Incontri di discernimento e solidarietà
 
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Sapienza:


nell’intimo dei cuori e nella storia Dio si rivela e chiama l’uomo ad aprirsi al suo Mistero


Sesto incontro del ciclo 2008-2009

5 maggio 2009



L’idolatria: un orizzonte di stoltezza e infelicità



Siamo alle prese con la terza parte del libro che è la terza parte di un discorso elogiativo dedicato alla Sapienza, ossia al rivelarsi di Dio. La parte centrale, la seconda, è quella che contiene il vero e proprio elogio della Sapienza, fino a tutto il cap. 9; dal cap. 10 la terza parte che ci conduce fino alla fine. In questa terza parte il nostro maestro ci aiuta a mettere a fuoco come si è rivelata la presenza e si è compiuta l’iniziativa di Dio nella storia della salvezza, di quel popolo con cui Dio ha fatto alleanza ed è in questo modo che viene messo a fuoco un criterio che riguarda l’interpretazione della storia universale, di sempre, di tutta l’umanità. Il popolo dell’alleanza non è mai citato nel nome, tutto rimane sempre nell’anonimato, come vi facevo notare fin dalla volta scorsa. Dopo una prima carrellata di avvenimenti e di personaggi relativi alla fase originaria, preistorica per così dire, della storia della salvezza, dalla fine del cap. 10 siamo alle prese con gli eventi dell’Esodo, ma non se ne parla mai in modo esplicito; nel cap. 11 gli avvenimenti dell’Esodo sono messi in evidenza come lo snodo determinante della storia del popolo di Dio, di quella storia della salvezza che è poi il criterio interpretativo di come Dio si rivela, in quanto è Lui il protagonista che realizza le sue intenzioni e il criterio interpretativo della storia umana: il rivelarsi di Dio nella storia degli uomini, Dio che vuole la vita e instaura processi pedagogici dall’interno delle situazioni vissute, personalmente e comunitariamente, negli eventi che coinvolgono generazioni e quindi fenomeni culturali e configurazioni istituzionali; il rivelarsi di Dio per la vita, per la salvezza per dirla in termini teologici. Ma la salvezza è la vita, è il ritorno degli uomini a quella pienezza da cui essi si sono separati. Gli uomini hanno disimparato a vivere e, adesso, vengono ricondotti alla pienezza della vita: Sapienza di Dio perché è Lui il protagonista di questa impresa che non si realizza con un colpo di bacchetta magica, o con un decreto che cala dall’alto in modo autoritario, ma dal di dentro degli eventi che sono gestiti, sviluppati e intrecciati in modo meraviglioso, per dirla con un aggettivo che abbiamo incontrato alla fine del cap. 10, v. 17, e rispunta nelle pagine che seguono: un viaggio meraviglioso, una strada meravigliosa, un intreccio meraviglioso, una vicenda meravigliosa; tutto questo il nostro maestro ci sta dicendo in termini che sono il frutto della sua esperienza contemplativa e che trova in queste pagine un’occasione per esprimersi e trasmettersi a noi alla ricerca di una personale sintonia: un viaggio meraviglioso.

Abbiamo letto i capp. 11 e 12. Ci sono alcune grandi indicazioni che sono emerse nel contesto di questi capitoli. Mi limito a ricordare che il nostro maestro fa di tutto per segnalare l’intrinseca connessione tra ciò che nella storia degli uomini è la conseguenza del peccato – la ribellione, il rifiuto, il disastro, la corruzione e la morte – e la strada che si apre in una prospettiva di redenzione, di ricostruzione, di liberazione. La pena ha un valore redentivo; questo è un riferimento fondamentale su cui il nostro maestro ritorna insistentemente. C’è uno stretto legame tra la pena, che è conseguenza del peccato, e l’efficacia positiva, promozionale, salvifica di quella pena in ordine all’obiettivo che il Dio vivente intende realizzare: il ritorno alla sorgente della vita della creatura umana. A questo richiamo bisogna subito connetterne un altro: l’universalità del disegno per cui c’è una comunicazione all’interno della storia umana tra le diverse componenti, le diverse presenze, i diversi soggetti; coloro che sono presenti nella storia umana in quanto persone e in quanto popoli, figure istituzionali che assumono un rilievo corposo, organico, specifico anche se rimangono sempre nell’anonimato. E’ un aspetto che mi sembra importante nell’elaborazione teologica del nostro maestro, che ci ha invitato a considerare come gli ebrei, attraverso tutto quello che hanno sperimentato nel corso della loro avventura, hanno imparato a comprendere quale fu l’esperienza dolorosa e tragica degli egiziani; e, d’altra parte, proprio gli egiziani, attraverso quel che è capitato agli ebrei, hanno avvertito, percepito, intuito, la presenza santa, vivificante di Dio; si sono affacciati su un orizzonte nuovo. Di fatto c’è una solidarietà nella pena tra gli uni e gli altri: quel che consente agli ebrei di comprendere gli egiziani diventa per gli egiziani l’occasione per trovarsi inseriti in una prospettiva che fa di loro e della loro drammatica sconfitta, l’occasione propizia per affacciarsi sull’orizzonte meraviglioso nel quale il Dio vivente realizza la sua opera di misericordia. Dominante, fino alla fine del cap. 12, è proprio questa contemplazione dell’operosità misericordiosa di Dio nella storia umana. Non è una misericordia gridata al vento; non è nemmeno sentenziata nella forma di un condono per cui non si tiene conto delle malefatte compiute dagli uomini; è misericordia che si rivela al di dentro di una storia nella quale tutto il dramma del peccato umano è ricomposto, rielaborato, trasformato in crogiolo redentivo, e non per privilegiare alcuni a danno degli altri, ma all’interno di una vicenda nella quale il vissuto degli uni è inseparabile da quello degli altri e questo sia nel dramma del peccato come nella scoperta, sempre sconcertante e meravigliosa, delle nuove strade che si aprono per la vita. Eravamo giunti alla fine del cap. 12. Il nostro maestro ci ha parlato dell’idolatria degli egiziani, che poi è stata trasformata in punizione per loro: gli egiziani dediti al culto delle “vili bestiole”, che sono state proprio loro a punire il popolo idolatra (le rane, le zanzare, i calabroni, ecc.): è questa specie di criterio interpretativo a cui mi riferivo poco fa, questa specie di legge del contrappasso per cui il peccato porta in sé la sua pena. L’idolatria degli egiziani li ha esposti a tutti gli inconvenienti che hanno man mano eroso la loro posizione; in quel contesto ha preso avvio l’avventura meravigliosa degli ebrei che hanno attraversato il deserto. Ma anche gli ebrei hanno avuto a che fare con contraddizioni di ogni genere e anche gli ebrei – il nostro maestro a questo riguardo è più che mai informato – hanno dimostrato al momento opportuno di essere pronti a rinnegare, ad accettare inquinamenti con l’idolatria. D’altra parte è proprio l’esperienza degli ebrei che rivela come il dramma di una storia sbagliata è stato poi rielaborato come cammino di liberazione, di conversione, di incontro con la presenza misericordiosa del Dio vivente. Qui il nostro maestro si ferma e inserisce nei capp. 13, 14, 15 che noi adesso leggeremo, un intermezzo piuttosto ampio dedicato all’idolatria. E’ l’idolatria degli egiziani, ma anche degli ebrei che in tanti momenti della loro storia ne sono diventati complici. L’idolatria non abita solo in Egitto; è dilagante, ricorrente; rispunta di luogo in luogo e di tempo in tempo nel corso della storia umana con inflessibile e spietata capacità di inquinamento. Quando il nostro maestro ci parla di idolatria lo fa già nella prospettiva che ci ha illustrato precedentemente: l’idolatria porta con sé guasti invitabili, ma è inserita all’interno di una storia che rivela la misericordia di Dio in forza della quale quelle conseguenze terribili hanno in sé una fecondità redentiva. Ce ne renderemo sempre meglio conto nella lettura dei capitoli seguenti: proprio il costante rapporto tra ebrei ed egiziani consiglierà al nostro maestro di proseguire nella sua contemplazione e suggerire a noi ulteriori spunti perché anche noi impariamo a scorgere l’opera misericordiosa di Dio nella meraviglia di questa storia umana, dove nulla del disastro che l’inquina sfugge alla Sapienza che salva per la vita.

Siamo ai capitoli 13, 14 e 15, dove Il maestro individua tre fondamentali modalità di idolatria. In realtà è la seconda di questa terna che verrà soprattutto messa in evidenza. Prima modalità: la divinizzazione della forza della natura; sono i primi nove versetti nel cap. 13. Seconda modalità: la divinizzazione dei prodotti dell’attività umana; è la modalità che occupa lo spazio principale; uno svolgimento amplissimo che va dal v. 10 del cap. 13 al v. 17 del cap. 15. Terza modalità: la divinizzazione degli animali; questa terza tipologia si condensa in soli due versetti (18-19 del cap. 15).


Stolti, perché incapaci di vedere l’autore della bellezza

Cap. 13, vv. 1-9. Possiamo suddividere il testo in tre strofe; la prima strofa, vv. 1 e 2, poi da 3 a 5, quindi gli altri versetti. “Davvero stolti per natura tutti gli uomini

che vivevano nell'ignoranza di Dio.

e dai beni visibili non riconobbero colui che è,

non riconobbero l'artefice, pur considerandone le opere.

Ma o il fuoco o il vento o l'aria sottile

o la volta stellata o l'acqua impetuosa

o i luminari del cielo

considerarono come dèi, reggitori del mondo”. La stoltezza degli uomini sta in questa dimostrata inettitudine a passare dalle creature al Creatore; e gli uomini si sono fermati a considerare il fuoco, il vento, l’aria, il movimento delle stelle, l’acqua che scorre impetuosa, il sole, la luna come dèi, reggitori del mondo. Gli uomini, dice il versetto 1 “vivevano nell’ignoranza di Dio”; sono ancora estranei a una relazione con Lui perché l’ignoranza di Dio non è solo un fatto che riguarda semplicemente le capacità concettuali, intellettuali, raziocinanti dell’uomo: è il mancato coinvolgimento in una relazione vitale con Dio, ed ecco come gli uomini si sono rivolti alle realtà grandiose, impressionanti, a loro modo sconvolgenti, registrate nell’ordine naturale, e hanno identificato queste realtà come dèi reggitori del mondo.

Seconda strofa: “Se, stupiti per la loro bellezza, li hanno presi per dèi,

pensino quanto è superiore il loro Signore(sono creature splendide, bellissime, ma – dice il nostro maestro – pensino quanto è superiore il loro Signore). Se sono colpiti dalla loro potenza e attività,

pensino da ciò

quanto è più potente colui che li ha formati.

Difatti dalla grandezza e bellezza delle creature

per analogia si conosce l'autore”. Il nostro maestro comprende bene come gli uomini sono rimasti impressionati e affascinati da questa manifestazione di bellezza che è nelle creature, ma ribadisce a maggior ragione, “per analogia”, la bellezza e la grandezza del Creatore.

Terza strofa: “Tuttavia per costoro leggero è il rimprovero(è la prima modalità in cui si è espressa l’idolatria degli uomini e il maestro dice che tutto sommato questa forma di ignoranza, di mancato coinvolgimento totale con il Dio vivente è meno colpevole di quello che dirà successivamente, perché è pur sempre il segno di una ricerca di Dio, anche se è una ricerca che ha preso una piega deviante che non è scusabile; però è comunque una testimonianza che ha una sua positività e poi nessuno può mettere in dubbio che le creature divinizzate da questa idolatria sono creature dotate di qualità stupefacenti, non c’è dubbio),

perché essi forse s'ingannano

nella loro ricerca di Dio e nel volere trovarlo(comunque sono alla ricerca di Dio). Occupandosi delle sue opere, compiono indagini,

ma si lasciano sedurre dall'apparenza,

perché le cosa vedute sono tanto belle.

Neppure costoro però sono scusabili,

perché se tanto poterono sapere da scrutare l'universo,

come mai non ne hanno trovato più presto il padrone?”.


Infelici, perché adoratori di oggetti umani

Seconda tipologia e qui abbiamo a che fare con un testo ampio (dal cap 13, v. 10 fino al cap. 15, v. 17). Tenete presente che il testo può essere ulteriormente suddiviso in sei svolgimenti; sono sei momenti di una riflessione che il nostro maestro mette insieme con la solita delicatezza e energia intellettuale. Primo svolgimento: dal v. 1 del cap. 13 al v. 11 del cap. 14. In questo primo svolgimento ci dà una sommaria descrizione di quello che è il culto degli idoli, intesi ora non come forze della natura che stanno al loro posto e attraggono l’attenzione e la commozione degli uomini, ma oggetti fabbricati. “Infelici sono coloro (ricordate che la sezione precedente si apriva con “stolti”, v. 1, del cap. 13; adesso “infelici”; questa tipologia dell’idolatria umana viene inquadrata sotto una sentenza che già anticipa quello che sarà l’esito finale di tutta la disamina come un cammino che è tutto proteso all’infelicità) le cui speranze sono in cose morte

e che chiamarono dèi i lavori di mani d'uomo,

oro e argento lavorati con arte,

e immagini di animali,

oppure una pietra inutile, opera di mano antica(un oggetto fabbricato da mani d’uomo). Se insomma un abile legnaiuolo,

segato un albero maneggevole,

ne raschia con diligenza tutta la scorza

e, lavorando con abilità conveniente,

ne forma un utensile per gli usi della vita;

raccolti poi gli avanzi del suo lavoro(notate che qui al centro dell’attenzione c’è il lavoro umano ed è un lavoro stimato, apprezzato, il lavoro di un uomo che sa il fatto suo) li consuma per prepararsi il cibo e si sazia. Quanto avanza ancora(l’idolatria vien fuori da quel che avanza ancora e vedete che questo modo di portare il discorso spiega fin dall’inizio che l’idolatria non è semplicemente il culto di quel che gli uomini producono con il loro lavoro, ma è esattamente il ripiegamento su quel che gli uomini sono in grado di fare quando si dedicano al superfluo. Non è il lavoro umano che di per sé costruisce l’idolo; è proprio l’opposto, è il ripiegamento dell’attività umana su quelle potenzialità di produrre ciò che squalifica il lavoro; non è il frutto del lavoro, è la squalifica, il deprezzamento, la banalità del lavoro; l’idolatria è un insulto che offende il lavoro, un insulto che costringe il lavoro umano a dedicarsi al superfluo), buono proprio a nulla,

legno distorto e pieno di nodi,

lo prende e lo scolpisce per occupare il tempo libero;

senza impegno, per diletto, gli dà una forma,

lo fa simile a un'immagine umana

oppure a quella di un vile animale.

Lo vernicia con minio, ne colora di rosso la superficie

e ricopre con la vernice ogni sua macchia;

quindi, preparatagli una degna dimora,

lo pone sul muro, fissandolo con un chiodo.

Provvede perché non cada,

ben sapendo che non è in grado di aiutarsi da sé;

esso infatti è solo un'immagine e ha bisogno di aiuto”. L’idolatria come sconfessione del lavoro; l’attività umana che rinnega la qualità positiva, benefica del lavoro che corrisponde peraltro alla vocazione originaria che il Creatore ha assegnato alla creatura; idolatria come elaborazione che lì per lì sembra giocosa, scherzosa, quasi spensierata, dedicata al superfluo. Ma quel superfluo acquisisce un valore divino, sacro, assoluto. E c’è un passaggio ulteriore nel vv. 17, 18, 19: “Eppure quando prega per i suoi beni per le sue nozze e per i figli,

non si vergogna di parlare a quell'oggetto inanimato(qui interviene la preghiera che diventa essa stessa un idolo nel senso di un superfluo di ordine emotivo. C’è un superfluo che è nell’ordine delle cose e c’è un superfluo che è nell’emotività umana e si salda con il superfluo che, come dato empirico, è stato collocato nella nicchia; ed ecco la devozione) per la sua salute invoca un essere debole,

per la sua vita prega un morto:

per un aiuto supplica un essere inetto,

per il suo viaggio chi non può neppure camminare;

per acquisti, lavoro e successo negli affari,

chiede abilità ad uno che è il più inabile di mani”. La situazione si sta arricchendo di elementi: la produzione dell’idolo che è inseparabile da questa devozione che trae fuori dall’animo umano quel che è un trasudamento di emozioni superflue in corrispondenza a quel che l’idolo rappresenta fisicamente come produzione di un lavoro superfluo, di un lavoro che è proprio banalizzato rispetto alla vocazione al lavoro dell’uomo.

E insiste, siamo al cap. 14. E’ uno dei testi più famosi dell’Antico Testamento per quanto riguarda la cosiddetta dignità del lavoro: “Anche chi si dispone a navigare e a solcare onde selvagge

implora un legno più fragile della barca che lo porta”. Che contraddizione: gli uomini sono capaci di costruire un bastimento e poi si rivolgono a un legno più fragile della barca che li porta. Siamo nell’ordine del superfluo; noi siamo dentro in pieno alla civiltà del superfluo; superfluo nei dati oggettivi, ma superfluo nelle aspirazioni, nel desiderio, nello slancio, nelle emozioni, nel bisogno, nel pianto, nel lamento, nella sofferenza: “ho perso il superfluo”, siamo dentro in pieno. “Questa, infatti, fu inventata dal desiderio di guadagni

e fu costruita da una saggezza artigiana;

ma la tua provvidenza, o Padre, la guida (sono i tre elementi che il nostro maestro mette in risalto per quanto riguarda il lavoro umano: c’è una tensione, un desiderio che sta a monte e una tecnica che viene man mano elaborata, una saggezza artigiana per raggiungere l’obiettivo, ma su tutto è poi determinante “la tua provvidenza, o Padre”. Vedete che meraviglia quando si arriva finalmente a rendere capace di galleggiare, di navigare il bastimento, il massimo prodotto tecnologico dell’antichità) perché tu hai predisposto una strada anche nel mare(vedete come il lavoro dell’uomo si inserisce in un contesto teologico, per così dire; questo è scontato per il nostro maestro, il lavoro non è un’impresa titanica che vuole opporsi all’iniziativa di Dio, ma si inserisce nella provvidenza sapientissima del Dio vivente che rende navigabile il mare), un sentiero sicuro anche fra le onde,

mostrando che puoi salvare da tutto,

sì che uno possa imbarcarsi anche senza esperienza(anche se uno non sa guidare la nave, la nave lo porta; c’è tutta questa solidarietà tra le varie competenze: l’abilità artigianale degli uni, la capacità di discernere le correnti marine, i venti; tutto un complesso di competenze che sono coordinate all’interno di un unico disegno immenso, grandioso, affascinante. Ecco la nave. Ma, a questo punto, perché ti rivolgi al legno?). Tu non vuoi che le opere della tua sapienza siano inutili;

per questo gli uomini affidano le loro vite

anche a un minuscolo legno(una barca)

e, attraversando i flutti con una zattera, scampano”. E’ il lavoro dell’uomo immerso in una provvidenziale, gratuita e costante presenza del Dio vivente che è fedele nel perseguire le sue intenzioni: “Tu non vuoi che le opere della tua sapienza siano inutili. Anche in principio(qui rievoca il diluvio), mentre perivano giganti superbi,

la speranza del mondo(Noè), rifugiatasi in una barca,

lasciò al mondo la semenza di nuove generazioni,

grazie alla tua mano che la guidava(è in questo contesto che il lavoro dell’uomo si inserisce, in questa continuità con l’iniziativa del Creatore, in questa adesione alla grandezza e originalità sempre creativa dei Suoi disegni. L’idolatria è l’avvilimento del lavoro umano. Questo è fondamentale per il nostro maestro: quando parla dell’idolo come il prodotto dell’attività umana, parla dell’idolo come l’avvilimento, il tradimento, il rinnegamento del lavoro: questo deve essere chiarissimo. C’è di mezzo un modo di guardare, di contemplare la storia umana, la storia della civiltà umana. V. 7: “È benedetto il legno con cui si compie un'opera giusta(l’arca è benedetta, è il prodotto del lavoro benedetto), ma maledetto (il lavoro diventa fonte di maledizione quando è avvilito in rapporto all’inutilità del superfluo che è nelle cose)l'idolo opera di mani e chi lo ha fatto;

questi( l’artefice) perché lo ha lavorato,

quello(l’opera) perché, corruttibile, è detto dio(benché corruttibile, benché prodotto di mano umana, benché sia l’obiettivo di desideri umani e benché sia inutile tradimento della vocazione al lavoro degli uomini). Perché sono ugualmente in odio a Dio (l’artefice e l’opera) l'empio e la sua empietà;

l'opera e l'artefice saranno ugualmente puniti.

Perciò ci sarà un castigo anche per gli idoli dei pagani,

perché fra le creature di Dio son divenuti un abominio,

e scandalo per le anime degli uomini,

laccio per i piedi degli stolti”.


La cosificazione delle persone e il culto dell’inesistente

Secondo svolgimento, dal v. 12 al v. 21: (dopo questa pagina di carattere descrittivo vuole aiutarci a trovare l’origine dell’idolatria, l’invenzione degli idoli) “L'invenzione degli idoli fu l'inizio della prostituzione(l’idolatria sta per prostituzione; prostituzione per il nostro maestro vuol dire la vanità di una relazione umana cosificata, quella relazione interpersonale in cui la persona umana è ridotta a cosa. Questa cosificazione della persona umana è l’origine dell’idolatria. L’idolatria è un fenomeno di prostituzione; è la prostituzione per eccellenza. E’ il modo per impiantare la vita degli uomini, la società umana, e dare dall’interno di questa pretesa umana un senso alla storia che poi è un senso odioso, portatore di maledizione, che è determinato da questo ripiegamento originario per cui la persona umana è ridotta a una cosa. E’ la relazione interpersonale che è originariamente deviata), la loro scoperta portò la corruzione nella vita.

Essi non esistevano al principio né mai esisteranno(non esisteranno mai nel senso che gli idoli non esistono, ma sono la costruzione abusiva, superflua di questa iniziativa umana che è radicalmente impostata a partire dalla pretesa di ridurre la creatura a una cosa; tutto viene cosificato per quanto riguarda le relazioni, a partire da una cosa che cerca delle cose). Entrarono nel mondo per la vanità dell'uomo(gli idoli), per questo è stata decretata per loro una rapida fine.

Un padre (fa due esempi: primo esempio, vv.15-16), consumato da un lutto prematuro,

ordinò un'immagine di quel suo figlio così presto rapito,

e onorò come un dio chi poco prima era solo un defunto

ordinò ai suoi dipendenti riti misterici e di iniziazione”. Questo padre, nell’impressione del nostro maestro, è riuscito a trasformare il figlio defunto in una cosa ed è riuscito a concentrare il suo affetto verso il figlio defunto su quella cosa. E’ una situazione delicatissima; è un lutto grave, doloroso, il figlio che muore prima del padre; c’è di mezzo tutta un’elaborazione interiore che riesce a dare forma agli affetti che, invece di aprire a una relazione, chiude dentro una prigione luttuosa. “Poi l'empia usanza, rafforzatasi con il tempo,

fu osservata come una legge”. E’ l’immagine di quel figlio morto prematuramente: l’affetto è concentrato su quell’immagine ed è imposto tutto un impianto della vita familiare, della vita comunitaria, della vita sociale in obbedienza a quella immagine. Il nostro maestro vuole dirci che l’idolatria sta in questa pretesa di ridurre la persona umana a una cosa e c’è in questa riduzione una produzione di valori superflui che conferiscono a quella cosa un prestigio mistico, artistico, divino.

Secondo esempio, v. 17: “Le statue si adoravano anche per ordine dei sovrani(qui non abbiamo a che fare con una situazione familiare – padre, figlio, un lutto – ma con l’organizzazione della società umana e il sovrano mette a disposizione la propria immagine e impone il culto che sia dedicato all’immagine di sé) e i sudditi, non potendo onorarli di persona a distanza(perché il sovrano sta nella capitale), riprodotte con arte le sembianze lontane,

fecero un'immagine visibile del re venerato,

per adulare con zelo l'assente, quasi fosse presente”. Vedete come qui l’idolatria viene colta nell’organizzazione della società umana, laddove l’obbedienza viene rivolta all’immagine del sovrano; riuscire a imporre il potere del sovrano come una cosa è un’impresa entusiasmante, travolgente che per certi versi sembra risolutiva perché non ci sono più limiti, non ci sono più distanze che valgano come impedimento, non ci sono più altre mediazioni a cui bisognerebbe ricorrere, non ci sono testimonianze; non conta più niente. Una volta che si è riusciti a ridurre la presenza del sovrano a una cosa, rispetto a quella cosa viene imposta e ottenuta una devozione che è propriamente religiosa e il gioco del potere è perfettamente attuato. “Si tratta di adulare con zelo l’assente, quasi fosse presente”. Non importa più la relazione, ma importa la cosa; e questo passaggio dalla relazione interpersonale alla cosa – anche questo è un fenomeno di prostituzione – assume un valore mitico. C’è di mezzo poi, come adesso ci dirà successivamente, l’intervento degli artisti, a suo modo prestigioso e per altri versi pericoloso, perché gli artisti sono al servizio di questo gioco idolatrico; una volta che non si ha più a che fare con la persona ma con la cosa, quella cosa ha acquisito un valore divino.


Anche l’arte può sviare

V. 18: “All'estensione del culto

anche presso quanti non lo conoscevano,

spinse l'ambizione dell'artista(c’è di mezzo anche il “teknitis”, l’artista; anche lui deve farsi spazio, “cosificare” le sue qualità che sono di per sé dono di Dio al servizio delle relazioni interpersonali; ma se l’artista riesce a ridurre le sue qualità, così importanti nel contesto della vita sociale, a “cose” funzionali a tutto il meccanismo che produce “cose” in questa maniera impone l’esercizio di un potere sacro, per cui non si ha più a che fare con il sovrano ma con una cosa). Questi infatti, desideroso di piacere al potente,

si sforzò con l'arte di renderne più bella l'immagine;

il popolo, attratto dalla leggiadria dell'opera,

considerò oggetto di culto

colui che poco prima onorava come uomo.

Ciò divenne un'insidia ai viventi, perché gli uomini,

vittime della disgrazia o della tirannide(il padre e il sovrano),

imposero a pietre o a legni un nome incomunicabile”: il nome indicibile di “Dio”.


La conseguenza dell’idolatria: l’altro è nemico

Dal v. 22 al v. 27. Terzo svolgimento: le conseguenze dell’idolatria. “Poi non bastò loro sbagliare circa la conoscenza di Dio;

essi, pur vivendo in una grande guerra d'ignoranza,

danno a sì grandi mali il nome di pace”. L’idolatria produce una grande guerra – dice il nostro maestro – ma subito aggiunge che questa grande guerra viene comunemente barattata come una pace: è una grande guerra, che porta con sé mali grandiosi, ma a tutto questo vien dato il nome di pace. Questa menzogna che trasforma la grande guerra nella quale di fatto gli uomini si sono inseriti in seguito all’instaurazione dell’idolatria, viene proclamata, annunciata, vagheggiata, esaltata come pace. Imbroglio. Vediamo meglio: due strofe, vv. 23 a 27, e poi vv. da 28 a 31 e qui due considerazioni che vogliono illustrare ciò che ha affermato nel v. 22, cioè come l’idolatria produca una grande guerra, come la nostra condizione umana sia coinvolta in una grande guerra in seguito all’idolatria, in rapporto e come conseguenza dell’idolatria.

Celebrando iniziazioni infanticide o misteri segreti(qui il maestro parla di tutto un complesso di riti che negano la vita nel senso che è negata la presenza dell’altro. Siamo sempre alle prese con l’indicazione che sta a fondamento di tutta la ricerca teologica del nostro maestro e cioè la riduzione della persona a cosa. Qui l’idolatria si insedia, si organizza e si esprime nella società umana come negazione della vita che diventa un cerimoniale a cui si obbedisce, a cui si sottostà, a cui ci si adegua quasi con devozione, anzi senz’altro con un senso come di necessità sacra: la negazione della presenza altrui) o banchetti orgiastici di strani riti

non conservano più pure né vita né nozze

e uno uccide l'altro a tradimento

o l'affligge con l'adulterio(tutti i rapporti interpersonali sono disordinati; è negata la vita ed emerge con una certa visibilità il disordine nella vita matrimoniale, che è la relazione interpersonale per eccellenza). Tutto è una grande confusione sangue e omicidio, furto e inganno,

corruzione, slealtà, tumulto, spergiuro;

confusione dei buoni, ingratitudine per i favori,

corruzione di anime, perversione sessuale,

disordini matrimoniali, adulterio e dissolutezza.

L'adorazione di idoli senza nome

è principio, causa e fine di ogni male”. Grande guerra così come adesso viene illustrata nel contesto di un’organizzazione della società umana che assume la negazione della vita – e della vita altrui – come una procedura rituale. L’altro deve essere sconfitto. Disordine, confusione, grande guerra.


La negazione di sé e della parola data

Seconda strofa, vv. 28-31. Il nostro maestro dice qualcosa di più perché non sono soltanto i riti della negazione della vita che devono essere registrati: l’altro deve essere, proprio in termini liturgici, destinatario di tutto l’impegno che è necessario, perché scompaia. “Gli idolatri infatti

o delirano nelle orge o sentenziano oracoli falsi

o vivono da iniqui o spergiurano con facilità(il punto è che l’idolatria produce la grande guerra attraverso la negazione sistematica – negazione che acquista caratteristiche liturgiche, rituali, cerimoniali – della propria parola, di sé, della propria coerenza. Nel caso precedente la negazione dell’altro – sono illustrazioni inseparabili tra di loro, interconnesse – adesso la negazione di sé e della propria coerenza, della propria identità, autenticità perché è ritualmente suscitata dall’idolatria con la necessità liturgica la negazione della propria parola). Ponendo fiducia in idoli inanimati

non si aspettano un castigo per avere giurato il falso(si aspettano semmai un premio, un applauso e questo non è un caso particolare, è la logica dell’idolatria che produce la grande guerra. Questa è la grande guerra in atto: “non si aspettano un castigo per avere giurato il falso”. Non è più in questione la negazione dell’altro che deve essere sconfitto, smontato, distrutto, ma è la negazione di sé; è l’autodistruzione, la grande guerra, la catastrofe). Ma, per l'uno e per l'altro motivo,

li raggiungerà la giustizia,

perché concepirono un'idea falsa di Dio,

rivolgendosi agli idoli (in seguito a questo disordine, che è divenuto sistema dominante nel modo di amministrare se stessi, di gestire il proprio vissuto, di interpretare dall’interno la propria vocazione e l’autenticità della propria presenza nel mondo, c’è la distruzione: l’idolatria produce conseguenze che sono inevitabili, sono effetti che scaturiscono dal di dentro di un percorso che ha conferito a quel disordine un valore sacro. E’ un dovere religioso, un’idea falsa di Dio), e perché spergiurarono con frode,

disprezzando la santità.

Infatti non la potenza di coloro per i quali si giura,

ma il castigo dovuto ai peccatori

persegue sempre la trasgressione degli ingiusti”. L’idolatria procede inesorabilmente verso il disastro. Disordine nei rapporti interpersonali, nel discernimento della propria personale vocazione; grande guerra. Sono cose di una potenza straordinaria e di un’attualità che è proprio micidiale. L’obiettivo di chi si interroga circa la propria vocazione è raggiungere una cosa, non l’autenticità nella propria coscienza che risponde a una vocazione.


Ma l’uomo appartiene a Dio

Quarta sezione: “Ma tu (adesso c’è un fatto, c’è Israele), nostro Dio, sei buono e fedele(questa, che è la storia fatta dagli uomini, quindi storia idolatrica, è una storia redentiva; è proprio questa storia, nella quale tutte le conseguenze tragiche dell’idolatria sono nell’esperienza nostra e di tutti, che “tu hai intersecato, incrociato, reso strumento della tua opera di salvezza”. Ci siamo noi, il popolo dell’alleanza che ancora una volta non è citato per noi), sei paziente e tutto governi secondo misericordia(è storia di salvezza). Anche se pecchiamo, siamo tuoi,

conoscendo la tua potenza;

ma non peccheremo più, sapendo che ti apparteniamo(è un popolo di peccatori, ma è un popolo che ti conosce per come Tu ti sei fatto conoscere, è un popolo che appartiene a te perché Tu ci hai interpellati). Conoscerti, infatti, è giustizia perfetta,

conoscere la tua potenza è radice di immortalità.

Non ci indusse in errore

né l'invenzione umana di un'arte perversa,

né la sterile fatica dei pittori,

immagini deturpate di vari colori,

la cui vista provoca negli stolti il desiderio,

l'anelito per una forma inanimata di un'immagine morta(ricordate quella chiave interpretativa su cui mi ero soffermato: noi siamo quelli che comprendiamo ciò che patiscono gli egiziani, che comprendiamo come è doloroso lo svolgimento di questa storia umana che è preda del disordine, “noi”; ma “loro”, gli egiziani, proprio attraverso questo dialogo con noi, dentro una storia che è unica per noi e per loro, sono in grado di avvertire come la presenza del Dio vivente apra strade meravigliose).


Gli amanti del male

Quinto svolgimento: l’estrema conseguenza dell’idolatria: “Amanti del male e degni di simili speranze

sono coloro che fanno, desiderano e venerano gli idoli(estrema conseguenza dell’idolatria, per dirla in modo essenziale, è quanto afferma in questo versetto: l’amore per il male, non soltanto sperimentato come conseguenza inevitabile delle proprie scelte, non soltanto come un riscontro estrinseco del proprio vissuto, ma il male come il vero contenuto della scelta, il vero obiettivo dell’amore). Un vasaio (fa un esempio), impastando con fatica la terra molle,

plasma per il nostro uso ogni sorta di vasi.

Ma con il medesimo fango modella

e i vasi che servono per usi decenti

e quelli per usi contrari, tutti allo stesso modo;

quale debba essere l'uso di ognuno di essi

lo stabilisce il vasaio.

Quindi con odiosa fatica plasma

con il medesimo fango un dio vano(dopo aver impastato vasi di ogni sorta plasma un dio vano con il medesimo fango), egli che, nato da poco dalla terra(una creatura minuscola) tra poco ritornerà là da dove fu tratto,

quando gli sarà richiesto l'uso fatto dell'anima sua.

Ma egli non si preoccupa di morire

né di avere una vita breve;

anzi gareggia con gli orafi e con gli argentieri,

imita i lavoratori del bronzo

e ritiene un vanto plasmare cose false(non è nient’altro che un vasaio che non si è fatto da solo, che non si gestisce da solo, che non si possiede; eppure ha la pretesa di strumentalizzare tutto e di ridurre tutto come oggetto; che, nel contesto di quella frana che travolge dall’interno la storia umana, diventa un riferimento sacro, un valore assoluto: l’idolo. E il maestro parla di questo vasaio non semplicemente come prima ci parlava dell’artista, del lavoro superfluo dedicato a queste imprese; qui c’è di mezzo – dopo opportuni approfondimenti, elaborazioni sempre più consapevoli nella sofisticazione dell’iniziativa umana, pensieri, desideri – la pretesa, ormai esercitata in modo assoluto, senza ammettere repliche o contestazioni di sorta, di strumentalizzare tutto, anche il male ritenuto vantaggioso. Anche il male; “ritiene un vanto plasmare cose false”, v. 9). Cenere è il suo cuore,

la sua speranza più vile della terra,

la sua vita più spregevole del fango,

perché disconosce il suo creatore,

colui che gli inspirò un'anima attiva

gli infuse uno spirito vitale.

Ma egli considera un trastullo la nostra vita,

l'esistenza un mercato lucroso(tutto è vantaggioso e tutto vale in quanto è vantaggioso e il male è acquisito, esso stesso, come un valore di riferimento in quanto è vantaggioso) Egli dice: «Da tutto, anche dal male,

si deve trarre profitto».

Costui infatti più di tutti sa di peccare(altre figure considerate precedentemente non sanno di peccare, si trovano dentro alla grande guerra, ma è arrivato il punto terminale della catastrofe) fabbricando di materia terrestre

fragili vasi e statue”.


Il massimo della stupidità: scegliere la morte anziché la vita

Sesto e ultimo svolgimento, vv. 14-17: il massimo della stoltezza. Ci aspetteremmo che, giunti a questo punto, non c’è altro da aggiungere e invece c’è ancora qualcosa perché quel vasaio sa di peccare, sa di fabbricare oggetti di poco conto, mentre – dice adesso, massima stoltezza – gli egiziani, non citati per nome, sono come dei bambini stupidi e capricciosi che considerano gli idoli che condizionano tutto della loro vita, come realmente le divinità a cui devono sottostare. Almeno il vasaio sa che ha fabbricato oggetti che non valgono niente, che servono all’interno del discorso che anche il male deve essere usato per il proprio interesse. “Ma sono tutti stoltissimi

e più miserabili di un'anima infantile

i nemici del tuo popolo (gli egiziani), che lo hanno oppresso.

Essi considerarono dei anche tutti gli idoli dei pagani(non soltanto i propri idoli ma anche quelli degli altri), i quali non hanno né l'uso degli occhi per vedere,

né narici per aspirare aria,

né orecchie per sentire,

né dita delle mani per palpare;

e i loro piedi sono incapaci di camminare.

Un uomo li ha fatti,

li ha plasmati uno che ha avuto il respiro in prestito.

Ora nessun uomo può plasmare un dio a lui simile;

essendo mortale, una cosa morta produce con empie mani.

Egli è sempre migliore degli oggetti che adora,

rispetto a essi possiede la vita, ma quelli giammai(gli egiziani, bambini sciocchi, stoltissimi, dice qui, senza sentimenti, stupidissimi, sono davvero convinti che gli idoli sono dei, ci credono veramente; è proprio l’idolatria acquisita come la stessa possibilità di esistere, l’unico modo possibile per esistere. Questa divinizzazione delle cose. Quest’uomo mortale ha prodotto una cosa morta; alla resa dei conti è il massimo della stupidità, una stupidità tragica: l’idolatria è il culto della morte, è una scelta di morte divenuta criterio unico, assoluto e definitivo in base al quale si interpreta tutto).


Il culto delle bestie

Cap. 15, vv. 18-19. Terza sezione di questa analisi dedicata all’idolatria: il culto delle bestie, l’idolo come animale. Ritorniamo allo spunto originale, quello riguardante le bestiole venerate dagli egiziani e d’altra parte attraverso le bestiole sono stati puniti: “Venerano gli animali più ripugnanti,

che per stupidità

al paragone risultan peggiori degli altri(gli animali più ripugnanti. Sotto sotto c’è il richiamo al culto della bestia maledetta, qualcosa di satanico; non più soltanto il culto della morte ma il culto del mostro); non sono tanto belli da invogliarsene,

come capita per l'aspetto di altri animali,

e non hanno avuto la lode e la benedizione di Dio”.