Incontri di discernimento e solidarietà
 
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Sapienza:


nell’intimo dei cuori e nella storia Dio si rivela e chiama l’uomo ad aprirsi al suo Mistero


Quinto incontro del ciclo 2008-2009

7 aprile 2009


L’Esodo, evento paradigmatico:

la vicenda di un mondo pagano diventa storia della salvezza



Il nostro maestro ha impostato il suo solenne discorso elogiativo dedicato alla Sapienza di Dio, nel senso teologico del termine, ossia dedicato al rivelarsi di Dio. Ed è proprio questo rivelarsi di Dio che rende possibile all’uomo rispondere efficacemente alla vocazione alla vita che gli è stata donata, superando la sua condizione di radicale insufficienza. Dio, che ci ha chiamati, ci viene incontro. La Sapienza è il rivelarsi di Dio, sorgente della vita: si presenta a noi come interlocutore che ci coinvolge in una relazione che diventa il nostro modo di affrontare tutte le relazioni e il nostro modo di realizzare la vocazione alla vita. Il vero e proprio discorso elogiativo sta nella seconda parte, quella centrale del nostro libro, dal cap. 6 al cap. 9. Le pagine dal cap. 10 costituiscono la terza parte del discorso (che assume una posizione piuttosto qualificata nell’economia complessiva dello scritto; sono ben 10 capitoli su 19). Il nostro maestro ci vuole aiutare a discernere quali sono le costanti dell’agire di Dio nella storia umana; il suo modo di rivelarsi e di essere presente e operante, così da aprire quelle strade percorrendo le quali gli uomini sono ricondotti alla pienezza della vita. Il cammino della conversione alla vita, per coloro che hanno perso il contatto con quella sorgente; il cammino della rieducazione alla vita, per coloro che hanno frainteso la propria vocazione, è aperto e il nostro maestro ci aiuta a individuare quali sono i percorsi che la sapienza di Dio ha tracciato; quei percorsi che già sono stati documentati, illustrati e che assumono un valore esemplare, universale e sempre attuale. Il nostro maestro si rifà a quell’itinerario rivelativo che si è venuto delineando nel corso della storia umana e che noi chiamiamo “storia della salvezza”. Nel cap. 10 abbiamo incontrato i volti e le testimonianze di alcuni tra i grandi personaggi delle tappe più antiche, arrivando a quell’evento su cui il nostro maestro si sofferma e che rappresenta uno snodo così pregnante che tutti gli altri avvenimenti fanno capo ad esso: si tratta di tutto quello che riguarda l’Esodo, l’uscita dall’Egitto e tutti gli avvenimenti collaterali che si intrecciano con l’Esodo ricapitolando tanti passaggi e tanti personaggi. Il personaggio dominante in questo contesto è certamente Mosè. Non dimenticate che il nostro maestro vive, studia, insegna e sviluppa la sua catechesi teologica in Egitto che per lui, quindi, non è una reminiscenza del passato ma il mondo dei pagani nel quale egli vive e opera. Parla dell’Egitto di ieri, dell’Egitto di oggi, dell’Egitto di sempre; parla del mondo, con quelle che sono le note mutevoli ma ricorrenti della storia umana; è la storia del mondo pagano, ma è all’interno di quella vicenda umana nella quale Dio si è rivelato: ecco la Sapienza che ci è venuta incontro. L’Esodo. E Mosè, come personaggio che svolge un ruolo insostituibile in quel contesto, costituisce lo snodo decisivo di tutta la storia della salvezza in modo tale che tutti gli eventi che precedono e che poi seguiranno, sono già ricapitolati e, dunque, componenti intrinseche di questo avvenimento che il nostro maestro vuole adesso studiare, con tutta la competenza di cui è dotato. E da quell’evento vuol trarre indicazioni che ritiene permanentemente valide in ordine al discernimento che gli sta a cuore: quali sono le strade da percorrere per corrispondere a quell’iniziativa del Dio vivente che si è rivelato a noi. E, d’altra parte, è soltanto nell’incontro con Lui che si realizza quella svolta decisiva da cui dipende il ritorno alla pienezza della vita. E’ Dio stesso che si è preso la briga di venirci incontro, è Lui che ha aperto le strade; non si tratta di inventarne altre, non si tratta di andare alla scoperta di chissà quali originali intuizioni; si tratta di constatare – con tutta l’attenzione, il rispetto di cui siamo capaci e la devozione che seguirà – quali sono le strade che Dio stesso ha aperto: ecco l’Esodo, l’uscita dall’Egitto. Che cosa è avvenuto? Come è avvenuto che in virtù della Sapienza di Dio, del Suo rivelarsi, la storia di un mondo pagano diventa storia di salvezza, diventa storia di ritorno alla vita?

Alla fine del cap. 10 l’attenzione è rivolta a Mosè. Ricordate che il nostro maestro non fa mai nomi propri; i personaggi da lui considerati rimangono sempre anonimi. Noi li identifichiamo senza alcuna fatica; abbiamo ricostruito tanti passaggi e ci siamo rivolti a tante figure che conosciamo per altra via. E questo a conferma del fatto che non parla semplicemente di quei personaggi in quell’epoca storica, ma di figure che ormai hanno acquisito un valore emblematico, sempre attuale, che diventa più che mai istruttivo per tutti coloro, come noi, che si trovano con il travaglio della loro condizione umana in un’altra epoca storica.

E proprio alla fine del cap. 10, dopo quella corsa attraverso i diversi personaggi che precedono la comparsa di Mosè, forse avete notato che il nostro maestro si rivolge al Signore usando la seconda persona singolare; non parla in termini oggettivi; parla instaurando una relazione dialogica a tu per tu con il Signore. V. 20: “Per questo i giusti spogliarono gli empi(qui sta parlando degli ebrei quando uscirono dall’Egitto e gli empi sarebbero gli egiziani) e celebrarono, Signore, il tuo nome santo(seconda persona)

e lodarono concordi la tua mano protettrice,

perché la sapienza aveva aperto la bocca dei muti

e aveva sciolto la lingua degli infanti”. Questo avvenne quando, usciti dall’Egitto, attraversato il mare, proclamarono il grande canto di vittoria nel cap. 15 del Libro dell’Esodo (che è poi il canto che risuona nelle nostro chiese nella veglia pasquale). Anche i muti adesso sono in grado di parlare, anche gli infanti sono dotati di una lingua esperta nel canto. E il nostro maestro si esprime così nel momento in cui tra i muti che trovano l’uso della parola e sono in grado di cantare c’è evidentemente lui stesso, che adesso procede nel descrivere il valore esemplare dell’evento qui rievocato in un contesto che è certamente dominato da questo riferimento al “Tu” del Signore. Leggevamo i primi versetti del cap. 11: in questo primo poema, all’interno della terza parte (considerando il cap. 10 come introduttivo), ecco una sequenza di poemi che servono a mettere a fuoco quali sono stati i comportamenti del Signore. Come si è manifestata la Sapienza del Dio vivente (la Tua Sapienza), come si è espressa, come siamo in grado di corrispondere alla Tua iniziativa? In quei primi 14 versetti, che già abbiamo preso in considerazione un mese fa, il nostro maestro ha impostato una chiave interpretativa che tornerà poi molto utile in seguito, per quanto riguarda l’avvenimento dell’Esodo, molto complesso, con tutta una serie di elementi collaterali e di significati interni che non emergono immediatamente ma devono essere man mano scavati ed evidenziati. L’Esodo ci fornisce un suggerimento, per quanto riguarda l’interpretazione di quel che è avvenuto, che diventa una chiave per capire il senso di ogni altro avvenimento della storia umana. Quel che è avvenuto allora fornisce a noi un criterio ermeneutico a cui sempre dobbiamo fare ricorso, quali che siano le situazioni originali che man mano, nel corso della storia umana, bisognerà affrontare. Nelle tre strofe di questo poema (ricordate) il nostro maestro fa riferimento ad alcuni episodi che danno risalto all’acqua: l’acqua che scaturisce dalla roccia, per coloro che sono in viaggio attraverso il deserto, e l’acqua imputridita del fiume Nilo, non più potabile per gli egiziani, nella prima delle cosiddette piaghe, di cui si parla nel Libro dell’Esodo. E quella stessa acqua che a suo tempo ha punito gli egiziani, ha poi salvato gli ebrei. L’acqua che punisce, salva. L’acqua che è motivo di desolazione terribile per gli egiziani assetati, è l’acqua che sgorga dalla roccia per saziare la sete degli ebrei nel deserto.

Dal v. 6 al v. 10; dal v. 11 al v. 14. Il nostro maestro ci tiene a rimarcare come le due situazioni sono intrecciate fra loro. La sete degli ebrei nel deserto diventa (nel testo è sempre rispettato l’anonimato) per loro l’occasione propizia per rendersi conto di quale fu il dramma patito dagli egiziani quando, assetati, ebbero a che fare con acque imputridite. La pena patita dagli ebrei nel deserto diventa per loro il modo di sintonizzarsi con quella che fu la sete patita dagli egiziani, afflitti in seguito alla prima piaga. Viceversa, nella terza strofa, dal v. 11, al v. 14, gli egiziani, informati circa quello che avviene agli ebrei nel deserto (su questa affermazione ci eravamo fermati un mese fa), nel v. 13, sentirono la presenza del Signore. La sete che gli egiziani hanno patito nel corso del dramma dolorosissimo di quella loro storia sbagliata (qui ci sono innumerevoli richiami ad altri momenti nel corso dei quali gli egiziani hanno a che fare con l’acqua; ad esempio l’acqua del mare che diventa motivo di disfatta per l’esercito del faraone) diventa motivo per stupirsi e commuoversi internamente quando si rendono conto che per gli ebrei nel deserto l’acqua è stata motivo di benedizione. E gli egiziani sentirono, intuirono, percepirono, ebbero modo di sperimentare in loro stessi un tremito che, anche senza parole, senza chiarimenti didattici, li ha interiormente commossi: sentirono la presenza del Signore. Le due vicende sono interconnesse in modo indissolubile per cui la stessa acqua, ma si potrebbe aggiungere la stessa sete, per gli egiziani è motivo di dolore inconsolabile, per gli ebrei è motivo di sazietà benefica. Ma adesso, vedete, gli ebrei, in virtù della sete che hanno patito nel deserto, con tutto quello che è divenuto motivo di benedizione, capiscono gli egiziani; e gli egiziani, in virtù della loro sete e attraverso l’esperienza di una disgrazia inconsolabile, sono in grado di scoprire che c’è una novità che riguarda gli ebrei. Ma lo scoprono loro che c’è un fatto nuovo: sono gli egiziani che – attraverso quel che succede agli ebrei, in questo contatto degli uni con gli altri, che passa attraverso l’esperienza della sete, del dolore, dell’affanno, della solitudine – scoprono che c’è una novità. Novità per gli assetati? Assetati che sono loro? Ma di fatto gli ebrei sono assetati come gli egiziani.

Il nostro maestro adesso costruisce le sue riflessioni, a partire da questo poema introduttivo che, in modo così sobrio ed essenziale, sta qui a fare da premessa a quel che adesso leggeremo.


L’economia di Dio: la sua è potenza di amore

Dal v. 15 del cap. 11 un secondo poema, anch’esso dotato di un valore programmatico. Tutto si appoggia sui versetti che abbiamo lasciato alle nostre spalle, ma ancora queste pagine conservano il valore di testi che danno orientamento, inquadrano, mettono a fuoco gli elementi essenziali per procedere nella ricerca.

Dal cap 11, v. 15 al cap. 12, v. 2.

Questo secondo poema richiama la nostra attenzione su quella che potremmo definire la “misura dell’economia divina”. Qual è la misura che è applicata dagli interventi di Dio nella storia umana, Sapienza di Dio e il suo rivelarsi, dal momento che le cose vanno come il nostro maestro ci ha appena illustrato? Se le cose vanno in quel modo per cui la stessa acqua che punisce è acqua che redime, qual è la motivazione intrinseca che dobbiamo trarne? Parte da un enunciato generale, v. 15 e 16, e procede mettendo a fuoco due svolgimenti e una conclusione. C’è un perno centrale di tutta questa composizione che possiamo subito mettere in risalto; v. 20: “Ma tu (sempre la seconda persona singolare) hai tutto disposto con misura, calcolo e peso”.

C’è una misura nell’economia divina e bisogna che noi impariamo a rendercene conto, a decifrarla perché si tratterà poi di valorizzarla opportunamente, sempre e dappertutto. La stessa acqua che punisce redime: che cosa ci insegna questo? Sembra un dialogo intimo del nostro maestro, un’esperienza contemplativa a tu per tu con il Signore: “ma tu che cosa vuoi dirci in questo modo?”. E’ un discorso di per sé pubblico, encomiastico, da rivolgere alla folla, ma il maestro è impegnato con tutta la partecipazione del suo mondo interiore, di quel colloquio che lo coinvolge nell’intimo di se stesso. D’altra parte, nel cap. 9, si è espresso nei termini di un’invocazione rivolta al Signore perché “mandi la Sapienza”: “manda la tua sapienza” perché il cuore umano, se non è investito dalla tua iniziativa, perché tu vuoi rivelarti, resta inceppato nella sua solitudine.

Enunciato generale, vv. 15-16: “Per i ragionamenti insensati della loro ingiustizia,

da essi ingannati(ragionamenti), venerarono(gli egiziani)

rettili senza ragione e vili bestiole”. L’idolatria degli egiziani di ieri, di oggi, di sempre: “rettili senza ragione”; tanto impegno nell’elaborare ragionamenti per giungere alla venerazioni di rettili irragionevoli (c’è un gioco di parole) “e vili bestiole”, gli scarabei, i calabroni e così via. “Tu inviasti loro in castigo

una massa di animali senza ragione(ancora una volta siamo rinviati alle piaghe: le zanzare, le rane, le cavallette),

perché capissero che con quelle stesse cose

per cui uno pecca (le vili bestiole), con esse è poi castigato”. Gli egiziani hanno anche sperimentato il motivo della loro sofferenza là dove l’idolatria si esprimeva con l’adorazione delle stupide bestiole insignificanti in sè e per sè. Con quelle stesse cose con cui si pecca, si viene poi castigati. Questo è l’enunciato generale che introduce il poema: il peccato produce la propria pena. E, là dove il peccato si esprime come venerazione di quegli animaletti insignificanti e stupidi, ecco che proprio quegli animaletti diventano il motivo della tribolazione.

Primo svolgimento, dal v. 17 al v. 20. L’ultimo rigo è il perno di tutta la composizione. “Certo, non aveva difficoltà la tua mano onnipotente,

che aveva creato il mondo da una materia senza forma,

a mandare loro una moltitudine di orsi e leoni feroci” (dice il nostro maestro che ha sempre sottomano i testi antichi a cui non fa mai riferimento esplicito, ma è evidente che sta rileggendo le pagine dell’Esodo, i racconti delle sette piaghe). “Perché non hai inviato una moltitudine di orsi e leoni feroci? Perché le zanzare, le cavallette, le rane? Chi te l’impediva? La mano onnipotente del Signore è in grado di muovere gli eventi senza impedimento di sorta; aveva creato il mondo da una materia senza forma, non aveva difficoltà a mandare loro una moltitudine di orsi e leoni feroci. E insiste: “o belve ignote (poteva anche creare lì per lì qualche mostro sconosciuto), create apposta, piene di furore,

o sbuffanti un alito infuocato(poteva mettere in movimento un marchingegno poderoso e travolgente che avrebbe fatto piazza pulita in un baleno) o esalanti vapori pestiferi

o folgoranti con le terribili scintille degli occhi,

bestie di cui non solo l'assalto poteva sterminarli,

ma annientarli anche l'aspetto terrificante”. Bastava che mandasse queste belve, create lì per lì, che gli egiziani sarebbero rimasti folgorati. Perché non ha fatto così? C’è una moderazione, nel modo di esercitare la potenza, che è di Dio. C’è una moderazione nella sua mano e, dice il v. 20, “nella sua bocca”: “Anche senza questo potevan soccombere con un soffio,

perseguitati dalla giustizia

e dispersi dallo spirito della tua potenza”. Poteva mandare le famose belve feroci, crearle appositamente, mostri pestilenziali, poteva anche semplicemente con uno starnuto, con uno sbuffo del suo fiato poderoso disperdere gli egiziani. Invece le cose non sono andate così: “le stupide bestiole”. Ecco il perno che ritroviamo qui: “Ma tu hai tutto disposto con misura, calcolo e peso”. C’è una misura nell’agire di Dio e c’è una moderazione nel modo di manifestare quella potenza che gli compete, un valore assoluto.

Secondo svolgimento, dal v. 21 per arrivare al v.1 del cap. 12: “Prevalere con la forza ti è sempre possibile;

chi potrà opporsi al potere del tuo braccio?

Tutto il mondo davanti a te, come polvere sulla bilancia,

come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra” (all’inizio del v. 23 mettete “ma”). Ma “Hai compassione di tutti”. Questo è il punto. La potenza di Dio – che è illimitata, sconfinata, assoluta – è moderata dall’amore per le sue creature. Non solo; il nostro maestro non sta dicendo semplicemente che c’è una specie di stretta che trattiene la potenza di Dio dall’esprimersi adeguatamente; non è esattamente così; sta dicendo che la potenza di Dio coincide con l’amore per le sue creature. Non è soltanto trattenuta dall’amore per le sue creature, ma “sta” nell’amore per le sue creature. E quella che noi possiamo chiamare “moderazione” non è un ostacolo che si frappone dall’esterno, ma è una componente intrinseca, determinante, costitutiva della potenza del Dio vivente: è una potenza d’amore per cui tutta l’economia della rivelazione – e la Sapienza sta lì a dimostrarcelo – è dettata dalla sua volontà di salvezza.

V. 23: ma, tu “Hai compassione di tutti, perché tutto tu puoi(non “hai compassione di tutti malgrado tu possa tutto e, in contraddizione con la tua potenza, in qualche modo ti tiri indietro ed eserciti la compassione”. Non dice questo. Dice che “Hai compassione di tutti, perché tutto tu puoi(la tua potenza sta esattamente in questo esercizio della compassione), non guardi ai peccati degli uomini,

in vista del pentimento.

Poiché tu ami tutte le cose esistenti

e nulla disprezzi di quanto hai creato(vedete questi tre verbi che bisognerebbe mettere bene in evidenza: “hai compassione”, “non guardi”, “ami”. E’ la tua potenza. Vedete perché le stupide bestiole? Perché la potenza di Dio si esprime come volontà di salvezza per le sue creature, per quelle creature a cui Dio non rifiuta, né rifiuterà mai il suo amore totale, gratuito, spassionato); se avessi odiato qualcosa, non l'avresti neppure creata.

Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi(non solo tutto quel che è nel mondo è voluto per amore, ma è conservato per un motivo d’amore)? O conservarsi se tu non l'avessi chiamata all'esistenza?

Tu risparmi tutte le cose,

perché tutte son tue, Signore, amante della vita(tutto quello che c’è nel mondo non soltanto è voluto da te per un motivo d’amore, ma è “risparmiato” da te per un motivo d’amore) poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose”. Osservate come questo linguaggio assume un’intonazione affettuosa, lirica: “tu, Signore, risparmi tutte le cose, perché tutte le cose sono tue e tu sei l’amante della vita e il tuo spirito incorruttibile è in tutti”. La conclusione nel v. 2, che chiude il poema che abbiamo potuto comprendere nei suoi elementi essenziali: c’è una misura nella presenza operosa di Dio che si rivela nella storia umana e questa misura è determinata dalla sua volontà di salvezza. Quel fatto per cui l’acqua che salva è la stessa acqua che punisce e viceversa, adesso è da richiamare e ulteriormente qualificare in rapporto all’acquisizione che il nostro maestro ci sta proponendo. E’ un altro punto fermo, ormai elaborato e indiscutibile: tutto quel che riguarda il rivelarsi di Dio – che è il rivelarsi della sua iniziativa, originaria, gratuita, onnipotente – porta in sé una costante, inesauribile volontà d’amore che fu all’inizio e che si ripropone lungo tutto il percorso della Sapienza, del Suo rivelarsi a noi.

V. 2 del cap. 12: “Per questo tu castighi poco alla volta i colpevoli(ecco il punto: questo è il motivo per cui tu castighi poco alla volta i colpevoli, con le stupide bestiole) e li ammonisci ricordando loro i propri peccati,

perché, rinnegata la malvagità, credano in te, Signore”. La pena del peccato è misurata da Dio in funzione della sua volontà di correggere, di richiamare, affinchè “credano in te, Signore”, in funzione della tua volontà di salvezza. Il peccato produce la sua pena, sì, ma come è articolata questa continuità tra il peccato e la pena? Immancabile la pena, inevitabile la pena, ma già la pena è espressione di un’economia di salvezza che è dominata strutturalmente dalla irrevocabile volontà d’amore che il Dio vivente ha voluto rivelarci. E, notate, alla conclusione del poema, questa implorazione, come un sospiro patetico, nostalgico del nostro maestro: “tutti i colpevoli, i miserabili peccatori di questo mondo castigati, ammoniti affinchè, ricordando i propri peccati, entrati in un processo di conversione, rinnegata la malvagità, credano in Te, Signore”. E questo vocativo “kirie” resta come appeso in questo poema: “ah, Signore, che credano in te”. Tutte le pene che travagliano l’umanità sono tutte interne a questa economia di misericordia per cui la potenza di Dio apre strade di conversione alla vita per tutti gli uomini peccatori. Questa fede a cui il nostro maestro si riferisce fa tutt’uno con quel sentimento della presenza del Mistero; ricordate gli egiziani “che sentirono la presenza del Signore” attraverso l’esperienza dolorosissima della loro sete e della loro storia che risultò ad essi una storia sbagliata per come andarono le cose agli ebrei nel deserto: assetati, che trovarono l’acqua. “Che credano in te”, dove “credere”, qui, non significa elaborare chissà quali contenuti teologici, ma scoprire come tutta la pesante tribolazione che ci accompagna, come necessaria conseguenza dei nostri peccati, è anche il contesto nel quale la misericordia di Dio si prende cura di noi, si fa sentire. Quel linguaggio del dolore straziato è il linguaggio del dolore penitente, della compunzione.


Dio è indulgente con tutti perché è onnipotente

Cap. 12, v. 3. Si aggiunge un terzo poema che ha un’andatura ancora più contemplativa di quanto abbiamo potuto constatare leggendo gli altri due. Il nostro maestro si interroga: “Chi è come te, Signore?”. Se le cose stanno così “chi sei tu?”. Tutto quello che ci sta dicendo adesso non è il frutto di una riflessione teologica che mette a fuoco contenuti che riguardano Dio; qui “ci sei di mezzo tu, chi sei tu, e chi è come te? Perché questo tuo modo di rivelarti non soltanto è, fuori di te, un discorso che noi possiamo interpretare in base a questi avvenimenti dove la potenza è moderata dalla misericordia. Ma il Tuo rivelarsi significa che quel che di Te si rivela, sei Tu; quel che di Te noi cogliamo nella Sapienza, che apre e illumina le strade della nostra conversione alla vita, sei proprio Tu nel tuo segreto, nel tuo intimo, nel tuo mistero, nel tuo profondo; non butti fuori qualcosina tanto per accontentare i curiosi tenendoli lontani dal tuo segreto, da custodire a modo tuo e con chi vuoi tu; ma questo è esattamente il Tuo segreto, il Tuo essere nell’intimità della tua vita. Tu riveli te stesso”. Quella Sapienza che è rivelazione di Dio non è soltanto l’illustrazione di un modo suo di procedere tecnicamente, operativamente nell’organizzazione delle cose, ma quella Sapienza di Dio è Lui, nel suo intimo. E’ così: “chi sei tu”.

Due svolgimenti, con un perno centrale, v. 12 del cap. 12: «E chi potrebbe domandarti: "Che cosa hai fatto?",

o chi potrebbe opporsi a una tua sentenza?

Chi oserebbe accusarti

per l'eliminazione di genti da te create?

Chi si potrebbe costituire contro di te

come difensore di uomini ingiusti?”». “Tu fai così non perché devi difenderti, non perché vuoi proteggerti o nasconderti, ma proprio l’opposto. Tu fai così per rivelarti, perché Tu sei così”. Come?

Primo svolgimento, vv.3. 11: “Tu odiavi gli antichi abitanti della tua terra santa(l’attenzione si sposta dall’Egitto, luogo di partenza dell’Esodo, alla terra di Canaan, luogo di ingresso dopo la traversata del deserto. La terra di Canaan è abitata da questi personaggi così spregevoli come vengono descritti. Senza precisare meglio, senza preoccuparci di difendere l’identità di alcuno, prendiamo atto di questa opinione così sprezzante nei loro confronti), perché compivano delitti ripugnanti,

pratiche di magia e riti sacrileghi.

Questi spietati uccisori dei loro figli,

divoratori di visceri in banchetti di carne umana(il nostro maestro sta un po’ ingigantendo le cose; non bisogna pretendere di essere troppo rigorosi nei confronti di quegli antichi cananei come se queste accuse potessero valere solo per loro), iniziati in orgiastici riti,

genitori carnefici di vite indifese,

tu li hai voluti distruggere per mano dei nostri antenati(quando gli antenati entrarono nella terra di Canaan, secondo certi racconti, i cananei furono travolti), perché ricevesse una degna colonia di figli di Dio

la regione da te stimata più di ogni altra”. Gli antichi abitanti di quella terra, secondo quel che leggiamo in questi versetti, sarebbero stati sterminati per fare spazio a questa degna colonia di figli di Dio(attenzione a questa espressione: adesso la ritroveremo). Figli di Dio.

V. 8: “Ma anche con loro (ha appena affermato che gli antichi cananei, odiati da Dio, furono sterminati e adesso veniamo a sapere che non è vero), perché uomini, fosti indulgente(la potenza di Dio che è travolgente, è una potenza misurata dalla compassione, dalla pietà, dalla misericordia) mandando loro le vespe (ci risiamo) come avanguardie del tuo esercito(un trattamento delicato, graduale, attento a garantire tutte le possibile, necessarie vie d’uscita, tutte le soluzioni intermedie, tutte le occasioni di richiamo, di ritorno, di conversione. Immagini grandiose: arriva Giosuè che si porta dietro le schiere delle tribù di Israele e fa piazza pulita… e invece no, qualche sciame di vespe), perché li distruggessero a poco a poco(non è affatto vero che le cose andarono in quel modo così clamoroso e in un colpo solo; tanto è vero che la storia della salvezza continua a parlarci di questi cananei che nel corso dei secoli sono sempre lì). Pur potendo in battaglia dare gli empi in mano dei giusti,

oppure distruggerli con bestie feroci

o all'istante con un ordine inesorabile,

colpendoli invece a poco a poco,

lasciavi posto al pentimento” (c’è una gradualità che è determinata dalla costante fedeltà dell’amore di Dio, che è poi lo stesso che dire la costante espressione della Sua potenza: Lui apre strade di conversione, strade di pentimento. E quel dolore patito, a causa delle vespe o di simili espedienti, è un dolore redentivo, terapeutico, medicinale; è il dolore che scarica il veleno accumulato nel cuore. Questo è il motivo per cui le cose andarono per le lunghe, perché “Tu sei indulgente”), sebbene tu non ignorassi che la loro razza era perversa

e la loro malvagità naturale

e che la loro mentalità non sarebbe mai cambiata,

perché era una stirpe maledetta fin da principio” (dunque, gente inconvertibile, dichiara il nostro maestro; soltanto che è gente inconvertibile per quanto riguarda il nostro modo di intendere, ma non per quanto riguarda il “Tuo modo di rivelarti. Per come ti riveli Tu nessuno è inconvertibile tra tutti coloro che per noi sono inconvertibili”: stirpe maledetta fin da principio). Non certo per timore di alcuno

lasciavi impunite le loro colpe. E’ quel versetto che fa da perno nella composizione: “se Tu ti sei comportato in questo modo non è certo perché volevi tirarti indietro, perché volevi proteggerti, nasconderti, ma esattamente all’opposto: è perché Tu così riveli chi sei”.

Dal v. 13 al v. 21 il secondo svolgimento: “Non c'è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose,

perché tu debba difenderti

dall'accusa di giudice ingiusto.

né un re né un tiranno potrebbe affrontarti

in difesa di quelli che hai punito(chi potrebbe contestare la tua giustizia, essa è inoppugnabile). Essendo giusto, governi tutto con giustizia.

Condannare chi non merita il castigo

lo consideri incompatibile con la tua potenza(la giustizia di Dio è irrevocabile, non c’è possibilità di opposizione). La tua forza infatti è principio di giustizia;

il tuo dominio universale ti rende indulgente con tutti (vedete come procede l’argomentazione del nostro maestro. “Questa Tua presa di posizione per cui Tu sei inattaccabile, al di sopra di ogni possibile o dichiarata contestazione, dipende dal fatto che la Tua forza è onnipotente, sì, e il tuo dominio universale ti rende indulgente con tutti. E’ la Tua forza travolgente, onnipotente”). Mostri la forza se non si crede nella tua onnipotenza

e reprimi l'insolenza in coloro che la conoscono.

Tu, padrone della forza, giudichi con mitezza;

ci governi con molta indulgenza,

perché il potere lo eserciti quando vuoi”. Se le cose vanno in questo modo – ed è esattamente così che sono andate, non soltanto quella volta e in quel certo periodo della salvezza, ma vanno così sempre – è perché questa storia inquinata dal peccato degli uomini che sono duri, perversi, intransigenti, perversi nella loro ingiustizia e che non vogliono convertirsi, è storia nella quale Tu sei presente e operante: “ecco come la Sapienza si rivela in modo tale da instaurare una procedura pedagogica che fa di questa storia umana – ingiusta e perversa – la storia nella quale Tu stai educando dei figli per Te e come Te”.


Anche in mezzo all’idolatria umana Dio ci educa e si rivela

V. 19: “Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo

che il giusto deve amare gli uomini;

inoltre hai reso i tuoi figli pieni di dolce speranza

perché tu concedi dopo i peccati

la possibilità di pentirsi”. Tutto quello che riguarda la Sapienza di Dio dimostra che la Sua è un’intenzione pedagogica: Dio è così, come si rivela e vuole educare per sé un popolo di figli; e se le cose vanno in questo modo per i cananei, è perché noi ci rendiamo conto di che cosa significa essere il popolo Tuo, che il giusto deve amare gli uomini, e che cosa significa essere figli, in quanto inseriti nel popolo Tuo, figli pieni di dolce speranza perché tu concedi dopo i peccati la possibilità di pentirsi. E avviene così che questa pedagogia ci conduce a dichiararci debitori nei confronti dei cananei, perché la strada lungo la quale il Signore ci ha educati nella figliolanza, passa attraverso i cananei; e la storia dei cananei è nostra storia che è divenuta, nel disegno sapiente della rivelazione divina, motivo di radicale conversione interiore per noi. “Se gente nemica dei tuoi figli e degna di morte

tu hai punito con tanto riguardo(i cananei) e indulgenza (si è trattati con delicatezza), concedendole tempo e modo

per ravvedersi dalla sua malvagità,

con quanta attenzione hai castigato i tuoi figli(noi che siamo quel popolo di figli, noi siamo dei peccatori. E la premura con cui Ti sei rivelato a noi e ci hai coinvolti in questa relazione diretta, a tu per tu: noi, Tuo popolo, e Tu, nostro Dio; e ci hai trattati come figli, tutto questo è maturato in noi, è divenuto il filo conduttore del nostro cammino di conversione perché Tu hai, attraverso il dramma dei cananei che ancora non si convertono, esercitato una poderosa efficacia pedagogica in noi. Ci hai educato nella figliolanza, nell’appartenenza a Te, nella condivisione di quel che è Tuo attraverso la presenza dei cananei e attraverso la rivelazione di come Tu sei misericordioso nei confronti dei cananei. Ricordate il poema che leggevamo la volta scorsa: gli ebrei nel deserto bevono l’acqua che scaturisce dalla roccia e si ricordano e capiscono quale fosse il dolore degli egiziani che pativano la sete. Non si tratta più di dire: i cananei devono essere puniti, perché i cananei ancora non si sono resi conto di essere figli. E se noi siamo inseriti in questo cammino di conversione interiore, per cui stiamo maturando nella consapevolezza della figliolanza, è perché ci stiamo confrontando con la misericordia che Tu eserciti nei loro confronti), con i cui padri concludesti, giurando,

alleanze di così buone promesse?”.

Dal v. 22 al v. 27 la conclusione del poema. V. 22: Israele, il popolo che è coinvolto in quel particolare itinerario pedagogico cui accennavo; il popolo dell’Alleanza, il popolo che è proprio guidato lungo i percorsi della storia della salvezza. Nei versetti da 23 a 27 si parla degli egiziani. “Mentre dunque ci correggi(noi, in prima persona plurale, quelli del Tuo popolo, quelli che sono educati da te come figli), tu colpisci i nostri nemici in svariatissimi modi, perché nel giudicare riflettiamo sulla tua bontà(Tu colpisci i nostri nemici: non dice “perché se lo sono meritato”) e speriamo nella misericordia, quando siamo giudicati”. Rendendoci conto di come Tu sei misericordioso verso di loro, anche noi possiamo aspirare alla misericordia, dal momento che anche noi nella nostra ingiustizia saremo giudicati. Vedete come questo v. 22 in pochissimi tratti dice tante cose. Quel che riguarda i nostri nemici riguarda noi e noi siamo grati per come ci educhi attraverso di loro; e dunque siamo anche debitori nei loro confronti; anche noi, nella nostra ingiustizia, abbiamo bisogno di essere educati, guidati, di ricevere delle lezioni. Questa aspirazione alla bontà ci sintonizza con il modo di rivelarsi di Dio e la Sua presenza operosa nella storia umana: nel giudicare riflettiamo sulla tua bontà, in modo tale che se ci poniamo nella posizione di coloro che giudicano il resto del mondo, ciò sia in sintonia con la Tua bontà. Contemporaneamente speriamo, noi, nella misericordia quando saremo giudicati; quella misericordia che Tu riveli nei loro confronti. E adesso si rivolge agli egiziani, v. 23: “Perciò quanti vissero ingiustamente con stoltezza

tu li hai tormentati con i loro stessi abomini(ricordate l’idolatria degli egiziani che è diventata anche il loro tormento perché la vita dei pagani di questo mondo è un tormento; l’idolatria è un tormento). Essi s'erano allontanati troppo sulla via dell'errore,

ritenendo dèi i più abietti e i più ripugnanti animali,

ingannati come bambini senza ragione(c’è qualcosa di veramente infantile, sono proprio lattanti. Uno sguardo sull’umanità che diventa quasi amorevole come ci si rivolge a dei bambini: ai bambini una punizione da bambini. Questi bambini che si fanno ingannare da una idolatria che è così bambinesca). Per questo, come a fanciulli irragionevoli,

hai mandato loro un castigo per derisione”. Sono le famose zanzare, cavallette, le stupide bestiole. Il nostro maestro chiude ora il poema accennando al fatto che c’è di mezzo tutta la pedagogia sapientissima di Dio che vuole la conversione, la salvezza, perché tutto è dominato da una Sua intenzione d’amore. L’intenzione d’amore rimane sempre più fortemente confermata man mano che urta contro l’opposizione: gli uomini sono come dei bambini irragionevoli, testardi; si irrigidiscono. Poi non son più neanche esattamente dei bambini, sono incalliti, inaspriti, induriti (ricordate il faraone che si indurisce nel cuore). Man mano che emerge il dramma dell’idolatria, non più nelle forme infantili della devozione alle stupide bestiole, ma in modo sempre più massiccio, sempre più documentato, della durezza che irrigidisce il cuore umano e che pretende di rivendicare un valore assoluto per l’iniziativa umana, per la soggettività umana; è l’idolatria come culto di se stessi. Il bambino vuole le sue cose stupidamente (una bestiola); ma man mano che l’idolatria si esprime in maniera sempre più dichiarata è l’iniziativa umana che si afferma come presunzione di considerare valore assoluto la volontà soggettiva di creature che attribuiscono a se stesse un valore assoluto sacro e divino. Man mano che l’idolatria emerge, affiora, viene a galla in tutta la sua macroscopica tragedia, Dio si rivela. E questa storia degli uomini che sono protagonisti della loro idolatria è una storia distruttiva, dice il nostro maestro: è così che gli uomini si distruggono perché in quel loro peccato c’è anche la loro pena e in quel loro modo di idolatrare se stessi e la propria iniziativa umana, la propria volontà proposta e imposta come volontà assoluta, c’è anche la loro pena. Si autodistruggono gli uomini. E Dio lì rivela se stesso. Man mano che noi abbiamo a che fare con quella serie di riferimenti che nella storia della salvezza danno risalto sempre più massiccio, imponente, spaventoso (l’idolatria)… è il manifestarsi di Dio che ci viene incontro. E là dove l’idolatria appare in tutta la sua mostruosa gravità, è il Dio vivente che si rivela. Questi ultimi versetti del cap. 12 sono un affaccio sul Nuovo Testamento. Siamo nella settimana santa: è il Mistero Pasquale, è la Pasqua del Signore. E’ l’idolatria esplicitata nella sua pretesa di alternativa radicale all’iniziativa di Dio: è proprio Lui che viene e là dove gli uomini si distruggono è l’intimo di Dio che si rivela a noi nell’Uomo nuovo. “Ma chi non si lascia correggere da castighi di derisione(il faraone non si fa correggere, gli uomini non si fanno ancora correggere), sperimenterà un giudizio degno di Dio.

Infatti, soffrendo per questi animali, si sdegnavano,

perché puniti con gli stessi esseri che stimavano dèi,

e capirono e riconobbero il vero Dio,

che prima non avevano voluto conoscere.

Per questo si abbatté su di loro il supremo dei castighi”. Sarebbe la piaga dei primogeniti nella notte di Pasqua.


La prossima volta affronteremo i capp. 13, 14, 15 nei quali il nostro maestro inserisce un’ampia digressione sull’idolatria. E’ il nucleo centrale di tutta la terza parte. L’idolatria che emerge in tutta la sua gravità più spudorata nel contesto di quella rivelazione che ci spiega chi è Dio e come la Sua potenza è vittoriosa: la potenza che salva, che redime, che riscatta e questa esplosione dell’idolatria umana in tutta la sua capacità di contraddire è tutta interna alla rivelazione della misericordia di Dio; ci converte.