Incontri di discernimento e solidarietà
 
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LECTIO DIVINA - Padre Pino Stancari

Il Cantico dei Cantici



IL SINGHIOZZO, LA NOSTALGIA,
IL PROFUMO, L’INTIMITA’

di Pino Stancari

una meditazione sapienziale

Il Cantico dei Cantici è una meditazione sapienziale sulla storia umana e sul senso della storia umana, così come nel vissuto personale di ciascuno di noi. Il testo, nella sua redazione definitiva, appartiene alla fase finale della storia della salvezza e porta così in sé la densità, la complessità, la ricchezza di una meditazione che è andata crescendo e qualificandosi nel corso di tanti secoli. E’ un frutto prezioso che ci trasmette il condensato di una ricerca che è passata attraverso le grandi vicende della storia del popolo di Dio e che trascina con sé le testimonianze di una miriade di credenti, il valore misterioso di una relazione fra Dio e noi, fra Dio e la storia degli uomini, fra Dio e il mondo, Dio e me, povero uomo, piccolo personaggio, creatura minuscola che si sperde sulla scena della grande vicenda umana.

E’ esattamente questo coinvolgimento, la relazione con il Dio vivente, che riempie la vita: la vita degli uomini, la vita di un uomo, il senso della storia umana.

Il Cantico dei Cantici non inventa nulla. Tutta la storia dell’alleanza tra Dio e il suo popolo è una storia di amore. In particolare la predicazione dei profeti, da una certa epoca in poi, ha insistito nel sottolineare il valore di un rapporto nuziale fra Dio e il suo popolo: da Osea a Geremia, a Ezechiele, ai profeti seguenti, quelli la cui predicazione è presente all’interno del libro di Isaia. Il Cantico dei Cantici non inventa, ma riprende la meditazione su questa storia in modo così appassionato da assumere, nel contesto della letteratura biblica, un rilievo straordinario.

il cantico d’amore per eccellenza

E’ il cantico di amore per eccellenza: il Cantico dei Cantici è un superlativo. Il titolo stesso porta in sé l’allusione a una realtà che supera ogni misura interpretativa a meno che non si adegui, per l’appunto, a quella misura smisurata, a quel criterio oltre ogni livello praticabile, che diventa pure l’unico modo adeguato per star dentro alla storia dell’umanità e star dentro alla storia propria personale, cogliendone il valore intrinseco: una storia di amore.

Il Cantico dei Cantici riprende brani provenienti da quella letteratura amorosa che ha costituito una delle componenti della letteratura tradizionale d’Israele, così come di tanti altri popoli, ma li rielabora, li risistema, li ricompone all’interno di un disegno letterario che assume una identità originalissima. I testi che qui vengono usati, opportunamente ritagliati, collegati tra di loro, rimontati all’interno del nuovo contesto, acquistano un prestigio teologico straordinariamente efficace. Tutta l’urgenza, tutto il pathos, tutto lo splendore affascinante di quella letteratura amorosa viene riproposto nella dimensione contemplativa di una sintesi teologica in grado di riproporre gli elementi essenziali di quel che ci consente di ricostruire la storia del passato e di anticipare la storia dell’avvenire. E’ in questo modo che la tradizione ebraica e poi la tradizione cristiana, nel corso dei millenni hanno interpretato il Cantico dei Cantici.

Il testo che leggiamo si compone di cinque poemi, preceduti da un prologo e seguiti da un epilogo: cosa è avvenuto nella relazione fra Dio e il suo popolo Israele, cosa avviene nel rapporto fra Dio e la sua creatura. C’è un personaggio nel Cantico dei Cantici che viene identificato con l’espressione: il diletto. E lui, è il Signore Onnipotente. C’è un altro personaggio che viene individuato mediante diversi appellativi: è la creatura amata da Dio. Il diletto, la creatura amata. La creatura amata assume la fisionomia del popolo. La tradizione cristiana poi legge e medita il Cantico dei Cantici trovando immediatamente un riscontro cristologico: è il Cantico dei Cantici che ci conduce ad affacciarci su un orizzonte messianico, fino, cioè, al compimento della storia dell’umanità, in quanto è la storia dell’amore di Cristo, il figlio di Dio che si è fatto uomo e la creatura umana. Cristo e la sua chiesa, la comunità di cui egli si compiace, a cui è legato in forza di un vincolo nuziale; Cristo e l’umanità, sposa che egli attende per la piena e definitiva manifestazione della sua gloria; Cristo e ogni persona umana che è chiamata ad essere definitivamente sposata a lui che regna nei secoli dei secoli.

il cantico di Salomone

C’è un titolo che già possiamo considerare parte del prologo, ma che possiamo anche isolare come intestazione di tutto il cantico: Cantico dei Cantici che è di Salomone. E’ il cantico per eccellenza, è il cantico al superlativo, questo non soltanto per caratterizzare la qualità poetica del testo con cui abbiamo a che fare, ma perché siamo rinviati alla presenza di un autore davvero eccezionale. Il Cantico dei Cantici non è soltanto una splendida testimonianza di produzione letteraria, ma è il cantico di Dio. Infatti, non soltanto si parla di Lui, ma viene percepita l’eco della sua voce che canta, la voce misteriosa del Dio vivente. Qui la testimonianza proviene da chi ha auscultato il cuore dell’Onnipotente: ecco i battiti che sono stati percepiti nell’intimo del mistero, ecco come chi ha avuto a che fare con quella profondità impenetrabile ha recepito la testimonianza di un linguaggio, di per sé ineffabile, e che trova voce, la povera voce umana, che si rifà al linguaggio di quanti hanno cantato situazioni di amore. E’ la voce dell’innamorato per eccellenza, per antonomasia, per definizione; è la voce del vivente che nel segreto del suo mistero vive in quanto è eternamente protagonista di una iniziativa di amore; è il mistero di una comunione di amore che nel segreto della sua intimità eternamente si consuma. Il Cantico dei Cantici ce ne dà il riscontro, ce ne porge la testimonianza, ci invita ad auscultarne noi pure la eco.

Il Cantico dei Cantici viene attribuito a colui che è il patrono di tutta la tradizione sapienziale, a Salomone. Qui, tuttavia, la prospettiva può essere ribaltata: non solo Salomone merita di essere identificato come l’autore di un testo sapienziale più sapiente di ogni altro, ma Salomone è destinatario di una comunicazione di amore che fa di lui e farà di lui il sapiente. Salomone (1Re 3) nel sonno riceve una visita, sogna e sognando chiede la sapienza del cuore, e la sapienza gli viene donata. Questo è il Cantico che fa di un uomo che dorme, di un uomo che sogna il sapiente che sarà in grado di testimoniare quale sia il criterio di tutto quello che è avvenuto, che avviene, che avverrà nella storia degli uomini, nella storia di ogni uomo. Questo è il Cantico dei Cantici che farà di noi, e di ciascuno di noi, un Salomone, il sapiente che ci educa nel discernimento del sogno e nella accoglienza di quella sapienza che dal cuore di Dio viene riversata nel cuore umano.

"Cantico dei Cantici che è per Salomone" e quindi 3 versetti, fino al versetto 4, che costituiscono il vero e proprio prologo del cantico. Questi versetti sono dotati di una singolare densità: il prologo è anche un sommario, in questi pochi versetti noi siamo in grado già di intravedere quali saranno i contenuti su cui i poemi che seguiranno insisteranno.

qualcuno che respira a fatica

«Mi baci con i baci della sua bocca! Sì, le tue carezze sono più dolci del vino». Il prologo si apre con un sussulto improvviso, un singhiozzo, un gemito: c’è una voce che anela, testimoniando una difficoltà di respirazione: «Mi baci con i baci della sua bocca!». C’è qualcuno che respira a fatica. Il Cantico dei Cantici si apre con questa improvvisa urgenza. La ricerca di uno spazio che consenta una respirazione adeguata alla vita. Chi si esprime così ha dei problemi, avverte delle difficoltà, sta arrancando, sta penando, respira malamente, chiede fiato. «Mi baci con i baci della sua bocca!». In bocca un bacio. Il bacio è comunicazione di respiro, è tramite di una comunicazione di vita: fiato con fiato, bocca a bocca. L’urgenza che viene espressa mediante questa invocazione suppone un antefatto che qui non ci viene descritto. Noi siamo direttamente coinvolti, buttati direttamente sulla scena, siamo alle prese con un vissuto ansimante. E’ evidente che cosa è successo, come mai le cose vanno così, da dove proviene quel tale che sta sospirando perché respira a fatica e avverte la necessità che qualcun altro introduca fiato nella sua bocca, che qualcun altro porga la sua propria bocca per trasfondergli il respiro di cui ha bisogno per vivere: «Mi baci con i baci della sua bocca!»: io non vivo, non respiro, se non sono baciato.

Qual è l’antefatto? Non ne sappiamo nulla, ma siamo già in pieno coinvolti nel dramma. Un tale chiede respiro. Questa invocazione del respiro che ci fa vivere è rivolta a qualcuno che è presente e che non viene nominato: «Mi baci con i baci della sua bocca!». Chi? Lui? E chi è? Non è identificato, così come anonimo è il personaggio che chiede di essere baciato. Rimane sconosciuta la presenza di colui alla cui bocca si fa appello. E’ lo spirito del Dio vivente che viene invocato qui, possiamo ben dirlo noi. Il testo usa un linguaggio più riservato, ma per noi non meno eloquente.

Il Cantico dei Cantici si apre con una invocazione allo Spirito Santo, si apre con una epiclesi , per dirla con un termine teologico. Se la bocca del Dio vivente non soffia su di me, trasmettendomi l’urgenza vitale del suo respiro, io non vivo. «Mi baci con i baci della sua bocca!». Chi invoca in questo modo avverte come drammatico sia il suo vissuto dal momento che la bocca a cui fa appello per ricevere il respiro di cui ha bisogno per vivere, sia lontana da lui. C’è una lontananza che rende la sua vita implorante, gemente, affannosa: «Mi baci con i baci della sua bocca!».

Lontananza e nostalgia, nostalgia nei confronti di quella presenza che, per quanto lontana sia, è comunque individuata in modo inconfondibile. Una contraddizione, ma una contraddizione apparente: è lontanissimo da me, per questo invoco, per questo imploro, per questo sto sospirando e gemendo: «Mi baci con i baci della sua bocca!». Eppure una nostalgia inequivocabile mi anima, mi sollecita, in modo che già sono in grado di testimoniare che la sua lontananza non impedisce la relazione, ma anzi conferma, drammaticamente per me, il valore della presenza a cui io mi rivolgo, perché da essa dipende la mia vita. E’ una lontananza vissuta nel contesto di una nostalgia così struggente, che essa conferma il valore di una relazione: è relazione vitale, è l’unica relazione di cui vivo.

ricordo e nostalgia

A questo riguardo nel versetto 2 si passa dalla terza alla seconda persona singolare. Non è un passaggio casuale: «Sì, le tue carezze sono più dolci del vino». La sua bocca, lui; le tue carezze, le carezze del diletto. Chi si esprime così porta con sé l’esperienza indimenticabile di un passato che, appunto in quanto passato, può ritenersi perduto, e che pure nella nostalgia invade il presente e già prefigura l’avvenire. «Le tue tenerezze sono più dolci del vino», che cosa è avvenuto? Perché mai quel passato è perduto? Eppure il ricordo di quel passato invade l’avvenire, determina, passando attraverso la nostalgia prepotente che occupa il presente, l’avvenire.

«Le tue carezze sono più dolci del vino». L’immagine del vino allude qui a tante altre presenze, a tanti altri riferimenti, a tante altre relazioni a cui il nostro anonimo personaggio può essersi rivolto. Ma nulla e nessuno ha mai potuto eguagliare le carezze del diletto. C’è di mezzo una nota di rimpianto, forse l’antefatto che non ci è stato raccontato comporta anche l’esperienza di molte ricerche sbagliate in direzioni dispersive: altre carezze, un’altra dolcezza, altra esperienza di calore? In ogni caso: le tue carezze sono più dolci del vino. Tutto quel che è stato serve a confermare il valore di una relazione vitale che supera tutti i livelli che mai siano stati conseguiti percorrendo altri itinerari. Lo sconosciuto invisibile e lontano è più che mai presente La relazione con lui acquista il valore di una certezza incrollabile. Non a caso ci si può rivolgere a lui in seconda persona singolare: tu. E’ il tu della mia vita, è il tu della mia storia, è il tu della storia umana: tu. Nel momento stesso in cui viene denuncia dolorosamente la lontananza che ci separa, che mi separa, da lui, da te. Il fatto stesso di rivolgersi a lui, in seconda persona singolare, riempie la distanza, facendo appello ad una intimità che comunque segna la qualità intrinseca della mia vita. E’ nella relazione con lui, che è il tu della mia vita, che io respiro. E per quanto lontano sia il tu della mia vita. E’ la presenza che mi coinvolge alla radice, nella intimità, nella verità assoluta della mia ricerca.

unguento svuotato

Il versetto 3 aggiunge: «Per la fragranza sono inebrianti i tuoi profumi, profumo olezzante è il tuo nome, per questo le giovinette ti amano». Lo sconosciuto, presenza inafferrabile, non viene ancora nominato. Non è possibile. Eppure quella presenza si esprime con un linguaggio inconfondibile. Nel v. 3 il linguaggio del profumo viene messo in evidenza in modo straordinariamente efficace. Non riusciamo a vederlo, non riusciamo ad afferrarlo, non siamo in grado di determinare la sua presenza, ma il suo profumo già ci avvolge, ci riempie, già ci attraversa. Certo, il profumo è inafferrabile, ma è anche vero che passa dentro di noi, attraverso di noi, in modo tale da invadere l’intimità più profonda.

Tutto il Cantico dei Cantici conferisce un risalto particolarmente significativo al senso dell’odorato. «Per la fragranza sono inebrianti i tuoi profumi». Non so come rivolgermi a te, non so come inserirti nel mio cosmo linguistico, nei miei pensieri, ma il tuo profumo mi invade. Non so da dove venga e dove vada, ma mi attraversa, raggiungendo la profondità più inesplorata di me stesso.

Il versetto prosegue: «profumo olezzante è il tuo nome». Ecco, se devo chiamarti per nome, essendo tu innominabile e sconosciuto, profumo olezzante, ecco il tuo nome. Questo versetto è stato riletto e commentato dai padri della chiesa nel modo più traboccante di annotazioni teologiche e spirituali. «Profumo olezzante è il tuo nome», traduce la nostra Bibbia. Shemen turak, dice il testo ebraico. Val la pena di rievocare la traduzione in greco: miron ekkenothen, "unguento svuotato" è il tuo nome. La traduzione greca richiama Filippesi 2, il cantico cristologico, "colui che svuotò se stesso": ekenosen eauton, è questo verbo, è l’"unguento svuotato", "svuotò se stesso" dice Paolo, citando anche lui un cantico già preesistente. Svuotò se stesso. "Tu sei un unguento svuotato", ecco il tuo nome. Noi siamo in relazione in maniera sfuggente ad ogni nostra presa, ad ogni nostra presunzione, ad ogni pretesa di strumentalizzare, di dominare, di governare le cose, eppure noi siamo in relazione di vita con te: relazione di respiro con te, di fiato, di soffio; relazione di spirito con te che sei unguento versato, svuotato, che sei spirito effuso.

Nei racconti della passione, in modi diversi, si attribuisce all’atto di spirare sulla croce di Gesù, il Figlio, l’effusione del profumo: hai effuso il tuo profumo; spirò, consegnò lo spirito, consegnò il suo respiro. Il Cristo è profumato ed è da lui a noi trasmesso il profumo, lo spirito soffiato su di noi, trasmissione di vita, sigillo di comunione indissolubile. Proprio là dove la situazione empirica della nostra esistenza denuncia una lontananza incolmabile, quella lontananza è colmata dall’unguento versato, quella lontananza viene colmata in modo tale da stabilire una comunicazione di vita, che ci invade, mi invade, mi prende, mi conquista, mi trasforma, mi rigenera, apre per me gli orizzonti della vita, quella vita verso la quale forse sospiravo in modo confuso, caotico, disordinatissimo: quella vita a cui finalmente sono condotto.

Il versetto si conclude con una dichiarazione, nella sua semplicità, solennissima: «Per questo le giovinette ti amano». Il coinvolgimento è generale. Ciò che è stato testimoniato in prima persona singolare: il tuo profumo per me, adesso viene confermato mediante questo accenno al dolore di una relazione vitale che è ormai instaurata in maniera tale da coinvolgere l’umanità intera. Vale per tutti gli uomini: le giovinette ti amano, per questo. A quella nostalgia, di cui ci siamo resi conto leggendo il versetto 2, si congiunge nel versetto 3 un presentimento infallibile: è passato di qua, ha lasciato dietro un’onda di profumo, non sappiamo come afferrarlo, come raggiungerlo, ma è passato di qua. Cristo, l’Unto, ha lasciato una traccia inconfondibile nel creato, nella storia degli uomini, in ogni persona, in ogni angolo del mio vissuto, in ogni respiro per quanto affannoso sia. E’ passato attraverso la morte, certo. Dovunque mi volga, in qualunque direzione proceda, a qualunque creatura mi accosti, quale che sia la realtà con la quale devo fare i conti, quale passaggio sia necessario che io affronti nel tempo e nello spazio della mia esistenza, fino alla morte: il suo profumo mi precede, il suo profumo mi avvolge, mi viene incontro, anzi mi attende, mi invade e già spalanca dinanzi a me e per me e per il mondo gli orizzonti di una infinita capienza di amore. Per questo le giovinette lo amano.

attirami!

Ed ecco il versetto 4, l’ultimo versetto del prologo: «Attirami dietro a te, corriamo!». Ritorna la seconda persona singolare, ma poi si passa alla prima persona plurale: corriamo. La relazione diretta, personalissima con lo sconosciuto, con l’unguento svuotato non è minimamente disturbata dal fatto che ci siano altri e altri e altri ancora e tutti, anzi, proprio l’opposto: nella mia esperienza personale riconosco quella che è la realtà di tutti gli uomini. Viceversa: è proprio nell’esperienza altrui trovo modo di rispecchiarmi con quanto di più personale riguarda il mio vissuto. Attirami dietro a te, corriamo.

Attirami: un’implorazione, certamente, ma allo stesso tempo avvertiamo l’energia di questo imperativo: attirami! E’ quasi un ordine. Una forza implorante. E’ la forza con cui può esprimersi un mendicante, come me, perché sono in uno stato di bisogno assoluto, eppure più che mai convinto di potermi esprimere con la autorevolezza di chi certamente sarà esaudito: attirami, dietro a te con gli altri.

Il verbo usato qui compare in alcuni testi dell’AT e poi del NT: mashak , in ebraico. Interessante è anche la traduzione in greco, elko. Attraverso l’analisi di questo verbo in alcuni testi esemplari è possibile ricapitolare tutta la storia della salvezza.

Prima testo. Osea 11: «Quando Israele era giovinetto io l’ho amato. Dall’Egitto ho chiamato mio figlio, ma più li chiamavo, più si allontanavano da me. Immolavano vittime ai Baal, agli idoli bruciavano incensi, ad Efraim insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro». Israele è come un bambino preso per mano, educato con tutte le cautele del caso. Qui la relazione d’amore che lega il Signore al suo popolo viene riproposta mediante l’immagine di questa pedagogia paziente, premurosa nei confronti di una creaturina che deve crescere. Os 11,4: «Io li traevo con legami di bontà». E’ il nostro verbo: io li attiravo con legami di bontà. Questo testo, famosissimo, fa da caposaldo a tutta una tradizione nella predicazione dei profeti. «Io li traevo con legami di bontà, con vincoli di amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare». Questa immagine del bambino stretto alla guancia nella iconografia cristiana acquista quella forma così delicata e così commovente che noi contempliamo nella Madonna della tenerezza. «Io li traevo con legami di bontà, con vincoli di amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare».

Secondo testo. Geremia 31 è un capitolo da cui non possiamo mai prescindere, perché c’è la profezia della nuova alleanza. E’ un capitolo strategico in tutta la rivelazione biblica. Ogni volta che celebriamo l’eucarestia e che ci troviamo dinanzi alle parole con cui il Signore ha annunciato l’avvento della nuova alleanza, siamo alle prese con Geremia 31. Ger 31, 2ss: «Così dice il Signore: "Ha trovato grazia nel deserto un popolo di scampati alla spada; Israele si avvia a una quieta dimora". Da lontano gli è apparso il Signore: «Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà». Ritroviamo il nostro verbo: ti ho amato di amore eterno, per questo ti attraggo ancora con pietà. Un’attrazione che è più forte di ogni tradimento, che è più forte di ogni distanza, che è più forte di ogni dispersione, che è più forte di ogni esilio: io ti attiro.

Terzo testo. Giovanni, 12,32: «Quando sarò innalzato dalla terra attirerò tutto a me». E’ il nostro verbo. E’ il figlio dell’uomo crocifisso e intronizzato che in forza della sua pasqua di morte e di resurrezione diventa protagonista di questa attrazione a cui nulla e nessuno può più resistere: attirerò tutto a me quando sarò innalzato.

Anche Giovanni sta citando il Cantico dei Cantici: attirami dietro a te, corriamo! Tutti corrono in relazione al sepolcro: le donne e i discepoli corrono, si avvicinano, si discostano. E’ la corsa che impegna da quel momento in poi i discepoli lungo tutte le strade del mondo, fino agli estremi confini della terra, la corsa dell’Evangelo.

Anche Paolo, a più riprese, nella sua maniera di interpretare le cose, fa riferimento alla corsa dell’evangelizzazione, la sua corsa personale, la corsa di altri, prima di lui, accanto a lui: attirami dietro a te e noi correremo. E noi siamo in corsa proprio perché attirati da te e in qualunque direzione ci stiamo inoltrando, verso qualunque orizzonte stiamo penetrando, noi siamo in corsa perché attirati, perché sempre e dappertutto, fino alla pienezza finale, noi ormai siamo sigillati in forza di un vincolo di amore che ci unisce a te: noi apparteniamo a te.

nelle stanze del Re

Dall’affanno del versetto due a questa corsa che stranamente sembra avere perso le caratteristiche della stanchezza, del sudore, della trepidazione; questa corsa sta ormai diventando una corsa leggera, soave, anzi una corsa corale, una corsa che diventa occasione di incontro, di comunione, di condivisione, sempre più universale: Attirami dietro a te, corriamo!

«M'introduca il re nelle sue stanze: gioiremo e ci rallegreremo per te, ricorderemo le tue tenerezze più del vino. A ragione ti amano!».

Singolarmente si passa dalla immagine della corsa alla immagine della sosta in un luogo appartato, il luogo della intimità, il luogo dell’amore: mi introduca il re nelle sue stanze. Si passa dalla seconda alla terza persona (mi introduca il re), e poi di nuovo la prima persona plurale (gioiremo, ci rallegreremo per te, ricorderemo), e ancora la seconda persona singolare (le tue tenerezze).

"Le tue carezze più del vino"… Adesso siamo in grado di dichiarare che in realtà la corsa in cui siamo impegnati è motivo di sollievo. E’ una corsa che invece di affaticarci sempre di più, ci rallegra, ci abilita a gustare la gioia di un incontro che riempie il presente: siamo in corsa e già ci rendiamo conto che è predisposto l’appartamento, è arredata la stanza, in cui l’incontro con te ci trasmette una gioia traboccante: gioiremo, ci rallegreremo per te, ricorderemo le tue tenerezze più del vino. Qui ritroviamo un accenno al Deuteronomio (6,4ss): «Ascolta, Israele, il Signore tuo Dio è uno solo. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutte le tue forze, con tutta la tua anima», con tutto il tuo respiro amerai il Signore tuo Dio, a ragione amerai il Signore tuo Dio.

Questo incontro misterioso con colui che è invisibile e irraggiungibile e che pure riempie il presente, colui che è il motivo della corsa, perché stiamo inseguendo il suo profumo, colui che già ci viene incontro e ci conferisce il gusto di una gioia traboccante, una gioia che è condivisa in modo da fondare una comunione senza limiti, con tutte le creature, della terra e del cielo.

Ebbene, è un dovere amarti, conclude il prologo. E’ un dovere, nel senso che la relazione di amore che ci viene rivelata, che ci spiega come noi apparteniamo a te, è relazione di amore in forza della quale noi siamo chiamati ad amarti. Noi amati, siamo messi in grado di amarti. Non è un’occasione che subito sfuma, non è un’intuizione entusiasmante, ma inconcludente, non è un sogno che svanisce nel nulla. E’ piuttosto la sapienza del cuore che mi svela dal di dentro di me stesso come sono amato e come sono chiamato a fare della mia vita un servizio di amore.


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