Incontri di discernimento e solidarietà
 
  • Download

  • Puoi scaricare l'intero file nei seguenti formati:
  • Microsoft Word - Scarica in formato Microsoft Word (72 KB)
  • Adobe Acrobat PDF - Scarica in formato Adobe Acrobat PDF (139 KB)
 

L’Apocalisse: il Mistero Pasquale luce della storia


Settimo incontro del ciclo 2007-2008

3 giugno 2008



La storia vista dalla fine, dalla parte di Dio:

un messaggio di consolazione



Questa sera concludiamo la lettura del libro che ci ha tenuti occupati per ben due anni: un impegno che in un certo modo ci ha messo tutti alla prova, ma l’Apocalisse merita – ce ne siamo resi ben conto – un po’ di fatica. Stasera l’ultima tappa della nostra ricerca che si connette direttamente con la lettura del mese scorso perché i capp. 21 e 22 contengono le tre grandi visioni finali, che credo di aver intitolato la volta scorsa come “gli affacci sulla fine”. Abbiamo letto il cap. 21; dobbiamo leggere ancora il cap. 22. Di queste tre grandi visioni finali noi già abbiamo scandagliato le prime due, le abbiamo messe a fuoco sempre con tanti limiti e le inevitabili insufficienze. Le tre grandi visioni finali: sappiamo bene che è proprio a partire dalla fine che tutto ciò che riguarda la condizione umana viene compreso, interpretato, spiegato, così come essa è sperimentata nell’attualità del vissuto, man mano che la storia è in corso. A partire dalla fine ecco che tutto si svela: la fine appartiene a Dio, è dimostrazione che la vittoria spetta a Lui; la Sua gloria è trionfante e tutto, nell’Apocalisse, ruota attorno alla missione svolta dall’Agnello, il Figlio che è stato inviato, che è morto ed è risorto; la Pasqua redentiva che costituisce di già l’attuazione definitiva della vittoria che è celebrata nella gloria celeste del Dio vivente.

A partire dalla fine, lo sguardo apocalittico, il messaggio apocalittico: quella particolare capacità di consolare coloro che sono alle prese con le vicissitudini della storia umana, come capita ancora alla nostra generazione, dal momento che l’Agnello è vittorioso e nel mistero del Dio vivente ormai si è compiuto l’evento risolutivo che raccoglie in sé tutto lo svolgimento della storia umana e che attrae a sé tutte le creature in modo da corrispondere all’intenzione originaria del Creatore. Un messaggio di consolazione. Ce ne siamo resi conto fin dall’inizio e su questo io ho insistito lungamente e ripetutamente: un messaggio di consolazione e le previsioni finali sono per davvero estremamente istruttive per il nostro contatto con il linguaggio apocalittico e la più che mai opportuna assuefazione a una certa intonazione dell’Evangelo che viene predicato, che porta in sé l’inesauribile fecondità di un disegno che ormai si è compiuto in obbedienza a Dio, in modo tale da coinvolgere tutto quello che, nella nostra condizione di uomini peccatori, ha bisogno di conversione nel senso di una vera e propria nascita rinnovata nel senso di un vero e proprio mondo che ormai è rinnovato. Non è una prospettiva indolore quella che si viene illuminando dinanzi a noi; “messaggio di consolazione” non vuol dire garanzia di estraneità rispetto ai drammi della storia umana; vuol dire esattamente l’opposto: coinvolgimento pieno in tutto ciò che la storia degli uomini porta in sé come dramma che è conseguenza inevitabile del peccato che gli uomini hanno voluto contrapporre all’iniziativa di Dio; ma è esattamente questa avventura così drammatica fino alle estreme conseguenze che si configura come il travaglio redentivo, il passaggio attraverso il quale si compie un’opera di conciliazione secondo l’intenzione di Dio. E’ in atto un processo di conversione che orienta la storia dell’umanità fino a quella pienezza del disegno che nel segreto del Dio vivente già è compiuto. In Lui il disegno è già definitivo.

Ed ora Giovanni vede… Abbiamo letto nel cap. 21 la prima di queste tre visioni conclusive (dal v. 1 fino al v. 8) e vi dicevo che le altre due sono, in qualche modo, già anticipate all’interno della prima che assume un’intonazione più ampia, più complessa ma allo stesso tempo anche meno precisata, meno documentata, meno articolata. Siamo abituati a questo modo di procedere per cui le visioni scaturiscono da tutto quel che Giovanni ha visto precedentemente, nel senso di un progressivo ingrandimento e chiarimento; nel senso di un’esplicitazione che ci consente di cogliere particolari sempre più eloquenti per quanto riguarda quella consolazione che è destinata proprio a noi. Ed è crescendo e maturando nella capacità di cogliere, interpretare e precisare il valore di ogni dettaglio che quella consolazione del messaggio apocalittico ci coinvolge in maniera sempre più piena, intensa e profonda.

La prima visione ci ha aiutato a contemplare la realtà di un mondo nuovo (“nuovi cieli e nuova terra”) ma – ripeto – già in quella prima visione Giovanni anticipava quel che meglio illustrerà nelle visioni seguenti. La seconda visione, ricordate, è quella della “città” che scende dall’alto come fidanzata pronta per incontrare lo sposo che è l’Agnello, Lui, immolato e vittorioso; l’Agnello trionfante. E’, dunque, una storia nuova che è ormai interpretata nella sua novità definitiva: là dove noi eravamo abituati a riconoscere nella vicenda umana la presenza di una città che si chiama Babilonia, adesso la città è Gerusalemme in quanto la storia degli uomini è ricomposta. Si può ben parlare di una storia nuova, nel senso di definitiva, in quanto conduce l’umanità intera a ritrovarsi in una economia di famiglia: la storia degli uomini, la storia dei popoli come storia di fratelli che si riconoscono. E’ la città che ormai può rivolgersi verso lo Sposo e che realizza finalmente il disegno di Dio presentandosi al Figlio che si è fatto uomo e che, nella carne umana, è morto ed è risorto. E’ la storia nel corso della quale per tutti gli uomini si aprono i percorsi della fraternità ritrovata, della consanguineità ricomposta in comunione con l’Agnello immolato e vittorioso.

Già nella prima visione Giovanni ci parlava di questa novità che riguarda esattamente la storia umana ma, vedete, è un mondo nuovo, storia nuova.


L’albero della vita torna al centro e tutto è rigenerato

Terza visione (quella di cui ci occupiamo stasera) nei primi cinque versetti del cap. 22. Poi daremo uno sguardo ai versetti seguenti, da 6 in poi, dove compaiono gli epiloghi del nostro libro. Questa terza visione riprende uno spunto che già era contenuto nella prima visione. Si tratta adesso della visione che ci aiuta a constatare come, nel contesto di un mondo nuovo, è rinnovata la vita. Dunque, la visione che leggevamo la volta scorsa: è nuova la storia per quel che sta avvenendo e che ormai, considerando ogni cosa a partire dalla fine, è un disegno compiuto, è la storia di fratelli che si ritrovano a Gerusalemme. E’ rinnovata la vita e la visione che adesso leggiamo si collega strettamente con quella che precede perché siamo ancora alle prese con quella città che, adesso, assume in modo inconfondibile la fisionomia di quel giardino che costituisce uno degli elementi fondamentali di tutta la rivelazione biblica. Così come leggiamo nelle prime pagine del libro del Genesi: il giardino della vita; quello che noi chiamiamo il “Paradiso” (rifacendoci alla traduzione in greco che, appunto, suscita innumerevoli riscontri nel linguaggio della tradizione cristiana), è il giardino della vita. Già nella prima visione Giovanni accennava esattamente alla vita nuova di cui fanno esperienza coloro che sono chiamati a prendere dimora, a ritrovarsi nel contesto di quel mondo nuovo che oramai è abitato dal “Dio-con-noi”: è la prima visione.

Adesso, nella terza visione, l’attenzione si concentra proprio su questa immagine del giardino. Vediamo di procedere in modo sollecito ma cercando di cogliere, meglio che possiamo, i molteplici suggerimenti che la lettura di questi pochi versetti mette a nostra disposizione.

Mi mostrò poi(il soggetto è sempre quell’angelo di cui si parlava nel v. 9 del capitolo precedente, quello stesso angelo che ha mostrato la fidanzata, la sposa dell’Agnello) un fiume d'acqua vivalimpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell'Agnello”. Non c’è da dubitarne, vedete, qui abbiamo a che fare con una citazione di Genesi 2, v. 8, laddove la descrizione del giardino dell’antico autore accennava a un sistema idrico che garantiva la possibilità della vita nell’universo e tutto, secondo quell’antico racconto, quel che riguarda la possibilità della vita, che dipende dall’acqua, viene ricondotto alla presenza del giardino. In realtà il giardino è configurato esso stesso in quel racconto come il criterio, più che mai pertinente, per descrivere la realtà del mondo: il mondo è giardino. Non soltanto il giardino inteso come una porzione, un angolo, una fetta, una zona riservata, recintata, ma il giardino è il mondo intero in quanto irrigato dall’acqua. E l’acqua scaturisce dal giardino e il giardino è il criterio in base al quale deve essere interpretato il mondo perché il mondo è creato da Dio – nella sua varietà di elementi che lo compongono, molteplicità di creature, situazioni le più sorprendenti – al servizio della vita. Tutto nell’universo è creato da Dio in funzione della vita, per promuoverla e per favorirla. Noi siamo qui senz’altro rinviati a quell’immagine che occupa una posizione così rilevante nell’antico racconto della creazione. Ci sono due racconti della creazione all’inizio del libro del Genesi; il secondo racconto è quello che leggiamo nel cap. 2. “Un fiume d'acqua vivalimpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell'Agnello”. In quel racconto si parla di quattro fiumi (sono i quattro grandi fiumi conosciuti dagli antichi); qui si parla di uno perché è quadruplice, è molteplice, è questo fiume che porta l’acqua da cui dipende la vita, e tutto nell’universo è ricomposto in obbedienza a quella che è stata l’intenzione originaria di Dio che ha creato per la vita; creature viventi di vario ordine fino a quella creatura vivente che è chiamata a vivere nella comunione con il Dio vivente: la creatura umana. E il giardino è predisposto esattamente a questo scopo; il giardino è la creazione che è strutturata in modo tale da rendere possibile il raggiungimento di quell’obiettivo che costituisce il motivo stesso per cui Dio Creatore si è rivelato: tutto per consentire alla creatura umana di aderire a quella comunione di vita che il Dio vivente, Lui, ha voluto realizzare. Per questo ha creato; questo è il motivo, e tutto è finalizzato a questo scopo. “Un fiume d'acqua viva… scaturiva” dal giardino e scaturivadal trono di Dio e dell’Agnello” perché il Dio vivente abita là. Questo sapevamo già per quanto riguarda il mondo nuovo: abita là? Si è accampato là? E’ il Dio-con-noi? Ricordate la città? Abita là il Signore Dio Onnipotente; l’Agnello è il tempio di quella città, dunque non c’è bisogno di un altro tempio. E vedete che ancora questo giardino è quel mondo nuovo, è quella città, con questa ulteriore precisazione. Tanto è vero che qui, nel v. 2, veniamo a sapere che ci troviamo in mezzo alla piazza di quella città: “In mezzo alla piazza della città e da una parte e dall'altra del fiume si trova un albero di vita”. Ricordate che nell’antico racconto l’albero sta in mezzo al giardino; è l’albero della vita. Qui sta in mezzo alla piazza della città. Vedete come le immagini si sovrappongono. E’ quella città di cui parlavamo la volta scorsa leggendo i versetti del cap. 21. La piazza della città; e là dove la storia è rinnovata ecco noi scopriamo che siamo riportati a quella che era stata l’intenzione originaria del Creatore e tutta la storia è riconciliata in obbedienza a quel motivo che ci era stato rivelato fin dall’inizio e che poi si era smarrito lungo il percorso: Dio ha creato il mondo e chiamato tutte le creature a concorrere a quella comunione di vita che Egli ha voluto condividere con la creatura umana. E adesso siamo in mezzo alla piazza della città, là dove passa il fiume. L’immagine qui diventa un poco sorprendente, sconcertante, addirittura paradossale perché da “una parte e dall'altra del fiume si trova un albero di vita”. Vedete, qui non è un albero che sorge sulla sponda del fiume, ma è il fiume che passa sotto l’albero come se quest’albero potesse divaricarsi in modo tale da diventare una pianta immensa appoggiata su entrambe le sponde del fiume che gli passa sotto; non è un albero che cresce sulla sponda, ma da “una parte e dall'altra del fiume si trova un albero di vita”. E’ lo stesso albero della vita che sta di qua e di là e l’acqua gli scorre sotto, gli scorre dentro; è una corrente di vita che non passa accanto, non segue un percorso suo in maniera autonoma, con obiettivi particolari, ma è l’albero della vita che è impregnato dell’acqua che gli scorre sotto, che gli scorre dentro. L’albero della vita occupa la piazza della città, nel centro; in qualche modo, vedete, è tutta la piazza, è tutta la città; ma è il mondo nuovo dove tutto è ricomposto in modo tale che la corrente della vita possa esprimersi così come dall’inizio il Creatore aveva progettato. Badate bene che qui ci sono richiami ad altre pagine dell’Antico Testamento – è abbastanza ovvio – e l’acqua è una delle creature che ritornano frequentemente in tanti, tanti testi antico e neo-testamentari; ma più in particolare si tratterebbe di fare riferimento ad alcune pagine che leggiamo nel libro di Ezechiele. C’è un testo molto famoso a questo riguardo, nel cap. 47 di Ezechiele, laddove per l’appunto il profeta vede come dalla parete meridionale del tempio scende un corso d’acqua che non viene esaurendosi man mano che si allontana nello spazio, ma cresce di potenza: non è un’acqua che si consuma questa. E’ un’acqua che è in grado di esprimere una capacità di fecondazione vitale sempre più abbondante fino a diventare un mare di acqua dolce, là dove nella direzione intravista dal profeta Ezechiele c’è il Mare Morto, stando alla geografia della terra di Israele. Fatto sta che qui noi sullo sfondo ritroviamo la predicazione di Ezechiele e tanti altri spunti, compreso un accenno, adesso nel v. 2, alle singolari prerogative che competono a questo albero che produce frutti abbondantissimi con una continuità inesauribile e che è dotato di una sua straordinaria capacità terapeutica. Rileggo: “In mezzoalla piazza della città e da una parte e dall'altra del fiume si trova un albero di vitache dà dodici raccolti e produce frutti ogni mese(vedete: dodici raccolti, ogni mese nel senso che è sempre in produzione, sistematicamente, continuamente, inesauribilmente); le fogliedell'albero servono a guarire le nazioni”. Anche le foglie sono dotate di un valore eccezionale perché hanno un’efficacia terapeutica: sono terapia (dice alla lettera, qui, in greco) per le nazioni. Torno ancora una volta indietro a quel secondo racconto della creazione nel cap. 2 (che si prolunga nel cap. 3), che è il racconto del peccato. Nel giardino, ricordate, il peccato ha a che fare con l’uso dei frutti prodotti dagli alberi, con l’alimentazione. Ebbene, val la pena di richiamare qualche dettaglio su cui poi non insisto. L’albero della vita è nel centro del giardino, ma il Signore Dio dice all’uomo: guarda che c’è l’albero della conoscenza del bene e del male, che non sta nel centro del giardino; esso produce frutti di cui è bene che tu non ti cibi, non ti riguardano; c’è un limite perché laddove tu sei chiamato a entrare in relazione di vita, in comunione di vita con Me, Creatore, tu non sei Dio, non sei Creatore, tu sei creatura. Ricordate che quando, nel cap. 3, leggiamo il racconto della tentazione l’angelo dice: vedi – si rivolge alla donna – che Dio ti ha proibito di mangiare dei frutti che sono prodotti dall’albero che sta nel centro del giardino. Ma nel centro del giardino ci sta l’albero della vita e Dio non ha mai proibito di mangiare i frutti dell’albero che sta nel centro del giardino. Anzi, l’angelo dice: Dio ti ha proibito di mangiare i frutti di tutti gli alberi; la donna dice: no, ci ha proibito soltanto di mangiare i frutti dell’albero che sta nel centro del giardino. Vedete che questo suo modo di rispondere, di reagire, in realtà comporta già uno scombussolamento per quanto riguarda l’ordine del quadro all’interno del quale Dio ha collocato le sue creature, perché nel centro del giardino non c’è l’albero della conoscenza del bene e del male ma c’è l’albero della vita. E vedete che nel modo di rispondere al serpente la donna già mette al centro del giardino il dato oggettivo di quel limite che riguarda lei e riguarda ogni altra creatura umana. Ed è esattamente già in questo spostamento del centro che noi riscontriamo ormai un principio di deviazione, di corruzione, di quello che sarà poi il tracollo successivo perché al centro non c’è più l’albero della vita; al centro c’è il fastidio di non essere Dio. E’ diventato il centro, mentre nel centro del giardino c’è l’albero della vita. Vedete che, perso il centro, è perso il giardino ed è persa la vita.

Giovanni ci tiene a precisare che siamo nel centro della piazza perché abbiamo a che fare non con un altro albero, con un riferimento che, in un modo o nell’altro, stia lì a dimostrare come noi siamo limitati, siamo insufficienti, siamo creature, siamo bisognosi di questo e di quell’altro, che è esattamente il discorso con cui la donna vorrebbe reagire al serpente. In realtà già lei stessa è intrappolata in quella contraddizione interiore per cui ha messo al centro l’albero della conoscenza del bene e del male e non più l’albero della vita che invece Dio ha collocato là dove il giardino è stato preparato appositamente per quella pienezza di comunione che Dio vuole condividere con la creatura umana; per quella pienezza di vita che costituisce la vocazione stessa da Lui donata agli uomini.

Ed ecco che qui la centralità dell’albero rispunta, e rispunta in mezzo alla piazza, in mezzo alla storia, in mezzo a quella che è l’esperienza della vita umana così come si trascina derelitta, randagia, esule stando a quella che è la condizione di fatto con cui ogni generazione e ognuno di noi deve fare i conti. Ebbene, dal centro rispunta; centro non in senso geometrico, ma nel senso che adesso la piazza, la storia, la nostra vita umana ritrova il centro in modo corrispondente al disegno originario di Dio perché lì ecco l’albero della vita, il crocefisso, sorgente di vita. Il crocefisso signore della vita, maestro della vita. Quale che sia la periferia di questo mondo in cui ormai la nostra esistenza umana può trascinarsi, quale che sia il momento tragico della storia umana in cui noi restiamo oggettivamente, fisicamente, proprio tecnicamente intrappolati, quale che sia l’angoscia che ancora ci imbriglia nei movimenti interiori dell’animo umano… il crocefisso: è lì la centralità, quella centralità ritrovata che ci riconduce alla pienezza della vita, ci restaura, in relazione alla nostra vocazione alla vita, così che ormai tutto è veramente rinnovato. E là dove, stando all’apparenza immediata, esteriore del nostro vissuto, della nostra storia, della nostra città, abbiamo a che fare con esperienze di squallore inenarrabile, ecco che spunta il crocefisso, spunta l’albero della vita, è il centro, ed è il centro nel senso che c’è una pienezza di vita che oramai è messa a disposizione sempre e dappertutto di ogni creatura umana quale che sia il contesto in cui si viene consumando la sua esistenza. Notate bene: di questo può parlarci Giovanni a partire dalla fine; la vita nuova. E allora vedete qui, subito, di seguito i vv. 3-5. Dinanzi a noi è l’immagine oramai emergente, determinante, inconfondibile del crocefisso che è sorgente della vita, una rivelazione di amore che è portatore in sé di una fecondità universale, per la vita di tutti gli uomini. Qui sono sintetizzate quelle immagini a cui siamo più o meno abituati in quanto abbiamo recepito la voce di antichi profeti. Pensate a Isaia che canta le prerogative del servo: “dalle sue piaghe siamo stati guariti”, “ecco la medicina”; ricordate “il trafitto”, di cui si parla nel libro di Zaccaria, che è esattamente il garante di quella terapia che risana dall’interno la nostra vita malata, piagata, prigioniera di tutte le conseguenze del peccato che vanno verso la morte e risucchiata in un vortice – Giovanni ne parla nel v. 3 – di “maledizioni”, un vortice di vergogne là dove quelle che dovevano essere le nostre relazioni vitali e là dove la nostra vita doveva esprimersi, espandersi, crescere fino alla pienezza della comunione con il Dio vivente, noi invece siamo bloccati, intrappolati, mortificati, costretti a sperimentare la malattia e l’infamia di una vita maledetta. E maledetta non perché qualcuno abbia voluto punirci, ma perché viene meno la centralità dell’albero; non c’è più il giardino, ma non c’è più la vita, non c’è più la benedizione; c’è la maledizione. La nostra vita diventa un percorso lungo il quale ci trasciniamo urtando contro ostacoli che ci rimandano costantemente al nostro fallimento, alla nostra incapacità di vivere, alla nostra angoscia di creature che non sanno vivere. Ebbene, vedete, adesso: “non vi sarà più maledizione”, dice il v. 3, perché nel giardino della vita laddove l’albero sta nel centro, quello che in noi era esperienza di fatica, di delusione, di amarezza, di sconfitta, di morte, tutto quel che in noi era motivo per rimanere prigionieri di una maledizione dolorosissima, tutto è rigenerato dall’interno, tutto rivive dalla radice, dalle fondamenta. Abbiamo ritrovato il centro e anche la nostra vergogna, la nostra fatica, la nostra solitudine, i nostri affanni, le nostre angosce, le nostre malattie, tutto di noi è ricapitolato in obbedienza alla vita: non c’è “più maledizione”. Vedete come tutto ritorna a confermare il valore di quella vocazione alla vita che Dio ci ha donato fin dall’inizio; ci ha creati per la benedizione, non c’è più “la maledizione”, ma tutto viene ricomposto in modo tale che la benedizione originaria circoli fra di noi. Così è veramente ricapitolato tutto e lo possiamo comprendere soltanto in relazione al crocefisso sorgente della vita. Ecco come tutto quello che in noi è esperienza di maledizione acquista il valore intrinseco di una conferma che ci riporta alla originaria benedizione che Dio ha voluto donare a noi, creature umane, chiamate alla pienezza della vita. E’ il Mistero Pasquale. In realtà sappiamo bene fin dall’inizio che non c’è mai niente di nuovo, ma con una chiarezza sempre più travolgente ci riporta sempre allo snodo decisivo. D’altronde tutto avviene mentre Giovanni, nel giorno di domenica, partecipa alla celebrazione dell’eucaristia, il Mistero Pasquale; ma il Mistero Pasquale non considerato come un dato dottrinario o una teoria da collocare in qualche libro per esperti di teologia: è la vita nuova, è la vita pasquale, è la vita che è in grado di assorbire in sé i dati della maledizione e accogliere l’inesauribile potenza di quella corrente d’amore che è terapia per rieducarci alla vita. “E non vi sarà più maledizione. Il trono di Dio e dell'Agnello sarà in mezzo a lei(è la piazza della città, il giardino) e i suoi servi lo adoreranno”. Non traducete così, ma “i suoi servi gli renderanno culto” nel senso di un servizio e nel senso che tutto, ormai, diviene un modo positivo per consentire agli uomini di presentarsi a Lui, consentire a noi di offrire a Lui come servizio quello che in noi è la conseguenza maledetta di quel fallimento. Ricordate nel cap. 3 del Genesi, alla donna: “tu partorirai nel dolore”; all’uomo: “tu lavorerai con il sudore della fronte”. Tutto quello che nell’esperienza degli uomini è sudore versato tra le pietre, brancolamento tra le spine, trascinamento di desideri, di progetti che rimangono impossibili, inconcludenti se non addirittura devastanti, pericolosi, motivo di disordine che moltiplica le tribolazioni di tutti; le doglie della donna che partorisce… “non vi sarà più maledizione”, nel senso che la grande fatica di vivere è tutta impregnata di questa novità per cui tutto diventa “servizio”; tutto, vedete, viene registrato nella prospettiva di quel regime di benedizione che era stato progettato fin dall’inizio. E’ ancora una volta un modo per ricapitolare il senso di tutta la storia umana che si attua come offerta di un servizio gradito a Dio; quello che in noi era il carico dei nostri dolori e delle nostre vergogne diventa esattamente il contenuto di quella offerta che finalmente può essere presentata per il servizio di Dio. “I suoi servi allora gli presteranno servizio, gli renderanno culto, vedranno la sua faccia(è una citazione del Salmo 17); pochissime parole che richiamano anche più direttamente alcuni personaggi; pensate a Giacobbe (cap. 32 del Genesi), a Mosè (Esodo cap. 3, e poi nel cap. 34): “vedranno il suo volto”. Nel linguaggio antico-testamentario questa visione del “volto” coincide con la possibilità di presentarsi a Lui, di comparire davanti a Lui, l’Invisibile, il Santo. Come ritrovare il contatto con il Santo, che è il Vivente, e come ritrovare un percorso che consenta, per uomini come noi così disastrati e compromessi, di ritrovare una comunicazione con il Dio vivente da cui poi riceviamo la benedizione di cui abbiamo bisogno per vivere? “Vedere il Suo volto”. E adesso, vedete “vedranno il Suo volto e porteranno il suo nome sulla fronte”. Anche questo è un accenno che, in modo così stringato, ricapitola tutto il percorso della storia della salvezza fino a quel momento in cui, nel Vangelo secondo Luca, ricordate, c’è un personaggio che chiama il Signore per nome e gli dice: “Gesù ricordati di me nel tuo regno” (quello dei due ladroni che, in questa circostanza, diventa il “buon” ladrone). Lo chiama per nome “Gesù ricordati di me”. Ricordate la risposta: “Oggi con me in Paradiso”, oggi con me nel giardino della vita perché oggi tu mi chiami per nome”; e chiamar per nome Lui significa essere ormai coinvolti in una relazione di intimità, di amicizia, di parentela, di consanguineità: Gesù. Questo è il motivo per cui, successivamente alla Pasqua del Signore, negli Atti degli Apostoli, tutto avviene nel nome di Gesù, in quanto siamo in grado di chiamarLo per nome e di guardarLo in faccia. Si guardano in faccia Gesù crocefisso e morente e il ladrone che dice “io sono colpevole, tu sei innocente”: “Gesù ricordati di me nel tuo regno”, “oggi con me nel giardino della vita”. “Porteranno il suo nome sulla fronte”. La volta scorsa vi parlavo di Caino, se ricordo bene. Ricordate che anche Caino porta sulla fronte un tatuaggio, un segno e qui c’è un accenno al nome tatuato sulla fronte, non soltanto il nome ma c’è un accenno anche a un “segno”. Caino già fin dall’inizio è stato dotato di questo segno: “Guai a chi tocca Caino” (Gen. 4, 15).

V. 5: “Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illumineràe regneranno nei secoli dei secoli”. E ancora una volta questo versetto conferma quel che Giovanni ci sta illustrando: nella tristezza della nostra condizione umana ormai scintilla, anzi sprizza, scoppia la gioia della nostra vita nuova, come essa appare a partire dalla fine; ma è la vita nuova di cui già è dotata la nostra misera condizione umana. E vedete come, a partire dalla fine, il messaggio di consolazione arriva fino a noi e ci raggiunge nella nostra condizione umana così miserabile, così triste, così dolente. E, d’altra parte, proprio nel confronto faccia a faccia con il crocefisso, nella possibilità di chiamarLo per nome, c’è la scoperta di quale solidarietà ormai ci lega a Lui: un vincolo di amicizia indissolubile. E’ proprio nella relazione con Lui questa novità imprevedibile, e per noi travolgente, per cui il dolore, nella sua innocenza, diventa medicina che guarisce il nostro dolore di creature che portano un’eredità di colpa; fra il dolore dell’innocente e il dolore dei colpevoli. Un contatto è realizzato per cui la miseria della nostra condizione umana è irrorata: “il Signore Dio li illumineràe regneranno nei secoli dei secoli”. E’ la regalità festosa di quella vita nuova che per Giovanni è prerogativa inconfondibile dei discepoli del Signore, del popolo cristiano ma che in realtà riguarda ogni uomo in quanto tale, ogni creatura umana dovunque conduca la propria esistenza. Un’attrazione irresistibile, che coinvolge la vita derelitta di tutti gli uomini là dove ormai è stato piantato, nel centro della piazza e nel luogo infame e immondo della nostra condizione umana, l’albero della vita.



Primo epilogo: Gesù vuole il nostro AMEN

Dal v: 6 gli epiloghi. Uso il plurale perché possiamo individuare almeno due epiloghi. Il primo va dal v. 6 al v. 15; il secondo, dal v. 16 in poi. “Poi mi disse: «Queste parole sono certe e veraci. Il Signore, il Dio che ispira i profeti, ha mandato il suo angelo per mostrare ai suoi servi ciò che deve accadere tra breve”. Dunque conosciamo questa espressione come tipica del linguaggio apocalittico che, per l’appunto, ci aiuta a dir le cose come io ho tentato di proporle a voi fin dall’inizio: si tratta di vedere la storia dalla fine, ossia dalla parte di Dio. “Ciò che deve accadere tra breve” è un’espressione che leggiamo nel libro di Daniele; l’abbiamo incontrata nei primissimi versetti dell’Apocalisse e la ritroviamo qui; ma vi ho incoraggiato a intendere questa espressione nel senso che sappiamo. Adesso il messaggio è completo, ed è indirizzato a un popolo di profeti o di servi con la mediazione di un angelo. In questo caso, poi, è direttamente interpellato Giovanni perché svolga anch’egli una funzione profetica a motivo di edificazione per il popolo cristiano e quindi, in prospettiva, per tutta l’umanità. Questa testimonianza profetica per la quale Giovanni è stato convocato si svilupperà nella forma di un libro. “Poi mi disse: «Queste parole sono certe e veraci. Il Signore, il Dio che ispira i profeti, ha mandato il suo angelo per mostrare ai suoi servi ciò che deve accadere tra breve. Ecco, io verrò presto”. Irrompe una voce, in prima persona singolare; è la voce di Colui che viene; è, esattamente, la voce dell’Agnello immolato e vittorioso; è la voce del Signore Gesù che noi chiamiamo per nome. “Ecco, io verrò presto. Beato chi custodisce le parole profetiche di questo libro”. Dunque beatitudine; messaggio di consolazione per chi, attraverso questo libro, sarà aiutato a trovare conferma circa l’appartenenza al disegno redentivo di cui “Io sono protagonista”; lo afferma Lui stesso, in prima persona singolare. Questa beatitudine è per noi: due anni di lavoro per ricevere questa beatitudine: “Beato chi custodisce le parole profetiche di questo libro”. E adesso interviene direttamente il nostro Giovanni, vv. 8-10: “Sono io, Giovanni, che ho visto e udito queste cose. Udite e vedute che le ebbi, mi prostrai in adorazione ai piedi dell'angelo che me le aveva mostrate. Ma egli mi disse: «Guardati dal farlo! Io sono un servo di Dio come te e i tuoi fratelli, i profeti, e come coloro che custodiscono le parole di questo libro. E' Dio che devi adorare. Poi aggiunse: «Non mettere sotto sigillo le parole profetiche di questo libro, perché il tempo è vicino»”. Giovanni si presenta – come all’inizio, nel cap. 1 – direttamente. Leggevamo nel cap. 1 di quello che gli è capitato nel tempo della persecuzione quando, esule a Patos e nel giorno del Signore, la domenica, partecipa alla celebrazione dell’Eucaristia. Adesso il libro si conclude rimandandoci a quel contesto liturgico nel quale Giovanni “ha visto” come, nel Mistero del Signore Gesù che è morto ed è risorto, Dio ha realizzato quell’opera di salvezza che con potenza di Spirito Santo aveva inaugurato fin dall’inizio della creazione. E Giovanni è sollecitamente soccorso dall’angelo a non comportarsi in modo scorretto perché l’adorazione spetta a Dio e soltanto a Lui e vedete qui come l’angelo, rivolgendosi a Giovanni, dice di sé: “Io sono un servo di Dio come te e i tuoi fratelli”. E’ importante questo accenno alle relazioni fraterne. “I profeti”: abbiamo avuto a che fare a più riprese con accenni del genere. C’è una testimonianza profetica che conduce fino al martirio: è la testimonianza nel senso forte, nel senso più preciso del termine: martyria, martirio. Dunque, i tuoi fratelli profeti e il libro che adesso Giovanni ha scritto stanno in continuità con la missione profetica a lui assegnata che, a sua volta, sta in comunione con quella di innumerevoli fratelli che hanno esercitato e stanno esercitando una testimonianza profetica fino al martirio. Questa testimonianza è viva, questa testimonianza tiene aperto il libro. Vedete: chi può tenere aperto il libro se non chi si inserisce nella continuità con questa tradizione profetica che è la testimonianza della vita cristiana per quanto povera e sofferente sia? E’ la testimonianza fino al martirio: martirio luminoso, festoso, glorioso, martirio che porta in sé la fecondità di quell’evento pasquale che una volta per tutte ha riconciliato il cielo con la terra, il Creatore con le creature, l’eterno con il tempo che si consuma.

Il perverso continui pure a essere perverso, l'impuro continui ad essere impuro e il giusto continui a praticare la giustizia e il santo si santifichi ancora”. Qui lo sguardo è rivolto a quella che è la realtà del mondo, la realtà di una generazione, della nostra generazione nel momento in cui riceviamo anche noi il messaggio attraverso il libro che leggiamo. C’è di mezzo la realtà della vita cristiana così come è costantemente esposta a imbavagliamento, a corruzione, a sbandamento; fatto sta che il conflitto è incalzante e in ogni caso non si possono trascurare le ambiguità; esse vengono a galla, appaiono in tutta la loro paradossale contraddizione. Perverso? “Il perverso continui pure a essere perverso, (l’impuro?) l'impuro continui ad essere impuro e (il giusto?) il giusto continui a praticare la giustizia e il santo si santifichi ancora”. Siamo nel pieno del conflitto e riguarda la realtà della storia del mondo, la vocazione alla vita di ogni uomo, riguarda anche la Chiesa. Certo, la vita della Chiesa. Vv. 12-13: “Ecco, io verrò presto”, è la voce del protagonista che, ancora una volta ritorna in prima persona singolare. “Ecco, io verrò presto e porterò con me il mio salario, per rendere a ciascuno secondo le sue opere”. Questa ricompensa, che porterà con sé, sta qui a dimostrare come Egli ritorna perchè questa è la relazione che vuole instaurare, questo è il motivo della Sua ricerca, della sua pressione, della sua spinta, della sua sollecitudine, della sua irruenza, della sua venuta, anche se pazienta per secoli e millenni. Vuole instaurare un contatto a tu per tu, un contatto che trovi corrispondenza; questo vuole: ottenere finalmente quell’”Amen” da parte degli uomini che corrispondono a Lui nella libertà dell’amore così come dall’eternità del grembo del Dio vivente gli uomini per un puro motivo d’amore sono stati chiamati. “Ecco, io verrò presto e porterò con me il mio salario, per rendere a ciascuno secondo le sue opere”. E di nuovo una beatitudine, nel v. 14: “Beati coloro che lavano le loro vesti”. Questa beatitudine riguarda più precisamente la condizione battesimale di coloro che sono ormai consapevolmente inseriti nell’opera redentiva di Cristo: “lavano le loro vesti” nel sangue dell’Agnello: i beati. E’ la settima. Potremmo tornare indietro nella lettura del libro dell’Apocalisse e rintracciare le sette beatitudini. Questa è l’ultima; e qui è direttamente interpellata la nostra vita battesimale. “Beati coloro che lavano le loro vesti: avranno parte all'albero della vita e potranno entrare per le porte nella città”. Le immagini si ricompongono, si sovrappongono e si identificano: avranno parte all’albero della vita e potranno entrare per le porte della città; nel centro della storia. “Fuori i cani, i fattucchieri, gli immorali, gli omicidi, gli idolàtri e chiunque ama e pratica la menzogna!”. Non c’è più spazio per l’idolatria; è l’Evangelo che opera efficacemente determinando questo filtraggio, per cui tutte le menzogne idolatriche sono progressivamente drenate, espulse, cancellate. Le menzogne dell’idolatria: c’è da intendere tutto quel che, nella storia degli uomini, vorrebbe negare quell’iniziativa d’amore per cui Dio fa nuova la vita umana. Badate bene che l’accenno ai cani, qui nel v. 15, probabilmente interpella qualcuno che ufficialmente ha l’identità di cristiano ma in realtà è preda della menzogna: ci sono falsi cristiani? Ci sono pagani nascosti? Ci sono dei cani in noi.


Secondo epilogo: MARANÁ THA

Vv. 16-21: “Io Gesù (non si finisce mai, è proprio vero: la fine è già arrivata, c’è solo da impregnarci di questa pienezza già realizzata) ho mandato il mio angelo (è Lui che parla ancora direttamente) per testimoniare a voi queste cose riguardo alle Chiese. Io sono la radice della stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino”. E’ Lui che, attraverso la missione affidata alle Chiese, chiama gli uomini a vivere nella prospettiva di quella vittoria che compete a Lui che è morto, risorto; “ho mandato il mio angelo” a questo scopo. E si presenta dicendo di sé che in Lui si sono compiute le promesse messianiche: “Io sono la radice della stirpe di Davide(Is. Cap. 11 e altri testi ancora), la stella radiosa del mattino”. Non soltanto Colui che porta a compimento le promesse antiche, ma Colui che porta in sé l’annuncio di un giorno nuovo. E’ veramente Colui che interpreta, già come alba di un giorno che sorge per non tramontare mai più, la novità del mondo: “la stella radiosa del mattino”. C’è da rileggere il libro dei Numeri, cap. 24 e altri testi ancora. V. 17: “Lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni!».” Ci ritroviamo in un contesto liturgico così come tutto nel nostro libro si è inserito fin dall’inizio nell’ambito di una celebrazione eucaristica; siamo nel contesto di un dialogo di Dio. La sposa è la comunità cristiana, è il popolo assetato che arranca con tanti motivi di incertezza e di affaticamento: “E chi ascolta ripeta: «Vieni!». Chi ha sete venga; chi vuole attinga gratuitamente l'acqua della vita”. Questo è il popolo assetato ma è il popolo ristorato, vivificato nel contatto con Gesù; e la comunità cristiana è in ascolto, è rivolta verso la Parola che proviene dalla bocca del suo unico Signore ed è lo Spirito che soffia, sostiene, rende coerente l’invocazione “Vieni!”. Lo Spirito già sta suscitando profeti nella comunità cristiana e sulla scena del mondo, nel corso della storia; è lo Spirito che inesauribilmente, costantemente, potentemente è all’opera per sostenere la vocazione di coloro che sono chiamati in qualità di profeti a testimoniare con la vita. E adesso, dopo l’invito che leggiamo nel v. 17, un avvertimento, vv. 18 e 19: “Dichiaro a chiunque ascolta le parole profetiche di questo libro: a chi vi aggiungerà qualche cosa, Dio gli farà cadere addosso i flagelli descritti in questo libro; e chi toglierà qualche parola di questo libro profetico, Dio lo priverà dell'albero della vita e della città santa, descritti in questo libro”. Un avvertimento solenne, conclusivo: capiamo che qui si tratta di una questione di vita o di morte; nella continuità di quell’evangelizzazione che già ci ha preceduti e che si prolungherà oltre di noi, ma che passa attraverso di noi, nella continuità di questa evangelizzazione che adesso coinvolge noi, è filtrata, nella sua forma più radicale, la qualità della nostra vita. Stiamo vivendo in pienezza o stiamo ancora una volta rinunciando a vivere? In ogni caso l’Evangelo procede, in ogni caso Lui viene. “Colui che attesta queste cose dice:« Sì, verrò presto!». Amen”. Ecco: Amen. E’ una risposta liturgica: SÌ, “vieni, Signore Gesù”. Guardate bene come questa invocazione nel primo periodo della storia dell’evangelizzazione è stata così significativa da ricapitolare in qualche modo l’identità stessa di una comunità di discepoli, della vita cristiana, della visione della Chiesa. “Vieni, Signore Gesù(Maranà tha). La grazia del Signore Gesù sia con tutti voi. Amen!”.


Lectio divina

L'Apocalisse 2007-08