Incontri di discernimento e solidarietà
 
  • Download

  • Puoi scaricare l'intero file nei seguenti formati:
  • Microsoft Word - Scarica in formato Microsoft Word (89 KB)
  • Adobe Acrobat PDF - Scarica in formato Adobe Acrobat PDF (119 KB)
 

Sapienza:


nell’intimo dei cuori e nella storia Dio si rivela e chiama l’uomo ad aprirsi al suo Mistero


Settimo incontro del ciclo 2008-2009

3 giugno 2009


La storia intrecciata dei giusti e degli empi



Siamo alle prese da un po’ di tempo a questa parte con la terza parte del grande discorso elogiativo dedicato alla Sapienza che è il rivelarsi di Dio (dal cap. 10 fino a tutto il cap. 19). E’ con queste battute – che riprendono e arricchiscono il grande messaggio encomiastico che il nostro maestro ha elaborato nella sezione centrale del suo discorso – che egli ci fornisce elementi utili per scoprire come la Sapienza si sia espressa e come vada esprimendosi nel corso della storia umana. I criteri interpretativi sono quelli prelevati dal complesso di testimonianze, messaggi, eventi che compongono la cosiddetta storia della salvezza; è ricostruito per sommi capi l’itinerario condotto fino allo snodo determinante, che è l’Esodo, con tutti gli avvenimenti che gli fanno da contorno. Il nostro maestro usa un linguaggio che rispetta puntualmente l’anonimato dei personaggi e la neutralità delle vicende anche se è evidentissimo che sta parlando di quel che è avvenuto, stando ai dati della storia della salvezza, nel momento in cui coloro che erano schiavi in Egitto sono stati liberati; tutto quello che leggiamo nell’Antico Testamento, nei testi fondamentali del Pentateuco e altrove. E viene elaborando una chiave interpretativa degli eventi, una chiave di ordine teologico che costituisce un criterio di discernimento circa il senso che il rivelarsi del mistero di Dio nella storia umana conferisce ad essa sempre; proprio gli avvenimenti dell’Esodo che gli consentono di mettere a fuoco questa chiave di interpretazione. C’è di mezzo la vocazione alla vita di tutti gli uomini e il percorso della storia umana in quanto orientato alla promozione della vita, quella che noi chiamiamo “salvezza”: è storia di salvezza la storia degli uomini, nella sua complessità, ampiezza, varietà, drammaticità. Il nostro maestro è tutto preso dall’impegno di precisare come la sapienza di Dio sia operante, come il mistero di Dio si riveli in modo tale da costruire dall’interno percorsi di salvezza, ossia di ritorno alla vita, di ritorno alla sorgente, alla pienezza della vita. Il nostro maestro vive in Egitto, ad Alessandria, ed è educato alla scuola delle accademie che hanno sede in quella città dotata di un prestigio straordinario nel contesto della civiltà ellenistica; parla un greco molto raffinato, scrive con molta delicatezza, cogliendo sfumature davvero preziosissime; è la lingua dei pagani, degli egiziani, del mondo che gli consente peraltro di intrattenere una conversazione di portata ecumenica; e, d’altra parte, il nostro maestro dimostra di essere puntualissimo nelle informazioni riguardanti i dati biblici, l’eredità che ha ricevuto dai credenti del suo popolo; in questo è sempre molto preciso e man mano che leggiamo questi versetti ci rendiamo conto che sarebbe necessario ricorrere a una miriade di citazioni antico-testamentarie che sono direttamente o indirettamente coinvolte nella redazione del testo. L’Esodo (e gli avvenimenti collaterali) è lo snodo decisivo della storia della salvezza e fornisce il criterio decisivo per l’interpretazione della storia umana in modo tale da apprezzarne il senso che il mistero di Dio, in quanto si rivela, le ha conferito: è storia di salvezza.

Abbiamo letto nel nostro ultimo incontro, nei capp 13-15, un’ampia digressione dedicata al tema dell’idolatria. Ora proseguiamo dal cap. 16. Il nostro maestro, fin dal cap. 10, ha impostato la sua ricerca in modo tale da mettere in evidenza alcuni richiami. Nella storia umana tutto quello che è testimonianza di una scelta di morte (il peccato, per dirla con un termine che è riservato ai teologi ma che poi ha un riscontro operativo nel vissuto di tutti: il tradimento, il negamento, il fallimento della vita, un disastro per cui la storia umana è segnata da una spinta verso la morte) porta con sé conseguenze che sono dotate di un’intrinseca fecondità redentiva, per cui i dati che servono ad illustrare il fallimento sono, al momento opportuno, anche l’occasione propizia, addirittura entusiasmante, per constatare come si aprono strade di ritorno alla sorgente della vita. Il nostro maestro si serve delle due figure – che per lui restano anonime, ma che noi possiamo senz’altro identificare – degli ebrei e degli egiziani: c’è un modo di patire le conseguenze disastrose intrinseche alla storia umana che diventa motivo per scoprire che strade nuove si aprono. Questo non soltanto distingue gli uni, gli ebrei, dagli altri, gli egiziani, che invece resterebbero intrappolati nelle conseguenze delle disastrose scelte di morte. Il nostro maestro insiste – le pagine che leggeremo sono veramente l’espressione di un insegnamento magistrale – nel ribadire l’incrocio, che si fa sempre più preciso, coinvolgente, indissolubile, tra quel che riguarda gli ebrei e quel che riguarda gli egiziani: è un’unica storia nella quale gli ebrei imparano a compatire gli egiziani e gli egiziani scoprono come quel che avviene agli ebrei apre per loro – in modo del tutto imprevedibile e ancora non operativo, ma con tutto un coinvolgimento interiore che viene suscitato nell’animo umano – possibilità nuove che valgono per gli ebrei, ma che intanto interpellano loro in qualità di egiziani. C’è un coinvolgimento tale per cui questa storia di salvezza non è una storia secondo la quale qualcuno si salva e qualcuno è dannato, ma è un’unica storia nella quale la sapienza di Dio opera determinando una specie di immenso circuito, una specie di travolgimento incessante, come una grandiosa trivella che dal di dentro della storia umana rende le situazioni più penose valide per aprire strade nuove, strade di ritorno alla vita; ci sono quelli che si trovano coinvolti in questa prospettiva di liberazione (ebrei) e ci sono altri (egiziani); ma quel che avviene per gli ebrei consente loro di avvicinarsi agli egiziani e di capire quel che hanno sofferto; e, d’altra parte, sono gli egiziani che avvertono, attraverso il vissuto degli ebrei, che nuove possibilità di vita si aprono anche se in modo ancora informe, grezzo, non determinato; è un percorso che si sta man mano dipanando.

Su questa relazione indissolubile tra quel che avviene agli ebrei e agli egiziani, il nostro maestro ritorna, dopo l’ampia digressione sull’idolatria che, per lui, è la conseguenza ultima, l’esplicitazione suprema del peccato che diventa fenomeno dilagante, dominante, che coinvolge l’intimo così come inquina il mondo; è la morte. Anche l’idolatria – ci dice il nostro maestro – è inserita dentro la storia di salvezza; anche l’estrema conseguenza del peccato, che determina nell’animo umano, negli squilibri della storia e nella gestione del mondo uno sfascio tragico, è già da reinterpretare in una prospettiva di salvezza perché la misericordia di Dio prende posizione, si esprime, avanza in modo così gratuito e commovente, imprevedibile e con una potenza di consolazione di cui, certamente, non ci renderemmo conto se non fossimo adeguatamente aiutati (e l’aiuto ci viene certamente dalla rivelazione biblica); ma è anche vero che il nostro maestro è convinto che il sentore di questa novità, che dall’interno di questa storia disgraziata, accende luci di consolazione, è da riscontrare in ogni animo umano. Ricordate che c’è un testo nel quale dice: “gli egiziani quando si accorsero che gli ebrei patirono per l’acqua nel deserto… sentirono la presenza di Dio”, per come avevano patito loro la mancanza dell’acqua. C’è un “sentore” nell’animo umano. Noi, aiutati dal nostro maestro che a sua volta è aiutato dalla rivelazione biblica, siamo in un certo modo molto più avanti perché abbiamo già elementi che ci consentono non soltanto di percepire il “sentore”, ma di elaborarlo, documentarlo in rapporto a un disegno che effettivamente è in fase di attuazione.


Gusto e disgusto

Cap. 16, vv. 1-4, il richiamo alla cosiddetta “piaga delle rane”: “Per questo furon giustamente puniti con esseri simili (il peccato determina la propria pena)

e tormentati da numerose bestiole (che sarebbero quelle bestiole venerate, adorate come divinità ed ecco il motivo di tanta sofferenza patita dagli egiziani; capp. 11-12). Invece di tale castigo, tu beneficasti il tuo popolo (il doppio binario: egiziani-ebrei, e già sappiamo come l’argomentazione del nostro maestro è rigorosa nel determinare poi incroci indissolubili tra l’uno e l’altro binario); per appagarne il forte appetito gli preparasti (il maestro mette in contrapposizione le rane che dilagano sul suolo egiziano e diventano motivo di disgusto e di perdita totale dell’appetito, con il dono delle quaglie per coloro che si trovano nel deserto affamati) un cibo di gusto squisito, le quaglie”. L’attenzione qui è concentrata proprio sul dato interiore dell’appetito e del gusto: gli egiziani hanno perso il gusto; gli ebrei nel deserto “gustarono” e, attraverso l’esperienza della fame, si resero conto di quello che soffrirono gli egiziani; ma, a loro volta, gli egiziani si resero conto di questa stranezza per cui quei tali che erano stati schiavi in Egitto, che si trovano nel deserto e che patiscono la fame “gustano”. “Gli egiziani infatti, sebbene bramosi di cibo,

disgustati dagli animali inviati contro di loro

perdettero anche il naturale appetito;

questi invece, dopo una breve privazione,

gustarono un cibo squisito.

Era necessario che a quegli avversari

venisse addosso una carestia inevitabile (era necessario che gli egiziani patissero la fame per rendersi conto di come quegli altri affamati, che si trovano nel deserto, sono in grado di gustare il cibo che loro non gustano in alcun modo a causa di quella moltitudine di rane che ha occupato il loro territorio) e che a questi si mostrasse soltanto

come erano tormentati i loro nemici”. Gli ebrei nel deserto sono in grado di comprendere dall’interno quali sono stati i tormenti patiti dagli egiziani affamati. Nel deserto la fame si è tradotta nel gusto che sa assaporare un cibo squisito, in Egitto la fame si è trasformata in un disgusto; e gli ebrei comprendono il tormento degli egiziani e gli egiziani sono sconcertati, sbalorditi venendo a sapere che quelli che si trovano nel deserto sono in grado di ritrovare l’appetito.


Un dolore terapeutico

Dal v. 5 al v. 12: “Quando infatti li assalì il terribile furore delle bestie

e perirono per i morsi di tortuosi serpenti, la tua collera non durò sino alla fine”. E’ un richiamo alla cosiddetta piaga delle cavallette e a quell’episodio – che leggiamo nel libro dei Numeri, cap. 21 – dei serpenti che mordono e il serpente innalzato su un’asta. Si tratta degli ebrei nel corso del viaggio. I serpenti si scatenano in un contesto di ribellione per cui gli ebrei nel deserto sono dei peccatori; vanno incontro a una malattia grave che macina molte vittime, provocata dal morso dei serpenti. C’è da interpretare quale fu per gli ebrei peccatori l’esperienza di quella malattia; per gli ebrei nel deserto i morsi, che hanno provocato tante vittime e situazioni di debolezza estrema, hanno acquisito il valore di una medicina. Per quanto paradossale possa essere, le cose sono andate proprio così. In realtà i morsi dei serpenti sono diventati anche le “medicine” mediante le quali gli ebrei nel deserto sono guariti, laddove il dolore patito per quei morsi è diventato il dolore del rimorso e della compunzione, ed è divenuto dolore terapeutico; è un dolore medicinale.

Per correzione furono spaventati per breve tempo (tutto quell’episodio si inserisce in un quadro correttivo, pedagogico, in un cammino di conversione che passa attraverso il dolore per il peccato, la compunzione) avendo già avuto un pegno di salvezza (qui c’è di mezzo il serpente infilato nell’asta: attraverso il segno del serpente elevato si ricordano della legge) a ricordare loro i decreti della tua legge. Infatti chi si volgeva a guardarlo

era salvato non da quel che vedeva,

ma solo da te, salvatore di tutti (non è il fatto empirico del serpente infilato nell’asta, ma è che, attraverso quel segno, hanno incontrato “Te”, che sei salvatore di tutto, nel momento in cui hanno scoperto che il dolore patito, nella relazione con Te, diventa dolore terapeutico, dolore che guarisce. Il nostro maestro, da adesso in poi, userà sempre la seconda persona singolare: è come se rivolgesse il discorso, parlasse a tu per tu con il Dio vivente. E’ un colloquio e questo rende particolarmente affascinante lo sviluppo di queste ultime battute del discorso perché è un discorso elogiativo costruito secondo la tecnica della retorica che interpella un pubblico ampio, attento, a suo modo sofisticato. E qui il discorso è costantemente ricapitolato all’interno di una conversazione a tu per tu tra il nostro maestro e il Signore). Anche con ciò convincesti i nostri nemici

che tu sei colui che libera da ogni male (quanto è avvenuto a noi, ebrei, vale come messaggio e promessa per loro, egiziani; è un messaggio per i nostri nemici). Gli egiziani infatti furono uccisi dai morsi

di cavallette e di mosche,

né si trovò un rimedio per la loro vita (non c’era una medicina),

meritando di essere puniti con tali mezzi.

Invece contro i tuoi figli (seconda persona singolare)

neppure i denti di serpenti velenosi prevalsero,

perché intervenne la tua misericordia a guarirli (ecco la medicina). Perché ricordassero le tue parole,

feriti dai morsi, erano subito guariti (quei morsi diventano motivo di guarigione in relazione a Te), per timore che, caduti in un profondo oblio,

fossero esclusi dai tuoi benefici.

Non li guarì né un'erba né un emolliente,

ma la tua parola, o Signore (questa invocazione del nome del Signore, v. 12, alla fine del brano è più che mai ricapitolativa di tante cose), la quale tutto risana”. E’ la Tua parola che risana, che guarisce e quei tali che nel deserto furono morsi dai serpenti incontrarono Te che guarisci, sei Salvatore di tutti. Quel che è avvenuto nel deserto per loro vale per gli egiziani che furono morsi dalle cavallette e dalle mosche.


Solo Dio ha il potere sulla vita e sulla morte

I versetti 13-14 costituiscono una specie di intermezzo immediatamente legato ai versetti appena letti: “Tu infatti hai potere sulla vita e sulla morte;

conduci giù alle porte degli inferi e fai risalire.

L'uomo può uccidere nella sua malvagità,

ma non far tornare uno spirito già esalato,

né liberare un'anima già accolta negli inferi”. Ci sei di mezzo Tu, Signore della vita e della morte, perché Tu sei Signore sulla morte per instaurare la vittoria della Tua volontà di vita.


Dalla Sua mano asprezza e dolcezza

Vv. 15-23. Si aggiunge un altro svolgimento con un richiamo alla piaga della grandine in Egitto che viene messa in relazione con il dono della manna nel deserto. C’è un’immagine, che sta sullo sfondo e collega i due episodi, relativa a quel che la mano del Signore fa cadere dal cielo. Che cosa cade dal cielo? La mano del Signore. V. 15: “E' impossibile sfuggire alla tua mano…”. (E’ un’immagine che diventa ricapitolativa di tante situazioni: che cosa ci sta capitando, che cosa ci sta cadendo addosso, quale mano è rivolta verso di noi? Che cosa proviene da quella mano da cui, peraltro, è impossibile sfuggire? Gli eventi, imponderabili come sono, al di fuori di ogni programmazione e di ogni pretesa di gestione autonoma, sono eventi a cui, nella nostra condizione umana, dobbiamo sottostare): “…gli empi, che rifiutavano di conoscerti,

furono colpiti con la forza del tuo braccio (per loro quella mano è stata intesa come un braccio che interviene con forza, con durezza, per schiacciare, opprimere), perseguitati da strane piogge e da grandine (che cosa è uscito da quella Tua mano?), da acquazzoni travolgenti, e divorati dal fuoco (la grandine che brucia; là dove passa la grandine la campagna è bruciata). E, cosa più strana, l'acqua che tutto spegne

ravvivava sempre più il fuoco (da quella mano proviene una dimostrazione di potenza che è percepita come una disgrazia suprema, inimmaginabile al punto che l’acqua brucia): l'universo si fa alleato dei giusti (nel senso che anche gli equilibri cosmici sembrano rigorosamente ma paradossalmente sconvolti). Talvolta la fiamma si attenuava

per non bruciare gli animali inviati contro gli empi

e per far loro comprendere a tal vista

che erano incalzati dal giudizio di Dio (se la fiamma ogni tanto scemava era per dare modo a tutti quegli altri animaletti, che sono stati inviati per devastare il territorio, potessero muoversi a loro piacimento; gli egiziani incoraggiati, aiutati, richiamati, sollecitati a rendersi conto di essere alle prese con l’inesauribile e indeterminabile gratuità del gesto con il quale quella mano ti viene incontro; quel che ti casca addosso dall’alto). Altre volte anche in mezzo all'acqua

la fiamma bruciava oltre la potenza del fuoco

per distruggere i germogli di una terra iniqua”. E adesso, dal v. 20, la prospettiva si ribalta. “Invece sfamasti il tuo popolo con un cibo degli angeli,

dal cielo offristi loro un pane già pronto senza fatica (non soltanto il pane sazia la fame, riempie lo stomaco, determina il complesso di benefici di cui l’equilibrio fisiologico ha bisogno), capace di procurare ogni delizia e soddisfare ogni gusto”. Questo cibo, che cade dal cielo, è stato ricevuto e sperimentato dagli ebrei nel deserto come l’intervento – imprevedibile, originalissimo, nella sua gratuità assoluta – che rende dolci le cose. Comunque restano nel deserto, giorno dopo giorno, e si trascinano per mesi e anni; ma “che cosa cade dal cielo, che cosa sta capitando? Da quella mano che cosa proviene per noi?” Da quella mano per gli egiziani grandine infuocata; per gli ebrei nel deserto, il dono che quotidianamente rende dolce la vita; nella povertà quotidiana, nella fragilità del momento, nella necessità di lavorare quotidianamente perché quella manna deve essere raccolta, trattata come si conviene. “Questo tuo alimento manifestava

la tua dolcezza verso i tuoi figli (nel deserto gli ebrei hanno sperimentato la tua dolcezza; gli egiziani, nel loro paese, hanno sperimentato la tua asprezza); esso si adattava al gusto di chi l'inghiottiva

e si trasformava in ciò che ognuno desiderava (quel cibo non ha un sapore suo ma si adatta al gusto di chi lo inghiotte, si trasforma in tutto ciò che ognuno desidera; “la tua dolcezza”. Questa è l’immagine della manna; il venerdì si raccoglie doppia razione per il sabato; mentre normalmente, giunto il sole a un certo punto del suo corso, la manna si scioglie; il sabato questo non avviene). Neve e ghiaccio resistevano al fuoco senza sciogliersi (la prospettiva si ribalta: la grandine è infuocata, qui neve e ghiaccio che resistono al fuoco), perché riconoscessero che i frutti dei nemici

il fuoco distruggeva ardendo tra la grandine

e folgoreggiando tra le piogge (gli ebrei sono in grado adesso di reinterpretare quello che è successo agli egiziani). Al contrario, perché si nutrissero i giusti,
dimenticava perfino la propria virtù
(il fuoco brucia in mezzo all’acqua e il ghiaccio non si scioglie al contatto con il fuoco. Questo è un messaggio per gli egiziani. Il nostro maestro non fa altro che ribadire questa sua visione delle cose che è la sua chiave interpretativa della storia umana in quanto è la storia della salvezza, dove, a questo punto, non è più nemmeno così importante precisare se la grandine ha devastato o cos’era veramente la manna; qui è in questione quel modo di stare sotto il cielo per cui qualunque cosa succeda ci sono quelli che si ritengono schiacciati sotto una cappa di violenza mentre altri “gustano” la dolcezza della vita. Questo diventa un messaggio per i primi e motivo di condivisione e compassione per i secondi.


La creazione a servizio del Suo disegno

Dal v. 24 al v.29 una riflessione che ricapitola queste battute. La creazione è al servizio di questa rivelazione che è la Sapienza – il rivelarsi di Dio – ed è al servizio di questo itinerario di conversione per cui gli eventi prendono significati così discordanti a seconda di come l’animo umano si apre ad accogliere il gesto della mano di Dio. L’obiettivo del nostro maestro non è tanto quello di arrivare a elaborare una dottrina; sta dicendo che l’obiettivo di tutto questo discorso è instaurare un disegno di comunione che poi è il senso della storia umana, così come essa rivela il protagonismo di Dio. Dio si rivela nella storia umana – ecco la Sapienza – in quanto è promotore di comunione. Questo è fondamentale.

La creazione infatti a te suo creatore obbedendo,

si irrigidisce per punire gli ingiusti,

ma s'addolcisce a favore di quanti confidano in te (la creazione è addolcita?).

Per questo anche allora, adattandosi a tutto,

serviva alla tua liberalità che tutti alimenta,

secondo il desiderio di chi era nel bisogno,

perché i tuoi figli, che ami, o Signore, capissero

che non le diverse specie di frutti nutrono l'uomo,

ma la tua parola conserva coloro che credono in te.

Ciò che infatti non era stato distrutto dal fuoco

si scioglieva appena scaldato da un breve raggio di sole (sono tutte citazioni che possiamo rintracciare nel libro dell’Esodo),

perché fosse noto che si deve prevenire il sole

per renderti grazie

e pregarti allo spuntar della luce (la manna andava raccolta la mattina presto, così ci si abitua a pregare al sorgere del sole) poiché la speranza dell'ingrato (chi non si sobbarca questa fatica di svegliarsi la mattina presto per pregare, vive nell’ingratitudine. Cosa c’è sotto quell’atteggiamento dell’animo umano che si ritiene vittima di un’ingiustizia? La creazione è severa, aspra e cattiva contro di me; cosa c’è? C’è la speranza dell’ingrato che poi è la disperazione) si scioglierà come brina invernale

e si disperderà come un'acqua inutilizzabile”.


Prigionieri delle tenebre

Cap. 17, vv. 1-10: il richiamo a un’altra piaga, quella delle tenebre, la nona piaga. “I tuoi giudizi sono grandi e difficili da spiegare,

per questo le anime grossolane furono tratte in errore.

Gli iniqui credendo di dominare il popolo santo,

incatenati nelle tenebre e prigionieri di una lunga notte (le tenebre),

chiusi nelle case,

giacevano esclusi dalla provvidenza eterna (coloro che si ritenevano padroni in realtà sono prigionieri della notte. Ritenevano di essere padroni, di dominare e in realtà sono dominati dalle tenebre. Fino al v. 5 di questo cap. 17: le tenebre di fuori, per così dire, la notte. Poi, dal v. 6 al v. 10 le tenebre di dentro, ossia la paura). Credendo di restar nascosti con i loro peccati segreti (le tenebre esterne diventano come un’ossessione che chiude, rende carceraria l’esistenza umana intrappolata dentro alle tenebre; succede che questa tenebra che dall’esterno imprigiona gli egiziani nelle loro case, sbugiarda i segreti che pretendono di nascondere in loro stessi), sotto il velo opaco dell'oblio, furono dispersi, colpiti da spavento terribile

e tutti agitati da fantasmi.

Neppure il nascondiglio in cui si trovavano

li preservò dal timore,

ma suoni spaventosi rimbombavano intorno a loro,

fantasmi lugubri dai volti tristi apparivano.

Nessun fuoco, per quanto intenso riusciva a far luce,

neppure le luci splendenti degli astri

riuscivano a rischiarare quella cupa notte”. Si ritenevano protetti nelle loro case e invece sono proprio raggiunti e assaliti, fin nell’intimo della loro vita, dalle immagini più ossessionanti.

Dal v. 6 è proprio su queste tenebre interiori che si concentra l’attenzione: “Appariva loro solo una massa di fuoco,

improvvisa, spaventosa;

atterriti da quella fugace visione,

credevano ancora peggiori le cose viste.

Fallivano i ritrovati della magia,

e la loro baldanzosa pretesa di sapienza.

Promettevano di cacciare timori e inquietudini

dall'anima malata,

e cadevano malati per uno spavento ridicolo (la presunta padronanza dei propri sentimenti ad opera di qualche magia scade in una patologia che è sempre più angosciante e – aggiunge il nostro maestro – sempre più ridicola. Il ridicolo tentativo di potersi affermare come padroni delle proprie angosce e del proprio intimo che – qui sta la piaga delle tenebre – in realtà è profondità massimamente oscura, buia, tenebrosa). Anche se nulla di spaventoso li atterriva,

spaventati al passare delle bestiole

e ai sibili dei rettili (basta niente),

morivano di tremore,

rifiutando persino di guardare l'aria,

a cui nessuno può sottrarsi.

La malvagità condannata dalla propria testimonianza

è qualcosa di vile

e oppressa dalla coscienza presume sempre il peggio”. E’ quel che è avvenuto in Egitto, laddove gli egiziani, aggrediti dalle tenebre di fuori e di dentro, si sono ritrovati prigionieri di una coscienza che si è imposta ad essi come motivo di condanna irreparabile; una coscienza che presume sempre il peggio.


Come uscire dall’insopportabile paura: aprirsi al Mistero

Dal v. 11 al v. 14 si apre una piccola digressione circa la paura:“Il timore infatti

non è altro che rinunzia agli aiuti della ragione (la paura è collegata con l’irrazionalità laddove viene rifiutato il linguaggio che è proprio del Mistero; laddove l’irrazionalità appare in tutta la sua evidenza, lì si scatena la paura. Il guasto non sta nell’irrazionalità, ma nell’aver rifiutato il linguaggio del Mistero); quanto meno nell'intimo ci si aspetta da essi,

tanto più grave si stima l'ignoranza

della causa che produce il tormento.

Ma essi durante tale notte davvero impotente,

uscita dai recessi impenetrabili degli inferi senza potere,

intorpiditi da un medesimo sonno,

ora erano agitati da fantasmi mostruosi,

ora paralizzati per l'abbattimento dell'anima;

poiché un terrore improvviso e inaspettato

si era riversato su di loro.

Così chiunque, cadendo là dove si trovava (ancora insiste sulla condizione degli egiziani prigionieri delle tenebre; di fuori, di dentro, prigionieri della paura. Non dimenticate che l’alternativa radicale sta nell’accogliere il linguaggio del Mistero che si rivela. L’esperienza della tenebra, della paura come prigionia, nel senso che la condizione umana diventa insopportabile, comunque si presenti, si configuri, dovunque sia collocata), era custodito chiuso in un carcere senza serrami (non c’è bisogno di cancelli, catenacci, dove carcere diventa il mio posto al mondo; carcere diventa il luogo in cui mi trovo a vivere; carcere diventa la mia condizione di vita anche se non ci sono inferriate), fosse un agricoltore o un pastore

o un operaio impegnato in lavori in luoghi solitari,

sorpreso cadeva sotto la necessità ineluttabile,

perché tutti eran legati dalla stessa catena di tenebre.

Il sibilare del vento,

il canto melodioso di uccelli tra folti rami,

il mormorio di impetuosa acqua corrente,

il cupo fragore di rocce cadenti,

la corsa invisibile di animali imbizzarriti,

le urla di crudelissime belve ruggenti,

l'eco ripercossa delle cavità dei monti,

tutto li paralizzava e li riempiva di terrore”. Tutte le realtà di questo mondo, tutte le creature di questo mondo sono avvertite, sentite, subite come presenze carcerarie. E’ insopportabile la condizione umana, sempre e dappertutto, quale che sia il contesto di ordine fisico, psichico o sociale nel quale ci si trova a vivere. “Tutto il mondo era illuminato di luce splendente (chi si trova nelle tenebre avverte che attorno a questo circuito oscuro nel quale si è intrappolati, c’è la luce, ma è una luce irraggiungibile) ed ognuno era dedito ai suoi lavori senza impedimento.

Soltanto su di essi (c’è la luce nel resto del mondo ma per gli egiziani una notte profonda e insormontabile) si stendeva una notte profonda,

immagine della tenebra che li avrebbe avvolti;

ma erano a se stessi più gravosi della tenebra (per cui la condizione umana diventa veramente insopportabile con questo ritorno continuo a un disgusto di se stessi, a un’insofferenza verso se stessi: erano a se stessi più gravosi della tenebra).


Luce per i giusti

Cap. 18, vv. 1-4. La prospettiva si ribalta perché, mentre gli egiziani sono alle prese con le tenebre: “Per i tuoi santi risplendeva una luce vivissima (questa è una citazione di Esodo, 10, v. 23. Gli egiziani sono nelle tenebre, gli ebrei no); essi invece, sentendone le voci, senza vederne l'aspetto,

li proclamavan beati (vedete che gli egiziani restano meravigliati: ci sono altri che vivono nella luce e ascoltano le voci e li proclamavano beati), chè non avevan come loro sofferto

ed erano loro grati (gli egiziani sono grati nei confronti degli ebrei perché si rendono conto che sono nella luce) perché, offesi per primi,

non facevano loro del male (gli ebrei comprendono il dramma degli egiziani, hanno pietà degli egiziani; e questi intuiscono questa situazione di massima debolezza in cui si trovano per cui, essendo loro nelle tenebre e gli ebrei nella luce, potrebbero essere aggrediti mentre invece non è così) e imploravano perdono d'essere stati loro nemici.

Invece delle tenebre desti loro una colonna di fuoco (adesso l’attenzione si sposta; le tenebre per gli egiziani; una colonna di fuoco – la luce – per gli ebrei che hanno attraversato il deserto), come guida in un viaggio sconosciuto

e come un sole innocuo per il glorioso emigrare.

Eran degni di essere privati della luce

e di essere imprigionati nelle tenebre

quelli che avevano tenuto chiusi in carcere i tuoi figli (gli egiziani),

per mezzo dei quali (gli ebrei) la luce incorruttibile della legge

doveva esser concessa al mondo (la luce immortale della legge che il Signore ha dato al suo popolo nel contesto dell’alleanza, nel Sinai)”. Tenebra – luce: come abbiamo già più volte constatato, gli egiziani nelle tenebre si rendono conto della luce, e gli ebrei nella luce sono in grado di comprendere che cosa vuol dire essere prigionieri; loro che sono stati schiavi, prigionieri, incatenati: proprio gli ebrei nella luce sono in grado di trasmettere agli egiziani un messaggio di compassione.


Preannuncio pasquale: notte di morte e di nascita

Vv. 5-19. Si arriva ora all’ultimo grande quadro che il nostro maestro rievoca con molte sottolineature. Si tratta dell’ultima piaga: la piaga dei primogeniti. Dalla notte, nel senso delle tenebre che dilagano sul territorio dell’Egitto e che si infiltrano nei ricettacoli più segreti dell’animo umano, alla notte dei primogeniti: è la notte di Pasqua. “Poiché essi avevan deciso di uccidere i neonati dei santi (si ritorna indietro: ricordate il decreto del faraone che ha voluto condannare a morte tutti i figli maschi, tra i quali Mosè) - e un solo bambino fu esposto e salvato -

per castigo eliminasti una moltitudine di loro figli (gli egiziani sperimentano quel che loro stessi avevano voluto imporre agli ebrei) e li facesti perire tutti insieme nell'acqua impetuosa (qui si passa dalla notte dei figli primogeniti alla traversata del mare, quando le onde travolgono l’esercito del faraone; le due immagini si sovrappongono). Quella notte fu preannunziata ai nostri padri (se ne parla nelle pagine dedicate ai nostri padri, Genesi 15), perché sapendo a quali promesse avevano creduto,

stessero di buon animo.

Il tuo popolo si attendeva

la salvezza dei giusti come lo sterminio dei nemici – la morte dei primogeniti era già preannunciata e nel corso di quella notte, quella stessa notte – …come punisti gli avversari,

così ci rendesti gloriosi, chiamandoci a te (è la notte di Pasqua, la notte dell’Agnello, del sangue dell’Agnello). I figli santi dei giusti offrivano sacrifici in segreto (l’Agnello) e si imposero, concordi, questa legge divina:

i santi avrebbero partecipato ugualmente

ai beni e ai pericoli,

intonando prima i canti di lode dei padri (alleluia, i salmi da 113 a 118. E’ la notte di Pasqua, la notte nel corso della quale i figli, che sono gli ebrei dimoranti in Egitto, ufficialmente ancora schiavi del faraone in Egitto, sono già liberi; per come cantano la lode del Signore nel corso di quella notte, nelle case che sono segnate dal sangue dell’Agnello, dimostrano di essere già liberi; mentre gli egiziani, sempre in quella notte, sono prigionieri della tenebra, condotti all’esperienza suprema del dolore e della sconfitta). Faceva eco il grido confuso dei nemici

e si diffondeva il lamento di quanti piangevano i figli (gli ebrei cantano la lode, gli egiziani piangono). Con la stessa pena lo schiavo

era punito insieme con il padrone (tra gli egiziani non c’è più da distinguere, tutti, nobili, schiavi, liberi, oppressi), il popolano soffriva le stesse pene del re.

Tutti insieme, nello stesso modo,

ebbero innumerevoli morti,

e i vivi non bastavano a seppellirli

perché in un istante perì la loro più nobile prole.

Quelli rimasti increduli a tutto per via delle loro magie,

alla morte dei primogeniti confessarono

che questo popolo è figlio di Dio (questo popolo è il popolo degli ebrei. E’ la notte in cui muoiono i primogeniti degli egiziani; è la notte in cui nasce il Figlio primogenito di Dio; non è la notte della morte, è la notte della nascita. E sono gli egiziani che si rendono conto di come questa sia la notte in cui nasce il Figlio primogenito di Dio). Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose,

e la notte era a metà del suo corso,

la tua parola onnipotente dal cielo,

dal tuo trono regale, guerriero implacabile,

si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio,

portando, come spada affilata, il tuo ordine inesorabile.

Fermatasi, riempì tutto di morte (sembra a noi una scena estremamente macabra, ma è la scena della storia umana; tutto è in obbedienza alla parola del Signore che realizza dal di dentro di questa avventura estremamente drammatica, un’opera di liberazione che apre la strada del ritorno alla vita); toccava il cielo e camminava sulla terra.

Allora improvvisi fantasmi di sogni terribili

li atterrivano (gli egiziani);

timori impensabili piombarono su di loro.

Cadendo mezzi morti qua e là,

ognuno mostrava la causa della morte.

I loro sogni terrificanti li avevano preavvisati,

perché non morissero ignorando

il motivo delle loro sofferenze”. E’ molto importante per il nostro maestro che gli egiziani si rendano conto del motivo per cui patiscono tanto.


L’intercessione di un giusto

Vv. 20-25: “La prova della morte colpì anche i giusti (anche gli ebrei che provengono già da una condanna a morte che fu voluta a suo tempo dal faraone, ma gli ebrei – come ben sappiamo – hanno più volte dimostrato di essere ribelli, di contrastare l’opera del Signore, ne hanno combinate di tutti i colori) e nel deserto ci fu strage di molti (qui il ricordo di un episodio che leggiamo nel libro dei Numeri, cap. 17: la ribellione nel deserto); ma l'ira non durò a lungo,

perché un uomo incensurabile (che sarebbe Aronne) si affrettò a difenderli (c’è un intercessore); prese le armi del suo ministero,

la preghiera e il sacrificio espiatorio dell'incenso;

si oppose alla collera e mise fine alla sciagura,

mostrando che era tuo servitore.

Egli superò l'ira divina non con la forza del corpo,

né con l'efficacia delle armi;

ma con la parola placò colui che castigava,

ricordandogli i giuramenti e le alleanze dei padri.

I morti eran caduti a mucchi gli uni sugli altri,

quando egli, ergendosi lì in mezzo, arrestò l'ira

e le tagliò la strada che conduceva verso i viventi”. Questo è il motivo per cui le case nelle quali sono raccolti attorno alla mense gli ebrei in Egitto, quelle case nelle quali stanno celebrando il banchetto dell’Agnello, una prima volta per tutte, sono segnate con il sangue dell’Agnello. E il racconto, nel libro dell’Esodo, parla appunto di come lo “sterminatore” salta quelle case, le case nelle quali vengono cantate le lodi dei Padri. Ma questo è un fenomeno che si è riproposto nel corso della storia successiva e il popolo con cui Dio ha fatto alleanza è ancora un popolo che si trova coinvolto in vicende terribili, sconvolgenti; ed ecco l’intercessione è comunque operante e l’intercessione – qui attribuita ad Aronne, capostipite di tutti i sacerdoti, ma anche a Mosè, grande figura di intercessore – ha il significato di quel sangue che è stato usato per segnare le porte delle case in cui abitano gli ebrei in Egitto. E’ quello stesso significato che si perpetua; è il sangue dell’Agnello che ferma lo “sterminatore”. Ma quello che vale adesso per gli ebrei nel deserto, vale per gli egiziani perché in Egitto il sangue dell’Agnello, ma adesso la situazione è analoga: l’intercessione svolta da Aronne è equivalente al sangue dell’Agnello, ma per gli ebrei che nel deserto sono come gli egiziani. Ecco Aronne: “Sulla sua veste lunga fino ai piedi vi era tutto il mondo,

i nomi gloriosi dei padri intagliati

sui quattro ordini di pietre preziose

e la tua maestà sulla corona della sua testa.

Di fronte a questo lo sterminatore indietreggiò,

ebbe paura,

poiché un solo saggio della collera bastava”. La prova della morte.


Oblio e memoria

Cap. 19, vv. 1-12: “Sugli empi si riversò (adesso il mare; si va di seguito, dalla notte dei primogeniti, all’inseguimento fino a quando gli ebrei sono raggiunti ed ecco che il mare si apre. Ma quel che vale per gli ebrei, vale per gli egiziani) sino alla fine

uno sdegno implacabile,

perché Dio prevedeva anche il loro futuro,

che cioè, dopo aver loro permesso di andarsene

e averli fatti in fretta partire,

cambiato proposito, li avrebbero inseguiti (il faraone insegue gli ebrei dopo aver dato loro l’autorizzazione a partire). Mentre infatti erano ancora occupati nei lutti

e piangevano sulle tombe dei morti,

presero un'altra decisione insensata,

e inseguirono come fuggitivi

coloro che gia avevan pregato di partire.

Li spingeva a questo punto estremo un meritato destino,

che li gettò nell'oblio delle cose avvenute (dimenticanza; gli egiziani dimenticano. C’è questo oblio che è conseguente alla loro disperazione e il faraone lancia all’inseguimento la sua gente per raggiungere gli ebrei. Anche gli ebrei nel deserto ricordano, in contrapposizione all’oblio degli egiziani: gli egiziani dimenticano; gli ebrei ricordano), perché colmassero la punizione,

che ancora mancava ai loro tormenti,

e mentre il tuo popolo intraprendeva un viaggio straordinario (paradoxos o diporìa) essi incorressero in una morte singolare (la morte degli egiziani è inseparabile da questa novità straordinaria per cui gli ebrei che adesso hanno a che fare con il mare ricordano). Tutta la creazione assumeva da capo,

nel suo genere, nuova forma,

obbedendo ai tuoi comandi (la creazione è proprio trasformata; anche gli equilibri della natura sono ricomposti in obbedienza ad altre misure), perché i tuoi figli fossero preservati sani e salvi.

Si vide la nube coprire d'ombra l'accampamento,

terra asciutta apparire dove prima c'era acqua,

una strada libera aprirsi nel Mar Rosso

e una verdeggiante pianura in luogo dei flutti violenti;

per essa passò tutto il tuo popolo,

i protetti della tua mano,

spettatori di prodigi stupendi.

Come cavalli alla pastura

come agnelli esultanti,

cantavano inni a te, Signore, che li avevi liberati (questo è il famoso cantico che leggiamo in Esodo, 15). Ricordavano (gli egiziani si sono lanciati all’inseguimento degli ebrei perché hanno dimenticato; gli ebrei ricordavano) ancora i fatti del loro esilio,

come la terra, invece di bestiame, produsse zanzare,

come il fiume, invece di pesci, riversò una massa di rane.

Più tardi videro anche una nuova produzione di uccelli (questa loro memoria non soltanto rievoca il passato ma è in grado già di decifrare il futuro), quando, spinti dall'appetito, chiesero cibi delicati;

poiché, per appagarli, salirono dal mare le quaglie”. Gli ebrei portano con sé la memoria di questa novità che è opera di Dio, che coinvolge tutte le creature in obbedienza alla Sua volontà di vita. Gli ebrei hanno imparato ad accogliere questa rivelazione che piega tutti gli eventi nell’ordine naturale, in obbedienza alla sua volontà di vita. Gli egiziani se ne sono dimenticati, gli ebrei se ne ricordano e se ne ricorderanno. Questa memoria degli ebrei diventa pedagogica per gli egiziani, diventa testimonianza, evangelo per gli egiziani, perché i destinatari dell’Evangelo sono proprio gli egiziani.


Odio per lo straniero

Vv. 13-17: “Sui peccatori invece caddero i castighi

non senza segni premonitori di fulmini fragorosi;

essi soffrirono giustamente per la loro malvagità,

avendo nutrito un odio tanto profondo verso lo straniero”. Il nodo che rende così penosa, così dolorosa la storia umana: la misoxenia, l’odio per gli stranieri. In realtà il nostro maestro va esattamente nella direzione opposta, cioè dice che il senso della storia umana sta nel rivelarsi di Dio in quanto promotore di comunione. Quello che riguarda la relazione tra egiziani ed ebrei viene esattamente sintetizzato così: l’odio verso lo straniero, ma gli egiziani dimenticano e quante altre volte ancora gli uomini dimenticheranno e quante volte continuano a dimenticare. E, d’altra parte, gli ebrei “ricordano” e ricordano che la nostra è una storia unica, dove non si tratta di trovare lo schieramento vincente e finalmente potersi collocare all’interno di una situazione garantita, a scapito di tutto il resto e a danno di tutti gli altri. Non è così. Qui, il mistero di Dio che si rivela a noi porta con sé lo spappolamento e la disgregazione degli schieramenti, lo svuotamento di tutte quelle contrapposizioni a cui gli uomini sono abituati. E’ in atto un processo pedagogico per cui gli eventi si succedono con tanti riscontri; ma poi si dimenticano. E “riemerge l’odio contro lo straniero”. Il nostro maestro parla essendo dimorante in Egitto. Rievoca il famoso episodio di Sodoma, dove dimora Lot (Genesi 19). “Altri non accolsero ospiti sconosciuti ma costoro (rispetto a quell’episodio, ciò che avviene in Egitto è ancora peggio) ridussero schiavi ospiti benemeriti (nell’episodio che leggiamo in Gn. 19 alcuni ospiti sconosciuti vengono minacciati; ma, coloro che dimorano in Egitto, ospiti benemeriti, che già hanno dimostrato in tanti modi di essere presenze benefiche in Egitto; sono tenuti in schiavitù). Non solo: ci sarà per i primi un giudizio (qui c’è un problema di traduzione, Non solo: quale mai visita si attuerà per loro)perché accolsero ostilmente dei forestieri (Quale episcopì, quale episcopato per loro?); ma quelli (gli egiziani), dopo averli festosamente accolti, poi, quando già partecipavano ai loro diritti

li oppressero con lavori durissimi.

Furono perciò colpiti da cecità (è successo che gli egiziani sono diventati ciechi; è la storia di ieri, è la storia di oggi, è quel che si legge nel libro dell’Esodo, e di nuovo qui; la tenebra, la notte), come lo furono i primi alla porta del giusto (è l’episodio di Sodoma, a casa di Lot), quando avvolti fra tenebre fitte

ognuno cercava l'ingresso della propria porta (non trovavano il modo per muoversi, furono accecati, Gn. 19)”.


Nuova creazione: un disegno di comunione

Vv. 18-22. “Difatti gli elementi scambiavano ordine fra loro”. E’ proprio la fine di quel mondo che si esprime con il linguaggio della misoxenia, dell’odio per lo straniero, dell’odio per l’altro, della prepotenza che vuole dominare ed espellere, che vuole instaurare percorsi esclusivi che debbono affermarsi espellendo; e in realtà le conseguenze cui si va incontro sono quelle che sono state descritte in tanti modi. E’ la storia delle piaghe, ma è la storia di oggi, è la storia di sempre; è la storia del grande fallimento, del grande disastro, della grande sofferenza, della tribolazione che sconvolge tutto e tutti; ma è esattamente questo il contesto nel quale la Sapienza è presente e operante: il mistero del Dio vivente si rivela e non in termini dottrinali, teorici, con un insegnamento astratto, ma trasformando dall’interno questo grande crogiuolo di sofferenza in una nuova creazione. “Difatti gli elementi scambiavano ordine fra loro,

come le note di un'arpa variano la specie del ritmo,

pur conservando sempre lo stesso tono.

E proprio questo si può dedurre

dalla attenta considerazione degli avvenimenti:

animali terrestri divennero acquatici,

quelli che nuotavano passarono sulla terra.

Il fuoco rafforzò nell'acqua la sua potenza

e l'acqua dimenticò la sua proprietà naturale di spegnere.

Le fiamme non consumavano le carni

di animali gracili, che vi camminavano dentro,

né scioglievano quella specie di cibo celeste,

simile alla brina e così facile a fondersi”. Un dolore così straziante è dotato di una fecondità che il Dio vivente trasforma in principio di vita ritrovata, di vita nuova, riconciliata in un disegno di comunione a cui tutte le creature partecipano.

In tutti i modi, o Signore, hai magnificato

e reso glorioso il tuo popolo

e non l'hai trascurato

assistendolo in ogni tempo e in ogni luogo”. Per questo esiste il tuo popolo, per questo esistiamo noi, non per fare la bella figura di quelli che sono migliori degli altri e che possono vantare la propria vittoria sulla sconfitta altrui. Noi esistiamo per celebrare la lode della Tua Sapienza.