Incontri di discernimento e solidarietà
 
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IL VOLTO DI DIO

lettura spirituale di Mc 14,53-72

il roveto

Mosè fugge nel deserto di Madian e vi rimane come pecora dispersa e senza pastore in attesa che ci sia finalmente qualcuno che si prenda cura di lui, che lo guidi su nuove strade. Mosè soggiorna lungamente nel deserto di Madian, fino a quando sarà attirato dalla presenza di una fiamma che arde senza consumare il roveto. Sono passati 40 anni: è il tempo di una vita, il tempo necessario perché il turbamento, l’agitazione, le contraddizioni, che Mosè porta in se stesso, affiorino e siano oggetto del discernimento della propria identità.

Ecco una fiamma di fuoco ardere in mezzo ad un roveto senza consumarsi. Mosè si vuole avvicinare. Questa scena grandiosa segna una svolta decisiva nella storia della salvezza e sta sullo sfondo della passione secondo Marco. Mosè si accosta alla fiamma, si prostra, si nasconde, si velò il viso (Es 3,6) perché aveva paura di guardare verso Dio; il roveto, che arde senza consumarsi, è rivelazione inconfondibile della santità di Dio. Mosè nasconde il proprio volto, lo vela, lo piega verso il suolo, lo schiaccia contro la terra. Dal roveto una voce l’interpella personalmente: Mosè, Mosè (3,4). Nel dialogo con quella voce che l’ha chiamato per nome, Mosè apprende qual è la missione a lui riservata: tornare in Egitto, rivolgersi al popolo che è schiavo e annunciare l’intenzione di Dio, fedele alle promesse fatte ad Abramo, Isacco e Giacobbe.

In questo contesto il Signore rivela a Mosè il suo nome; un nome che è manifestato e allo stesso tempo è nascosto. La irraggiungibile, incontenibile, impenetrabile santità di Dio si rivela confermando la sua trascendenza. E’ il nome santo di Dio onnipotente che si avvicina e che, attraverso Mosè, si impegna a portare a compimento le promesse antiche. "Io sono colui che sono. E così dirai agli Israeliti: Io sono mi ha mandato a voi". La fiamma che arde nel roveto senza consumarlo, dinanzi alla quale Mosè si è velato il viso, prostrandosi in adorazione, proprio quella fiamma è un sacramento. La santità di Dio, che è vivente nella storia degli uomini, è all’opera per realizzare la salvezza per coloro che sono schiavi in Egitto.

La quarta sezione (Mc 14,53-72) è quella centrale; anche essa si articola in tre quadri. Nel primo quadro (vv. 53-54) Gesù compare dinanzi al sommo sacerdote e agli anziani nel Sinedrio. E’ ricordata, ancora una volta, la presenza di Pietro. Versetto 54: "Pietro lo aveva seguito da lontano, fin dentro il cortile del sommo sacerdote; e se ne stava seduto tra i servi, scaldandosi al fuoco". La vampa illumina la scena notturna, Pietro si accosta per scaldarsi. Il testo greco dice: pros photos: è la vampa di un fuoco che è stato acceso per l’occasione. Pietro si scalda alla luce, e mentre si scalda riceve luce. E’ un particolare niente affatto indifferente. Nella quarta sezione (vv. 66-72) Pietro si trova nel cortile e mentre si scalda al fuoco viene una serva del sommo sacerdote, "vedendo Pietro che stava a scaldarsi..". La serva, viene, lo vede: sta scaldandosi alla luce, e proprio perché si sta scaldando a quella luce, il suo volto è visibile: "Lo fissò". Ritorna l’antico racconto biblico su Mosè. "Anche tu eri con Gesù di Nazareth". Pietro nega. La serva lo guarda di nuovo. Nel testo evangelico è dato un esplicito rilievo allo sguardo con cui la serva scruta il volto di Pietro, visibile perché rivolto alla fiamma. Lo vede e di nuovo dice ai presenti: "ma anche lui.." Pietro nega ancora . Il gallo canta, e per la terza volta: "Tu sei Galileo.. Allora Pietro si ricordò di quella parola che Gesù gli aveva detto: Prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai tre volte. La nostra Bibbia traduce: "E scoppiò in pianto". Il testo greco usa un’espressione che dovrebbe essere tradotta diversamente, dice: kai epiballon. Epiballon è un participio aoristo del verbo epiballein, che indica il gesto di chi si copre, ed è esattamente il gesto con cui Pietro si sta nascondendo, sta velando il suo volto. Pietro ha perduto la faccia e scoppia in lacrime, che contribuiscono a velare il volto, a coprirlo, a nasconderlo, una maschera di lacrime su quel volto che viene coperto con il gesto energico di chi si tira addosso il mantello. Questo verbo sta in contrapposizione con quell’altro verbo, apoballein che abbiamo incontrato nel racconto di quel mendicante di nome Bartimeo, alla fine del cap. 10, che quando viene chiamato, getta via il mantello e nudo va incontro a Gesù. Pietro sta compiendo il gesto di ricoprirsi, si tira addosso il mantello e scoppia in lacrime. Il mantello gli si inzuppa di lacrime: una coltre di lacrime, un oceano di lacrime, un’alluvione di lacrime. Pietro ha perduto la faccia. Alla luce della fiamma, là dove arde il roveto che non si consuma, il volto di Pietro è velato e se non è il mantello che lo avvolge e lo stringe, sono le lacrime; e se non sono le lacrime, è comunque l’interiore impossibilità per Pietro di guardarsi allo specchio.

Secondo quadro, quello centrale, Gesù dinanzi al Sinedrio viene interrogato. Sono citati falsi testimoni. Gesù non risponde, è in silenzio, un silenzio profondissimo. Sono stupefatti: "Non rispondi nulla? Non vedi che testimoniano contro di te?" Finalmente, nel v. 61, il sommo sacerdote lo interroga dicendogli: "Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio Benedetto?" E’ la questione decisiva. Adesso Gesù risponde dicendo: Io sono, ego eimi. E’ il nome santo di Dio. E’ il centro del quadro centrale della sezione centrale del racconto della passione: Io sono. Tutto il racconto della passione ruota attorno a questo rivelarsi della santità di Dio con gli uomini. Gesù commenta questa affermazione con due citazioni dell’AT, tratte dal salmo 110 e da Daniele 7. " Il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: Che bisogno abbiamo ancora di testimoni. Avete udito la bestemmia? Che ve ne pare?" Ecco la bestemmia: Io sono è il nome di Dio. Tutti sentenziarono che era reo di morte. "Allora alcuni cominciarono a sputargli addosso". Vogliono cancellare, vogliono coprire quel volto. Saranno necessari gli sputi? Pietro ricorrerà alle lacrime. Sarà necessario imbavagliarlo? Pietro si nasconderà sotto il suo mantello. Quel che conta è spegnere la luce di quel volto, cancellarla, annullarla, abolirla. Rimane il silenzio di Gesù e rimane la eloquenza sconvolgente, blasfema, addirittura, della voce che ha rotto il silenzio per proclamare la santità di Dio.

Siamo nel cuore del racconto della passione, e siamo coinvolti anche noi in questo grandioso evento per cui il volto negato, rifiutato, distrutto di Gesù, diviene specchio per quell’uomo senza volto, che fu Caino, che è stato Mosè, che siamo noi al modo di Pietro. C’è una possibilità di ritrovare la faccia per Pietro, nel momento in cui scoprirà che il volto brutalizzato del maestro gli è dato come specchio per ritrovarsi, per riconoscersi, per confermarsi nella vocazione umana, per ascoltare ancora la voce che lo chiama per nome.

il servo sofferente

Diamo uno sguardo ricapitolativo a un testo tra i più straordinari di tutta la rivelazione anticotestamentaria: il quarto canto del Servo (capp. 40-55 di Isaia). E’ la testimonianza di un profeta rimasto anonimo, che svolse il suo ministero durante l’esilio a Babilonia, attorno alla metà del VI secolo avanti Cristo. Nel contesto di questa composizione, letterariamente e teologicamente di altissima qualità, compare la figura di un personaggio misterioso, a cui viene attribuito il titolo di servo, senza ulteriori determinazioni anagrafiche. Una figura messianica, comunque. L’antico profeta elabora quattro canti del Servo.

Il quarto è il più ampio e per certi versi il più famoso. Il canto si apre e si chiude con una strofa introduttiva e un’altra conclusiva, in cui si fa udire la voce di un oratore autorevole che tutto ricapitola senza possibilità di replica. Questo oratore principale è Dio stesso: "Ecco il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzato" . Un annuncio infallibile questo, non c’è alcuna incertezza, non possono esserci dubbi o false interpretazioni. Il mio servo sarà onorato, esaltato.

Questo annuncio è causa di stupore (vv. 14-15): "Come molti si stupirono di lui - tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo". Tutti erano sbalorditi per il suo volto sfigurato, abbruttito, orribile, al punto da non potersi più ritenere un volto umano. "Così si meraviglieranno di lui molte genti; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai ad esso raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito". Coloro che hanno scrutato il volto orribile del servo, coloro che dinanzi a quel volto volevano distrarre il proprio sguardo, disgustato, adesso scoprono che il volto di quel servo si illumina e, guardandolo, prendono luce, ricevono un riflesso di gloria.

La strofa introduttiva è un richiamo rivolto a tutti coloro che hanno distolto il proprio sguardo: saremo in grado di osservare ancora quel volto, di scrutare ancora quella fisionomia sfigurata, sosterremo ancora l’impatto con quella immagine orribile? Il nostro volto rifletterà quanto di nuovo, in modo stupefacente, sta avvenendo? Il nostro volto sosterrà l’impatto con questo volto sorgente di luce che ci affascina tanto è trasparente all’epifania della gloria?

Questo richiamo è rivolto a tutti gli uomini, senza limiti. Nel v. 14: "molti si stupirono di lui"; è la moltitudine; nel v. 15: le nazioni, le genti; più avanti si parla dei re della terra. Tutte espressioni che implicano un coinvolgimento universale.

Il canto prosegue (53,1-11b) assumendo la forma di un racconto di coloro che hanno assistito agli avvenimenti riguardanti il servo e che adesso possono evangelizzare. Non è più la voce di Dio, adesso è la testimonianza profetica di quanti , rimanendo anonimi, sono in grado di offrire la loro testimonianza. "Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?" Chi è in grado di sostenere un annuncio così strabiliante? Il braccio del Signore si è manifestato a noi e noi ne siamo testimoni. Chi risponderà con atteggiamento di fede, sarà coinvolto in questa stessa testimonianza. Accoglierla significa condividerla: e chi, nel silenzio, ha ascoltato questo canto, imparerà a cantare; e chi ha perso la faccia, troverà l’immagine in cui specchiarsi, e ritrovando la propria identità, troverà anche lo slancio necessario per tradurre la propria esistenza umana nella testimonianza canora, nel canto che è professione di vita e rilancio di un invito ricevuto. Il testo prosegue articolandosi in 5 strofe.

La prima (vv. 2-3). Qui viene ricordato il servo in poche notizie ridotte all’essenziale. "E’ cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima". Tutto si riduce al minimo nell’esistenza di questo personaggio: nasce, cresce nel nascondimento, senza attirare particolari segni di riconoscimento, di affetto, senza ottenere plauso o apprezzamento.

"Come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima". E’ l’uomo dei dolori: non attira i nostri sguardi, non ha splendore che susciti in noi commozione e compiacimento.

Seconda strofa (vv. 4-5). I testimoni spiegano perché il servo si è trovato a sperimentare una sorte tanto disgraziata: "Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo abbiamo giudicato castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe siamo stati guariti. La vita del servo si spiega tenendo conto dei nostri peccati. Avviene qualcosa di singolare. Nell’AT, quando abbiamo a che fare con preghiere di lamento che esprimono esperienze di dolore per la malattia, per la persecuzione, per calamità, solitamente chi si lamenta confessa il proprio peccato. Non è sempre chiaro quale sia la connessione tra il dolore patito e la colpa di cui si è responsabili, ma è normale che questa connessione sia messa in risalto. Qui la confessione del peccato non riguarda il servo, ma riguarda noi che lo osserviamo. Il suo dolore conduce noi al pentimento. Vederlo così, riconoscerlo percosso da Dio e umiliato, castigato nel suo dolore, suscita in noi la percezione straziante della malattia che ci affligge, della colpa che ci opprime, del castigo che meritiamo. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe noi siamo stati guariti. La sua sofferenza così straziante diventa misura del nostro fallimento.

Terza strofa (vv. 6-7). "Noi tutti eravamo sperduti come un gregge". Noi siamo un gregge e un gregge di pecore sbandate. Sono le parole di Gesù quando, uscendo dal cenacolo, afferma : il pastore è colpito, le pecore sono disperse. Il punto centrale di questa descrizione è che tra noi che siamo pecore sbandate si è realizzato un vincolo di comunione indissolubile. Il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. Lui è la pecora consegnata, l’agnello muto condotto al macello. E’ il silenzio di Gesù nel racconto della passione: " Maltrattato si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca: era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori e non aprì la sua bocca."

Proprio questo agnello muto esercita una funzione pastorale; per cui il gregge si ricompone, le pecore disperse si raccolgono e lo riconoscono. C’è un pastore di cui possiamo fidarci, è l’agnello! La nostra realtà di pecore sbandate appartiene a lui. Questo è il cuore del IV canto del servo.

Quarta strofa (vv. 8-9). La vicenda del servo raggiunge il limite estremo: la morte e oltre la morte. "Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua sorte? ..Si, fu eliminato dalla terra dei viventi. Per l’iniquità del mio popolo fu percosso a morte. Gli si diede sepoltura con gli empi.. Con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca. L’innocente è stato condannato a morte, è stato ucciso, ed è ora sepolto. Tra lui innocente e noi colpevoli c’è una comunione indissolubile grazie a questa esperienza di dolore fino alla morte. La sua morte costituisce ormai un rapporto di intimità, che non potrà mai più essere contraddetto e rinnegato, tra lui l’innocente e noi i colpevoli. L’essere in comunione con lui nella sofferenza che ci conduce alla morte, significa essere in comunione con l’innocente che ci fa vivere. Noi siamo i colpevoli che producono morte e muoiono.

E siamo alla quinta strofa (vv. 10-11b) . "Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in espiazione vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza". C’è un seguito oltre la morte per lui. Il suo andare incontro alla morte non lo chiude nella morte. Per due volte in questi versetti c’è il richiamo al compiacimento del Signore. E’ piaciuto al Signore prostrarlo con dolori; per mezzo suo si compirà la volontà del Signore. E’ il disegno di Dio che si compie: attraverso la passione e la morte del servo, la prospettiva luminosa di una strada aperta alla vita per tutti gli uomini peccatori e mortali si rende percorribile. Il volto del servo, orribile, spregevole, ritenuto inumano, quel volto ci illumina, splende per noi come segno inconfondibile e incancellabile.

E siamo alla strofa conclusiva (vv. 11c-12), adesso è la voce di Dio che si fa udire. L’epilogo del canto assume la forma dell’oracolo: "Il giusto mio servo giustificherà molti. Egli si addosserà la loro iniquità. Perciò io gli darò in premi le moltitudini, dei potenti farà bottino, perché ha consegnato se stesso alla morte.. Ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori." Colui che ha consegnato se stesso è divenuto pastore di quel gregge nel quale tutte le pecore disperse adesso sono raccolte; ha compiuto un’opera di intercessione efficace in una dimensione universale, per la quale non ci sono eccezioni. Per tre volte, nella strofa conclusiva, ricorre il termine "molti", "moltitudine"; così come Gesù quando istituisce l’eucarestia: versato per molti, per tutti, per tutti! E’ la totalità della famiglia umana che si ricompone nella comunione con il Figlio per dare gloria a Dio e per avanzare sulla strada della vita eterna. Ha portato il carico e, quel carico, che l’ha schiacciato, assume il significato del suo bottino trionfale. Egli, dei potenti farà bottino. L’agnello divenuto pastore è colui che ha vinto e regna.


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