Incontri di discernimento e solidarietà
 
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NELL’ABISSO DEL CUORE UMANO

lettura spirituale di Mc 5,1-6,6

Gesù è solo

I discepoli, intimiditi, non hanno fede; il cuore è rimasto chiuso e il mare non è attraversabile; non si apre un varco in quella barriera che la novità evangelica ha incontrato. In ascolto di Gesù sono gli elementi della natura: i venti, le onde del mare, la tempesta che si placa, ma non i discepoli: non hanno ancora fede! Gesù non ha ottenuto il riscontro desiderato; la verifica è stata deludente.

«Intanto giunsero all'altra riva del mare». Sono giunti all'altra riva del mare, nella regione dei geraseni, e Gesù scende dalla barca. Il verbo è al singolare: i discepoli non scendono. L’episodio che segue vede Gesù protagonista sull’altra sponda del mare, mentre i discepoli non ci sono, sono rimasti nella barca, per superare la sofferenza di una traversata fallimentare. Essi non sono scesi dalla barca: il cuore degli uomini non si è aperto, il mare che non è stato attraversato. Se sono arrivati all'altra sponda, essi non l’hanno attraversata e non possono scendere.

L'attenzione si concentra sulla discesa di Gesù: è Gesù che ha attraversato il mare, è lui che ha aperto un varco là dove, stando all'atteggiamento degli uomini, non si è verificata alcuna apertura. Gesù ha compiuto la traversata e scende dall'altra parte del mare per scandagliare il fondo del cuore umano.

Nel momento stesso in cui il cuore degli uomini ha confermato la sua durezza, Gesù ha attraversato il mare ed è sbarcato sull’altra sponda, dall’altra parte del mare, dall’altra parte del cuore umano. Gesù ha penetrato la durezza del cuore. Se è vero che quella durezza sussiste, che i discepoli non sono nemmeno scesi dalla barca, che il cuore degli uomini ancora non si converte, è anche vero che Gesù, in quanto maestro, è il signore del cuore umano. Per lui il mare si apre, per lui il cuore umano non costituisce una barriera invalicabile.

l’altra sponda: nell’abisso del cuore umano

Gesù è solo, i discepoli non ci sono; questa solitudine di Gesù conferma il valore della sua funzione magistrale: è il maestro che prende contatto con il fondo del cuore umano, che discende nell’abisso, nell’inferno del cuore. In questo sta il significato del suo impegno didattico, per questo è il pedagogo che ha convocato i dodici e li ha coinvolti in un rapporto di comunità con lui. Sta visitando l’abisso infernale del cuore umano.

Dall’altra parte del mare, incontro a Gesù viene adesso strepitando, nudo e squallido in tutti i sensi, un uomo agitato dallo spirito immondo. E’ la persona umana frantumata, spezzettata, sfilacciata. Quest’uomo vive nei sepolcri, non si veste; per quanto sia stato più volte incatenato, ha spezzato le catene e si trascina randagio in modo disgustoso e spaventoso. E’ un’immagine più che mai eloquente dell’abisso infernale che è nel cuore. In questo abisso Gesù è disceso. Quale che sia l’ostilità incontrata, la brutalità sperimentata lungo il percorso, quale che sia l’immondezza dell’avversario che gli si schiera contro, egli è il maestro. Ed è il maestro non perché trasmette un messaggio luminoso e consolante, ma perché affronta l’inferno che è nel cuore dell’uomo.

Dapprima l’indemoniato lo schernisce, poi prende le distanze da Gesù: « che hai tu in comune con me , Gesù, figlio di Dio altissimo, ti scongiuro, in nome di Dio , non tormentarmi». Quest’uomo dà prova di un grande dolore; nel fondo del cuore umano c’è lo strazio di una catastrofe che ha frantumato l’identità, rinnegato la dignità, pervertito la qualità della persona umana. "Ti scongiuro in nome di Dio non tormentarmi". E’ un uomo straziato; interrogato subito dopo, dirà a Gesù: «mi chiamo legione». Infatti lo spirito è una moltitudine, «siamo in molti», una legione di spiriti. L’impurità di quest’uomo è come un fenomeno esplosivo: gli sta scoppiando dentro una moltitudine di identità, di progetti, di tensioni, di facce. La persona umana è frantumata, frantumata la creatura di Dio, la sua immagine. Quest’uomo è coinvolto in un processo autodistruttivo, prigioniero del suo stesso dolore, non può affrontarlo altrimenti che moltiplicandolo.

Gesù ha raggiunto il fondo del cuore, anzi ha aperto un varco così da attestarsi sull’altra sponda del cuore umano. Cosa c’è dall’altra parte del cuore? Questo è il cuore dell’uomo? Solo Gesù, il maestro, sa cosa c’è dall’altra parte del cuore; gli uomini vi percepiscono solo un inferno. Per Gesù, che è il maestro, dall’altra parte del cuore c’è un uomo, c’è l’uomo, c’è la creatura di Dio, la persona umana a cui viene restituita l’identità, la coerenza di una vocazione, la dignità di un vestito.

Nel versetto 18, quando Gesù risale sulla barca, colui che era stato indemoniato, l’uomo che è stato raggiunto da Gesù dall’altra parte, lo prega di consentirgli di "stare con lui". E’ la stessa espressione che abbiamo incontrato nel cap. 3, al v. 14: Gesù ha chiamato i dodici perché "stessero con lui". Finora l’unico personaggio che dimostra la volontà di stare con Gesù è proprio quest’uomo, che era stato indemoniato. Dall’altra parte del cuore umano c’è un uomo desideroso di stare con Gesù, il figlio. Ma questo lo sa solo Gesù, che è il maestro. Gesù rinvia quell’uomo alla sua casa e al suo mondo; è stato sollecitato dagli abitanti di quella regione, spaventati e preoccupati per la moria dei porci, ad allontanarsi. Gesù risale sulla barca e si ritira, è solo e, nella sua solitudine di maestro, è il signore del cuore umano.

toccare Gesù

Gesù attraversa di nuovo il mare, ritorna da questa parte del mare, dalla nostra parte, sulla nostra sponda; di nuovo di ferma sulla riva del mare, come altre volte; di nuovo attorno a Gesù si forma la folla e accanto a lui ci sono i discepoli.

« Essendo passato di nuovo Gesù all’altra riva». L’altra riva è la nostra riva, questa riva. La sponda del mare è la sponda del cuore umano. Gesù ha raggiunto l’altra sponda e adesso è presente su questa sponda del cuore: riappaiono la folla e i discepoli.

Il testo ci racconta due episodi uno dentro l’altro. Entrambi gli episodi hanno al centro un personaggio femminile. Il primo è una ragazzina gravemente ammalata; suo padre è uno dei capi della sinagoga, si chiama Giairo, vede Gesù, si getta ai piedi del maestro e lo prega. L’episodio avviene in un ambiente sinagogale; Giairo è uno dei capi della sinagoga che interpella Gesù proprio perché maestro dotato di particolari competenze. La situazione della figlioletta è drammatica, sta per morire: «Vieni, imponile le mani». Gesù va con lui. La ragazzina ha dodici anni. Mentre Gesù si reca a casa di Giairo in mezzo al tumulto della folla, accompagnato dai discepoli, accade un altro episodio. Entra in scena la seconda figura femminile, questa volta è una donna adulta, ammalata gravemente. L’aspetto più drammatico della sua malattia sta nel fatto che essa determina uno stato di impurità. Se ogni malattia per se stessa suscita nell’infermo una situazione di impurità legale, questo è drammaticamente vero per le malattie che comportano il versamento del sangue, come in questo caso. La donna ammalata è esclusa, emarginata, tenuta a distanza perché è impura. Anzi lei stessa è preoccupata di evitare il contatto con tutto e con tutti, perché il contatto tra lei e chiunque altro determinerebbe un trasferimento della impurità a danno di innocenti o disinformati. La malattia di questa donna si protrae da dodici anni: è la stessa età della bambina, sono gli stessi dodici anni.

Il numero dodici indica una durata temporale che ricapitola in sé la completezza di una vita. Nel caso della ragazzina sono i dodici anni di qualcuno che vive per morire; non è soltanto una morte precoce; proprio perché avviene al dodicesimo anno, essa sigla l’interpretazione di quanto vale la vita: vale tanto quanto la morte, a cui conduce. Si vive per morire. Il caso della donna ammalata da dodici anni ( c’è una coincidenza temporale quanto mai significativa) non conduce alla morte; ma quel suo modo di vivere è intrisecamente abitato dalla morte. La bambina è una creatura che vive per morire, questa donna ammalata è una creatura che muore per trascinare la vita: un anno dopo l’altro, ancora un po’ più in là, e un po' più in là. Per trascinare la vita si gusta la morte. Qual è la sostanza vitale di questa donna? Il suo morire. Vive il suo morire. Dodici anni di vita per morire, dodici anni di morte per vivere. I due episodi sono incastonati l’uno nell’altro, anche dal punto di vista letterario: mentre Gesù sta seguendo Giairo, si avvicina a lui una donna.

Nel v. 27 troviamo:« Udito parlare di Gesù venne tra la folla alle sue spalle». Ritorna qui il verbo ascoltare, il verbo che abbiamo incontrato tante volte nel cap. 4. Questa donna, che per vivere ancora un poco muore sempre di più, ascolta. C’è in lei una capacità di ascolto che riguarda Gesù. Si avvicina di nascosto, approfitta del tumulto, è preoccupata, anzi angustiata per il gesto che vuol compiere; sa bene che è un gesto proibito, toccando trasmette impurità. Nel tumulto della folla può compiere un gesto che altrimenti non le sarebbe consentito, un gesto spregiudicato. Questa donna, che prima ha ascoltato, adesso tocca Gesù. Gesù si ferma: « Chi mi ha toccato il mantello?». I discepoli sembrano quasi sorridere: tutti lo toccano, la folla lo sta accerchiando, stringendo, spingendo. Eppure Gesù sente che qualcuno lo ha toccato in modo speciale. La donna, nel frattempo, ha sentito nel suo corpo che il flusso del sangue si è arrestato, una potenza è uscita da Gesù. Gesù non procede, si è fermato, si guarda attorno «per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna impaurita e tremante sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità». Adesso la donna si presenta, affronta direttamente Gesù, spiega la sua situazione. Gesù risponde: «figlia la tua fede ti ha salvata». E’ come se le dicesse: vedi, questo tuo modo di toccarmi si chiama fede; è atto di fede. E’ quella fede che Gesù non aveva riscontrato nei discepoli a suo tempo:«Non avete ancora fede, non ascoltate?». Quella donna ha toccato il maestro con la consapevolezza di avere da trasmettere solo la sua impurità, la sua malattia. Questa è la fede: ascoltare il maestro nell’atto di consegnargli la propria impurità. Gesù, che stando alle norme della legalità avrebbe contratto l’impurità, la approva; quella donna è indicata ad esempio per i discepoli: così ci si rivolge al maestro, toccandolo, consegnando a lui la propria impurità. Gesù è il maestro che attira a sé, assorbe in sé, l’impurità dei discepoli. Il contatto diretto tra Gesù e i discepoli è realizzato nel gesto di quella donna, nel suo corpo, che ha percepito l’arresto del flusso sanguigno.

La situazione viene ripresa e approfondita quando Gesù rivolge l’attenzione verso la casa di Giairo, là dove la figlioletta gravemente ammalata, ora è morta e non c’è più niente da fare. Gesù dice al capo della sinagoga: «non temere, continua solo aver fede». La fede di Giairo sta nella prontezza con cui consegna a Gesù l’impurità della nostra condizione umana; qui è l’impurità per eccellenza, è la morte. Quella donna che era in stato di impurità avrebbe dovuto fuggire e invece ha ascoltato, ora siamo dinanzi ad una casa in lutto, perché è morta una ragazzina di dodici anni e Giairo consegna questa morte al maestro. Gesù sta puntualmente ribadendo che queste realtà, in cui la morte domina la vita, appartengono a lui, il maestro. Il suo magistero invade l’impurità della condizione umana, invade l’irreparabilità della morte. « Non temere, continua solo ad avere fede». Il maestro è colui che attrae a sé l’impurità , assume in sé la morte, il sonno degli uomini e lo illumina.

Gesù affronta il caso della donna ammalata e della bambina morta proprio per i discepoli: sono loro in scena accanto a Gesù, in mezzo alla folla; tre di loro sono insieme con lui nella casa di Giairo, quando prende per mano la bambina morta e la chiama: «fanciulla, io ti dico alzati», e poi ordina che le venga dato da mangiare. Come nel caso precedente, è in questione il corpo: il corpo di quella donna che era inquinato dalla malattia, il corpo di questa ragazzina che è stato sopraffatto dalla morte. Il corpo della nostra realtà umana è docile nei confronti del maestro, è lui il signore del cuore umano. Colui che ha attraversato il mare, colui che ha raggiunto l’altra sponda, colui che ha scandagliato il fondo del cuore e ha aperto un varco così da raggiungere l’oltre cuore, è proprio lui che adesso, ritornato su questa sponda, la nostra sponda, la sponda della nostra condizione umana, che è esperta dell’impurità e dominata dalla morte, è proprio lui che esercita in pienezza la funzione del maestro.

Gesù, non dimentichiamolo, è maestro non perché elabora una dottrina sapiente e prestigiosa, non perché conosce tecniche sapienti per distrarre o coprire con qualche velo di consolazione la nostra condizione umana; Gesù è il maestro perché affronta la durezza, la miseria, l’infamia del vivere; affronta la morte e tutto ciò che della morte è strascico e premessa, l’impurità. Gesù esercita il suo magistero in quanto tocca e così assorbe, attrae a sé, assume in sé l’impurità degli uomini. La durezza del cuore umano è considerata qui in tutta la sua proiezione pubblica, cosmica, antropologica, sociologica; la storia umana, come storia fatta da uomini il cui cuore è duro, è storia inquinante, è storia che produce morte. Il cuore indurito è generatore di morte, volontà di morire.

Sono presenti due personaggi femminili - accomunati da quei dodici anni di malattia in un caso, di vita nell’altro - che, malgrado l’apparente estraneità in rapporto a Gesù, già sono in grado di sperimentare l’efficacia del suo magistero: la donna che aveva ascoltato, guarisce; la bambina si è svegliata ed ora mangia. Gesù si rivolge ai discepoli: come reagiscono? E’ da loro che Gesù attende una risposta che sia segno di un ascolto libero, espressione di una fede aperta, di un cuore attraversato.

un profeta inascoltato

«Partito quindi di là, andò nella patria e i discepoli lo seguirono». E’ usato il verbo exerchestai, uscire; è un richiamo all’Esodo, che è costante nel vangelo secondo Marco. Ci sono i discepoli, la loro presenza è indicata espressamente. Gesù torna alla casa paterna: questo è il senso del suo viaggio attraverso il deserto, attraverso il mare, del suo viaggio attraverso il cuore umano per ritornare alla casa da cui è uscito. Il figlio ritorna a casa, alla casa paterna; in quella direzione è rivolto il suo cuore, il cuore del figlio. Egli ha chiamato i discepoli proprio perché stessero con lui, che è il figlio; apre lui il suo cuore perché si apra il cuore dei discepoli e i discepoli imparino a dimorare là dove dimora lui, perché orientino i propri passi come sono orientati i suoi passi, perché sia aperto il loro cuore come è aperto il cuore del figlio, specchio del grembo che si è spalancato nel segreto di Dio. I cieli si sono squarciati, il cuore del figlio ne è l’immagine eloquente ed efficace dentro la storia degli uomini.

Adesso Gesù ritorna alla casa paterna, viene il Sabato ed insegna nella sinagoga. «Si scandalizzarono di lui» L’insegnamento di Gesù a Nazareth non è accettato, non è sopportato, è radicalmente rifiutato perché è l’insegnamento del figlio, perché quel suo modo di insegnare manifesta la sua condizione filiale. E’ qui che si concentra l’avversione verso Gesù. « E’ il figlio di Maria, è il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda..Ma come? Le sue sorelle stanno qui da noi?». Quale figliolanza è mai la sua! La figliolanza di Gesù fa tutt’uno con il suo magistero. Rifiutarlo come figlio significa disconoscerlo come maestro.

Gesù è rifiutato. Gli amici e i parenti di Nazareth sono convinti di dover instaurare con lui un altro rapporto fondato su una consuetudine di vita, di affetti, di esperienze comuni nel corso degli anni. La presenza di Gesù a Nazareth che insegna in sinagoga indica invece a tutti nuove prospettive, nuovi itinerari: si tratta di affrontare i territori della gratuità nel rapporto con la voce che chiama, nel rapporto con il grembo dell’Onnipotente che si è spalancato. In questione non è il contenuto del messaggio che Gesù predica, in questione è Gesù, in questione è il figlio, è quella pretesa di non essere riducibile ai criteri in base ai quali sempre Gesù è stato conosciuto e anche amato, apprezzato, ricercato. Gesù sfugge e questo lo rende insopportabile: "si scandalizzavano di lui". «"Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua". E non vi potè operare alcun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì.» A Nazareth sono scandalizzati perché Gesù parla, insegna, si comporta in forza della sua figliolanza; rimproverano a Gesù di sfuggire a loro, di non corrispondere ai loro desideri, di non adeguarsi alla loro misura. Questo sfuggire di Gesù alla presa da parte degli amici e dei parenti di Nazareth fa tutt’uno con il suo essere figlio senza potere in questo mondo. Gli rimproverano di aprire spazi nuovi, di percorrere le strade che sono determinate dalla esperienza della vera gratuità. E hanno buon gioco: Gesù, il figlio, in questo mondo non può niente; quello che si realizza in lui riguarda la sua coerenza nell’essere figlio; non ha altro da insegnare che la sua obbedienza filiale, non ha altro da proporre che la sua povertà di figlio in questo mondo. Il figlio non ha potere eppure prosegue ancora nella fatica di questo viaggio attraverso il deserto, attraverso la città degli uomini, attraverso il cuore umano, attraverso la vita e la morte. E’ un viaggio che non ha per lui altra prospettiva che quella di raggiungere la casa del padre. A Nazareth non trova la casa paterna. Si tratta di proseguire ancora. Il versetto 6 conclude:« si meravigliava della loro incredulità» E’ la delusione di Gesù dinanzi alla incredulità: l’incredulità dei suoi amici di Nazareth, l’incredulità dei suoi discepoli. I discepoli sono prigionieri della loro incredulità. Nella relazione familiare che lega il figlio alla voce che lo chiama i discepoli sono ancora degli estranei, il loro cuore non si è aperto. "Si meravigliava della loro incredulità": è sempre più chiaro che non hanno altro da imparare alla scuola di questo maestro.


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