Incontri di discernimento e solidarietà
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02 febbraio 2016

Libro di Tobia - prima parte

La vocazione alla vita nel tempo della diaspora: in viaggio verso Gerusalemme

Terzo incontro del ciclo 2015-2016



Questa sera iniziamo la lettura del libro di Tobia facendo un certo salto rispetto al cammino percorso negli ultimi mesi quando abbiamo avuto a che fare con le lettere di Giacomo, di Giuda e con la Seconda lettera di Pietro. Tutto sommato, è un impegno che si pone in continuità con le letture che ci avevano impegnato precedentemente quando leggemmo il libro di Giuditta. Non preciso ora meglio qual è il motivo che esplicita la continuità tra il Libro di Giuditta e il Libro di Tobia. Di fatto questa continuità esiste e ne terremo conto, ma quello che ci preme in modo determinante è il contatto diretto con il testo biblico, la lettura di uno scritto sapienziale che ha la forma di un racconto didattico; un racconto – all’interno del quale sono poi contenute anche talune raccolte di sentenze sapienziali, sentenze didattiche dall’effetto sapienziale – che, nella sua forma più arcaica, si sviluppa alla maniera di elenchi di proverbi, di sentenze, di insegnamenti più o meno elaborati e concatenati tra loro andando a formare poemi anche piuttosto estesi e complessi; e, finalmente, anche un racconto all’interno del quale compaiono sentenze corrispondenti alla tradizione antica. Ma il racconto ha una valenza didattica: in sé è una parabola.

È in questo sistema che noi ci poniamo, aprendo adesso il quarto libro e cominciando a sfogliarne le pagine. Una vicenda che acquista il valore di un riferimento esemplare, un riferimento adeguato alla ricerca di coloro che si interrogano circa il senso e il valore della vocazione alla vita. Nella ricerca sapienziale questo è sempre il tema di fondo: la vocazione alla vita che non si riduce a informazioni di ordine ideale, ma esige applicazioni empiriche, pratiche, sempre adeguate alla varietà delle questioni, alla molteplicità dei problemi, all’incertezza del vissuto, nel contesto di vicissitudini che sono sempre imprevedibili e portatrici di equilibri originali. Imparare a vivere: questo è l’obiettivo verso cui è orientata tutta la tradizione sapienziale. È quel mestiere di vivere che man mano viene messo alla prova, affinato e diventa un patrimonio che viene tramandato di generazione in generazione con interrogativi che rimangono aperti e sempre con l’entusiasmo di riprendere il cammino ringraziando la generazione precedente da cui si è ricevuto un lascito prezioso in vista di ulteriori scoperte.

Abbiamo a che fare con la vocazione alla vita, con una sottolineatura particolare data dalla situazione in cui si trovano i credenti del popolo di Dio nel tempo della diaspora, della dispersione, dell’esilio: il popolo di Dio, frantumato in una miriade di piccole realtà e spesso con personaggi isolati alle prese con il mondo dei pagani che si impone visibilmente come il quadro di riferimento culturale a cui l’umanità contemporanea fa appello. Il mestiere di vivere nel cammino di coloro che continuano ad appartenere al popolo dei credenti e in questa appartenenza vogliono confermarsi, radicarsi, testimoniare, per quanto è loro possibile, un’identità inconfondibile; e d’altra parte abbiamo a che fare con situazioni nuove e per certi versi assai preoccupanti e inquietanti. E tutti ci troviamo, senza grande fatica, sintonizzati con problematiche del genere nella nostra generazione.

Abbiamo a che fare con un racconto e le vicende che ci vengono narrate sfuggono a un preciso inquadramento di ordine storiografico: i tempi si allungano e poi tendono a coincidere a soffietto, con una certa disinvoltura.

Si parla di regioni lontane, senza tener conto esattamente del chilometraggio che definisce le distanze; geografia e cronologia sono in gran parte fittizie, ma questo non ci disturba. È il linguaggio di una parabola che non vuole raccontarci la cronaca di un evento accaduto in quel certo luogo e in quel certo momento. Come quando Gesù dice: “uscì un seminatore”: ma che tipo di semina era, a che ora e come era stato il terreno predisposto non ci interessa.

È la presenza di credenti nel mondo – alle prese con le urgenze di situazioni massimamente impegnative che tendono a suggerire due ipotesi di comportamento – che invece attira la nostra attenzione. Prima ipotesi l’assimilazione: adeguarsi alla realtà circostante in un mondo dove c’è una cultura dominante che propone criteri interpretativi del mondo assai persuasivi e offre oltretutto strumenti adeguati a un inserimento positivo in quel mondo. Per altro verso l’isolamento e un’ipotesi di comportamento che suggerisce come necessario il rifiuto di un contatto reale; si tratta piuttosto di circoscrivere il piccolo ambiente in cui gli eredi che custodiscono la loro identità di fede come il valore determinante, quel recinto all’interno del quale essi vogliono raccogliersi, rinchiudersi, difendersi, isolarsi, mantenendo le debite distanze. Due ipotesi contrastanti che traspaiono sullo sfondo; in realtà si tratta di credenti alle prese con il viaggio della loro vita coincidente con la loro vocazione di credenti nel mondo; viaggio che devono affrontare con oscillazioni, incertezze, contraddizioni. La seconda ipotesi è quella di imparare a vivere, per coloro che ancora sono fedeli a quel dono ricevuto attraverso generazioni e che parlano il linguaggio della fede, in un mondo che in alcun modo è più coerente con quella concezione e messa in atto dei contenuti di fede che costituiscono l’identità originaria del popolo di Dio.

Il testo che leggiamo è un deuterocanonico; lo troviamo scritto in greco ed è datato tra il 3° e il 2° secolo a.C. in un periodo relativamente tranquillo nella storia del popolo di Israele, in un contesto di parziale sudditanza rispetto al Regno d’Egitto fino al 3° secolo e, dal 2°, rispetto alla potenza dominante della Siria. Tra un secolo e l’altro la terra di Israele si trova spostata dal raggio di influenza che proviene dalla regione meridionale. In quel contesto il racconto è permeato da quella che ormai da diversi secoli è l’esperienza massiccia (i dati oggettivi sono inequivocabili) della diaspora: la gran parte di coloro che discendono dagli antichi progenitori vivono dispersi nel mondo. Il racconto che leggiamo è dominato da un’immagine e sostenuto da un sentimento: l’immagine è di gente che viaggia e non è un’itineranza che va allo sbaraglio. Con puntuale e coerente decisione viene segnalata una meta che non necessariamente viene raggiunta nei fatti, ma rimane l’orizzonte che dà al viaggio un orientamento inconfondibile: Gerusalemme. Alla fine del racconto è ancora più lontana di quanto non fosse all’inizio, ma resta la meta: l’umanità è in viaggio. Il sentimento è possibile sintetizzarlo con una parolina in sé e per sé molto misera, ma espressiva: sobrietà. Non c’è spazio per gli eroismi superflui, gli eventi spettacolari. Abbiamo a che fare con il vissuto che si svolge nei dati concreti, spesso pesanti, che provocano situazioni di solitudine, di emarginazione, dove sfuggire ai compromessi significa trovarsi esposti a qualunque scelta non necessariamente di grande respiro morale, ma proprio nella pratica concretezza della quotidianità anche a rischi estremi; un’esperienza della vita che ha a che fare con un martirio quotidiano di cui nessuno si accorge. Sobrietà, il sentimento che sostiene il racconto.


Tobi: un anziano che rievoca il suo pellegrinaggio difficile e solitario

Cap. 1. Nei primi due versetti facciamo conoscenza con un personaggio e poi, a partire dal v. 3, con un racconto scritto nella prima persona singolare. Possiamo intravedere il racconto che si svolge nell’arco dei primi tre capitoli che vorremmo, con una qualche disinvoltura, leggere stasera. Facciamo conoscenza con Tobi e con un secondo personaggio che viene collocato accanto a lui. Due personaggi con le loro tribolazioni; due personaggi diversi, dislocati in contesti che apparentemente sembrano massimamente contraddittori e che però sono presenti all’interno di un’unica vicenda. Il primo si chiama Tobi, il secondo Sara, un vecchio e una giovane donna.

Vv. 1-2: “Libro della storia di Tobi, figlio di Tòbiel, figlio di Anàniel, figlio di Aduel, figlio di Gàbael, della discendenza di Asiel, della tribù di Nèftali. Al tempo di Salmanàssar, re degli Assiri, egli fu condotto prigioniero da Tisbe, che sta a sud di Kades di Nèftali, nell'alta Galilea, sopra Casor, verso occidente, a nord di Sefet”. È una vicenda che si estende nel tempo e nelle periferie geografiche della terra di Israele e fortemente segnata dalla vicenda della deportazione. “Al tempo di Salmanàssar, re degli Assiri!”: qui siamo alle prese con la prima deportazione, quella che ebbe luogo nientemeno che nel 732 a. C., ma le vicende si sviluppano in modo tale (vi avevo preavvisato) che le scadenze del calendario valgono relativamente. L’esilio dalla propria terra dove essa non è soltanto una collocazione geografica, ma un ambiente predisposto nei rapporti di alleanza tra il Signore e il Suo popolo nel quale quella relazione vive e prospera, porta frutti in pienezza. Il popolo nella sua terra è il popolo che è nella condizione di corrispondere a quella vocazione particolare che lo ha identificato e che si è espressa con le forme proprie dell’Alleanza. E ora l’esilio e quindi la frantumazione di tanti contatti, il sentimento di mantenere coerente il complesso di impegni che nella terra caratterizzano inconfondibilmente l’identità del popolo dei credenti.

Tobi prosegue il racconto nella prima persona singolare (“Io, Tobi”) fino al cap. 3, v. 6. Un anziano che guarda indietro e che racconta la sua testimonianza. Parla sottovoce, ma sta rievocando il cammino compiuto nel corso di una lunga esistenza. Ha il coraggio di prendere in mano la propria storia, l’esperienza del proprio vissuto, la propria fatica e le proprie tribolazioni. Un uomo che, nel corso della sua vita, certamente ha assunto questo riferimento al passato come criterio determinante per dare coerenza al suo vissuto.

Vv. 3-5: “Io, Tobi, passavo i giorni della mia vita seguendo le vie della verità e della giustizia. Ai miei fratelli e ai miei compatrioti, che erano stati condotti con me in prigionia a Ninive, nel paese degli Assiri, facevo molte elemosine. Mi trovavo ancora al mio paese, la terra d'Israele, ed ero ancora giovane, quando la tribù del mio antenato Nèftali abbandonò la casa di Davide e si staccò da Gerusalemme, la sola città fra tutte le tribù d'Israele scelta per i sacrifici. In essa era stato edificato il tempio, dove abita Dio, ed era stato consacrato per tutte le generazioni future. Tutti i miei fratelli e quelli della tribù del mio antenato Nèftali facevano sacrifici sui monti della Galilea al vitello che Geroboàmo re d'Israele aveva fabbricato in Dan”. La figura portante nell’esistenza di quest’uomo è data dall’esperienza del viaggio. Ve lo dicevo inizialmente: “passavo i giorni”, camminavo, viaggiavo; un cammino che ha preso poi la piega del viaggio dolente verso i territori dell’esilio, ma è un viaggio che Tobi rievoca, andando ancora indietro con la memoria a quando da giovane si recava in pellegrinaggio a Gerusalemme. Ha qualificato la sua itineranza costitutiva nella sua identità personale e nella vocazione di credente: «Passavo i giorni della mia giovinezza “seguendo le vie della verità e della giustizia”»; seguendo l’iniziativa fedele di Dio. Il termine “giustizia” è plurale (le giustizie). Sono le sue osservanze, il suo camminare giorno per giorno di luogo in luogo in corrispondenza all’iniziativa del Signore in modo da realizzare così il valore di quell’appartenenza singolare che fa di Israele il popolo dei credenti, miei “fratelli e compatrioti”; un complesso comunitario che viene caratterizzato da vincoli di particolare affetto e solidarietà irrevocabile e indissolubile. Eppure, rispetto ai suoi fratelli e compatrioti, Tobi rievoca quella che fu, fin dall’età giovanile l’esperienza di un contrasto, di una polemica, non necessariamente dichiarata in forma verbale o dottrinaria; ma fin da giovane si è trovato coinvolto in una situazione nella quale quelli della sua famiglia e della sua tribù celebravamo il culto là dove il re Geroboàmo aveva costruito un santuario. Tobi appartiene alla tribù di Nèftali, ma fin da giovane ha continuato a praticare con puntuale coerenza il pellegrinaggio a Gerusalemme. Lui parla nientemeno che di un’apostasia dei suoi fratelli. Quando la tribù dell’antenato Nèftali abbandonò la casa di Davide, si staccò: è una vera e propria apostasia di cui lui ha percepito l’aspetto drammatico, tanto è vero che ha resistito nel confermare quella continuità interiore della sua vita come itinerante, viandante, pellegrinante verso Gerusalemme. Inoltre si è dedicato, nel tempo dell’esilio, malgrado quelle che possono essere state le precedenti incomprensioni, agli impegni delle elemosine, dell’aiuto, del soccorso per vivere nella sua tribù. Tobi è erede di una storia sofferente: è la storia del suo popolo, la sua storia personale, la storia di una testimonianza di fede che si è svolta in rapporto ai segni che Dio stesso ha collocato al loro posto come riferimenti di valore perpetuo: la dinastia davidica, Gerusalemme e il Tempio. E, d’altra parte, questa storia porta con sé già i segni di pericolose disfunzioni, frantumazioni, sfilacciamenti. E Tobi ha accolto tutto questo, lo ha custodito nella sua memoria e se ne è fatto carico. Durante l’esilio dunque si preoccupa di osservare il precetto delle elemosine, che non è soltanto dare qualche monetina a un mendicante, ma un modo di accogliere e condividere. Tobi è tornato indietro a quello che avveniva prima dell'esilio. Puntualmente va in pellegrinaggio per le grandi feste liturgiche a Gerusalemme. Facendo ancora riferimento a quell'epoca remota, dice: “Io ero il solo”. Quindi è un uomo che ha fatto della solitudine un criterio di identificazione inconfondibile.

Io ero il solo che spesso mi recavo a Gerusalemme nelle feste, per obbedienza ad una legge perenne prescritta a tutto Israele. Correvo a Gerusalemme con le primizie dei frutti e degli animali, con le decime del bestiame e con la prima lana che tosavo alle mie pecore. Consegnavo tutto ai sacerdoti, figli di Aronne, per l'altare. Davo anche ai leviti che allora erano in funzione a Gerusalemme le decime del grano, del vino, dell'olio, delle melagrane, dei fichi e degli altri frutti. Per sei anni consecutivi convertivo in danaro la seconda decima e la spendevo ogni anno a Gerusalemme. La terza decima poi era per gli orfani, le vedove e i forestieri che si trovavano con gli Israeliti. La portavo loro ogni tre anni e la si consumava insieme, come vuole la legge di Mosè e secondo le raccomandazioni di Debora moglie di Anàniel, la madre di nostro padre, poiché mio padre, morendo, mi aveva lasciato orfano. Quando divenni adulto, sposai Anna, una donna della mia parentela, e da essa ebbi un figlio che chiamai Tobia”. Tobi ricorda qui le osservanze del passato. Vediamo anche comportamenti esagerati: tre decime all'anno invece di una, come prescritto dalla legge. Una devozione sovrabbondante. Nei versetti che abbiamo letto c'è anche un riferimento per noi molto istruttivo alla devozione alla famiglia. Lui ha avuto a che fare con la nonna, di nome Debora, perché nel frattempo ha perso il padre. Alla solitudine di cui si parlava prima bisogna aggiungere anche questa notizia biografica non indifferente: “poiché mio padre, morendo, mi aveva lasciato orfano”. La nonna, la famiglia, un clima devozionale che lo ha impregnato nei suoi pensieri, nei suoi sentimenti ed ha determinato quei suoi comportamenti descritti prima, di una coerenza così generosa, così capiente, così gratuita, che non può non lasciarci un’impressione di vera ammirazione. Poi Tobi si è sposato all’interno della parentela (secondo le regole vigenti, ossia rispettando l’endogamia, una regola molto antica risalente al tempo dei patriarchi) con Anna ed è nato un figlio che si chiama Tobia.

Torniamo alla deportazione. Si trova a Ninive, capitale dell’impero assiro. Sono passati decenni, è già trascorsa gran parte della sua vita.

Vv. 10,14: “Dopo la deportazione in Assiria, quando fui condotto prigioniero e arrivai a Ninive, tutti i miei fratelli e quelli della mia gente mangiavano i cibi dei pagani; ma io mi guardai bene dal farlo. Poiché restai fedele a Dio con tutto il cuore, l'Altissimo mi fece trovare il favore di Salmanàssar, del quale presi a trattare gli affari. Venni così nella Media, dove, finché egli visse, conclusi affari per conto suo. Fu allora che a Rage di Media, presso Gabael, un mio parente figlio di Gabri, depositai in sacchetti la somma di dieci talenti d'argento”. È da notare l’insistenza sulle osservanze alimentari, in un contesto che lo ha messo in contrasto col comportamento degli altri, che invece si sono serenamente, pacatamente ed anche velocemente adeguati all’ambiente nuovo. Tobi ha invece rifiutato ogni forma di falso adattamento, ogni forma di strumentale solidarietà con quello che è l’andazzo comune, l’opinione pubblica, la cultura dominante, anche se ne avrebbe ricavato una garanzia di benessere. Ma questo non è stato mai un criterio valido per interpretare il suo vissuto e dare ad esso una struttura comportamentale. Non si è adattato, adeguato. Le osservanze alimentari di cui parla sono un criterio per caratterizzare questa sua solitudine, che continua ad essere vissuta in un contesto in cui la sua responsabilità comunitaria è ulteriormente dichiarata nel rapporto con quelli che sono i suoi fratelli, coloro che appartengono al suo popolo e sono esposti a tutte le contraddizioni provocate dal contatto col mondo pagano. E lui no. Ma lui è anche un personaggio capace di percorrere una carriera di grande successo negli ambienti del commercio internazionale, al servizio del re assiro. Tobi non è una figura di poco conto. E tutto questo restando rigorosamente fedele a quell’eredità di valori sacri che ha ricevuto dalle generazioni del passato. È in giro per il mondo a trattare questioni commerciali di grande rilievo per l’Assiria. Ha depositato presso un parente collaboratore nientemeno che la somma di dieci talenti d’argento, notizia di cui si parlerà successivamente.

Vv. 15-17: "Quando Salmanàssar morì, gli successe il figlio Sennàcherib. Allora le strade della Media divennero impraticabili (arriva il tempo della disgrazia) e non potei più tornarvi. Al tempo di Salmanàssar facevo spesso l'elemosina a quelli della mia gente; donavo il pane agli affamati, gli abiti agli ignudi e, se vedevo qualcuno dei miei connazionali morto e gettato dietro le mura di Ninive, io lo seppellivo”. Ciò avveniva quando Tobi aveva disponibilità di beni piuttosto abbondanti. Quindi dà da mangiare agli affamati, vestiti a chi è privo di abbigliamento; addirittura si prende l’impegno di seppellire i morti. Tutti questi elementi confermano la sua preoccupazione di custodire il passato, di dare valore a ciò che abbiamo ricevuto. D’altra parte adesso la situazione è cambiata. Quello che prima Tobi poteva svolgere come ministero di attenzione, di accoglienza, di benevolenza a vantaggio dei suoi e dei defunti del suo popolo non è più possibile, perché adesso Sennàcherib imperversa.

V. 18: “Seppellii anche quelli che aveva uccisi Sennàcherib, quando tornò fuggendo dalla Giudea, al tempo del castigo mandato dal re del cielo sui bestemmiatori. Nella sua collera egli ne uccise molti; io sottraevo i loro corpi per la sepoltura e Sennàcherib invano li cercava”. Sono passati decenni da questo evento. Il generale assiro si ritirò da Gerusalemme dopo aver tentato l’assedio. Sennacherib però imperversò. E quindi qui si parla di tanti cadaveri disseminati per le strade.

C’è di mezzo un delatore, forse anche lui un giudeo deportato. Vv. 19, 20: “Ma un cittadino di Ninive andò ad informare il re che io li seppellivo di nascosto. Quando seppi che il re conosceva il fatto e che mi si cercava per essere messo a morte, colto da paura, mi diedi alla fuga. I miei beni furono confiscati e passarono tutti al tesoro del re. Mi restò solo la moglie Anna con il figlio Tobia”. Tobi fugge. Il patrimonio viene meno. Tutto questo a causa del tradimento da parte di qualcuno che ha pensato di far bella figura con il re, accusando Tobi di una colpa così grave come quella di seppellire i morti, opera a cui Tobi si dedicava con grande trasporto, con grande impegno, in continuità con quella testimonianza interiore che è stato il filo conduttore della sua vita di fedeltà e coerenza. V. 21: "Neanche quaranta giorni dopo, il re fu ucciso da due suoi figli, i quali poi fuggirono sui monti dell'Araràt. Gli successe allora il figlio Assarhaddon. Egli nominò Achikar, figlio di mio fratello Anael, incaricato della contabilità del regno ed ebbe la direzione generale degli affari”. Negli ambienti del potere gli avvicendamenti sono imprevedibili e rapidissimi. Qui compare il nome di Achikar, una figura classica nella letteratura sapienziale ecumenica. Rappresenta, in vari bacini culturali, la figura del maestro di sapienza. Nel racconto che stiamo leggendo, Achikar viene presentato proprio come se fosse il nipote di Tobi. Achikar ha una posizione di riguardo nella corte di Assarhaddon, figlio del re che è stato ucciso. V. 22: “Allora Achikar prese a cuore la mia causa e potei così ritornare a Ninive. Al tempo di Sennàcherib re degli Assiri, Achik”, poiché Achikar anche sotto Sennàcherib, re d'Assiria, era stato gran coppiere, custode del sigillo, primo ministro e direttore dei conti, e Assarhaddon l'aveva confermato in carica: era il nipote. Ci sono i tempi della disgrazia, ma poi seguono sviluppi provvidenziali, al di là di ogni programmazione, di capacità di intervenire con le proprie forze. Tobi si ritrova adesso a Ninive con la sua famiglia, certo in una condizione molto più modesta di quella precedente. Achikar, uno della parentela di Tobi, che era stato gran coppiere, ministro della giustizia, responsabile della contabilità, confermato da Assarhaddon in queste cariche, intercede per lui presso il re.


Le disgrazie incalzano: la cecità di Tobi

Cap. 2. V. 1-2: “Sotto il regno di Assarhaddon ritornai dunque a casa mia e mi fu restituita la compagnia della moglie Anna e del figlio Tobia. Per la nostra festa di pentecoste, cioè la festa delle settimane, avevo fatto preparare un buon pranzo e mi posi a tavola (la famiglia si è riunita per Pentecoste, la festa delle sette settimane, il cinquantesimo giorno dopo Pasqua, a ricordo del dono della legge, del rinnovamento dell’alleanza, celebrata naturalmente in un contesto che impedisce il pellegrinaggio a Gerusalemme, come secondo la legislazione antica si doveva fare. È una delle tre grandi feste del calendario liturgico, insieme alla festa di Pasqua e quella “delle Capanne”): la tavola era imbandita di molte vivande. Dissi al figlio Tobia: «Figlio mio, va’, e se trovi tra i nostri fratelli deportati a Ninive qualche povero, che sia però di cuore fedele, portalo a pranzo insieme con noi. Io resto ad aspettare che tu ritorni»”. “Non ci mettiamo a tavola finché non sarà qui con noi uno dei nostri in povertà”.

V. 3: “Tobia uscì in cerca di un povero tra i nostri fratelli. Di ritorno disse: «Padre!». Gli risposi: «Ebbene, figlio mio». «Padre - riprese - uno della nostra gente è stato strangolato e gettato nella piazza, dove ancora si trova»”. Tobi vuole che ci si sieda a tavola solo in un contesto di comunione e di accoglienza. Pur in esilio, conserva fedele la propria vocazione. Invia il figlio Tobia in missione a cercare un fratello in queste condizioni per invitarlo, incoraggiarlo, accompagnarlo, accoglierlo. Ed il figlio rientra in casa annunciando che ha rinvenuto un cadavere. La conversazione è ridotta all’essenziale: padre e figlio, figlio e padre. Questo tipo di conversazione è rievocato in maniera efficace in tanti altri testi della Bibbia. Si pensi al dialogo tra Abramo ed Isacco nella Genesi o al dialogo tra padre, figlio ed altro figlio nella parabola della misericordia nel Vangelo secondo Luca. È il dialogo che contiene in sé come un unico abbraccio la rivelazione del mistero della vita di Dio. Tutta la storia umana è interna a questo mistero: “Padre mio, Figlio mio”.

Vv. 4-8: “Io allora mi alzai, lasciando intatto il pranzo; tolsi l'uomo dalla piazza e lo posi in una camera in attesa del tramonto del sole, per poterlo seppellire. Ritornai e, lavatomi, presi il pasto con tristezza, ricordando le parole del profeta Amos su Betel: «Si cambieranno le vostre feste in lutto, tutti i vostri canti in lamento». E piansi”. (le lacrime del lutto si mescolano con il pasto. “Ho mangiato un pane di lacrime”, dice il salmo 42. Nell’abbondante pasto, preparato con cura, succede che la comunione viene irrorata da tante lacrime). Quando poi calò il sole, andai a scavare una fossa e ve lo seppellii. I miei vicini mi deridevano dicendo: «Non ha più paura! Proprio per questo motivo è già stato ricercato per essere ucciso. È dovuto fuggire ed ora eccolo di nuovo a seppellire i morti»”. Tobi, nella presenza di quel cadavere, non scopre soltanto la manifestazione della violenza spietata degli aggressori che lo hanno strangolato, ma riconosce la conseguenza di una colpa collettiva. “Si cambieranno le vostre feste in lutto, tutti i vostri canti in lamento”: così gridava e protestava Amos. Interviene anche quando si tratta di raccogliere questo lascito dolorosissimo di una storia sbagliata, che porta in sé le conseguenze di deviazioni, contraddizioni, di quei fenomeni di apostasia di cui si parlava nel capitolo precedente.

I vicini di casa osservano e deridono. Forse “deridevano” non è la traduzione più corretta. Piuttosto bisogna tradurre “sorridevano un poco”, con un senso di commiserazione, come per dire: “guardate questo, si rimette di nuovo a fare queste scenate, non gli bastavano già i rischi che ha corso, i guai che lo hanno costretto a scappare in capo al mondo”. In questo atteggiamento con cui i vicini osservano e valutano il soggetto c’è già un principio di persecuzione. Tobi è sempre più solo.

Vv. 9-10: "Quella notte, dopo aver seppellito il morto, mi lavai, entrai nel mio cortile e mi addormentai sotto il muro del cortile. Per il caldo che c'era tenevo la faccia scoperta, ignorando che sopra di me, nel muro, stavano dei passeri. Caddero sui miei occhi i loro escrementi ancora caldi, che mi produssero macchie bianche, e dovetti andare dai medici per la cura. Più essi però mi applicavano farmaci, più mi si oscuravano gli occhi per le macchie bianche, finché divenni cieco del tutto. Per quattro anni fui cieco e ne soffersero tutti i miei fratelli. Achikar, nei due anni che precedettero la sua partenza per l'Elimaide, provvide al mio sostentamento”. Le disgrazie incalzano. Non si finisce più. Un fatto che sembra così grottesco produce conseguenze tanto gravi. Tobi rimane cieco. È un malanno di ordine fisiologico, bisogna ricorrere ai medici ottenendo l’effetto opposto a quello sperato. Ma è anche un malanno che si riferisce ad una disfunzione interiore, un disagio, una malattia profonda dell’animo per cui Tobi non vede più la luce. Lui, abituato a volgersi indietro ed a raccogliere l’eredità del passato, non vede più. Intanto c’è il cordoglio dei parenti che serve a dimostrare come anche questi prendano le distanze rispetto a lui, in modo molto delicato, ma anche molto facilmente condivisibile. Il cordoglio serve proprio a garantire una distanza. Anche Achikar, che pure si dà da fare per sostenere lo zio, adesso è in missione in località lontana. Tobi è prigioniero di questo suo mondo interiore dove la pazienza, il coraggio, la costanza, la coerenza della sua fedeltà nel custodire l’eredità del passato gli impongono le conseguenze di una vera e propria malattia. La cecità non è solo oggettiva incapacità di vedere, ma anche un incupimento interiore, un oscuramento profondo dell’animo.

Vv. 11-14: “In quel tempo mia moglie Anna lavorava nelle sue stanze a pagamento, tessendo la lana che rimandava poi ai padroni e ricevendone la paga. Ora nel settimo giorno del mese di Distro, quando essa tagliò il pezzo che aveva tessuto e lo mandò ai padroni, essi, oltre la mercede completa, le fecero dono di un capretto per il desinare. Quando il capretto entrò in casa mia, si mise a belare. (Il capretto entrato in casa si mette a belare, quasi a manifestare una particolare simpatia verso Tobi, quasi a volergli comunicare qualcosa. È un dono che la moglie ha ricevuto forse proprio in vista della Pasqua che si celebrerà nel mese successivo. Invece Tobi reagisce malamente. Anche in questo caso si mostra rigorosamente fermo nell’osservanza alla legge. Ma il capretto non è rubato, è stato regalato. Guardate che qui in greco dice “e quando il capretto entrò verso di me, si mise a belare”, come se questo capretto entrando in casa di Tobi cieco manifestasse una particolare simpatia per lui e avesse qualcosa da comunicare a lui: “e cominciò a belare verso di me, mi venne incontro”. È un dono che Anna ha ricevuto, forse un dono proprio in vista della pasqua che si celebrerà poi nel mese successivo). Chiamai allora mia moglie e le dissi: «Da dove viene questo capretto? Non sarà stato rubato? Restituiscilo ai padroni, poiché non abbiamo il diritto di mangiare cosa alcuna rubata». (Tobi è sempre rigorosamente attestato sulle questioni dell’osservanza: non abbiamo il diritto di mangiare alcuna cosa rubata! Ma non ha rubato. Le è stato regalato. Soltanto che per Tobi non c’è niente che possa essere regalato. Ormai Tobi è entrato dentro a questo circuito interiore che non gli consente di vedere la luce di ciò che è espressione di gratuità. Non c’è niente di gratuito al mondo! Dalla cecità Tobi sta passando all’indurimento del cuore, all’incupimento, all’oscuramento interiore: è la vera disgrazia di Tobi. E infatti insiste con la moglie, e la moglie dice: “ma mi è stato dato in più del salario, mi è stato regalato!”. Impossibile!)

Ella mi disse: «Mi è stato dato in più del salario». Ma io non le credevo e le ripetevo di restituirlo ai padroni e a causa di ciò arrossivo di lei. Allora per tutta risposta mi disse: «Dove sono le tue elemosine? Dove sono le tue buone opere? Ecco, lo si vede bene dal come sei ridotto!»”. Questo Tobi non se l’aspettava! Questa è una pugnalata alle spalle e, d’altra parte, l’ha detta grossa e Anna protesta. Tobi viene adesso così aspramente contestato da sua moglie. Da parte sua Tobi si è posto in una condizione addirittura di martire della vergogna: io sopporto la vergogna per te. E Anna, da parte sua, gli sferra un attacco micidiale: “vedi dove sei arrivato? Vedi dove ti hanno portato le tue osservanze, le tue elemosine? Vedi che cosa Dio ha fatto di te? Si vede bene da come sei ridotto!”. La moglie di Tobi in questo caso manifesta una certa parentela, direi anche piuttosto esplicita, con la moglie di Giobbe, all’inizio del libro di Giobbe; e Tobi rimane così inchiodato in questa sua esperienza di solitudine che lo è andato estraniando dal suo contesto, dalla sua gente, dal suo tempo, dalla sua comunità e adesso dalla stessa persona più vicina a lui, sua moglie. E Tobi, adesso, è in preghiera.


La preghiera sbagliata di Tobi

Cap. 3, vv. 1-6: “Con l'animo affranto dal dolore, sospirai e piansi. Poi presi a dire questa preghiera di lamento: «Tu sei giusto, Signore, e giuste sono tutte le tue opere. Ogni tua via è misericordia e verità. Tu sei il giudice del mondo (Tobi si affida, con questo gemito sospiroso, alle vie del Signore, perché lui, il Signore, è certamente innocente; e Lui certamente ci tiene a tutte le sue creature con misericordia… “Tu”. “E ora Signore ricordati”. Notate come Tobi, che è l’uomo che abbiamo potuto identificare come il testimone della memoria, adesso non è più in grado di ricordare; la sua memoria è oscurata, ottenebrata, cancellata; non è più in grado di vedere: ricorda Tu, Tu ricorda quel che io non sono più in grado di ricordare). Ora, Signore, ricordati di me e guardami. Non punirmi per i miei peccati e per gli errori miei e dei miei padri (Tobi non trascura mai questo richiamo alle miserie del peccato suo e della sua gente). Violando i tuoi comandi, abbiamo peccato davanti a te. Tu hai lasciato che ci spogliassero dei beni; ci hai abbandonati alla prigionia, alla morte e ad essere la favola, lo scherno, il disprezzo di tutte le genti, tra le quali ci hai dispersi (Tobi non sta dicendo: ci hai trattati male; è così perché è così che si è dimostrata chiaramente la realtà del nostro fallimento. Tu sei giusto. È la storia del nostro popolo che è sbagliata, e dentro a questa storia sbagliata ci sono anch’io, dice Tobi. E adesso vediamo dove va a parare). Ora, nel trattarmi secondo le colpe mie e dei miei padri, veri sono tutti i tuoi giudizi, perché non abbiamo osservato i tuoi decreti, camminando davanti a Te nella verità. Agisci pure ora come meglio Ti piace; da' ordine che venga presa la mia vita”. Vedete che cosa succede qui? “A seguito di questa confessione di peccato così sincera e coerente con i dati di una storia sbagliata come quella che adesso è possibile ricostruire nel suo svolgimento, Tu sei il vero protagonista, a te io mi rivolgo in un atteggiamento di piena obbedienza per quanto riguarda le circostanze in atto”. A questo punto noi ci potremmo attendere una richiesta di perdono, per le colpe sue e del suo popolo, e una richiesta di liberazione da questo stato di disgrazia, e invece niente di tutto questo perché Tobi chiede di morire. Qui è l’indurimento del cuore di Tobi: non chiede il perdono, non chiede un intervento del Signore per superare questo stato di miseria generale; chiede di morire. Per Tobi non c’è più niente da recuperare. Non è possibile che questo passato così consumato, corrotto, segnato da tanti fenomeni di inquinamento, possa essere recuperato. Tobi è prigioniero di questo dolore che gli toglie la vita. Questa storia deve essere solo dimenticata, e sprofondare così nell’abisso buio della morte. “…dà ordine che venga presa la mia vita, in modo che io sia tolto dalla terra e divenga terra, poiché per me è preferibile la morte alla vita. I rimproveri che mi tocca sentire destano in me grande dolore. Signore, comanda che sia tolto da questa prova; fa’ che io parta verso l'eterno soggiorno; Signore, non distogliere da me il volto. Per me infatti è meglio morire che vedermi davanti questa grande angoscia e così non sentirmi più insultare!”. Il volto del Signore per Tobi viene invocato come una sentenza di morte, a cui si rivolge con tanta passione, slancio, fervore, perché è intrappolato dentro un’esperienza di disperazione che trova riscontro in questa sua preghiera che è oggettivamente una preghiera sbagliata: Tobi, l’uomo devoto per antonomasia, va incontro a una tragedia; ma è la tragedia di un uomo devoto. È un fenomeno che compare in tanti avvenimenti della storia della salvezza fino alle pagine autorevolissime di San Paolo nel Nuovo Testamento. È la vera disgrazia di un uomo devoto; il passato è perduto senza rimedio; è buio, e Tobi vi muore dentro, vi sprofonda dentro, si inabissa dentro e chiede a Dio di morire. Il volto del Signore per lui è una sentenza di morte. Una preghiera sbagliata, una preghiera di un pover’uomo derelitto che si sta smarrendo.


Le sventure di Sara e la sua dolente supplica

Cap. 3, vv. 7-15: “Nello stesso giorno (notate anche questa coincidenza di tempi: “nello stesso giorno”. Vicende diversissime, adesso non è più un racconto autobiografico, adesso è un autore anonimo che interviene e ci spiega come quello che avviene a Tobi a Ninive, coincide con quello che avviene a Sara che vive a Ecbàtana. Situazioni così diverse e così remote unificate all’interno di un disegno che man mano acquisterà il valore di una rivelazione gloriosa dell’iniziativa di Dio) capitò a Sara figlia di Raguele, abitante di Ecbàtana, nella Media, di sentire insulti da parte di una serva di suo padre. Bisogna sapere che essa era stata data in moglie a sette uomini e che Asmodeo, il cattivo demonio, glieli aveva uccisi, prima che potessero unirsi con lei come si fa con le mogli”. Ha avuto sette fidanzati e sono morti tutti. Questo significa che è condannata alla sterilità perché non c’è un marito, non c’è una prole, non c’è una discendenza, non c’è un futuro. Tobi guarda al passato, Sara guarda al futuro. Ma Tobi è rimasto disperato nel momento in cui ha perso il contatto con un passato credibile, perché alle sue spalle è come se si fosse spalancato un abisso oscuro e infernale. E dinanzi a Sara non c’è avvenire. Almeno non c’è avvenire che sia coerente con la sua famiglia, il suo popolo, perché quei sette fidanzati sono morti tutti, essendo possibili mariti scelti all’interno dell’appartenenza alla grande comunità del popolo di Dio. Ma, adesso, potrebbe andare in sposa a un abitante di Ecbàtana: giovani aspiranti non mancano, anche perché, come verremo a sapere poi, la sua famiglia è molto benestante, ma questo significherebbe inserirsi nel mondo dei pagani; lei personalmente e la famiglia di suo padre; è figlia unica. Tutto quello che passa attraverso le generazioni e adesso attraverso suo padre giunge fino a lei, tutto verrebbe risucchiato nel vortice di un’assimilazione al mondo dei pagani. C’è di mezzo qui l’opera seduttiva del demonio Asmodèo che, vedete, è un seduttore alla rovescia, un seduttore che vuole impedire il positivo completamento di una relazione tra fidanzati.

E dunque questa è la situazione in cui si trova Sara; e quella serva l’ha accusata sprezzantemente: “A lei appunto disse la serva: «Sei proprio tu che uccidi i tuoi mariti. Ecco, sei già stata data a sette mariti e neppure di uno hai potuto godere. Perché vuoi battere noi, se i tuoi mariti sono morti? Vattene con loro e che da te non abbiamo mai a vedere né figlio né figlia» (maledizione ferocissima! “Tu sei responsabile come una presenza demoniaca della morte dei tuoi sette fidanzati, che tu non possa mai generare né figli né figlie”. E qui, di nuovo, “in quel giorno”, di nuovo, una sottolineatura che rimarca la coincidenza). In quel giorno, dunque, essa soffrì molto, pianse e salì nella stanza del padre con l'intenzione di impiccarsi (ipotesi di suicidio). Ma tornando a riflettere pensava: «Che non abbiano ad insultare mio padre e non gli dicano: la sola figlia che avevi, a te assai cara, si è impiccata per le sue sventure. Così farei precipitare la vecchiaia di mio padre con angoscia negli inferi. Farò meglio a non impiccarmi e a supplicare il Signore che mi sia concesso di morire, (anche lei!) in modo da non sentire più insulti nella mia vita»”. Non s’impiccherà, Sara, ma chiede di morire. Un’impiccagione sarebbe tornata a disonore per la casa di suo padre; non vuole, assolutamente: rimane importante, per lei, il vincolo con questa sua famiglia anche se restare radicata nell’appartenenza alla sua famiglia implica la sterilità. Non c’è più nulla, chiede di morire. Ancora una volta è una preghiera sbagliata. Una preghiera di povera gente derelitta, sconfitta, smarrita. “In quel momento”, stese le mani verso la finestra - la finestra è orientata verso Gerusalemme, mani alzate - e pregò: «Benedetto sei tu, Dio misericordioso, e benedetto è il tuo nome nei secoli. Ti benedicano tutte le tue opere per sempre. Ora a te alzo la faccia e gli occhi. Di' che io sia tolta dalla terra, perché non abbia a sentire più insulti. Tu sai, Signore, che sono pura da ogni disonestà con uomo e che non ho disonorato il mio nome, né quello di mio padre nella terra dell'esilio. Io sono l'unica figlia di mio padre. Egli non ha altri figli che possano ereditare, né un fratello vicino, né un parente, per il quale io possa serbarmi come sposa. Già sette mariti ho perduto: perché dovrei vivere ancora? Se tu non vuoi che io muoia, guardami con benevolenza: che io non senta più insulti». Qui probabilmente bisognerebbe tradurre “e adesso ascolta tu con me il mio insulto”. Anche Sara chiede di morire: ormai non c’è più possibilità di prolungare la sua esistenza a meno che non rimedi l’eredità ricevuta dalla famiglia di suo padre. Se non morisse dovrebbe sopportare questo oltraggio così meschino e offensivo. Chiede al Signore di essere visitata in questa sua miseria, esposta a tutte le maledizioni da parte dei servi.


Dio glorioso è potente: Tobi guarisce e Sara sposa Tobia

Cap. 3, vv. 16-17. Ed ecco due personaggi, qui, nei versetti, 16 e 17 che chiudono il capitolo 3 e la prima parte del racconto; in qualche modo anche rimuovono tutte le curiosità: come andrà a finire? Che cosa succederà adesso? Ci viene detto, già qui, quello che deve succedere, in modo tale che non ci lasciamo prendere da quel certo prurito di chi vuole andare a curiosare nelle pagine che bisogna ancora sfogliare, perché quel che conta adesso è prendere atto che la gloria di Dio si rivela attraverso l’intreccio più che mai misterioso, ma potente, efficace, vittorioso. L’intreccio di relazioni che fanno di queste storie derelitte un itinerario aperto in tutte le direzioni e per tutti i tempi della storia umana: un itinerario di comunione. È la gloria di Dio che fa di queste storie sbagliate gli elementi, le componenti, gli spezzoni di un unico disegno di comunione, nello spazio e nel tempo: è la gloria di Dio che viene.

In quel medesimo momento (lo stiamo leggendo dai brani precedenti: nello stesso giorno, in quel giorno, in quel momento, in quella stessa occasione) la preghiera di tutti e due fu accolta davanti alla gloria di Dio (ma la preghiera è sbagliata! Una preghiera dei poveri della terra, compresi i peccatori; è accolta un’esperienza della gloria di Dio là dove qualcuno si è infilato in un vicolo cieco, senza soluzione; là dove qualcuno vuole realizzarsi come responsabile di soluzioni sbagliate visto che si è perso lo slancio per procedere in un’altra direzione. È la gloria di Dio!) e fu mandato Raffaele (l’angelo della Pace) a guarire i due: a togliere le macchie bianche dagli occhi di Tobi, perché con gli occhi vedesse la luce di Dio; a dare Sara, figlia di Raguele, in sposa a Tobia, figlio di Tobi, e a liberarla dal cattivo demonio Asmodeo. Di diritto, infatti, spettava a Tobia di sposarla, prima che a tutti gli altri pretendenti. Proprio allora (in quello stesso momento) Tobi rientrava dal cortile in casa e Sara, figlia di Raguele, stava scendendo dalla camera”.

Questa missione, affidata a Raffaele, contiene già in sé la soluzione finale, senza lasciare incertezze e senza creare illusioni perché poi la soluzione finale sarà ancora l’affaccio su ulteriori percorsi che dilagano nello spazio verso periferie più remote, si sviluppano nel tempo, con inevitabile impatto con altri incidenti. Ma in questa vicenda nella sua complessità e nell’eterogeneità di questi eventi, di queste situazioni, che interferiscono con la storia del popolo dei credenti, è la ricerca di una fedeltà alla vocazione alla vita e nell’obbedienza all’alleanza con il Signore. Una comunione di cui è garante, con l’irrevocabile fedeltà della sua iniziativa d’amore, la gloria di Dio. La gloria di Dio sta facendo di queste storie frantumate gli elementi che compongono il disegno redentivo che conferisce alla storia umana il significato pieno e definitivo del ritorno alla vita.

Il seguito del libro risponde a una questione che rimane in sospeso: come avviene questo? Come avviene che qui, alla fine del capitolo 3, l’annuncio già viene proclamato in maniera inequivocabile? È così! È la gloria di Dio. Ma come? Come funziona? Il seguito del nostro racconto didattico ci aiuta a mettere meglio a fuoco questo interrogativo e trovare l’opportuna risposta.

Lectio divina


Incontri 2015-2016 - Lettere cattoliche


  • 02 febbraio 2016
    Libro di Tobia - prima parte
    La vocazione alla vita nel tempo della diaspora: in viaggio verso Gerusalemme