Incontri di discernimento e solidarietà
   

Lettera agli Efesini:


In contemplazione del Mistero di Cristo unico Signore

Siate Adoratori del Mistero di Dio

 

Quarto incontro del ciclo 2009-2010

2 Marzo 20101


 

 

 

Siate Adoratori del Mistero di Dio

Abbiamo, da questa sera, a che fare con quella che notoriamente è chiamata la seconda parte della lettera, dal cap. 4 sino alla fine; seconda parte o parte “parenetica” (è il titolo che compare nella mia Bibbia). “Parenesi”, è la parte che può essere inquadrata sotto il titolo di “esortazione”. Leggeremo solo 16 versetti, la prima pagina della seconda parte di questa Lettera.
Abbiamo riscontrato nella prima parte della Lettera un’intonazione celebrativa, liturgica, un atteggiamento contemplativo di cui Paolo ci ha dato testimonianza mentre si trovava in carcere, a Cesarea. Paolo è in grado di contemplare il mistero, come egli lo definisce; abbiamo avuto a che fare, nelle pagine che leggevamo nei mesi scorsi, con questa rilettura di tutto il disegno mediante il quale Dio si è rivelato e ha portato a compimento le sue intenzioni in modo tale da realizzare, nella storia umana, la sua opera di salvezza. Il Mistero: è il mistero di Dio, ma è il Mistero rivelato; è il mistero di Dio che si presenta e che, mentre consegna a noi il suo segreto, realizza la sua eterna volontà d’amore: esattamente quel segreto che è custodito in Lui e che ormai si è compiuto nella storia degli uomini.

Paolo è in contemplazione, ha a che fare con cristiani di chiese che conosce solo per interposta persona e questo favorisce l’ampiezza del suo sguardo, l’intensità della sua comunicazione, l’atteggiamento contemplativo di cui abbiamo avuto segnali inconfondibili. Paolo è in carcere, e questo costituisce un dato niente affatto insignificante per quanto riguarda la sua maniera di reinterpretare tutto il disegno della salvezza che riguarda Israele e i popoli della terra; disegno che si è manifestato a noi in virtù di quel che il Figlio di Dio, nella carne umana, ha realizzato, una volta per tutte: la sua Pasqua di morte e risurrezione e l’effusione dello Spirito Santo. Si è manifestato a noi come opera di riconciliazione universale, un’ampiezza cosmica quella che Paolo sta contemplando e di cui ci dà testimonianza attraverso le pagine che ha dettato per noi. Tutto si è aperto, nella Lettera agli Efesini, con un canto di intonazione propriamente liturgica, una ampia e commossa benedizione: “Benedetto sia Dio… che ci ha benedetti”: noi siamo entrati nel circuito di una comunione con il Dio vivente che ci consente di benedirlo proprio perché Lui ci ha benedetti e, dato che siamo benedetti in Cristo, siamo, in Cristo, in grado di benedirlo. E tutta la potenza della vita divina è riversata su di noi, è soffio effuso in noi, nella storia degli uomini, nella complessità della creazione, nell’intimo del cuore umano. Gli ultimi versetti del cap. 3 hanno assunto, in maniera inconfondibile, la forma di una dossologia: siamo alle prese con una testimonianza contemplativa che subito si traduce nel gesto di celebrare una liturgia cosmica che raccoglie tutto della creazione, che coinvolge lo svolgimento integrale della storia umana, nel passato, nell’avvenire, la partecipazione di tutte le creature, le diversità dei popoli e la molteplicità delle culture.Seconda parte della Lettera: un’intonazione che, adesso, è più esattamente esortativa, omiletica (di per sé anche il momento omiletico è parte di un’unica celebrazione liturgica); adesso, in modo più preciso e articolato, la Lettera assume l’andatura di quell’esortazione che ha obiettivi più determinati, precisi, particolari, anche se poi constateremo che in realtà l’esortazione è perfettamente coerente con quanto Paolo ha sintetizzato in modo così energico e affettuoso nella contemplazione del Mistero; e questo termine dice veramente tutto. L’esortazione che adesso ci viene rivolta è puntualmente elaborata in modo tale da incoraggiare noi, lettori della Lettera, come i primi destinatari di essa, a ritrovare il nostro posto e a scoprire che, davvero, il nostro posto è là dove il Mistero ormai si è compiuto. E’ il posto che Paolo ha assunto in prima persona, il suo posto di adoratore, il suo posto nel mondo; e, d’altra parte, proprio in quanto adoratore la testimonianza circa la larghezza smisurata che si spalanca nel cuore umano laddove il mistero di Dio – che porta con sé l’opera della salvezza per il mondo – trova dimora: nel cuore umano.

Esortazione alla comunione

Vi esorto dunque…”. Leggeremo solo 16 versetti ma bisogna che prendiamo slancio con un poco di cautela. Qui Paolo ci vuole incoraggiare a prendere sul serio la nostra vocazione alla vita cristiana, la dignità di questa nostra vocazione; dignità che coincide con la nostra partecipazione a quella novità di cui Dio stesso si è reso protagonista nel corso della storia della salvezza, fino all’incarnazione del Figlio, con potenza di Spirito Santo, attraverso la Pasqua di morte e di risurrezione. In quella novità di cui Dio è il protagonista – ecco il Suo mistero – noi siamo coinvolti; qui sta la dignità della nostra condizione umana che è dotata ormai di un’invocazione, un invito, una convocazione a cui non possiamo sfuggire a meno che non vogliamo disperdere la dignità che ci è stata conferita. Nei versetti che adesso leggeremo l’esortazione ha un suo riferimento inconfondibile che riguarda il valore dell’unità: l’unità del Disegno mediante il quale Dio si è rivelato a noi, quel mistero nel quale tutto è ricapitolato in Cristo. Potremmo anche usare il termine “comunione”: in tanti modi Paolo è ritornato su considerazioni, testimonianze, messaggi, espressioni liturgiche che hanno dato risalto all’unità del disegno e al fatto che noi siamo ormai, sempre e dappertutto, tutti e ciascuno, ricapitolati in quella opera di Dio che possiamo identificare come opera di comunione. In termini più operativi, nei versetti che adesso leggeremo, Paolo ci porterà a identificare questa opera di Dio che ha realizzato il fatto nuovo della “comunione” a cui nessuna creatura può più sfuggire e alla quale noi siamo sollecitati a partecipare con piena e matura consapevolezza (qui sta la dignità della nostra vita cristiana) come “edificazione del corpo di Cristo”: la dignità che ci è stata conferita, per cui noi siamo parte di questo disegno di comunione, fa di noi dei collaboratori all’edificazione del corpo di Cristo. Dividiamo il testo in quattro brani e possiamo attribuire al primo e al quarto (i due che fanno da cornice) la caratteristica di richiami alle minacce che gravano su quella vocazione all’unità che è una sola cosa con la dignità della nostra vocazione cristiana. Nei due brani centrali invece Paolo si sofferma a precisare, illustrare le fonti – inesauribili e dotate di una fecondità sempre attiva – della comunione, dell’unità: minacce che gravano su di noi e le fonti a cui c’è da attingere come a inesauribile fondamento della comunione a cui siamo chiamati e nella quale già siamo introdotti.

 

La Minaccia della discordia

Primo brano, vv. 1-3: “Vi esorto dunque io, il prigioniero nel Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto”. Notate ancora il richiamo esplicito alla condizione di carcerato e il fatto di essere prigioniero ribadisce ancora una volta la condizione di precarietà di ordine oggettivo, fisico, sociale in cui Paolo si trova. Più esattamente ancora Paolo prigioniero non appartiene a se stesso come è ben comprensibile nella condizione di chi si trova costretto a portar le catene e dipende dalla volontà altrui. Ma Paolo ci tiene a precisare che lo stato di carcerazione che lo espropria di sè va, in tutto e per tutto, riferito al Signore. E’ prigioniero, ma non si citano altre volontà, interessi, decisioni di magistrati o prese di posizione di avversari in campo giudiziario; la prigionia di Paolo è ricondotta all’appartenenza al Signore: è espropriato, come è proprio di un prigioniero, perché in tutto appartiene al Signore. Questa appartenenza al Signore, vivente e glorioso, che è il protagonista della novità per cui la storia dell’umanità, la totalità delle creature del mondo, tutto si viene instaurando in un disegno di comunione, è la dignità che Paolo vuole condividere con noi. “… ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, cercando di conservare l'unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace”. Vi parlavo poco fa di una minaccia: sono solo tre versetti. C’è una minaccia che Paolo ci lascia intravedere e a riguardo della quale non è il caso di restare imbarazzati o disturbati; questa minaccia si chiama “discordia”. Notate l’accenno a prerogative che sono senz’altro considerate da lui come elementi costitutivi della vocazione ricevuta: umiltà, mansuetudine, pazienza: tre termini importanti. Il sentimento della piccolezza – tradotto qui con umiltà – la mitezza, la pazienza, la magnanimità, la capacità di respirare profondamente e di trattenere il fiato nel tempo della fatica e della prova e la prontezza ad accogliere, comprendere e accettare il dono che è sempre presente nelle realtà di questo mondo, nella creature di Dio, negli altri, costituiscono quella predisposizione dell’animo ormai maturato nella capacità di accogliere il dono che viene da Dio attraverso le sue creature, in ogni caso, anche nel tempo della prigionia, dell’avversità, anche nel tempo in cui il fiato è affannoso e bisogna imparare a trattenere il respiro per resistere a lungo. “Vi esorto, dunque a sopportarvi a vicenda con amore”: un’espressione che quasi ci imbarazza o ci disturba nel senso che ci sembra troppo poco; dopo tutto quello che Paolo ci ha detto, questa raccomandazione a sopportarci a vicenda ci sembra abbassare il tono di quella grande visione contemplativa alla quale ci ha condotti. In realtà Paolo non sta abbassando il tono, lo sta confermando nella concretezza umile, piccola, esposta a tutte le contrarietà del nostro vissuto, laddove noi siamo apprendisti nella disponibilità ad accoglierci vicendevolmente nell’amore. L’amore di cui Paolo ci sta parlando, quell’amore che è energia strutturale all’interno di quel disegno di comunione, non è una fantasia dell’emotività, uno slancio occasionale, un fervore onirico: è esattamente una modalità che, dall’interno, sempre e dovunque, conferisce alla nostra esistenza umana, sempre piccola, modesta, circoscritta come è, un’intrinseca fecondità nella comunione; e il nostro modo di partecipare al disegno della comunione non dipende dalle evoluzioni della fantasia, o dai sussulti dell’emotività, ma da questo costante, metodico, pacato, onesto esercizio della sopportazione vicendevole. D’altra parte Paolo, da parte sua, sta sopportando la condizione di carcerato. E insiste: “di conservare l'unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace”. Un’espressione quasi banale, nel v. 3, acquista un’inconfondibile tensione profetica: dove leggiamo “cercando di conservare l'unità dello spirito”, quel “cercare” è, alla lettera, “affrettarsi” nell’impegno di conservare. Ci parla di una fretta. Questo è il verbo che si usa altrove, nel Nuovo Testamento, per indicare la tensione verso lo sbocco finale, verso gli eventi del Signore che ritorna nella sua gloria; verso la parusia, nientemeno che il compimento del disegno nella sua ricchezza di significato cosmico e universale. Quella sopportazione vicendevole fa tutt’uno con l’autentica profezia che orienta la nostra condizione di vita, la nostra vocazione alla vita cristiana verso la parusia gloriosa e dunque la riconciliazione cosmica ed universale: “… cercando di conservare l'unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace”. C’è una minaccia che si chiama discordia alla quale Paolo allude inconfondibilmente in queste poche righe laddove ci raccomanda la sopportazione vicendevole con amore. Questo stare passo passo sulla strada della vita nell’esercizio dell’accoglienza, della disponibilità a comprendere, a compatire, a subire anche le conseguenze della debolezza altrui, confidando nella pazienza con cui altri sopporteranno la debolezza nostra e le urgenze del momento; esercitarsi in questa prospettiva significa affacciarsi per davvero, non solo come programma teorico ma nel vissuto della nostra esistenza umana, sull’orizzonte escatologico, definitivo e quindi sfuggire a tutti quegli impacci che di fatto non solo rendono penosa, fastidiosissima la vicenda quotidiana laddove siamo costantemente minacciati dalle contraddizioni, conflitti e incomprensioni; ma questo trascinarci nel cammino della vita alle prese con innumerevoli motivi di discordia significa per Paolo perdere l’occasione di affaccio sull’orizzonte escatologico, quello che già ci illumina dinanzi e intorno a noi e già ci contiene all’interno di un disegno di comunione corrispondente al mistero del Dio vivente.

 

Inseriti nella vita intima di Dio

Secondo brano, vv. 4-6. Paolo ci parla delle fonti a cui costantemente siamo incoraggiati ad attingere per quanto riguarda la nostra vocazione all’unità e in questi versetti fonte per eccellenza è la vita stessa di Dio, la comunione nella vita stessa di Dio, la comunione nella vita trinitaria di Dio. Paolo ce ne parla in modo molto sobrio, usando un linguaggio ritmato (formule ternarie), ma il richiamo a quella pienezza di comunione che è la prerogativa inesauribilmente feconda della vita intima di Dio, si impone, non solo come curiosità teologica che a questo punto diventerebbe un po’ presuntuosa, ma esattamente come la sorgente a cui è affidata quella novità di cui noi viviamo, nella quale la nostra piccola vita umana si sta consumando e si sta realizzando come partecipazione al Mistero rivelato, al Disegno della comunione. Vedete allora un linguaggio che fa riferimento al mistero di Dio, al mistero della vita intima di Dio, la vita trinitaria. Leggendo questi versetti rievochiamo spunti che ci rimandano a quella che era la preghiera presente quotidianamente nella tradizione di Israele (“Ascolta il Signore, tuo Dio e unico Signore, ascolta…”), nonché alla preghiera che è diventata, nel corso dei primi secoli, la professione della fede, quella che rinnoviamo tutte le domeniche durante la Messa.
Primo elemento e tutto ruota intorno allo Spirito; anche il corpo è lo strumento della comunicazione di cui è protagonista lo Spirito che si manifesta come spinta, energia: v. 4: “Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione”. Qui si parla di una “speranza” che ci sollecita, ci sostiene, ci orienta, alla quale siamo stati chiamati: la nostra vocazione. Questo primo elemento della sequenza che leggiamo è esso stesso ternario: “un solo corpo, un solo spirito, una sola speranza alla quale siete stati chiamati”. Lo Spirito che opera come incessante energia che suscita in noi il respiro che ci consente di accogliere le promesse, la vocazione che viene da Dio e di corrispondere con incrollabile fiducia alla vocazione che ci è stata donata.
Secondo elemento di questa sequenza: “un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo”. Abbiamo a che fare con il Figlio che nella carne umana è morto ed è risorto ed ora è intronizzato nella gloria; e, in rapporto a Lui, ecco la professione della fede che fa tutt’uno con il nostro battesimo, laddove nella comunione con Lui, morendo e risorgendo con Lui siamo ormai sintonizzati con la vita nuova di cui Egli è l’autore: è il Signore.
Terzo elemento: “Un solo Dio Padre di tutti (una sequenza trinitaria: lo Spirito, il Figlio, il Padre), che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti”. Questo terzo elemento è anch’esso ternario e la terza battuta di questo terzo elemento è anch’essa ternaria (“è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti”); sono formule che corrispondono a schematismi di carattere didattico, catechetico, liturgico, così come d’altra parte noi siamo abituati a ripetere certe formule in maniera molto schematica, ma è quel che ci consente di attestarci in un atteggiamento di adesione a quella novità che coinvolge la nostra vita. E’ una novità che è la vita stessa del Dio vivente nel suo segreto che ci è stato rivelato: è vita di comunione. Dove si parla del Padre (v. 6) è la totalità che fa riferimento a Lui: la totalità del disegno, degli eventi, delle creature. La paternità di Dio è senz’altro proclamata in quanto la sua presenza tutto contiene, avvolge, penetra; in tutto e sempre è operante. E’ l’universo intero, nel tempo e nello spazio; è la varietà, la molteplicità, la complessità del creato; è lo svolgimento della storia nel tempo, senza limiti; tutto sottostà alla paternità di Dio. E’ Padre in quanto tutto appartiene a Lui: un solo Dio. Noi, che nella nostra vocazione siamo sospinti interiormente dal soffio dello Spirito di Dio, noi che siamo in cammino fino a morire e risorgere con il Figlio fino ad entrare nella sua gloria, proveniamo dal Padre e al Padre ritorniamo insieme con tutto, con tutti.
Secondo brano: la vita trinitaria, eterna comunione nell’intimo del Dio vivente. Quell’intimo si è manifestato, si è presentato a noi, è il Mistero che ci ha coinvolti: noi viviamo ormai incastonati in questo disegno di comunione che non è semplicemente un progetto operativo, ma è la vita stessa di Dio. Non è un progetto fuori di Lui, è il nostro essere incastonati in Lui; il fatto che siamo inseriti in questo progetto di comunione – Paolo insiste – ci conduce a constatare che siamo incastonati nell’intimo del Dio vivente.

Pasqua e Pentecoste, inseparabili

Terzo brano, dal v. 7 al v.13: Paolo ci parla della Pasqua del Signore (Pasqua di morte e risurrezione) e della Pentecoste, dell’effusione dello Spirito; inseparabili. “A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo”. La varietà dei doni che ciascuno di noi ha ricevuto; tutto sempre in Cristo, in quanto proveniamo dal Padre e al Padre ritorniamo con potenza di Spirito Santo ma, vedete, una molteplicità, una moltitudine, una varietà davvero affascinante di doni. Notate il verbo “donare” e il sostantivo “dono” che gli fa seguito. E ora una citazione del Salmo 68: “Per questo sta scritto:
Ascendendo in cielo ha portato con sé prigionieri,
ha distribuito doni agli uomini”. In greco è “donare”: “Colui che è asceso ha donato doni agli uomini” si dovrebbe tradurre per essere letterali. Questa citazione serve a Paolo per precisare la sua argomentazione. “Ma che significa la parola «ascese», se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per riempire tutte le cose”. Questo è il percorso pasquale compiuto dal Figlio che è disceso e risalito, è affondato fino in fondo all’abisso e ne è risorto vittorioso ed ora è asceso. “Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per riempire tutte le cose”: è l’itinerario dell’incarnazione fino alla Pasqua di morte e risurrezione. Questo itinerario viene descritto da Paolo come un unico, immenso abbraccio a cui non sfugge nessuna delle creature di Dio perché è disceso fino in fondo ed è risalito al di sopra dei cieli. Il percorso pasquale compiuto dal Figlio, morendo e risorgendo, discendendo e risalendo, ha fatto di lui il Signore. “… riempie tutte le cose”: tutto appartiene a Lui, fa riferimento a Lui, tutto è stato preso e attirato da Lui, è trascinato da Lui in virtù di questo percorso di cui è stato protagonista discendendo e ascendendo. Paolo precedentemente descrive l’itinerario della redenzione alla maniera di un riempimento dell’universo: tutto l’universo fa capo, si ricapitola, appartiene a Lui, è la sua Signoria senza opposizioni che possano resistergli. “Ha donato doni agli uomini”: la Pasqua e la Pentecoste inseparabili. Il percorso redentivo del Figlio che è disceso e risalito fa tutt’uno con il coinvolgimento di tutte le creature che il Figlio incontra lungo il suo cammino (e nessuna creatura sfugge a questo incontro) in modo tale che tutto del mondo, della storia umana, di noi, di ciascuno di noi è coinvolto e per ciascuna creatura un dono, e per ciascuno di noi un dono. Un dono nel senso forte del termine: una prerogativa carismatica, un soffio, un’effusione di Spirito; il nostro riferimento al Signore, a cui tutto appartiene e al quale anche noi apparteniamo, ci riguarda in quanto è assegnato a noi un “dono”; esercitare il dono che ci è stato consegnato è il nostro modo per essere in comunione con Lui, con la vita stessa di Dio. Un dono ricevuto – un dono da esercitare.
V. 11: “E' lui che ha stabilito alcuni (         vedete adesso la varietà dei doni, altrove si parla di carismi; una varietà sempre sorprendente e affascinante di vocazioni, di responsabilità, di servizi. Paolo guarda direttamente alla vita di comunità dei discepoli del Signore, la vita cristiana nella Chiesa, ma c’è sempre da fare i conti con la molteplicità straordinaria). In greco appare ancora una volta il verbo “donare”: “E’ lui che ha donato alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri (la diversità è tutta funzionale a un disegno di comunione. La varietà dei doni qui citati ci rimandano al contesto della comunità cristiana), per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero (la diaconia), al fine di edificare il corpo di Cristo”: la molteplicità dei servizi o delle diaconie, seguendo percorsi che originali, ramificati, sempre più raffinati nella originalità “per la edificazione del corpo di Cristo”. Il dono dello Spirito, effuso una volta per tutte, presente, operante sempre nell’attualità del vissuto nel corso della storia umana, in ogni luogo, negli angoli più nascosti e impervi, promuove con inesauribile efficacia l’edificazione del corpo di Cristo e ciascuno di noi, con l’originalità, la particolarità e l’eterogeneità del suo dono, partecipa al disegno della comunione. E’ inseparabile la Pasqua dalla Pentecoste. In questo modo vengono resi “idonei i fratelli (i santi) a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo”: un dinamismo di crescita nel quale convergono tutti i discepoli del Signore, coloro che sono battezzati in Cristo, ma nella prospettiva di quest’uomo maturo, adulto nel quale siamo incorporati è la totalità delle creature umane nel corso della storia ed è la totalità delle creature di Dio nel mondo che trovano il loro affascinante coordinamento. Che meraviglia constatare come tutto converge, tutto è convogliato, tutto è ricapitolato, unificato nell’edificazione del corpo di Cristo, l’uomo maturo.

Un dono può essere privatizzato, può essere valorizzato in quanto è singolare e univoco? In nessun modo: tutti i doni sono stati effusi nell’unico Spirito per renderci idonei all’edificazione dell’unico corpo di Cristo, per essere incorporati in Lui, nella sua pienezza. Nel v. 13, dove la Bibbia recita “piena maturità di Cristo”, in greco è “la pienezza di Cristo”. La pienezza di Cristo è la sua Signoria in modo tale che tutte le creature sono ricapitolate in Lui; questo avviene non meccanicamente, ma in virtù di quella effusione di Spirito Santo che è presente nei più diversi percorsi della storia e della condizione umana, nella dimensione visibile e nell’invisibile dei segreti, e nella creazione cosmica che ci fa da contesto e da cui non possiamo mai prescindere. E’ lo Spirito di Dio che, attraverso la ricchezza dei doni effusi, ci conduce infallibilmente all’edificazione del corpo di Cristo.

La minaccia dell'eresia

Quarto brano, torniamo a una minaccia, dal v. 14 al v. 16: “Questo affinchè non siamo più come fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, secondo l'inganno degli uomini, con quella loro astuzia che tende a trarre nell'errore”. Ci parla di un fenomeno di infantilismo che evidentemente è pericoloso ed espone a inganni che compromettono la dignità della nostra vocazione e dunque la partecipazione al disegno della comunione. Paolo accenna a qualsiasi evento di dottrina, inganni degli uomini, la minaccia dell’errore: un errore metodico, metodologico, che riguarda esattamente l’impostazione della vita, la minaccia dell’eresia (Paolo non usa questo termine ma possiamo usarlo noi). L’eresia non tanto come elaborazione dottrinaria, ma come ripiegamento su pretese che sono propriamente fanciullesche, capricciose; le pretese di vantare la propria posizione, che è sempre e comunque misurata da elementi di particolarità e di debolezza, come un valore assoluto, sacro, che si impone alla relazione con gli altri. Questa pretesa bambinesca, infantile di far valere il proprio modo d’essere, il proprio punto di vista, il proprio capriccio, puntiglio o anche la propria scintilla di verità (c’è anche quella in ogni espressione del vissuto umano e qui di un vissuto elaborato anche dottrinariamente e proposto nei termini di una pastorale operativa). Queste considerazioni di Paolo aprono sempre per noi spazi, illuminano ambienti dove fenomeni analoghi o di tipo ereticale sono sempre all’ordine del giorno anche dove non abbiamo a che fare con le diatribe tra credenti o tra confessioni che si contestano reciprocamente. E’ il puntiglio, è il capriccio e Paolo ne parla come di un fenomeno di infantilismo: “fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, secondo l'inganno degli uomini, con quella loro astuzia che tende a trarre nell'errore”. L’abilità dell’eretico, in senso ampio, consiste proprio nell’imporre la propria particolarità come un valore assoluto e come un criterio di discernimento universale. E insiste: “Al contrario, vivendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l'energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità”. Paolo qui ci parla dell’agape autentica, dell’amore autentico, quell’amore che è sempre attuale; fare la verità nella carità significa assumere l’impegno che ci riguarda nel nostro vissuto, che ha sempre i limiti di tempo e di spazio che ciascuno di noi sperimenta, come esercizio della carità. La carità non può essere rinviata, non può essere riservata a momenti, occasioni, ulteriori chiarimenti, tappe particolarmente solenni e grandiose, scenografiche del nostro cammino, ma prescindendo dall’urgenza nell’immediato; e l’immediato è sempre particolare, carente di qualche cosa, insufficiente per i dati empirici che ci definiscono. La carità è qualità intrinseca del nostro vissuto sempre e dovunque, adesso e qui. E’ inganno di tipo ereticale quello che rinvia la carità a momenti successivi, ad altri contesti, a sviluppi a cui si potrà giungere quando saranno chiarite le premesse: la carità è la premessa; se no è il gioco dell’eresia, il gioco bambinesco o anche il gioco per intellettuali che sono i veri bambini. “…cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l'energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità”: non se ne può fare a meno. Anche di quei componenti che sembrano più insignificanti, nascosti, modesti non se ne può fare a meno. E’ il corpo che edifica se stesso nella carità. Quella unità che Paolo ci raccomanda in questa prima pagina, quella dignità della nostra vocazione alla vita cristiana che ci coinvolge immediatamente in un disegno di comunione non è mai riducibile a un’uniforme, un’etichetta, una formulazione dottrinaria, un’appartenenza anagrafica; quell’unità è il sacramento efficace della signoria di Cristo a cui noi apparteniamo e che è, poi, il tema dominante di tutta la lettera.

 


Lectio divina

Lettera agli Efesini 2009-10


  • 2 Marzo 2010
    In contemplazione del Mistero di Cristo unico Signore