Incontri di discernimento e solidarietà
 
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SAPIENZA:


nell’intimo dei cuori e nella storia Dio si rivela e chiama l’uomo ad aprirsi al suo Mistero


Primo incontro del ciclo 2008-2009

4 novembre 20081



L’uomo è chiamato alla vita




La proposta per il nostro lavoro di quest’anno riguarda la lettura del Libro della Sapienza, la cosiddetta sapienza di Salomone (questo è il titolo tradizionale del libro). In realtà Salomone è patrono di tutta una tradizione sapienziale e la sua voce riecheggia nel testo con cui avremo a che fare: è il nome di una figura emblematica che, ripeto, serve a sintetizzare una tradizione sapienziale. Il nostro libro della Sapienza si trova alla conclusione di questo lungo itinerario che sostanzialmente coincide con quello della storia della salvezza; è collaterale ad esso.

Il libro è, probabilmente, il più recente dell’Antico Testamento; si colloca negli ultimi decenni del I° secolo a.C.; dunque un testo che sta proprio sulla soglia del Nuovo Testamento. E’ l’espressione matura che eredita tutta la ricchezza di un percorso giunto al suo compimento e ce la trasmette. Come sempre vorrei dedicare il tempo a nostra disposizione alla lettura del testo. E’ così che si svolgono i nostri incontri secondo le consuetudini e vorrei fin da stasera dare uno sguardo alle prime pagine e, molto sollecitamente, leggere i primi due capitoli che rinvio alla vostra attenzione, alla vostra ricerca.

Torniamo indietro: tradizione sapienziale. Lungo i secoli il termine “sapienza” (è un’altra di quelle “parole” che potrebbe essere studiata) non significa sempre la stessa cosa. Siamo inseriti nell’alveo di un’unica tradizione ma quando si dice “sapienza” nel linguaggio biblico che cosa si intende? Per fare le cose un po’ all’ingrosso, per far sì che possiamo avere a disposizione uno strumento che ci serve a impostare e svolgere poi la nostra ricerca, anche se lo strumento è un po’ grossolano, individuiamo due grandi momenti in questa storia della “sapienza”, in questa tradizione sapienziale; due momenti fondamentali che naturalmente non sono rigidamente separati tra loro. E’ un cammino che si è sviluppato con tutta una serie di sfumature e successive esplicitazioni, sollecitazioni, chiarimenti, evoluzioni ma, tanto per intenderci, c’è un periodo arcaico nel quale quando si dice “sapienza” si intende qualcosa di simile a quello che noi diremmo “la qualità della vita umana”, la capacità di viver bene e di viver bene nelle relazioni perché la vita comporta relazioni; star nelle relazioni in modo tale da sapersi destreggiare con positive, benefiche conseguenze e naturalmente questa arte del destreggiamento con le cose, con il mondo, con gli avvenimenti, con gli altri, con il passato, con l’avvenire, con ciò che è visibile e quindi esterno e con ciò che è invisibile, interno alla realtà di ogni persona umana. Questa “sapienza” così intesa ha una fisionomia piuttosto artigianale: il sapiente, in questo caso, non è uno specialista, non è un tecnico, anzi è un pover’uomo qualunque, è un uomo di questo mondo, è ogni persona umana che è alle prese con quella realtà complessa e misteriosa che è la sua vocazione alla vita. Che cosa vuol dire vivere? Come si fa a vivere? Sapienza come ricerca di una strumentazione che sia valida sul piano operativo, nel contatto con la realtà; come ci si atteggia, come ci si dispone, come ci si apre, come si gestiscono le relazioni; sapienza come qualità della vita umana. E, naturalmente, tutta una serie di elaborazioni che poi, man mano, vengono trasmesse a un ambiente dedicato a questa ricerca, che è quello della vita quotidiana; contesto in cui la sapienza diviene eredità che cresce nel corso delle generazioni. I contesti primari sono la famiglia e poi quello propriamente scolastico, nel quale per la prima volta si configura un ambiente che ha le caratteristiche di un luogo deputato alla ricerca della sapienza. La corte, laddove esiste un re, è automaticamente da identificare con una scuola sapienziale perché il re è un personaggio che viene investito al massimo della responsabilità per quanto riguarda la ricerca di quelle strade che bisogna percorrere per vivere bene e per far vivere bene altri. La capacità di dialogare con il mistero che è nel mondo, per dirla adesso in modo sintetico. Prima tappa, primo periodo, l’epoca arcaica: sapienza è questa qualità della vita umana che si esprime nella capacità di dialogare con il mistero, perché la realtà è comunque misteriosa e tale rimane; non è che si sciolgono i segreti; anche se si scava in profondità, la realtà rimane indecifrabile al di là di ogni tentativo di possesso, di occupazione, di strumentalizzazione. Ma un conto è la gestione del mondo come se si fosse diventati proprietari di esso; altro conto è imparare a vivere nel mondo in un contesto che è e rimane realtà gratuitamente donata, che porta con sé una ricchezza straordinaria di misteri. In questo senso la ricerca sapienziale è allo stesso tempo una ricerca religiosa: l’uomo sapiente è automaticamente, intrinsecamente da identificare con un uomo aperto alla relazione con il mistero. La sapienza è la capacità di dialogare con il mistero. Ricordate quel versetto: “Il principio della sapienza è il timore del Signore”, versetto che fa da programma a tutta la ricerca sapienziale del primo periodo. Continuo a esprimermi in questo modo un po’ approssimativo. La sapienza è fondata su quel timore del Signore che non è lo sgomento, nè lo spavento, né il terrore; è l’apertura del cuore umano alla relazione con il Mistero. E’ l’uomo religioso, l’uomo aperto alla relazione con il mistero, che dinanzi ad esso non pretende in alcun modo di possederlo; è proprio in questa relazione dialogica con il mistero che si impara a destreggiarsi fin nei minimi dettagli, negli aspetti più spiccioli, più banali. Detti sapienti, proverbi, che poi spesso si contraddicono tra di loro perché la realtà è mutevole, cangiante; perchè le variabili sono innumerevoli, come capita anche a noi di constatare ancora oggi: la vita è, appunto, aperta a soluzioni sempre originali proprio perché la relazione di fondo riguarda l’incontro con il Mistero. Si vive bene nella relazione che è aperta alla misteriosa presenza che contiene tutto, che è all’origine di tutto e che è la sorgente di quella vocazione alla vita a cui nessuno può rispondere se non si viene educando nella sapienza.

Nel corso del tempo “sapienza” assume un significato diverso, pur conservando una certa continuità, come adesso vi dirò. Gradualmente, quando si dice “sapienza” nel linguaggio biblico, si intende in modo sempre più preciso quella rivelazione che manifesta l’iniziativa libera e gratuita del Mistero. La prospettiva tende a ribaltarsi rispetto a quel che vi dicevo del primo periodo della tradizione sapienziale: sapienza come capacità di dialogare con il Mistero. Man mano ci si rende conto del fatto che il Mistero manda segnali, ammicca, scintilla, parla, dice la sua, è attivo, è vitale, è intraprendente, si rivela. La prospettiva cambia e, a un certo momento, “sapienza” è rivelazione o, meglio, il rivelarsi di Dio. Diventa un’entità teologica, anzi massimamente tale rispetto a quella “sapienza” che è la qualità della vita umana. E siamo sulla soglia del Nuovo Testamento, siamo al nostro libro: di fatto siamo al Nuovo Testamento dove per “sapienza” si intende il rivelarsi di Dio che ha le sue strade, le sue modalità; che si esprime con il suo linguaggio, che interviene secondo le sue intenzioni. Ecco il senso fortemente teologico: Sapienza di Dio è il rivelarsi di Dio, il suo modo di esprimersi, di far comprendere i suoi disegni, di essere presente e operante sulla scena del mondo e così via. Quando si dice “sapienza” nel linguaggio biblico, sempre siamo rimandati alla nostra vocazione alla vita. La qualità della vita sta nella capacità di dialogare con il Mistero e la qualità della vita sta nel fatto che si tratta di accogliere il rivelarsi del Mistero, imparare ad accogliere il mistero di Dio che si rivela a modo suo, nella gratuità, seguendo percorsi che esso stesso – il mistero di Dio – ha elaborato nell’ordine della creazione, nelle vicende della storia, nell’intimità delle coscienze, nei segreti che sono celati nell’intimo di ogni persona umana. Dio si rivela, e la qualità della vita dipende da questo rivelarsi di Dio. Questa attenzione alla qualità positiva della vita umana è permanente lungo tutto l’itinerario della tradizione sapienziale e anche in una fase molto avanzata, che appunto trova espressione nel nostro libro, ancora noi ci rendiamo conto di come sono presenti elementi che appartengono alla prima fase, alle tappe più antiche; ancora c’è tutto un linguaggio che è ereditato, ripreso, rielaborato, rispettando però il valore di una tradizione a cui non ci si vuole minimamente sottrarre, anzi si tratta di una ricchezza preziosa che viene costantemente valorizzata.

Sapienza, ossia il rivelarsi di Dio. E noi siamo chiamati a vivere; c’è una vocazione alla vita proprio perché siamo chiamati a scoprire come siamo incastonati nella rivelazione del Mistero. Questo riguarda la realtà di ogni singola persona umana e la realtà della moltitudine ecumenica nella sua grandiosa varietà, per come si esprime sulla scena del mondo nel tempo e nello spazio. C’è di mezzo la totalità delle cose e degli avvenimenti, perché la vita degli uomini non è praticabile indipendentemente dalla relazione con il mondo; viviamo nelle relazioni e la nostra vocazione alla vita è riconoscibile, diventa un impegno a cui aderiamo in modo sempre più consapevole e maturo, man mano che ci rendiamo conto di come siamo immersi nel rivelarsi del mistero di Dio. Questo richiamo alla positività della vita umana è permanente; su questo insisto perché “sapienza” non è un complesso di verità teologiche. Anche quando vi parlo di “sapienza teologica” non mi riferisco a un fascio di definizioni relative alla conoscenza di un mondo celestiale o qualcosa del genere, ma – anche se è un linguaggio un po’ forzato –al rivelarsi di Dio che è il contesto nel quale la nostra vocazione alla vita trova dimora.

Il libro della Sapienza è espressione molto raffinata di una competenza che è propria dell’arte retorica ellenistica. E’ scritto in greco; è uno dei libri deuterocanonici dell’Antico Testamento, scritto direttamente in quella lingua da chi sa il fatto suo: normalmente si dice Alessandria d’Egitto, uno dei grandi centri accademici. Abbiamo a che fare con un giudeo della diaspora – la comunità giudaica di Alessandria d’Egitto è qualificatissima – che ha acquisito tutto le competenze che sono trasmesse nelle accademie del mondo ellenistico. E Alessandria è un grande centro. Più esattamente ancora il libro della Sapienza è la redazione letteraria di un discorso, di un sermone, di un encomio: è una delle forme tipiche dell’arte retorica, il panegirico che ha certe sue modalità, strutture, passaggi; soltanto che quel panegirico che normalmente è indirizzato a un personaggio illustre, meritevole di encomio – la città si raccoglie per celebrare i meriti di qualcuno che ha compiuto un’impresa particolarmente significativa (l’encomio di) – in questo caso contiene l’encomio della Sapienza dove l’interlocutore è il mistero stesso di Dio che si rivela. E’ un discorso costruito secondo quello schema, ma mirato a proporci l’elogio del rivelarsi di Dio: è lui il protagonista, è lui il personaggio, è lui l’autore dell’impresa di cui noi dobbiamo prendere atto perché da tutto quello che lui ha realizzato dipende il benessere della città, la stabilità del regno, dipende la vita. Il discorso si sviluppa in tre momenti. Adesso dovremo dare uno sguardo rapidamente ai primi due capitoli ma la prima parte del libro comprende i primi cinque capitoli (libro o discorso, basta che ci intendiamo). Gli studiosi che si occupano di queste cose mettono a fuoco tutta una serie di elementi di carattere propriamente tecnico, filologico: l’attenzione al linguaggio che è molto raffinato, un greco molto sofisticato, curato alla scuola di maestri che sanno valorizzare tutte le movenze, gli intrecci, le evocazioni che sono percepibili al risonare delle sillabe, nella articolazione dei periodi e così via. Come vedete è in versi, è un testo di cui noi leggiamo una traduzione che per evidenti motivi riesce a captare solo qualche lontana eco di quella che è la qualità letteraria originaria.

Prima parte del discorso, primi cinque capitoli. Qualcuno dice che bisogna arrivare fino al cap. 6; teniamo d’occhio i primi cinque capitoli. Se voi riusciste per il nostro prossimo incontro a leggere fino al cap. 5 ci troveremmo già instradati. In questi primi cinque capitoli: la serietà della questione, tutta una serie di elementi introduttivi, le difficoltà dell’argomento, le contrarietà cui si va incontro e così via. Il vero e proprio elogio della Sapienza sta nella seconda parte, quella centrale, che va dal cap. 6 al cap. 9. Poi c’è una terza parte, piuttosto ampia: una lunga coda che dal cap. 10 giunge fino al cap. 19, che ha un carattere illustrativo per cui in quei capitoli vengono focalizzati alcuni momenti della storia della salvezza perché diventano criteri interpretativi di quello che è il modo di rivelarsi di Dio nella storia di tutti sempre e dovunque.


Rieducare la coscienza

Cap. 1, vv. 1-11: costituiscono l’avvio del discorso, l’invito rivolto dall’oratore che qui sta impostando il suo panegirico a coloro che egli interpella come destinatari di esso. E notate che fin dall’inizio dice: “Voi che governate la terra” (primo rigo del v. 1) nel senso che “siete i sovrani”, nel senso che destinatari di questo discorso sono in misura eminente coloro che esercitano responsabilità di governo, senza ritenere che allora noi possiamo rinunciare a proseguire nella lettura, perché se è così non si rivolge a noi. In realtà la vita acquista prerogative regali, la vita umana di ogni uomo, anche dell’uomo più semplice e nascosto di questo mondo, quando è educata alla scuola della sapienza. Non soltanto dunque i governanti della terra come destinatari unici. La regalità è del sapiente. L’invito in questi primi undici versetti si sviluppa in due strofe: fino al v. 5, poi dal v. 6 al v. 11. Vorrei subito caratterizzare queste due strofe che in qualche modo qualificano esattamente l’invito che sta al fondo di tutto il discorso: il motivo per cui siamo interpellati, per cui siamo in ascolto:

Amate la giustizia, voi che governate sulla terra,

rettamente pensate del Signore,

cercatelo con cuore semplice.

Egli infatti si lascia trovare da quanti non lo tentano”.

Notate che per alcuni versetti il termine “sapienza” non compare. Comparirà per la prima volta nel v. 4, in greco “sophia”.

Egli infatti si lascia trovare da quanti non lo tentano,

si mostra a coloro che non ricusano di credere in lui.

I ragionamenti tortuosi allontanano da Dio; ma (conviene mettere un bel “ma”)

l'onnipotenza, messa alla prova, caccia gli stolti.

La sapienza non entra in un'anima che opera il male

né abita in un corpo schiavo del peccato.

Il santo spirito che ammaestra rifugge dalla finzione,

se ne sta lontano dai discorsi insensati,

è cacciato al sopraggiungere dell'ingiustizia”.

In questa prima strofa, senza scendere molto nel dettaglio, l’invito si configura come un vero e proprio progetto di educazione dell’intimo. Qui c’è di mezzo la partecipazione dell’intimo; non solo, ma il discernimento, il coinvolgimento e quindi la pedagogia interiore di cui l’intimo di ogni persona umana ha bisogno per essere aperta al rivelarsi di Dio. Non si tratta esattamente di una prerogativa, per così dire, previa: se gli uomini non sono aperti interiormente non accolgono il rivelarsi di Dio. Qui il nostro maestro afferma che è proprio il rivelarsi di Dio che si presenta a noi come potenza pedagogica che interpella l’intimo della coscienza, del cuore, del vissuto umano. E’ proprio questo il contenuto primario dell’invito che ci viene rivolto: “presentatevi, fatevi avanti, impegnatevi perché la sapienza (nel senso che sappiamo) si rivela a voi come volontà di radicale rieducazione dell’intimo”. E’ interessante:

La sapienza – dice il v. 4 –

non entra in un'anima che opera il male

né abita in un corpo schiavo del peccato”. Dunque, il coinvolgimento del vissuto

è totale e il v. 5 che già leggevo:

Il santo spirito che ammaestra (knema pedias è uno spirito pedagogico) rifugge dalla finzione,

se ne sta lontano dai discorsi insensati”. Aderire adesso a questo invito significa esporsi all’impatto con quella potenza, quella dynamis (dice il v. 3: onnipotenza) che affronta fino alla profondità, a noi stessi più nascosta, la necessità di un radicale discernimento del cuore umano perché sia evitata ogni doppiezza, sia ridotta la partecipazione interiore di ognuno di noi a quella misura di semplicità da cui dipende la possibilità di procedere.


Lo Spirito del Signore riempie l’universo

Seconda strofa, v. 6-11, di nuovo l’invito ma adesso con un’ulteriore sottolineatura: questo invito ad ascoltare il discorso, ma dunque ad entrare in relazione con il rivelarsi di Dio implica il coinvolgimento in un disegno che è propriamente, massimamente ecumenico, universale; un disegno che riguarda la totalità delle creature di Dio e che è l’intero svolgimento della storia umana.

Siamo invitati ad accogliere la sapienza di Dio che si rivela per rieducarci nell’intimo e corrispondentemente – questa connessione è intrinseca e dobbiamo sempre tenerne conto – siamo invitati ad accogliere la sapienza di Dio che si rivela in modo tale da constatare che è proprio essa che, rivelandosi, ci introduce nella dimensione ecumenica della realtà.

La sapienza è uno spirito amico degli uomini;(sapienza è uno spirito philantropos)

ma non lascerà impunito chi insulta con le labbra,

perché Dio è testimone dei suoi sentimenti

e osservatore verace del suo cuore”. Vedete che qui la persona umana è considerata nel suo dinamismo, è la persona umana in quanto elabora messaggi, formula parole, interpreta la realtà, pronuncia sentenze e quando la persona umana parla allo stesso modo opera e interviene, instaura contatti, inventa collegamenti. Difatti, v. 7: “Lo spirito del Signore riempie l’universo”. Importantissimo: knema kiriu…, l’ecumene. Vedete, quello spirito del Signore che è pedagogicamente impegnato nell’educazione dell’intimo è lo spirito del Signore che riempie l’universo. Questa corrispondenza tra l’intimo e l’ecumenico e il mondano è molto istruttiva per noi. Quel cuore umano che deve essere rieducato – ed è la sapienza di Dio che rivelandosi si presenta a noi proprio potentemente ed energicamente efficace a questo scopo – comporta uno spalancamento del cuore che diventa esso stesso così capiente da accogliere in sé la totalità ecumenica del reale, perché è lo stesso Spirito che educa l’intimo a pervadere l’universo. E, viceversa, è proprio la sapienza di Dio che rivelandosi a noi farà di ogni piccola creatura umana come siamo noi un sapiente, un re, un uomo che dimora nel mondo.

Lo spirito del Signore, infatti, dice il v. 7, riempiel’ecumene.

e, abbracciando ogni cosa, conosce ogni voce.

Per questo non gli sfuggirà chi proferisce cose ingiuste”. Tutta la tradizione sapienziale che rispunta qui è dedicata all’educazione della parola. Già nella versione più arcaica, la sapienza si deposita in formulazioni proverbiali: il detto, il motto che poi diventa un piccolo poema e poi un raccontino o una parabola e così via man mano che le forme espressive si arricchiscono e si perfezionano; la parola in quanto tramite tra l’intimo e il mondo e quella parola che deve essere docile per aprire il cuore così che accolga il mondo; ma quella parola deve essere così sapiente da far della vita umana una modalità realizzata di inabitazione nel mondo. E il nostro maestro, a suo modo, in questo esercizio linguistico si è impegnato a fondo. Che parole usiamo? (La preoccupazione di Pio e il suo dizionario).

abbracciando ogni cosa, conosce ogni voce.

Per questo non gli sfuggirà chi proferisce cose ingiuste,

la giustizia vendicatrice non lo risparmierà.

Si indagherà infatti sui propositi dell'empio,

il suono delle sue parole giungerà fino al Signore

a condanna delle sue iniquità;

poiché un orecchio geloso ascolta ogni cosa,

perfino il sussurro delle mormorazioni

non gli resta segreto”. Vedete come è filtrato il linguaggio e il suo uso; la parola e la sua l’articolazione; la parola non è un’evanescenza sonora, ma è il tramite di congiunzione che serve a noi per vivere inseriti nel mondo e non c’è vita se non c’è questo inserimento. Qui è la sapienza: il rivelarsi di Dio che si presenta a noi come protagonista di questa nostra avventura, per la nostra vita.

Guardatevi pertanto da un vano mormorare,

preservate la lingua dalla maldicenza,

perché neppure una parola segreta sarà senza effetto,

una bocca menzognera uccide l'anima”. Non mi prolungo nel sottolineare altri dettagli.


Questione di vita o di morte

Il v. 12 fa da intermezzo adesso rispetto all’invito diventa anche un elemento ricapitolativo ma già anticipa lo svolgimento che seguirà. “Non provocate la morte con gli errori della vostra vita”. Qui è una questione di vita o di morte. Quell’invito, articolato come abbiamo potuto vedere nel primi 11 versetti, in realtà vuol essere accolto da noi come programma, come progetto di vita; altrimenti è la morte. La morte è nella doppiezza del cuore umano che si ingolfa senza aprirsi a quella presenza che si rivela; la morte sta là dove si costruiscono situazioni particolari, circoscritte, confinate, ghettizzate, soffocanti che diventano veri e propri luoghi di schiavitù, di prigionia, di morte; non si vive. La morte. Non c’è il mondo. “Non attiratevi la rovina con le opere delle vostre mani” aggiunge il secondo rigo.


Dio ha creato per la vita

V. 13-15. Arriviamo alla fine del cap. 2. Uno svolgimento che il nostro maestro inserisce proprio qui, dopo l’invito introduttivo perché ci vuole avvisare circa la gravità dei rischi che corriamo; questa è una questione seria perché l’alternativa sta tra la vita e la morte:

perché Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi.

Egli infatti ha creato tutto per l'esistenza;

le creature del mondo sono sane,

in esse non c'è veleno di morte,

né gli inferi regnano sulla terra,

perché la giustizia è immortale”. Un messaggio radicalmente positivo. Dio ha creato per la vita e tutto nell’universo è funzionale alla vita; in questo sta la bellezza della creazione e questo ci consente sempre – anzi, ci impone – di custodire la bontà che è prerogativa di ogni creatura in quanto appartiene a Dio.


L’empietà umana: una scelta di morte

Dal v. 16, in contrapposizione a quello che il nostro maestro ha appena affermato, l’empietà degli uomini che qui viene caratterizzata come una scelta di morte. Una prospettiva del genere non è remota, è una prospettiva con la quale dobbiamo sempre fare i conti perché è una scelta di morte che già è stata documentata per il passato ed è ancora attualissima.

Gli empi invocano su di sé la morte

con gesti e con parole”. La morte è invocata dagli uomini ed è l’atteggiamento per così dire religioso quello che gli uomini dedicano a questa ricerca della morte. La morte non è voluta da Dio, è invocata dagli uomini

con gesti e con parole

ritenendola amica(la morte in un contesto di amicizia)

si consumano per essa

e con essa concludono alleanza (l’amicizia diventa addirittura un’alleanza)

perché son degni di appartenerle (è addirittura un’appartenenza; notate il crescendo: amicizia, alleanza, appartenenza)

Dicono fra loro sragionando:”.

Cap. 2 fino al v. 20 il discorso degli empi. Il nostro maestro nel suo discorso presta ascolto a quello che gli empi vanno dicendo, quello che è il modo di intendere le cose, di compromettere la vocazione alla vita imponendole una scelta di morte.

Quattro strofe. Prima strofa, dal v. 1 al v. 5. Ecco che cosa vuol dire una scelta di morte:

Dicono fra loro sragionando:

«La nostra vita è breve(il nostro “bios”, il nostro spazio vitale è stretto, una nota di autocommiserazione qui si impone in modo molto pesante)

La nostra vita è breve e triste (guarda cosa ci doveva capitare)

non c'è rimedio, quando l'uomo muore,

e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi.

Siamo nati per caso

e dopo saremo come se non fossimo stati.

E' un fumo il soffio delle nostre narici,

il pensiero è una scintilla

nel palpito del nostro cuore”». Gli empi sanno parlare: è un linguaggio che ha un suo fascino, letterariamente forbito, poeticamente molto efficace.

Una volta spentasi questa, il corpo diventerà cenere

e lo spirito si dissiperà come aria leggera.

Il nostro nome sarà dimenticato con il tempo

e nessuno si ricorderà delle nostre opere.

La nostra vita passerà come le tracce di una nube,

si disperderà come nebbia

scacciata dai raggi del sole

e disciolta dal calore.

La nostra esistenza è il passare di un'ombra

e non c'è ritorno dal nostro finire”» (invece di mortemettete finire)

poiché il sigillo è posto e nessuno torna indietro”. Non si è mai saputo di qualcuno che sia tornato indietro. Vedete questo atteggiamento di chiusura in quello che è l’ambito delle esperienze immediate; nota di autocommiserazione. Già vi dicevo che è molto patetica. Il fatto è che tutto, in questa condizione di empietà, così come è stata definita, ma che è per l’appunto la condizione che conduce a una scelta di morte, dipende da un’assuefazione a ridurre il mondo a quella realtà minuscola e particolare che è la soggettività di ciascuno di noi. Ridurre la realtà a quel punto che sono io; come ciascuno di noi è quel certo punto che lo circoscrive nella logica dei suoi interessi, delle sue attese e delle sue illusioni, laddove ogni nostra soggettività si vuole imporre come criterio autosufficiente per interpretare il valore di tutto e di tutti. Stando così le cose, nel venir meno di tutti, addirittura diventa una motivazione ideale la prospettiva di vivere per morire. Non c’è alternativa.


L’egoismo ben programmato: carpe diem…

Seconda strofa, dal v. 6 al v. 9. “Su, godiamoci i beni presenti”: vedete come, a partire da quel certo modo di impostare le cose, si giunge a elaborare come ideale di vita il progetto di un egoismo ben coltivato. Stando così le cose bisogna che l’egoismo umano sia gestito in modo intenso, appassionato addirittura, appunto come un valore assoluto.

Su, godiamoci i beni presenti

facciamo uso delle creature con ardore giovanile!

Inebriamoci di vino squisito e di profumi,

non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera,

coroniamoci di boccioli di rose prima che avvizziscano;

nessuno di noi manchi alla nostra intemperanza.

Lasciamo dovunque i segni della nostra gioia

perché questo ci spetta, questa è la nostra parte”. Notate questa capacità di ammirare una bellezza così fatiscente, questa commozione che raccoglie tutte le capacità emotive dell’animo umano nel crepuscolo inevitabile, questa volontà forsennata di lasciar traccia di sé e la traccia di questa scelta di morte che per il momento è mascherata di un valore ideale da identificare con la assoluta affermazione dell’egoismo particolare.


disprezza il debole

Terza strofa, dal v. 10 al v. 16. Notate che le strofe si succedono in un crescendo all’interno del discorso che gli empi stanno elaborando e la terza strofa dà forma al linguaggio con il quale gli empi spiegano come sia necessario opprimere gli altri. Laddove l’egoismo è diventato un valore assoluto si impone come una necessità l’oppressione degli altri.

Spadroneggiamo sul giusto povero,

non risparmiamo le vedove,

nessun riguardo per la canizie ricca d'anni del vecchio.

La nostra forza sia regola della giustizia,

perché la debolezza risulta inutile.


elimina il giusto

Tendiamo insidie al giusto, perché ci è di imbarazzo(una prepotenza che acquista un significato programmatico in nome della libertà di far quel che si vuole e in nome della libertà di fare degli altri quel che si vuole)

ed è contrario alle nostre azioni;

ci rimprovera le trasgressioni della legge

e ci rinfaccia le mancanze

contro l'educazione da noi ricevuta.

Proclama di possedere la conoscenza di Dio

e si dichiara figlio del Signore”. Il giusto merita davvero di essere cancellato, è un’insofferenza infastidita quella che gli empi sperimentano nei suoi confronti proprio perché si ritengono rimproverati, condannati da lui e questa oppressione che viene man mano sistematicamente prodotta dal cosiddetto giusto porta con sé un risentimento nei confronti di Dio a cui il giusto fa appello.

E’ diventato per noi una condanna dei nostri sentimenti,

ci è insopportabile solo al vederlo

perché la sua vita è diversa da quella degli altri

e del tutto diverse sono le sue strade.

Moneta falsa siam da lui considerati,

schiva le nostre abitudini come immondezze.

Proclama beata la fine dei giusti

e si vanta di aver Dio per padre”. E’ proprio quello che si merita.

Quarta strofa non soltanto l’oppressione, ma esattamente la eliminazione del giusto che poi, in questo contesto, è qualcuno che non è omogeneo con il programma di vita dei cosiddetti empi, qualcuno che si sottrae a quella logica, che si pone in alternativa e deve essere eliminato, ucciso.

Vediamo se le sue parole sono vere”. Una scelta di morte e questa scelta, come qui si è venuta delineando, adesso giunge in modo diretto e programmatico alla condanna a morte di chi non si adegua al progetto dell’empietà che è già il progetto di una scelta di morte. Come ricondurre a una scelta di morte coloro che ad essa si contrappongono? Facendoli morire. A monte di tutto c’è una scelta di morte. Forse qualcosa del genere riguarda anche la nostra generazione.

Vediamo se le sue parole sono vere;

proviamo ciò che gli accadrà alla fine.

Se il giusto è figlio di Dio, egli l'assisterà,

e lo libererà dalle mani dei suoi avversari.

Mettiamolo alla prova con insulti e tormenti,

per conoscere la mitezza del suo carattere

e saggiare la sua rassegnazione”. “L’ha voluto lui, se l’è meritato lui, l’ha preteso lui, noi in realtà corrispondiamo alle sue intenzioni, condanniamolo a una morte infame perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà”. E’ proprio in questo modo che gli empi intendono dimostrare che quel giusto si sbaglia; in realtà Dio non interviene per prendere le sue difese; qui dove si parla (v. 20) del soccorso è “l’episcopì”, la visita di Dio. Vedete: Dio deve intervenire a vantaggio del giusto per quello che lui va dicendo; o forse il giusto non dice niente, ma per il fatto stesso di esserci è quell’elemento di disturbo che gli empi vogliono e debbono clamorosamente, appassionatamente contestare ed eliminare. Dio non interviene perché il giusto si sbaglia o perché è proprio il silenzio di Dio che aderisce intrinsecamente e perfettamente al silenzio del giusto. Notate bene che in questo contesto il giusto non dice nulla.


Un progetto sbagliato

La pensano così, ma si sbagliano;

la loro malizia li ha accecati.

Non conoscono i segreti di Dio;” mystiria. Non conoscono i misteri di Dio, non vi aderiscono, non si lasciano prendere, coinvolgere, non sperano salario per la santità. La santità è appunto la pienezza della vita: hanno rinunciato alla pienezza della vita, né credono alla ricompensa delle anime pure (ritorniamo al punto di partenza in questi vv. 23-24).

Dio ha creato l'uomo per l'immortalità(Dio ha creato l’uomo per la vita non per la morte)

lo fece a immagine della propria natura.

Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo;

e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono”.




1 Gli incontri con il P. Pino Stancari S.J. si svolgono nel primo martedì di ogni mese presso l’Associazione Maurizio Polverari, in via Torelli Viollier, 132 A/3. Hanno inizio alle 18.30 e terminano alle 20.30. E’ disponibile un garage privato all’inizio della via.

Il ciclo 2008-2009 è dedicato al Libro della Sapienza. E’ iniziato il 4 novembre 2008. Il secondo incontro si terrà martedì 2 dicembre.

I testi delle conversazioni – ricavati da registrazione su nastro – sono disponibili sul sito Internet dell’Associazione “Maurizio Polverari” all’indirizzo: www.incontripioparisi.it