cosa è successo nel passato di questa creatura? Perché è bruna?

Non c’è dubbio che il fatto che si presenti in questo modo allude a degli inconvenienti che hanno scompensato lo svolgimento della sua vita. E’ alle prese con una situazione di avvilimento, di smarrimento: è oscurata, rabbuiata, imbrunita. E’ la vicenda di una vita che si è caricata di molteplici storie, di un inquinamento piuttosto preoccupante: «bruna sono». Aggiunge subito: «ma bella, figlie di Gerusalemme, come le tende di Kedar, come i padiglioni di Salma», come le tende dei beduini, che sono nere. La similitudine è più che mai pertinente: nera come le tende degli abitanti del deserto. Sotto quelle tende nere gli abitanti del deserto sopravvivono. Questa creatura che con totale sincerità dichiara il suo stato di drammatico oscuramento, non ha alcuna incertezza di rimarcare la bellezza di cui è dotata: «bruna sono, ma bella». Coraggiosa questa dichiarazione a testimonianza di una sincerità profonda: per quanto oscurata da eventi che hanno compresso la stabilità, l’identità, la dignità della sua vita, è intimamente convinta di essere dotata di una bellezza incancellabile, una bellezza inconfondibile, ineliminabile, quella bellezza che compete ad una creatura in quanto appartiene al creatore, una bellezza che appartiene al popolo di Dio in quanto è coinvolto in una relazione di alleanza. Per quanto questa alleanza possa essere stata tradita, rimane il valore di una chiamata, di un dono, di un riconoscimento, con cui Dio stesso ha fatto di quel popolo il suo interlocutore. Gli ha conferito una bellezza che nessuna tragedia potrà mai eliminare.

Questa creatura oscura, nera, squalificata si radica in una incrollabile fiducia per quanto concerne quella bellezza che qualcun altro le ha conferito e le riconosce; qualcun altro, di cui lei stessa sta andando in cerca, ma ancora non trova.

Insiste (1,6):

«non state a guardare che sono bruna, poiché mi ha abbronzato il sole».

E’ bruna, ma non fateci troppo caso. Il sole mi ha abbronzato: sono stata esposta alle intemperie del tempo, a tutti gli inconvenienti della vita. E’ una creatura consapevole del fallimento che ha sconvolto il cammino della sua vita. La storia del passato, che qui non viene raccontata nei dettagli, non è il caso che ci mettiamo a ricostruirla. La storia del passato viene rievocata in modo essenziale e perfettamente maturo. E’ una storia sbagliata quella che sta alle spalle di questo personaggio, ma «non state a guardare che sono bruna, poiché mi ha abbronzato il sole».

E’ evidente qualche accenno alla disfunzione che ha contrassegnato la sua storia passata:

«I figli di mia madre si sono sdegnati con me: mi hanno messo a guardia delle vigne; la mia vigna, la mia, non l'ho custodita».

E’ successo qualche cosa per cui è venuta meno la sua vocazione. Che cosa è successo? Gli è stata affidata una responsabilità, ma non ha saputo assolvere al compito assegnato. Non è soltanto un compito oggettivo, quello che non ha svolto: «la mia vigna», è rimarcato questo possessivo di prima persona. «La mia vigna non l’ho custodita», è venuta meno la sua stessa vocazione, è venuta meno alla sua dignità. I fratelli non la sopportano più, appunto, «bruna sono».

Nella sua oscurità attualmente non è più presentabile, ma non c’è oscurità che le sottragga quella bellezza di cui in un passato ancora più remoto, di quello che è stato segnato dal suo fallimento, qualcun altro l’ha guardata e l’ha amata: «bruna sono, ma bella». E’ a questo passato antecedente ad ogni altro passato fallimentare che la nostra creatura fa riferimento. Mentre cerca, si agita, si muove sulla scena del mondo, insegue, interpella, interroga le figlie di Gerusalemme. Questo ci lascia intendere che la situazione in cui si trova questa creatura sia poi quella in cui si trovano, in un modo o nell’altro, anche le altre creature con le quali intrattiene rapporti di itineranza, di comunicazione appassionata. Questa creatura è alla ricerca di un passato, di una presenza che pure ha segnato la sua vita. E’ alla ricerca nel senso assoluto del termine: ricerca delle relazioni con il mondo che le sta intorno, ricerca della sua penetrazione nell’intimo del cuore, ricerca della memoria, di tutto il vissuto. E’ alla ricerca di colui che l’ha guardata e l’ha amata, di colui che le ha attribuito una bellezza intramontabile, quella bellezza di cui soltanto lui è consapevole.

dimmi o amore dell’anima mia

V. 7: «Dimmi, o amore dell'anima mia».

Già si rivolge in modo commovente a quel tale, l’invisibile, che l’ha guardata e l’ha amata dall’inizio e che, per quanto sia irragiungibile, è presente, incombente, più di ogni altro attento a lei. «Dimmi, o amore dell'anima mia». Un’immagine tratta dalla vita pastorale: la nostra creatura è una pecora che sta belando all’indirizzo del pastore, è una pecora smarrita. Questa immagine ritorna nell’Antico e nel Nuovo Testamento. E’ pecora belante, ed è pecora che, all’insaputa di tutto, è comunque convinta che il pastore sta ascoltando quel belato, che il pastore è attento a quella voce, è presente, anche se invisibile e inafferrabile.

«Dimmi o amore dell’anima mia, dove vai a pascolare il gregge, dove lo fai riposare al meriggio, perché io non sia come vagabonda dietro i greggi dei tuoi compagni».

Salmo 23: «Il Signore è il mio pastore non manco di nulla..." Questa creatura è abituata ad andare cercando di qua e di là, confonde il suo pastore con quelli di altri greggi. E’ in corsa. Si rivolge al pastore. E’ una sicurezza indefettibile in lei. Il pastore ascolta la voce della sua pecora, è attento a questo belato.

Le figlie di Gerusalemme intervengono:

«Se non lo sai, o bellissima tra le donne». C’è forse una nota ironica, ma è un’ironia buona: bellissima. Possibile che tu bella come sei non sappia dove sta il tuo pastore? «Segui le orme del gregge e mena a pascolare le tue caprette presso le dimore dei pastori».

Qui la pecorella è trasformata in pastorella: datti da fare, ci sono le orme del gregge, segui quelle tracce. E’ un incoraggiamento rivolto alla creatura perché si fidi: quello che capita a te non è un fenomeno unico ed eccezionale, già altri hanno percorso queste strade, già c’è un tracciato, una tradizione; ci sono altri, c’è un gregge, un popolo, c’è una moltitudine che ti ha preceduto. Il coro dà un buon consiglio: ti dai tanto da fare, ma alla fine dei conti non sai dove andare; affidati al gregge, segui le orme; già altri sono passati e troverai il pastore.. C’è una tradizione nel popolo di Dio, nella chiesa, nell’esperienza di altri ricercatori e poi belanti pecore rimaste inchiodate in qualche zona del mondo, come te! C’è già una tradizione. Già, una ricerca dell’evangelo. E’ una ricerca che, per quanto personale e di tutta una comunità, si inserisce in una storia. Fidati di coloro che già hanno percorso questo itinerario. Un buon consiglio.

amica mia..

All’improvviso, per la prima volta, compare lui, il diletto. Il diletto viene in modo da intersecare la ricerca della creatura sorpassandola; è una venuta che si pone ad un livello di gratuità del tutto superiore ai tentativi svolti dalla creatura. Certo, la creatura si è lasciata educare, si è lasciata coinvolgere nel viaggio di tutto un popolo di cercatori, ma adesso è lui che viene a modo suo, manifestando la totale gratuità della sua iniziativa. Viene all’improvviso. Viene sempre così.

«Alla (mia) cavalla del cocchio del faraone io ti assomiglio, amica mia. Belle sono le tue guance fra i pendenti, il tuo collo fra i vezzi di perle. Faremo per te pendenti d'oro, con grani d'argento».

E’ una irruzione strepitosa. E’ lui che esprime così la sua ammirazione per la creatura affannata, ansimante, che arrancava di qua e di là, vagabonda, all’inseguimento di un pastore inafferrabile, che portava su di sé i segni inconfondibili di una abbronzatura squalificante. Eppure era bella così come aveva il coraggio di presentarsi, suscitando una qualche eco ironica nel coro delle figlie di Gerusalemme. Ma adesso è lui che viene, adesso è lui che la osserva e la raffigura. «Alla (mia) cavalla del cocchio del faraone». La nobiltà dei personaggi che qui sono evocati, la sontuosità del drappeggio.. qui è proprio un grazioso modo di danza che viene colto dallo sguardo del diletto: «io ti assomiglio, amica mia». Amata mia! E’ proprio il suo sguardo a rendere bella la sua creatura. E’ lo sguardo del diletto che conferisce bellezza al mondo, è la venuta dell’evangelo che illustra lo splendore dell’umanità e di tutta la creazione. E’ un grido commosso, un gesto di ammirazione, una voce esultante, un cantico di amore. Viene dalla profondità del mistero, viene dal Dio vivente, viene dal diletto: è il suo evangelo!

«Alla (mia) cavalla del cocchio del faraone io ti assomiglio, amica mia. Belle sono le tue guance fra i pendenti, il tuo collo fra i vezzi di perle».

Che ci fossero questi gioielli a sottolineare la bellezza di quella creatura noi non l’avevamo ancora compreso, anzi ci sembra poco adatto questo richiamo a una decorazione piuttosto spropositata. Il caso era quello di una pecorella o di una pastorella, di una figliola di famiglia che non ha custodito la vigna, esposta a tutte le intemperie del mondo.. Eppure: «Belle sono le tue guance fra i pendenti, il tuo collo fra i vezzi di perle». Ancora una volta è lo sguardo del diletto che, mentre coglie la bellezza, quella bellezza che egli stesso attribuisce alla creatura amata, sa anche come suscitare bellezza. Lo sguardo del diletto dona una bellezza di cui vuole compiacersi, è una bellezza che ridonda, che si effonde, che appare illumina la scena del mondo. «Faremo per te pendenti d'oro, con grani d'argento». Una bellezza ingioiellata: il diletto la vede, se ne compiace, la valorizza in modo tale che tutto l’ambiente circostante ne tragga vanto. E’ una bellezza in crescita: «Faremo per te pendenti d'oro, con grani d'argento». E’ l’evangelo. Segna ormai la storia della nostra generazione, del nostro oggi, del nostro essere qui, la storia di questa creatura bruna, ma bella, la storia della nostra fatica, della nostra ricerca, del nostro affanno, della nostra delusione; la storia del nostro smarrimento, del nostro fallimento, del nostro rinnegamento. L’Evangelo è qui, oggi, per noi, in noi, è il mistero del Dio vivente che si incide nella nostra carne, nella nostra storia, nella nostra chiesa, nella nostra generazione. E’ l’evangelo che ci coinvolge nell’opera di una creazione rinnovata, tale per cui la scena del mondo è veramente raggiunta in tutte le sue dimensioni, in tutte le sue componenti, uno splendore che passa attraverso di noi per dilagare in tutte le direzioni. Perché? Perché è presente lui, perché lui è protagonista, perché è lui, il vivente, perché è lui il diletto che ci chiama: «amica mia».

nel giardino

Nei versetti che seguono (1,12-2,7) c’è un dialogo. L’incontro è avvenuto e non ci si può più sottrarre all’ urgenza di un chiarimento. La scena, che prima era impostata in base alle forme della vita pastorale, adesso è descritta al modo di un giardino nel quale avviene l’incontro tra i due personaggi che sono configurati come il re e una principessa. Il re, il diletto, si è presentato da se stesso e non possiamo più sottrarci alla pressione urgente e dolcissima della sua parola, del suo evangelo, della sua forza di amore. La principessa, la creatura amata, bruna ma bella, pecora e pastorella vagabonda, è ora nel suo giardino.

Nel vangelo secondo Giovanni tutto si compie in un giardino. Lo stesso Gesù vivente, risorto dai morti, viene confuso con il giardiniere.

Nei vv. 12-14 è la creatura amata che parla, è lei che cerca di destreggiarsi nella situazione così nuova e stupefacente che l’ha coinvolta:

«Mentre il re è nel suo recinto, il mio nardo spande il suo profumo. Il mio diletto è per me un sacchetto di mirra, riposa sul mio petto. Il mio diletto è per me un grappolo di cipro nelle vigne di Engàddi».

E’ la voce di una creatura che si sente valorizzata, ricercata, gradita. Il recinto: una comunicazione intensa, coinvolgente nell’intimo come questa, esige un ambiente adatto. Il recinto all’interno del quale avviene questo incontro non è preclusivo, ma inclusivo.

Il re è dunque nel suo recinto. «Il mio nardo spande il suo profumo» dice la creatura. Il diletto è profumato, effonde quell’odore misterioso che è in grado di pervadere l’universo e di attirarlo a sé. Adesso è la creatura umana, proprio lei, che spande il profumo. Lei stessa è messa in grado di esalare profumo, profumo che è gradito alle narici del diletto, testimonianza di una intimità che raggiunge in modo sempre più diretto e intrattenibile l’intimo dei cuori. Nello stesso tempo: «Il mio diletto è per me un sacchetto di mirra, riposa sul mio petto». C’è una fusione di profumi, una comunione nel soffio, nel respiro: il profumo del diletto che diventa presenza appoggiata sul petto della creatura amata, che diventa respiro del suo respiro.

«Il mio diletto è per me un grappolo di cipro nelle vigne di Engàddi», aggiunge ancora il v. 14. Il diletto riposa là dove la creatura è visitata e il riposo del diletto diventa motivo di compiacimento per la creatura amata. Vi è qui l’accenno ad un’ebbrezza che rende dolce ogni esperienza della vita, ogni contatto con il mondo, un’ebbrezza che riscalda, infervora, accende: «Il mio diletto è per me un grappolo di cipro nelle vigne di Engàddi».

l’imbarazzo

La ridondanza delle immagini, la forza del linguaggio non passano inosservati; abbiamo la percezione che questa creatura amata, mentre si esprime con dichiarazioni così intense, vada in qualche modo schermendosi.

V. 15. Qui è la voce del diletto: «Come sei bella, amica mia, come sei bella! I tuoi occhi sono colombe».

Il diletto è molto sobrio, essenziale, diretto: «Come sei bella, amica mia, come sei bella!». Cerca gli occhi: «I tuoi occhi come colombe!». Cerca gli occhi. Il volto della creatura è effettivamente velato, cerca attraverso gli occhi l’espressione della libertà, lo sguardo è sacramento del cuore: «I tuoi occhi come colombe». Non c’è dubbio: il diletto è incantato d’innanzi alla sua creatura amata. Insegue quello sguardo, vuole carpirlo, vuole afferrarlo, attirarlo a sé. Ma se le cose stanno così, vuol dire che quello sguardo sta sfuggendo altrove, sta volando altrove in modo ancora inafferrabile. Certo il diletto è incantato: cercavo l’evangelo e mi sono accorto che l’evangelo cercava me, che l’evangelo mi voleva veramente, che l’evangelo mi amava, mi prendeva veramente, mi conquistava, si impossessava di me. A quel punto mi sono trovato in grande imbarazzo. E’ quello che succede alla creatura amata. Ha cercato il vivente, adesso il diletto ha detto la sua.

Di nuovo la creatura amata (1,16-2,1): «Come sei bello, mio diletto, quanto grazioso!». Cerca di stare al passo, di fare il verso, di ripetere pari pari quelle dichiarazioni di grande affetto, di stima, di ammirazione che il diletto le ha rivolto. «Come sei bello, mio diletto, quanto grazioso! Anche il nostro letto è verdeggiante».

Subito sposta lo sguardo, guarda le spalle: siamo appoggiati su un letto verdeggiante, un prato verde. Poi guarda in alto: «Le travi della nostra casa sono i cedri». Maestosi, tutto l’ambiente è testimonianza di una bellezza incantevole, la fecondità della vita, i colori dell’universo, la partecipazione festosa di ogni creatura: «nostro soffitto sono i cipressi». Questa elevazione massimamente proiettata verso le altezze celesti è dovuta al fatto che la creatura amata sta divagando: come sei bello mio diletto, quanto grazioso, guardiamoci attorno, guardiamo ad altro, parliamo d’altro. Quando mi sono accorto che l’evangelo cercava me, ho guardato altrove.

«Io sono un narciso di Saron, un giglio delle valli».

Si schermisce. Perché? La piana di Saron sta sulla costa del Mediterraneo a nord di Giaffa. Oh! Quanti ce ne sono di gigli, una quantità innnumerevole. Io sono soltanto un narciso di Saron, un giglio delle valli: chi sarò mai io? Si tira indietro perché è umile? Perché è discreta? Perché si rende conto dei suoi limiti? Queste sono mascherature, in realtà non ce la fa a reggere la relazione. Proprio io? E perché io? Che c’entro io? Io in fondo sono solo un giglio delle valli.

E il diletto incalza:

«Come un giglio fra i cardi, così la mia amata tra le fanciulle».

Proprio tu! Unico giglio, «così la mia amata fra le fanciulle». La nostra creatura annaspa. E’ di nuovo lei che prende la parola, cerca di aggiustare le cose come le riesce. In realtà poi non riesce ad aggiustare un bel niente. Il diletto si è espresso in modo chiaro, perentorio: l’evangelo è per te, vuole te, cerca te.

E la nostra amica sfugge alla presa:

«Come un melo tra gli alberi del bosco, il mio diletto fra i giovani». «Alla sua ombra, cui anelavo, mi siedo e dolce è il suo frutto al mio palato».

Cerca di prendere tempo, di trovare mediazioni nello spazio, di interpellare altri interlocutori.

«Mi ha introdotto nella cella del vino e il suo vessillo su di me è amore».

«Mi ha introdotto nella cella del vino». Adesso si rende conto che non si può più divagare. «Il suo vessillo su di me è amore». La cella del vino, come spiega la Bibbia di Gerusalemme, è la sala del banchetto nuziale. Il diletto non perde tempo, il diletto non tergiversa, non rinvia. La nostra creatura non ce la fa, è impreparata, questo incontro è insostenibile per lei. Questa comunione di vita non è a sua misura, almeno questa è la realtà che noi stiamo per registrare. E’ troppo debole ancora, è ammalata, non ce la fa, e sviene.

la caduta e l’attesa

«Sostenetemi con focacce d'uva passa, rinfrancatemi con pomi, perché io sono malata d'amore».

Quell’amore che è per la mia vita, mi viene incontro e dimostra la mia malattia. L’evangelo mi cerca e l’evidenza a cui soggiaccio, e di cui in modo clamoroso e davvero mortificante debbo dare prova a tutti attorno a me, è che io non sono preparata, sviene.

«La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia».

Sta cadendo e nella caduta è tenuta stretta, perché il vivente è presente, perché il vivente è fedele nella sua iniziativa, perché ha dichiarato la sua intenzione e rimane in tutto e per tutto al suo posto. La prende in braccio e la depone sapientemente e delicatamente a terra. «La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia». Adesso la creatura è svenuta e giace a terra. E qui resterà ancora per il seguente poema.

Il v. 7 chiude il primo poema. Prende la parola ancora il diletto, fermo, in veglia, al capezzale della creatura amata che è svenuta, dorme, è malata:

«Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle o per le cerve dei campi: non destate, non scuotete dal sonno l'amata, finché essa non lo voglia».

Questo versetto comparirà tale e quale alla fine del secondo poema, in 3,5. E’ un ritornello. Ricomparirà un po’ aggiustato in 8,5. E’ il diletto che veglia pazientemente. La creatura è malata, l’evangelo non l’ha trovata pronta, l’evangelo l’ha tramortita, l’ha riempita, l’ha attraversata, l’ha travolta. La creatura amata non è ancora in grado di corrispondere come il diletto attendeva e desiderava. E’ lui che attende ancora, che desidera con intransigente sollecitudine di amore. Tutto questo in vista del risveglio, quando finalmente la creatura amata sarà in grado di rispondere all’amore del diletto con la libertà della sua offerta. Per questo chiama a raccolta le figlie di Gerusalemme, il coro in cui riconosciamo la presenza di tutta l’umanità:

«per le gazzelle o per le cerve dei campi non destate, non svegliate dal sonno l’amata».

Il diletto convoca tutto e tutti al capezzale dell’amata perché c’è un unico desiderio che egli vuole perseguire e vuole realizzare. La creatura amata si sveglierà quando sarà in grado di corrispondere alla sua intenzione di amore nella libertà di una offerta di amore: «finché essa non lo voglia».

L’evangelo è presente, l’evangelo incalza, l’evangelo è paziente, l’evangelo preme e attende. L’evangelo struttura la storia umana, l’evangelo convoca tutti gli eventi, tutti i personaggi, tutti i dinamismi culturali, e tutte le componenti dell’universo al capezzale di chi è ancora ammalato, di chi ancora non ha corrisposto all’amore del vivente con la libertà di una offerta di amore. E’ la storia di oggi, è la storia nostra, di tutti e di ciascuno, è la storia della nostra chiesa, della nostra generazione. Siamo entrati nel tempo di avvento, tempo della veglia. Il vegliante è per antonomasia il vivente, è lui che sta vegliando al capezzale della nostra umanità, della nostra generazione, della nostra chiesa, ancora in stato di malattia.