Incontri di discernimento e solidarietà
 
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Lettera agli Efesini:


In contemplazione del Mistero di Cristo unico Signore

Secondo incontro del ciclo 2009-2010

1 dicembre 20091


Tutti appartengono a un unico Signore



Paolo è in carcere a Cesarea, tra il 58 e il 60 d. C.

Affrontiamo il secondo capitolo della Lettera agli Efesini. Paolo è in carcere a Cesarea, tra il 58 e il 60 d. C. ed è coadiuvato da un segretario che interviene energicamente nella redazione del testo. Il fatto che Paolo sia in carcere non semplifica l'attività di chi scrive. Paolo al più può dettare, conversare ed esplicitare dei contenuti, su cui poi interviene la mano e il linguaggio di un altro. Il testo non è, dal punto di vista letterario, molto raffinato, ma certamente è espressione di una ricchezza teologica molto matura. E' tutto pervaso da una tensione contemplativa: il fatto che Paolo si trovi in carcere favorisce questo atteggiamento più raccolto e meditativo che gli consente di ricapitolare l'attività svolta nel corso di molti anni, i contatti avuti, e concentrarsi sul Mistero, come egli stesso dice: sull'opera di Dio che si è manifestata, si è presentata, è intervenuta, a modo suo; si è realizzata in maniera tale da portare a compimento intenzioni che appartengono al suo segreto e che ora sono realizzate nella storia degli uomini. Un'intenzione d'amore che viene dalla profondità del mistero che ormai è pubblicamente manifestato: il mistero è il Figlio che si è presentato a noi nella carne umana e che ha portato a compimento l'itinerario della discesa e della risalita ed ora è intronizzato nella gloria. Ed il mistero ci coinvolge nella relazione con lui: siamo immersi in questo mistero, non soltanto spettatori di esso, destinatari a cui il mistero è stato inviato e a cui viene manifestato; siamo coinvolti nel mistero, siamo risucchiati dentro. Ricordate che la lettera si apre con una benedizione molto carica affettivamente, dal v. 3: "Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo". Noi siamo inseriti in questo circuito: siamo in grado di benedire Dio perché siamo stati da lui benedetti nel momento in cui egli ci ha inseriti nella comunione con Cristo, il Figlio ormai intronizzato nella gloria. "Ogni benedizione spirituale": è lo Spirito del Dio vivente che è stato effuso su di noi e che ci sigilla nella comunione con il Figlio e ci abilita così a benedire Dio che è Padre del Signore nostro Gesù Cristo

La lettera è indirizzata ai cristiani di certe chiese dell'Asia con cui Paolo ha avuto a che fare anni prima, quando si trovava a Efeso, e ha tutte le caratteristiche di un testo destinato a circolare attraverso quelle chiese. Paolo parla con straordinaria libertà: il fatto stesso che si trovi in carcere e possa dare spazio alla sua testimonianza contemplativa lo sottrae alle urgenze che spesso sono segnalate in altre lettere (le grandi lettere che compongono l'epistolario paolino) dove egli interviene in rapporto a problemi particolari, istanze, richieste, interrogativi, situazioni di crisi. In questo caso Paolo può esprimersi dando spazio a questo respiro che riempie la sua vita di povero carcerato, costretto a portar le catene senza neanche poter rendersi conto di quale sia il procedimento giudiziario avviato contro di lui che poi non avrà esito definitivo. Questa tensione o questo respiro contemplativo di cui ci siamo resi conto leggendo i 1° capitolo certamente ci accompagna, ci sostiene, ci trascina. Vi facevo notare la volta scorsa che, in greco, i versetti da 3 a 14 che contengono la grande benedizione introduttiva è testo che si sviluppa tutto d'un fiato; nella nostra traduzione compaiono dei punti, invece in greco è tutta una sequenza di proposizioni che sono concatenate senza intervalli e interruzioni, tutto d'un fiato. "Benedetto sia Dio": poter benedire Dio, poter rispondere a Dio, potersi immergere nel mistero di Dio, poter entrare in comunione con il Dio vivente. Questa è la potenza del fiato che consente a Paolo, carcerato in una galera che gli è imposta per motivi imperscrutabili, di percepire il respiro essendo sintonizzato con la vita stessa, nell'intimità del mistero di Dio. A differenza di altre lettere Paolo non risponde a domande, non interviene su temi particolari, non assume il ruolo dell'apostolo che deve dirimere conflitti, sciogliere incertezze; ma sullo sfondo della nostra lettera c'è una preoccupazione riguardante la possibilità di una ricaduta nei vortici di un mondo pagano che ha il suo linguaggio, la sua cultura, le sue modalità di organizzazione, da cui i cristiani, a cui Paolo indirizza questa lettera, provengono. E questa possibilità non è nemmeno tanto remota; per quello che possiamo constatare è prossima, e diremmo è sempre prossima nella storia delle chiese, della vita cristiana, della evangelizzazione. E' vero che la novità dell'evangelo si è imposta ed è vero che nelle diverse località che sono state visitate c'è gente che ha intrapreso il cammino della vita nuova, ma resta sempre altrettanto vero che il risucchio nel vortice del mondo pagano è dotato di una sua capacità di coinvolgimento a dir poco travolgente; in certi momenti in modo esplicito e violento, in altri momenti in modo molto più delicato, soffice, molto più persuasivo, passando attraverso i dati di un'esistenza che comunque è condivisa con tutti coloro che abitano, lavorano, si muovono nel contesto in cui coloro che hanno accolto l'evangelo continuano ad abitare, a lavorare e a muoversi. Ed ecco la ricaduta nella logica, nelle forme proprie del paganesimo. Questa preoccupazione non può essere trascurata.

Il contenuto su cui Paolo insiste, qui nella Lettera agli Efesini come precedentemente nella Lettera ai Colossesi, è riducibile ad una affermazione di due, tre parole, ma per Paolo serve a condensare quel respiro in una pienezza vissuta: la signoria di Cristo. Cristo è l'unico Signore, tutta la creazione gli appartiene e tutto lo svolgimento della storia umana fa capo a lui, tutto si ricapitola in lui e non in modo teorico; non è un'ideologia, non un'elaborazione teoretica; ma in lui, nella sua Pasqua di morte e risurrezione, nel suo corpo passato attraverso la morte e glorificato, in lui, Signore. In quel respiro, in questo vissuto, si condensa la signoria di Cristo.


Leggevamo, dopo la grande benedizione introduttiva, i versetti seguenti, da 15 a 23, nel capitolo primo. Paolo ha ringraziato Dio per le notizia che riceve circa quello che succede nelle chiese di quella regione e insiste nella sua intercessione affinchè questi cristiani maturino nella conoscenza interiore che gli sta molto a cuore: v. 18: "Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente (gli occhi del vostro cuore alla lettera) per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati". Paolo è sempre incantato dinanzi a questa novità che è la vita cristiana che ha trasformato la sua vita e che ha riscontrato nella vita di coloro che hanno accolto l'evangelo. E proprio a riguardo di questa novità si tratta di crescere e non ci sono limiti, in prospettiva, per quanto concerne questa crescita. Dire crescere nella conoscenza interiore non significa acquisire concetti più precisi, di cui pure c'è bisogno, o un linguaggio teologicamente più raffinato, ma è il coinvolgimento vissuto, un coinvolgimento consapevole, maturo; sintonizzarsi con il Mistero che ci è stato rivelato: la Signoria di Cristo, in Cristo. Tutto il Lui va a incastonarsi, a inserirsi in Lui, tutto appartiene a Lui, tutto di noi e del mondo che ci circonda e della storia umana. Non c'è spazio per altri riferimenti pagani, per altre divinità, per altre istanze, per altri nomi; proprio Paolo usava questo termine nel v. 21: "al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si possa nominare non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro". Non ci sono altri principi di riferimento, non ci sono altri signori, non ci sono settori, zone, angoli, aspetti, problemi, guai, guasti, elementi di disordine nel nostro mondo che siano da interpretare in rapporto della signoria di qualcun altro, di altri nomi che non siano esattamente il suo stesso nome. Il nome è un principio di riferimento per cui noi apparteniamo alla signoria di Cristo, siamo riferiti alla signoria di Cristo, unica, universale, definitiva ed eterna.


Noi e voi

Cap. 2. Paolo si rivolge direttamente a questi interlocutori che precedentemente io stesso definivo come cristiani provenienti dal paganesimo, a cui si rivolge dicendo "voi". Mi preme ricordare che già nella grande benedizione introduttiva, nelle due strofe finali, parlava di "noi" e nell'ultima strofa "voi". "Noi", quelli di Israele, quelli che siamo stati depositari delle promesse, che abbiamo sostenuto nella storia umana la responsabilità di un'attesa messianica; "voi" che siete stati inseriti in quella eredità che era stata promessa a noi, "voi" ora avete la caparra, come titolo di accreditamento, siete entrati anche voi. Il varco che era aperto per noi, quell'attesa messianica si è trasformata a vostro riguardo; anche a voi è data l'occasione di superare il varco e ritrovarci, quindi, noi e voi, nell'appartenenza all'unico Signore.


Ora riprende e su questo vuole insistere.

Cap. 2, v. 1 e 2: "Anche voi"; v. 3 "anche noi". E va avanti adesso per un po' altalenandosi tra "noi" e "voi" e questo non per rimarcare la distinzione, ma proprio per il motivo opposto, per delineare quel processo di convergenza che ormai non consente più una distinzione equivalente a quella cui si era abituati in passato, se non una distinzione di ordine molto empirico; sono superati quei criteri e quelle modalità in base a cui ci si distingueva "noi" e "voi" in Cristo.


Un tempo morti nel peccato, separati da Dio

Vediamo meglio. “Anche voi eravate morti per le vostre colpe e i vostri peccati, nei quali un tempo viveste alla maniera di questo mondo, seguendo il principe delle potenze dell'aria, quello spirito che ora opera negli uomini ribelli”. Sta parlando di quello che avveniva un tempo; c’è una scansione che riguarda la sequenza delle tappe lungo un percorso che recupera tutto del passato, che invade il presente e che già interpreta l’avvenire. Fino al v. 3: un tempo “voi”; e poi subito dirà “anche “noi”. “Voi eravate morti”: un’affermazione che più precisa, rigorosa, aspra e severa, onesta non potrebbe essere. “Voi eravate morti per le vostre colpe, i vostri peccati, nei quali un tempo viveste alla maniera di questo mondo”. La maniera di questo mondo è l’eone di questo mondo, l’impianto di questo mondo; è il mondo non soltanto come dato empirico, ma come realtà abitata, organizzata, interpretata e gestita in base all’iniziativa umana e quindi il mondo non soltanto in quanto è subìto ma in quanto è voluto, cercato, fabbricato, vissuto. “Voi viveste in modo tale da organizzare il mondo attorno a voi, tutte le relazioni che sono esattamente le espressioni della vita, come luogo e tempo di morte. Avete fatto della vostra vita un’espressione, una documentazione della vostra volontà di morire”. E’ un’affermazione pesantissima. E Paolo prosegue serenamente, senza cercare aggiustamenti o dichiarare che bisogna non generalizzare; in realtà sta generalizzando con la massima disinvoltura. E’ così, un tempo era così. “… seguendo il principe delle potenze dell'aria”. Voi, un tempo, non eravate assolutamente in grado di opporvi, eravate assolutamente intrappolati dentro a quel certo modo di stare al modo che vi imponeva, come principio di riferimento per esercitarvi nella vostra vita, la volontà di morire. Morti. Il vostro modo di stare al mondo era il modo di prepararvi a morire. Non “alla buona morte” come si diceva, ma a morire che è la conseguenza inevitabile della colpa che inquina la condizione umana in obbedienza al principe: le potenze dell’aria non sono le potenze che svolazzano tra le nuvole; qui è la potenza, l’aìr, è lo spazio intermedio, l’aria, sì, non nel senso fisico ma nel senso di quello spazio che è stato invaso dalla presenza prepotente dello spirito che opera negli uomini ribelli, quello spazio che è divenuto, abusivamente, nella relazione tra Dio e le sue creature, tra Lui, creatore, il luogo nel quale si è inserita la potenza che vuole instaurare una distanza invalicabile. E’ la tecnica usata dal principe di questo mondo: elaborare tutto un sistema di situazioni intermedie a cui gli uomini, ribellandosi, si adeguano. Gli uomini ribelli, in rapporto all’iniziativa del Creatore, si consegnano in obbedienza a quello spirito che gestisce la distanza, che si impone come garante della distanza e che addirittura fa di quella distanza fra il Creatore e le creature una necessità assoluta, imprescindibile, vitale. E’ la tecnica che il principe di questo mondo sa come applicare a molteplici situazioni, nelle pieghe invisibili della nostra esistenza umana, così come in tutta l’articolazione del nostro modo di vivere, nei nostri comportamenti e nelle relazioni con tutto quello che ci circonda. Tutto sottostà a quella potenza che instaura una barriera che, dal suo punto di vista, dovrebbe essere invalicabile, tra Dio e noi, tra il Creatore e noi, sue creature. E noi sottostiamo ai dettami di questa sua spietata gestione del potere. Spietata perché tutto nella nostra esistenza umana viene interpretato e vissuto in obbedienza a quel potere che dà come propria motivazione di valore assoluto l’impossibilità di instaurare un contatto tra il Dio vivente e noi, sue creature. L’aria non è uno spiritello che gironzola tra i fumi dei tubi di scappamento, ma è la spietata presenza di quella creatura angelica decaduta che vuole imporre come una necessità imprescindibile la distanza tra Dio e noi; una necessità a cui bisogna adeguarsi, a cui bisogna sottostare. Dio sta per conto suo: è la vera tecnica diabolica, quella di non negare Dio, ma attestare come valore assoluto, sacro, che diventa vero Dio, la distanza tra lui e noi. E’ la furbizia diabolica del principe di questo mondo. Quello che conta, dunque, è attestarci su posizioni che ci consentano di seguire le cose di questo mondo e questo significa sottostare al principe dell’aria perché comunque Dio non c’entra; non è importante negarlo, combatterlo, rifiutarlo. Quello che è determinante – e qui Paolo come per incanto ci aiuta ad entrare nel cuore di una logica pagana della vita, della storia umana, del nostro modo di stare al mondo – è la distanza tra Dio e noi. Dio sta per conto suo e invalicabile è l’abisso che ci separa.

Tutto quello che Paolo sta dicendo invece va nel senso opposto: è proprio il mistero di Dio che si è presentato a noi dimostrando che questo abisso è colmato, che questa distanza è abolita, che la relazione è instaurata in modo tale che noi siamo stati visitati fino in fondo all’abisso della nostra condizione umana e siamo introdotti nell’intimità della vita divina. E’ proprio l’aria che è stata proprio schiacciata dentro a questa novità. Ricordate, dice, che “voi eravate morti” perché in quella situazione di obbedienza al principe dell’aria c’è solo da morire, c’è solo da gestire la morte e gestire tutto quello che è premonizione di morte, preparativo a morire, tentativo di addomesticare la morte per poi arrendersi ad essa. E aggiunge, v. 3: “Nel numero di quei ribelli, del resto, siamo vissuti anche tutti noi”; noi qui, per Paolo, come ben sappiamo, vuol dire quelli del popolo dell’alleanza, quel popolo che ha questa sua identità particolare, di cui Paolo mai si dimentica né può dimenticarsi, con tutti i doni ricevuti e tutto il significato sacramentale che questo popolo ha rappresentato nella storia umana. “…anche tutti noi, un tempo, con i desideri della nostra carne, seguendo le voglie della carne e i desideri cattivi (pensieri): ed eravamo per natura meritevoli d'ira, come gli altri (anche noi, come voi)”.


Ora risuscitati, per grazia, in Gesù

Anche quella particolare identità che nella storia dell’umanità è stata conferita al popolo dell’alleanza, in base agli elementi che nel corso di quella storia sono emersi, non è stata in grado di sottrarsi alla logica di morte: “Voi, come noi, eravamo per natura meritevoli d'ira, come gli altri. Ma Dio  (vv. da 4 a 6; dopo quel che Paolo diceva riguardo di “un tempo”, “una volta”, adesso siamo giunti alla svolta attuale), ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo”. Il punto è proprio questo. Noi non siamo più prigionieri della morte – lo dice Paolo che di fatto, anche fisicamente, è carcerato – non siamo più prigionieri dell’aria, di quella menzogna per cui la distanza tra Dio e noi è invalicabile perché è così che Dio stesso, ricco di misericordia, si è manifestato a noi, Lui protagonista di questa impresa, inviando il Figlio con potenza di Spirito Santo per cui la distanza è stata rimossa e “ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati”. Qui compare il termine “grazia” che ritorna due volte, nel v. 7 e nel v. 8; un termine a cui noi siamo abituati per il nostro linguaggio teologico, pastorale. Grazia, in questo contesto, possiamo intendere il dono che mette in evidenza quel che gratuitamente Dio ha realizzato in modo tale da cancellare quella distanza, l’aria, che è il luogo dove esercita il potere il principe di questo mondo ed è esattamente lo strumento di cui lui vuole abilmente approfittare per chiuderci nelle conseguenze della nostra ribellione. “… per grazia infatti siete stati salvati”. Sarebbe meglio dire “siete salvi” perché Paolo usa un tempo perfetto che indica una situazione permanente; non soltanto “siete stati salvati” è qualcosa che è avvenuta una volta, ma adesso sta parlando al presente: “adesso siete salvi”, questa è la condizione attuale. Per grazia siete salvi e la situazione della vita in grazia è la situazione nella quale il dono della misericordia di Dio ci è venuto incontro in modo tale da cancellare la distanza che ci separa da Lui, in modo tale che siamo in grado di vivere in comunione con Lui stesso che è il protagonista della vita, e questo non per qualche fantasia poetica di un animo esaltato, ma perché siamo in Cristo: “Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù”. Notate come si susseguono le tre affermazioni in modo da chiarire la potenza di questo strappo che nello stesso momento è anche la potenza di questo nostro inserimento nell’intimità della vita di Dio in modo tale che la distanza non ci riguarda più perché ci ha “fatti rivivere”, ci ha “sollevati”, ci ha “intronizzati”: “Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù”. Noi non siamo salvi perché semplicemente abbiamo ricevuto un regalo; Dio dall’alto ci ha mandato un pacco-dono (siamo sotto Natale) con un fiocchetto, ci ha messo anche un pensierino, ci ha dato qualche buon consiglio. Non siamo salvi per questo. Lui può permetterselo: aveva delle caramelle in tasca, le ha tirate fuori e le ha gettate. E’ proprio questo un modo di intendere le cose pagano, diabolico: il diavolo è il divisore, il frantumatore, il separatore per definizione, è il principe dell’”aria” che può servirsi di tutti gli strumenti di cultura, che possono avere il timbro della religiosità o addirittura il fascino della devozione. Tutto si trasforma nell’obbedienza a questo sistema di principi e tutto si realizza come obbedienza a comportamenti che sono interni a questo spazio intermedio che come un’intercapedine micidiale – molto peggio delle grate di un carcere – impedisce il contatto, mantiene la distanza e impone. E invece siamo salvi perché “ci ha fatti rivivere con Cristo”. Ma non basta: ci ha sollevati, ci ha fatti sedere nei cieli, intronizzati, laddove lui è glorioso, vittorioso sulla morte, Signore del cielo e della terra. Siamo nel passaggio tra un anno liturgico e un nuovo ciclo, festa di Cristo, re dell’universo, e prima domenica di Avvento: questa cerniera è così preziosa nella rilettura pastorale della teologia della salvezza. “…ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù per  (dal v. 7 ora lo sguardo si proietta verso l’avvenire) mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia (ricorre il termine “grazia”, straordinaria, sovrabbondante ricchezza che non soltanto invade il presente ma si riversa in direzione del futuro) mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù. Per questa grazia (il termine ricorre per la terza volta) infatti siete salvi mediante la fede”.


Salvi mediante la fede, dono di Dio

Notate che qui Paolo adesso riprende una terminologia che è presente in modo molto raffinato nella sua elaborazione teologica di cui ci danno riscontro alcune sue altre lettere (pensate alla lettera ai Romani, ai Filippesi, la prima ai Corinzi): il rapporto tra fede e opere che è una delle questioni teologiche su cui Paolo riflette con una intensità straordinaria ed è il suo contributo nell’ambito neo-testamentario per quanto riguarda una sintesi teologica che investe tutta la missione della Chiesa, il servizio dell’Evangelo, generazione dopo generazione, fino a noi, oggi. E’ una sintesi di cui non si può fare a meno: legge – fede, le opere della legge e la fede. Non insisto, ma qui Paolo in realtà è già andato oltre questa problematica perché “siete salvi mediante la fede (c’è un vincolo di comunione con il Signore Gesù Cristo che non è riconducibile alla nostra capacità operativa, non è l’osservanza della legge); e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene (“chi si vanta si vanti nel Signore”). Siamo infatti opera sua (vedete che Paolo è andato più avanti e dice: è vero che noi siamo salvi non in virtù delle opere ma non è più questa problematica che gli sta a cuore; ormai si pone in un altro livello la sua ricerca teologica, la sua contemplazione: “noi siamo opera sua”; in greco, il “suo poema”) creati in Cristo Gesù per le opere (ritorna il termine “opera” con un significato esattamente ribaltato rispetto a quel che leggevamo precedentemente) buone che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo”. E’ questa operosità a cui ora siamo abilitati proprio perché noi siamo opera sua in Cristo; è il fatto di essere incastonati in Cristo in virtù di quella appartenenza alla sua signoria che trasforma radicalmente anche la nostra operosità che non è più di chi presume di potersi orientare verso le cose di Dio per rispondere alla sua iniziativa in nome della propria iniziativa umana, perché questo è impossibile; sarebbe sempre e soltanto un atto di ribellione, non farebbe altro che rinnovare quell’esito mortale da cui non possiamo liberarci. Dunque la fede e non le opere.


Universalità della salvezza: in Cristo ogni frattura è sanata

V. 11. Paolo adesso insiste: “Perciò ricordatevi che un tempo (anche adesso usa quella scansione temporale (una volta, adesso, in futuro) voi, pagani per nascita (ritorna quella distinzione “noi-voi” “voi-noi”) chiamati incirconcisi (pagani) da quelli che si dicono circoncisi perché tali sono nella carne per mano di uomo”. Qui Paolo in due righe e mezzo sta raccogliendo gli elementi di una contrapposizione tra Israele e i pagani che nella interpretazione tradizionale è il filo conduttore della storia umana; non è una questione quantitativa, ma la distinzione è strutturale e sta nella carne e, per così dire, negli elementi della cultura. Ci sono dati di ordine carnale, ci sono dati di ordine culturale, una contrapposizione, criterio interpretativo a cui tutti quelli che come Paolo appartengono al popolo di Israele sono abituati e questo senza particolare avversione nei confronti dei pagani. Non è, come noi potremmo intendere, un atteggiamento razzista. No, no: è la responsabilità che Israele assume in rapporto a una vocazione ricevuta, un dono, una scelta a cui non può sottrarsi. Questo è il criterio interpretativo senza dare giudizi di valore in questa suddivisione. Quello che Paolo mette qui in discussione è proprio il dato della frattura, della divisione in se stessa che poi in realtà è l’emblema di ogni frattura antropologica, di ogni frantumazione, suddivisione, alternativa, contraddizione; quelle contraddizioni che sono quasi naturale acquisizione del nostro linguaggio umano per quanto riguarda il modo di interpretare la realtà, il vissuto personale, interiore, relazionale, sociale, storico e così via. Paolo qui, attraverso il richiamo alla distinzione tra “voi e noi”, “pagani e giudei”, “incirconcisi e circoncisi”, una “carne, un’altra carne”, una cultura, un’altra cultura, sta affermando che non è più così, in Cristo. Perché “ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d'Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo”. Disperati, in quel tempo; ma adesso noi siamo alle prese con quella novità che si è imposta in modo tale da riempire il presente e in questa novità il superamento delle distanze; e quel superamento delle distanze tra cielo e terra, tra l’eterno e il tempo, tra il Creatore e le creature di cui ci parlava prima – l’abolizione dell’”aria” e la sconfitta del principe di questo mondo – riguarda tutte le creature che sono acquisite come valori assoluti nella nostra realtà personale, sociale, storica, culturale, religiosa: tutte le fratture sono colmate in Cristo.

V. 13: “Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo (qui è una citazione di Isaia, cap. 57, v. 19)”. E’ importante questo accenno al sangue di Cristo che ci rimanda a tutto il mondo della liturgia sacrificale e più esattamente alla liturgia espiatoria; il sangue nel contesto è esattamente lo strumento che rende possibile il contatto tra l’impurità umana e la santità del Dio vivente. Qui noi abbiamo a che fare con l’offerta dei sacrifici espiatori che sono affidati ai sacerdoti, che sanno come fare e operano secondo la legislazione levitica, così rigorosa, precisa, puntuale di cui c’è bisogno perché altrimenti non sarebbe possibile ristabilire il contatto con il Dio vivente essendoci uno stato di impurità; c’è di mezzo tutto un meccanismo grandioso, meraviglioso, affascinante, soltanto che poi non funziona. Ma adesso funziona perchè c’è di mezzo il sangue di Cristo, perché la distanza è superata per il fatto che è la stessa presenza del Figlio nella nostra condizione umana fino alla morte che è divenuta la modalità del nostro inserimento nella comunione con il Dio vivente nella gloria: il sangue. E’ stato così che lo strappo è stato ricucito con una potenza che non può più essere messa in discussione. Quel suo modo di morire, nella gratuità dell’amore, ha saldato il vincolo di comunione indissolubile ed eterno tra l’intimo del Dio vivente e la nostra miseria di uomini peccatori. Questa è ormai l’abolizione della frattura, di tutte le fratture che noi gestiamo comunemente e qualche volta sarebbe addirittura un dovere marcare tutte quelle alterità, distinzioni, contraddizioni che segnano confini nella nostra condizione umana e nella nostra storia: ma tutto nel sangue di Cristo è colmato. “Egli infatti è la nostra pace (shalom) (qui è ancora una citazione di Isaia, cap. 9, v. 5, il famoso oracolo che è la prima lettura della messa di mezzanotte a Natale: “Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce”; è Lui “Principe della pace”) colui che ha fatto dei due un popolo solo”. “Uno solo”, non un popolo solo: è un’affermazione assoluta questa. Ha fatto dei due un’unità: di tutto ciò che è due, non solo nel caso Israele-pagani, che è emblematico e per Paolo acquista un’eloquenza superiore a ogni altra possibilità di esemplificare; di tutto quel che è doppio, duplice, che è frantumato, fratturato, “di due ha fatto uno solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia (l’odio. E’ l’odio che – finalmente messo in evidenza, emerso, chiarito, individuato, stretto in questa morsa – che governa tutte le separazioni), annullando, per mezzo della sua carne (nella sua carne, nella carne crocifissa e glorificata). Noi adesso ci troviamo presi dentro la Sua Carne gloriosa, e quello che era lo spazio dell’odio è lo spazio nel quale siamo coinvolti nella comunione con l’unica Carne di Cristo glorioso. Quando parla del muro c’è un accenno inconfondibile alla legge. È un modo tradizionale nella dottrina dei maestri di Israele: la legge come il muro difensivo, la garanzia. E questo è uno degli aspetti che a noi sfuggono completamente quando si parla del muro di Israele: il termine usato correntemente ha un significato pregnante nella tradizione biblica e nella tradizione rabbinica. A noi sfugge completamente questa risonanza: il muro come garanzia difensiva perché Israele deve dedicarsi agli impegni dell’Alleanza. Ma ora vedete che è abolito. E qui contiene un accenno – su cui Paolo insisterà – a tutte le barriere divisorie che erano presenti nella grande architettura del tempio: balaustre, passaggi, cortili, soglie, varchi, veli e poi altri veli. Adesso è tutto abolito. D’altronde nei Vangeli sinottici ricordate che quando Gesù muore si squarcia il velo. “… per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo (il nuovo Adamo, dove in lui – l’uomo nuovo – è quella novità che colma tutte quelle divisioni che sono abitate dall’odio fra di noi), facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia (distruggendo qui vuol dire “uccidendo”, un verbo forte, in se stesso l’odio: la morte della morte. Non è una sentenza, un decreto: nel suo morire muore la nostra morte, muore l’inimicizia, muore l’odio, è colmata la distanza). Egli è venuto perciò ad annunziare pace (questa è di nuovo una citazione di Isaia, il famoso poema che riguarda l’evangelizzatore che porta la pace) a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito” (altro richiamo alle procedure della liturgia). Adesso è l’uomo nuovo, questo uomo nuovo che siamo noi è in grado di presentarsi al Padre in un solo spirito: una formula trinitaria che più semplice ed essenziale di così non potrebbe essere. E’ esattamente la conclusione della preghiera eucaristica tutte le volte che celebriamo la Messa: “Con Cristo, per Cristo, in Cristo a te, Dio padre, nell’unità con lo Spirito Santo…”. Possiamo dire “amen”? Si, possiamo presentarci e subito di seguito “Padre nostro…”.


Non più stranieri né ospiti

“Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti (si rivolge di nuovo ai pagani; una volta, adesso, per l’avvenire), ma siete concittadini dei santi (dunque gente del posto) e familiari di Dio (gente della famiglia), edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù”. Riemerge l’accenno al tempio di poco prima e non è un’architettura fatta di materiali da costruzione, ma è un’architettura fatta di relazioni vitali, apostoli e profeti, relazioni di fede nella speranza e carità. Qui la “pietra angolare” è da intendere come “chiave di volta”: Cristo è la chiave di volta di questo edificio nel quale tutti – voi e noi – siamo comunemente integrati come materiale di cui la costruzione ha bisogno su quel fondamento, avendo come chiave di volta Cristo Gesù. V. 21: “In lui (tutti e due i versetti si aprono con questo richiamo “in lui”) ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore (il termine tempio qui è inteso come “santuario, il santo dei santi, l’intimo del Dio vivente); in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito”.

 Cap. 3: “Per questo, io Paolo, il prigioniero di Cristo per voi Gentili… io piego le ginocchia davanti al Padre (v. 14). Ma questo lo vedremo la prossima volta.

 


Lectio divina

Lettera agli Efesini 2009-10


  • 1 dicembre 2009
    In contemplazione del Mistero di Cristo unico Signore