Incontri di discernimento e solidarietà
 
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18 aprile 2009


“Cultura e politica al tempo di Lazzati e oggi”


Ruggero Orfei



Dopo quasi venti anni dalla sua morte, meditare oltre che ricordare la figura di Giuseppe Lazzati appare arduo. C’è una distanza «ambientale» nella quale è contenuto un certo deperimento dei temi, problemi, spinte morali che imponevano ruoli che adesso sembrano più difficili: si sarebbe tentati di dire sterili.

Si prova, provo anzi, una difficoltà a proporre o a riproporre una persona che si è distinta nella storia della Chiesa e nella storia d’Italia con molti titoli e senza mai la pretesa di impartire insegnamenti totalizzanti e definitivi. Il ruolo rilevante che da vero seminatore il Professore ha svolto, certamente ha lasciato tracce profonde, ma manca una linea culturale successiva diffusa di coltivazione.

Vivente ancora, fu aspramente attaccato su un settimanale di cattolici «Il sabato» in modi inaccettabili, tanto che anche qualche autore di allora, oggi ha sentito il bisogno di esprimere e dichiarare rammarico e pentimento. Quello che va notato è che allora l’attacco più che alla persona era rivolto al messaggio che investiva la presenza dei cattolici nella vita pubblica.

Fino allora pareva affermata una specie di egemonia che era passata attraverso il Concilio e che realizzava nella pastorale la teologia delle realtà terrene. Sorgeva invece una spinta integralista che in seguito si è attenuata, ma ha lasciato lesioni e ferite in varie direzioni, e soprattutto ha lasciato sul terreno, in agonia, un cattolicesimo democratico organizzato, capace di programmi sociali e comuni, che mentre passava nella crisi mortale della Dc, avrebbe dovuto essere piuttosto sviluppato che messo da parte.

Per quel che riguarda l’esperienza giovanile che ci ha messo a contatto con Lazzati, quello che rimane vivo e attuale, operante si direbbe, è proprio l’insegnamento. In Lazzati questo si rivela come un’iniziativa riferita al prossimo e un atteggiamento personale e soggettivo teorico e pratico, insieme, che realizza pensiero e azioni in forme e modi che conservano oggi la loro attualità. Sarebbe meglio parlare di una loro reiterata urgenza.

Ciò che colpisce di più nella biografia di Lazzati è che egli non si è mai sottratto alla contraddizione. Non ha evitato il conflitto.

Per qualche verso appare come un lottatore tenace e combattivo. Ma, poi, la sua figura si realizza su un altro piano, secondo altri aspetti. Lazzati è ovviamente un uomo mite e solo con la severità verso i propri atteggiamenti talora può essere sembrato freddo e anche duro. Ma l’uomo di fede, l’uomo di Dio non ha mai abdicato a un dovere non solo di carità ma di testimonianza di uno stile basato sull’ascolto, sulla comprensione e sul dialogo attento.

Lazzati negli affari di questo mondo metteva l’occhio caratteristico dei santi e dei profeti. Vedeva dentro e vedeva a fondo. Così coglieva i particolari, quelli che poi determinano il vero giudizio e le scelte.

Nel parlarne sembra quasi sconveniente tentare un bilancio che veda quello che è durevole e quello che potrebbe essere giudicato caduco nel suo insegnamento.

Ciò dipende certamente anche dal tempo scombinato che stiamo vivendo. La sua passione per Jacques Maritain forse derivava dalla sua aderenza a un metodo consacrato nel motto «distinguere per unire» che era stato il titolo di un saggio del filosofo cattolico francese.

Lazzati era un tomista moderno che aveva visto nel messaggio del grande Aquinate, san Tommaso, una fondazione della politica che prendeva le mosse dalla naturalità dello stato e della comunità, predisposta dal Creatore. Vedeva l’ordine politico come un complesso di azioni e di operazioni che investono tutti, nelle quali le collaborazioni sono ovvie e doverose, fermandosi certamente laddove poteva entrare in causa un valore di verità cristiana messa a rischio e la vita della Chiesa.

La ricerca di un ordine intellettuale che fosse capace di guidare i passi nell’azione temporale fu un impegno continuo e costante di Lazzati. Qui si colloca la sua visione della Grazia divina che tutto informa e rappresenta l’azione di Cristo in ciascuno di noi.

Il senso della diversità e di quello che cambia trovava in lui, dunque, non una sintesi verbale e retorica, ma un habitus morale vero e proprio che in apparenza dava quel senso di bonaria serenità a un uomo che sapeva di non dovere giocare tutte le sue energie nelle scelte storiche - politiche. Vedeva la crescita umana nel suo complesso. Quella che si esprimeva nell’idea di civitas humana o della città dell’uomo, come luoghi ideali entro cui l’umanesimo integrale e non il clericalismo integralista giocava il suo ruolo. In tutti i campi.

E, infatti, Lazzati esprimeva sempre un disagio, un rammarico, per non potersi dedicare interamente allo studio che lo appassionava, come diceva, di più come una meditazione sulla storia.

O meglio, nelle scelte storiche dovevano trovarsi anche quelle indicazioni e quelle scelte concrete che dovevano guidarci verso altri fini e altre mete.

L’uomo spirituale che fu, portava Lazzati ad avere un discernimento in questioni diverse, di politica, di costume, di amministrazione (quando era direttore del quotidiano «L’Italia» dovette occuparsi persino delle matite che gli venivano lesinate, da un'amministrazione che gli remava contro), di esercizio d'autorità quando fu rettore dell’Università cattolica del Sacro Cuore.

Col parlare di Lazzati non si può entrare, per così dire, in competizione critica con un personaggio con quelle caratteristiche eccezionali che saranno certamente messe in luce nel processo di beatificazione.

Esiste un'ampia documentazione sulla sua opera, ma a noi preme adesso cogliere in lui colui che indica la strada, che aiuta i fratelli non solo ad avere fede, a confortarsi nella speranza, ma anche a camminare rettamente su questo mondo in una dimensione sociale e comunitaria che egli vedeva articolata in tante forme.

Indubbiamente, come disse in una commemorazione il cardinale Achille Silvestrini, Lazzati deve essere storicamente collocata, per capirne non solo il tessuto complessivo del suo discorso, ma anche le sfumature, i riferimenti immediati che sono sempre risposte alle domande del tempo.

Questo, d’altronde, è nello spirito del personaggio che con la sua iniziativa negli istituti secolari e soprattutto in quello da lui fondato dei Milites Christi regis, cercava una forma nuova di stare nel tempo e contemporaneamente di non farsene servo. Era, in fondo, l’insegnamento della Lettera a Diogneto a lui estremamente cara e considerata, forse da lui sempre ricordata e si direbbe vissuta come un manifesto della vita cristiana che poi banalmente è stata definita «impegnata». L’istituto secolare, come è noto, è una realtà originale del nostro tempo: è una dimensione monacale, ma senza monastero e soprattutto senza essere monaci. Questo, in termini poveri come possono essere i nostri che dobbiamo soprattutto capire e spiegarci, è il senso dello stare nella contraddizione. Stare dentro il tempo significa non sfuggire mai alle domande. Così si è sempre in questione. Ma sarebbe sbagliato intendere questo alla maniera esistenzialista, che sarebbe quanto di più lontano e antitetico all’essere di Lazzati. In realtà, l’ancoraggio alla fede sostenuta da una Grazia divina sempre voluta e accettata, è tutt’altra cosa. Una realtà che non è dedizione filantropica, ma adesione a un disegno creatore basato sull’espansione dell’amore divino.

In questo senso, è lontana da Lazzati l’idea di vivere in un perenne monte Tabor, dove le delizie dell’eternità non vengono neppure più sfiorate dalla storia. Il Tabor è il mondo e quando Lazzati parla della città dell’uomo intende questo pure sapendo che le città sono due, ma per noi stare nel tempo significa dare un’attenzione a quella della nostra vita storica che è tesa certamente verso un'altra patria che non ci comprende al presente.

La vita di Lazzati potrebbe apparire persino di scarso rilievo di avvenimenti. Non compare nelle discussioni in posizioni aspre e destinate a cercare identità nella contrapposizione.

Eppure egli è stato uomo di organizzazione nell’Azione cattolica. È stato un vero eroe nella vita del campo di concentramento prima in Polonia e poi in Germania dove era internato come ufficiale degli alpini dai tedeschi ai quali non si era sottomesso.

Per quanto riguarda la sua attività nell'A.C. forse è utile ricordare quel che accadde negli anni 1945-46.

Lazzati quando ritornò dal campo di concentramento di Deblin Irena era ancora il presidente della Giac milanese. In seguito alla chiamata politica si era dimesso e il 20 ottobre 1945 ne scrisse al cardinale Schuster.

L'Azione cattolica, comunque, per lui rimaneva la casa naturale e quando dopo la Costituente egli pensò di lasciare la politica aspirava «ardentemente», davvero, a diventare presidente nazionale della Giac (come emerge da una sua nota pubblicata nel volume di Malpensa e Parola Lazzati. Una sentinella nella notte 1909-1986.).

Pier Lorenzo Meloni, che era stato con lui in campo di concentramento ed era consultore della Giac come rappresentante regionale per l'Umbria, ritornò da Roma e mi raccontò come erano andate le cose per Lazzati e l'A.C. Era accaduto che la nomina di Lazzati era cosa fatta ed esisteva già il decreto, o che so altro, con la nomina pontificia ed era stato inviato al Papa. Tuttavia questi si trovò a firmare un atto diverso che vedeva nominato invece Carlo Carretto. Il caso poi è raccontato con documentazione nel volume citato di Malpensa e Parola, (p.519), sebbene non vi si parli dello scambio di carte di cui ho solo la testimonianza di Meloni che però l'aveva saputo dallo stesso Lazzati.

Svolse un particolare apostolato, tra i commilitoni, in quelle condizioni racchiuse da reticolati, in un mondo assai ristretto eppure ricchissimo di umanità. I suoi compagni di prigionia erano in larga misura gente di primo piano: alcuni avranno ruoli importanti poi nella vita pubblica italiana.

Egli faceva apostolato, dunque, dando un senso particolare a una condizione di sopraffazione alla quale diceva di doversi adattare pro tempore, in una prova di eccezionale valore. I ricordi di chi fu con lui sono impressionanti, sapendolo e vedendolo, anzi seguendolo, sempre vigile e resistente, in condizioni difficilissime, senza mai venir meno a una dignità umana e cristiana che doveva far vedere anche esteriormente. Un maestro vero dunque anche in quei frangenti.

Da sola quell’esperienza, in verità, potrebbe segnare un uomo per sempre, facendolo vivere di quel ricordo. Lazzati andò oltre e accettò di fare politica, proprio per affermare principi che erano la materia prima dell’impegno alla Costituente, dove si elaborava la legge fondamentale degli italiani. Lo ricordavano anche altri, della commissione dei 75, quelli che scrissero, di fatto, la Costituzione. Mi riferisco a uomini come Natta e Basso, che lo trovarono sempre un costituente aperto non deciso a difendere qualcosa, un principio o spesso soltanto una parola, ma i valori che un testo legislativo può veicolare anche nelle forme più elementari.

In questo senso, trovò, quasi naturalmente, nel legame con Dossetti, La Pira, Fanfani, Moro, e altri una consonanza che non riduceva le loro differenze. Anzi quella specie di consorzio umano e spirituale esaltava le differenze, tanto da stupire gli stessi protagonisti che costituirono un gruppo senza averne praticamente l’intenzione. Ciascuno, in effetti, aveva il suo ambiente di riferimento e ciascuno camminava verso esiti che poi fatalmente ci furono, e si aprirono. C’era una comune cultura dovuta principalmente alla formazione spirituale e culturale dell’Azione Cattolica. Avevano tutti in testa i principi della filosofia cristiana e l’elaborazione di Maritain che aveva offerto nel suo Umanesimo integrale come un manifesto di critica all’antropocentrismo ateo e all’integralismo clericale, ma che aveva proposto anche e principalmente, appunto, alcuni principi per la città dell’uomo. C’erano altri maestri di riferimento poi che si espressero in un'ecclesiologia estremamente vivace come quella di Chenu, Congar e Charles Journet che era della stessa scuola.

Poi ciascuno aveva referenze diverse, le università e in principale modo l’Università cattolica. Lazzati, tuttavia, a scanso di equivoci tali da alterare la sua fisionomia culturale, non fu mai un seguace o un adepto.

Lo stesso rapporto con padre Gemelli fu problematico anche nella visione della vita cristiana. Infatti, dapprima Lazzati fu membro dell’Istituto secolare dell'Opera della Regalità, ma poi se ne distaccò. Pare inoltre che non fosse del tutto d’accordo con l’impostazione data da Gemelli alla stessa università della quale poi dovette diventare il rettore.

Il gruppo dei grandi amici che lo trova membro attivo è, dunque, un vero «fronte» che tenta in condizioni difficili un cambiamento. Alla fine della guerra l’idea di un rinnovamento forse poté sembrare facile a tutti. Si erano già trovati a discutere del futuro dell’Italia. Credevano forse più mature certe condizioni. Ma Lazzati, come aveva fatto prima Dossetti, ad un certo punto si ritrasse dalla politica trovando non maturi i tempi per andare oltre una gestione piuttosto ordinaria, per la quale però ambedue si batterono sempre perché fosse almeno corretta e aderente ai fini del bene comune in fedeltà all’insegnamento cristiano e della Chiesa.

Lazzati operò un chiarimento che poteva apparire solo di dottrina. Riguardava il rapporto tra apostolato e azione politica. In due articoli, della fine del 1948, uno su «Cronache sociali» (Azione cattolica e azione politica, 15 novembre 1948) e uno su «Studium» (Valore dell'impegno politico, dicembre 1948), egli pose il problema dei rapporti esistenti tra due iniziative storiche e umane del cristiano. Queste iniziative se sono confuse possono generare, anzi, generano, come la storia della Chiesa intera mostra, gravi errori.

Egli sostenne - dicendolo in estrema sintesi come fui indicato dagli avversari integralisti - che la politica non è apostolato; e chiariva che il campo specifico dell’apostolato è la diffusione della vita di Grazia, mentre l’azione politica, pure ispirata alla dottrina cristiana, ha un campo proprio operativo e autonomo. La politica è una funzione architettonica della vita sociale, che si esprime in analisi concrete, in conoscenze tecniche, in chiarezza di fini di bene comune temporale, di armonia tra le varie parti di ogni comunità anche non concordanti sui principi, in un pluralismo di opzioni che non sono manifestazioni della professione di fede, anche se l'ispirazione religiosa può essere comune. La politica si colloca nel campo delle opinioni, sia pure conformi sempre al diritto naturale, mentre la fede sta in quelle della certezza nell'ambito della rivelazione e dell'insegnamento della Chiesa.

La carica polemica di questo assunto incontrò l’ostilità di Luigi Gedda, che si era impegnato con i comitati civici nelle elezioni precedenti, del 18 aprile. Con il comitato civico Gedda proponeva una formazione politica di diretta discendenza dall'Azione cattolica e quindi dipendente dalla gerarchia ecclesiastica. Se si presentava come organismo che implicava responsabilità dirette dell’A.C. e quindi dell’episcopato la politica stessa avrebbe assunto un carattere uniforme, e si sarebbe inquadrata in una disciplina per sua natura dogmatica. Più volgarmente, clericale.

La reazione agli articoli di Lazzati fu notevole e suscitò una vera divisione tra i cattolici, anche quelli militanti nella Democrazia cristiana. Tuttavia, poi, nell'esperienza successiva i cattolici democratici alla fine furono concordi con Lazzati, ma la disciplina continuò ad essere quella unitaria: per intenderci del «pratico» partito unico dei cattolici, quello degli otto milioni di voti del 1946 e dei dodici del 1948, assai meno della maggioranza del popolo italiano che pure si professava cattolico. che in fondo vedeva schierato un fronte politico cattolico unitario.

Quella posizione rimase però uno dei legati del pensiero lazzatiano che doveva entrare nella formazione di tanti giovani cattolici.

Al momento Luigi Gedda scese in campo con durezza. Ricordo che ancora durante le feste natalizie, a ridosso dell'Epifania, venne a Perugia dove fu convocata nella sede delle Donne di A.C., una riunione ristretta dei dirigenti alla quale partecipai in quanto membro del Centro diocesano della Giac.

Gedda non si perse in preamboli, dopo ave messo in luce le difficoltà dell'intero movimento cattolico. Egli prese le mosse proprio dai due articoli citati di Lazzati, per poi ampliare il discorso. Egli disse: «Pensate che Lazzati è arrivato a dire che la politica non è apostolato». L'affermazione fece impressione, perché nella cultura cattolica di allora, non valutando appieno il significato dei concetti e dei termini messi in campo, pareva ovvio che la politica fosse apostolato, per questo riguardava anche l'A.C. La reazione fu sostanzialmente di scandalo da parte degli astanti. Non tutti, tuttavia, anche se tacquero, come don Carlo Urru che era l'assistente diocesano della Giac ed era stato allievo di Lazzati alla Cattolica dove si era laureato proprio con lui. Poi Gedda aggiunse anche che il Santo Uffizio stava per inserire nell'Indice dei libri proibiti il volume Umanesimo integrale di Jacques Maritain, che era il caposcuola di quella teoria, a suo avviso, eretica. Questo significava, in pratica, una scomunica formale della teoria autonomista dell'azione politica da parte della Chiesa. Ricordo che finita questa riunione, era sera tardi, andai alla Fuci dove mons. Luigi Piastrelli, amico di Montini e conoscitore di Maritain, teneva in mano la formazione dei giovani studenti universitari e per caso anche medi. Rileggemmo, con l'aiuto di Giorgio Battistacci, l'articolo di «Studium» e lo trovammo ineccepibile e assumemmo un atteggiamento di decisa resistenza, contro le eventualità adombrate da Gedda.

Poi il caso si sgonfiò, o meglio non ebbe seguito, sebbene le discussioni continuassero. Probabilmente, a rimetterci fu lo stesso Gedda che cominciò a perdere colpi e a contare sempre meno.

Però il clima rimaneva pesante, perché l'ala integralista rimase attiva e lo si vide in seguito soprattutto con il caso abortito delle elezioni amministrative di Roma, con la fallimentare «operazione Sturzo», che era stata proposta proprio dai clericali, per creare un fronte nazionale cattolico insieme alle formazioni missine e monarchiche.

L’operatività di tali posizioni si videro in seguito, quando Lazzati chiamato a dirigere il quotidiano «l’Italia», ebbe di fronte la difficile gestione di un discorso sull’apertura a sinistra dei cattolici (che poi dette luogo al centrosinistra). Riuscì sulla base della sua dottrina, a guidare un discorso che assumeva l’autonomia dell’azione politica dei cattolici e nello stesso tempo teneva presenti i limiti di scelte che potevano intaccare il patrimonio dei valori cattolici.

In quel periodo Lazzati organizzatore di cultura si manifestò appieno. Lo si vide nella condotta del «comitato di gestione» della preparazione del centro-sinistra a Milano organizzato da Giancarlo Brasca, Mons. Manfredini e lo stesso Lazzati.

Quando si parlava della stampa cattolica si lamentò che non c’era personale preparato.

Nel ruolo di sostenitore del cambiamento di linea, comunque, Lazzati era divenuto vero segno di contraddizione pubblica e si vide nell'operazione che condusse al centro-sinistra.

A Milano - e molti dati sono noti - sin dal 1953 era accaduto che in seguito ai risultati delle elezioni del 7 giugno 1953, don Carlo Colombo che stava assumendo i caratteri di un vero consulente teologico per la Cattolica e poi per Paolo VI, aveva scritto un articolo su «Vita e Pensiero» in cui rifletteva sui connotati teologici oltre che politici del voto che aveva registrato una crisi incipiente del consenso della Dc e delle alleanze centriste, fino allora promosse, ma risultate statiche. Si era aperta subito la questione dell'allargamento dell'alleanza di governo fino al Partito socialista che cominciava a dare segni più significativi di diversità dal Pci, sia pure giudicati ancora insufficienti da parte dei dirigenti del movimento cattolico organizzato e dalla gerarchia.

La questione andò avanti per tutti gli anni cinquanta. Ma non si deve pensare che il caso di don Colombo fosse stato un fatto personale. Infatti, come ebbe a dichiarare mons. Olgiati, l'articolo «incriminato», che aveva suscitato un'aspra polemica con la «Civiltà cattolica», era stato voluto da Padre Gemelli che aveva proceduto alla pubblicazione nonostante il dissenso di molti suoi consiglieri e dello stesso Olgiati. Quando la questione delle alleanze si era fatta più acuta nel 1959, vi fu un'assunzione di responsabilità da parte della Curia milanese, vescovo Montini, per far fronte a una domanda che stava salendo e che prima o poi avrebbe dovuto ottenere una risposta. Essa riguardava la questione socialista e la linea democristiana. Fu così che nel 1960 si concretò una specie di consiglio milanese del movimento cattolico guidato da mons. Manfredini, dal dr. Brasca e dallo stesso Lazzati, formato da una ventina di persone tutte rappresentanti di qualcosa, che periodicamente, ma a date ravvicinate, esaminava l'intero quadro politico in evoluzione.

Fu in questo quadro che nacque e si affermò la direzione del quotidiano cattolico milanese del professore Giuseppe Lazzati. Questa direzione avrebbe dovuto in primo luogo cambiare la linea di destra del giornale, cosa che avvenne in pochi mesi. Nello stesso tempo, su proposta proprio di Lazzati che riteneva che senza di ciò sarebbe stato inutile cambiare direttore, cominciò anche una selezione di persone in grado di scrivere che si affiancarono a Lazzati, sempre col consenso dell'arcivescovo.

Fu fondata un'agenzia di stampa di articoli per i giornali cattolici, «Relazioni sociali», da cui nacque poi il quindicinale a stampa «Relazioni sociali» (la cui spesa venne sostenuta dall'Arcivescovo, con un centro culturale di cui fu presidente lo stesso Lazzati che se ne occupò davvero, anche se la cosa rimase poco nota.

Furono i punti di leva in cui il mondo cattolico poté passare a una visione favorevole al centro-sinistra. Fu come presidente dell'associazione che Lazzati ebbe modo di chiarire un punto essenziale del suo pensiero. Avendo io predisposto una relazione genericamente intitolata «Ideologia cristiana», molto prolissa e pedante, Lazzati dopo averla letta disse che non era accettabile perché aveva un difetto sostanziale. Il discorso ivi contenuto, essendo diretto alla vita politica, era esclusivo e poteva essere rivolto - a parte altri limiti di dettaglio - soltanto a un uditorio cattolico e non era quello che serviva allora. Disse che «era buono forse solo per cristiani».

Il gruppo che, di fatto, si formò, ben presto assunse una struttura più definita e allora venne l’idea di dare vita a un vero organo di stampa. e fu il quindicinale «Relazioni sociali» la cui direzione fu affidata a Emanuele Ranci Ortigosa. L’agenzia continuò a vivere per un certo tempo, ma era diventata quasi un mio organo personale.

Le obiezioni alla linea politica del quotidiano venivano recepite dal nostro gruppo in modo generico e alquanto scontato. Lazzati certamente le soffriva di più e in modo personale perché aveva una'ampiezza di relazioni molto diversa dalla nostra assai limitata.

Però Lazzati mi «copriva» regolarmente. Personalmente ricevevo in ufficio alla Biblioteca della Cattolica telefonate che mi promettevano di essere impiccato a qualche lampione della città, perché volevo impoverire i ricchi (questo era un argomento-principe della contestazione «cattolica» che ricevevo). Non mancava qualche segnale per iscritto, ma di scarso significato e di chiara matrice fascista e quindi estraneo al nostro ambiente. Il prof. Lazzati mi passava alcune delle lettere che riteneva significative o si riferivano a me. Ma non parlò mai o quasi mai di quelle minacce che poteva ricevere lui per noi. La linea che io seguivo, d’altra parte, era del tutto autorizzata e voluta anche dal'arcivescovo. Il quale poi, ricevendo lamentele sui giornali ricordati rispondeva sempre che avrebbe provveduto: ma non provvide mai. Peraltro, i contrasti diventavano anche più vasti, se ricordo i messaggi che mi inviava in pubblico e in privato mons. Andrianopoli che da Genova cercava di fermare anch’egli il centrosinistra senza riuscirvi. Mi pare doveroso chiarire un punto: nel nostro argomentare non c’era mai un intento per così dire religioso, cioè far passare attraverso una scelta politica una scelta religiosa, come altri gruppi favorevoli all’apertura a sinistra pensavano. Questo valeva soprattutto nella linea di «Relazioni sociali», creandoci non poche difficoltà di comprensione reciproca con altri gruppi cattolici che si stavano orientando verso una posizione di «contestazione cattolica» che stavano elaborando una linea di «odio teologico» verso la stessa Dc. Accadeva tuttavia che finissimo, con Lazzati, di essere male accetti nel vasto mondo cattolico e non sostenuti talora da molti ambienti di sinistra cattolica.

In questo senso, l’insegnamento di Lazzati assunse un carattere particolare che rimarrà sempre assai forte in lui anche in altre congiunture in cui i cattolici vennero chiamati a fare scelte impegnative. Quando si fece avanti l’ipotesi del referendum sul divorzio, egli scrisse addirittura al papa per consigliare la rinuncia a uno strumento come il referendum per una materia in cui gli elementi culturali e di formazione spirituale dovevano essere preminenti.

Un dato preminente o senz'altro dirimente del pensiero politico «fondamentale» di Lazzati è il rifiuto del machiavellismo come concezione generale dei rapporti sociali e della politica.

Nella lettura delle idee di Lazzati emerge un rifiuto della «ragione di stato» intesa, appunto, alla Machiavelli, che non è un atto tipico di un comandamento morale tra gli altri.

Lazzati propone una sua «ragion di stato» che è quella fondata da Tommaso d'Aquino nella Secunda secundae della Summa Theologiae e che consiste essenzialmente nella concezione di un quadro intero - anche se meno divulgato - della creazione dell'umanità come «naturalità» dello stato. Secondo san Tommaso lo stato ci sarebbe stato anche in una condizione di innocenza e in questo senso precede il peccato originale e dà un senso salvifico più netto al disegno della redenzione da una fase all'altra dell'intera storia dell'uomo.

La «ragione di stato» che respinge Lazzati riguarda la sottomissione dei comportamenti pubblici (e anche privati ovviamente) all'utilità di risultato da raggiungere con qualsiasi mezzo. Non solo, ma lo stesso fine diventando tout court il potere, crea una situazione di lotta per il dominio che non trova ostacoli nell'etica, come dice chiaramente Machiavelli nel Principe.

La questione così posta non è facile da risolvere, perché anche se sul piano dei principi sembra semplice, nella storia della pratica politica si trova un dispiegamento ampio di casi che vanno da una linea di partenza da fare risalire addirittura alla tentazione di Gesù che furono di potere.

Lazzati evidentemente conosce anche la letteratura politica cristiana in materia. Certamente deve aver conosciuto il pensiero di Luigi Sturzo che si espresse contro il machiavellismo e contro una ragione di stato sradicata dall'etica. Lazzati trova comunque il suo insegnamento maggiore in Jacques Maritain che egli ricorda molto spesso e ne fa una guida teorica su questo campo, sia per la lettura di Tommaso, sia nelle indicazioni concrete.

Lazzati ha un punto in più rispetto a Maritain perché egli ha anche praticato l'attività politica, ha partecipato all'elaborazione della Costituzione, ha fatto vita parlamentare e ha sempre agito sul terreno politico, con la sua presenza docente, in un'infinità di luoghi di raccolta cattolici, dove sempre ha ribadito con forza il proprio pensiero.

Un pensiero dirimente dunque, che dovrebbe segnare la vera differenza tra chi pratica la politica da cristiano e chi la pratica secondo l'etica e secondo la logica del risultato ad ogni costo morale.

Maritain aveva scritto parole in un certo senso definitive nel suo La Fine del machiavellismo. Maritain evitava in tale discorso ogni caduta nell'integralismo: la morale politica cristiana scriveva «non è teocratica né clericale. Non è neppure una politica pseudo evangelica di debolezza e di non-resistenza al male; è una politica autenticamente politica, che sa di essere situata nell'ordine della natura e delle virtù naturali, e che opera in quell'ordine armata di giustizia concreta e reale, di forza, di perspicacia, di prudenza, armata della spada, attributo dello stato; ma che sa nello stesso tempo che la pace è l'opera non soltanto della giustizia, ma dell'amore, e che anche l'amore è una parte essenziale della virtù politica. Poiché non è certo l'eccesso di amore che rischia di sviare gli uomini politici, ma senza amore e generosità, il falso calcolo e l'accecamento sono la regola».

Il carattere dirimente di tale dottrina lo si vide meglio poi, non solo sulla questione ricordata se la politica fosse o no apostolato, come la poneva Gedda.

Lo si vide quando nel dicembre del 1958, quando la facoltà di Scienze politiche, presieduta da Francesco Vito decise, d'intesa con padre Gemelli di dare la laurea honoris causa a Maritain. La laurea fu bloccata dalla Santa Sede proprio perché era in scienze politiche. Ricordo la lettera che Gemelli ricevette dal card. Montini arcivescovo di Milano sulla questione: «Rev.do Padre, il card. Giuseppe Pizzardo, [presidente della Congregazione per gli Studi e i seminari e di quella del Santo Offizio)] mi significa che non ritiene opportuno la concessione della laurea honoris causa al prof. Giacomo (sic) Maritain».

Seguivano i saluti di rito. Immaginarsi cosa deve aver patito Montini, mariteniano di ferro, a dover scrivere una simile lettera.

La questione era proprio la qualificazione del titolo. A giugno dell'anno seguente la laurea honoris causa fu concessa, in sordina peraltro, ma in filosofia. Il carattere innovativo dell'insegnamento mariteniano riguardava la politica e non l'astrazione filosofica! La scelta di Maritain come maestro era dunque precisa e esatta.

Sulla questione del machiavellismo Lazzati si pose per così dire «in campagna». Su «Cronache sociali» del 30 giugno 1947 comparve un intervento importante di Lazzati su Di fronte al machiavellismo e poi un altro del 15 luglio 1947 Esigenze cristiane in politica. Il dato saliente in ambedue i saggi è che Lazzati va oltre l'insegnamento dei principi per esprimere veri giudizi politici, anche da decodificare. Lazzati proprio nel rifiuto del machiavellismo vede la possibilità unica di fondare un'azione temporale cristianamente ispirata, vedendo il sorgere del totalitarismo sia a destra che a sinistra sul principio immorale che il fine possa servirsi di ogni mezzo.

La centralità del tema credo possa considerarsi molto importante perché una volta Lazzati raccontandomi alcune vicende del gruppo della Chiesa Nuova, mi disse che non sapeva ancora cosa tenesse legati lui Dossetti e La Pira per non dire degli altri, che avevano aspetti personali differenti. In realtà, era proprio l'aderenza a un principio fondamentale che li distingueva da molti altri politici molto esposti nella politica democratica cristiana e non di altri partiti.

Il legame tra la teoria e la prassi in Lazzati costituiva l'elemento fondamentale di tutta la sua attività culturale e formativa. Quello che non riusciva a tollerare era l'astrattezza di certe posizioni morali e teoriche dissociate dalle scelte concrete.

Un esempio di questo atteggiamento si vide nella relazione che tenne a Loreto al 46° Corso di aggiornamento della Cattolica del 1975, su Cristianesimo e cultura. Il professore condusse una critica serrata sull' operato e sui caratteri soprattutto minimalisti dell'azione politica di governo della Dc.

Era un discorso di vera opposizione.

Lazzati prese in esame alcuni settori chiave dell'azione svolta dalla politica sostenuta dalla Dc con la quale, nonostante tutto, si sentiva solidale. Faceva osservazioni del genere: «Perciò, con tanto maggiore dolore è dato oggi constatare quanto da quelle speranze e da quella fiducia ci si sia allontanati. E come si imponga un giudizio critico che sappia individuare le ragioni di tale mutamento al fine di ridare fiducia e di rianimare un impegno che non può venir meno».

Prima aveva ricordato un passato carico di onore e di speranze: «Non posso dimenticare, in questo momento di aver partecipato a quell'Assemblea costituente che per il paese riconquistato a libertà, rappresentò un felice momento di dialogo fra le diverse ideologie che, avendo insieme operato sul piano della riconquista della libertà, si scontrarono e impegnarono nell'ideazione di una società e di uno stato capaci di segnare un autentico superamento non dico - perché - troppo evidente del fascismo e della sua concezione della società e dello stato, ma di quella realtà sociale e statuale lo aveva preseduto e lo aveva generato: la società borghese e lo stato liberale». Lazzati si diceva convinto che la costituzione fosse un testo che esprimeva le esigenze di promozione umana che aveva prima riferito.

E spiegava: «Chi ha vissuto quegli anni partecipando attivamente alla passione che li qualificava non ha certo dimenticato quale clima di speranza tutto questo avesse acceso e quale carica di fiducia avesse suscitato verso chi alla realizzazione di quelle speranze sembrava potere offrire il più solido fondamento per il sicuro ancoraggio ai valori che di quelle speranze erano garanzia».

Il giudizio diventava più profondo e anche più strutturale quando osservava, dopo aver notato il travisamento del principio affermato della rimozione degli ostacoli alla pienezza dell'espansione della persona nei bisogni non solo materiali, ma anche di libertà e di cultura: «Ora, a parte il fatto che la ricerca di coordinamento tra questi singoli elementi di una politica che voglia essere organica e coerente non è dato trovare nel nostro paese, anche a motivo delle strutture di governo che impediscono il coordinamento stesso […], anche quando si considerino i singoli elementi di questa politica non si può non rilevare in essi la mancanza di un preciso disegno e di conseguenti provvedimenti».

Lazzati era così concreto che vedeva anche nelle strutture organizzative e burocratiche un reale ostacolo politico, non casuale evidentemente.

Da un rilievo di grande crisi di governabilità, Lazzati lasciava chiaramente intendere che si era alla vigilia di un grande passaggio. Infatti, nelle elezioni dell'anno successivo, la Dc si vide raggiunta nei voti dal Pci.

Questa relazione fu praticamente ignorata dai politici cristiani e non cristiani. Non si riconobbe un ruolo magistrale al professore che secondo molti sarebbe dovuto rimanere fra le sue carte e nei chiostri dell'Università cattolica che a sua volta era travagliata da ardui e numerosi problemi sia di gestione finanziaria sia di direzione umana e spirituale. Non si è percepito come in quel periodo Lazzati finisse per essere isolato, e circoscritto in un perimetro che si restringeva anche dopo il concilio, a consumarsi in una posizione che avrebbe dovuto avere sbocchi concreti. Ciò non solo da parte dal mondo politico ma anche ecclesiastico che non guardava con favore quella che era assunta anche da alcuni professore un rifiuto «sinistrista» di prendere posizione, assumendo un ruolo più preciso e forte - di vera rottura - contro la contestazione studentesca, che peraltro non era solo un fatto della Cattolica e degli studenti di Milano. Un fenomeno che si sarebbe dovuto sottoporre a un esame positivo. In fondo l'Università era stata fondata ed esisteva ancora perché rispondeva o doveva rispondere a domande di giovani. Ma Lazzati rimase sul campo senza un vero appoggio, che nel dubbio persistente per mancanza di analisi, rimaneva ad aleggiare sul senso da attribuire a fatti che si volevano per forza inquadrare in schieramenti politici.

Lazzati, proprio nel corso di aggiornamento ricordato, aveva esaminato comparto per comparto, realtà nazionale politica agraria, mezzogiorno, ecologia, casa, istruzione, regionalismo negato, fisco centralizzato e così via.

La linea di centro-sinistra avanzava per suo conto e non solo per azione della minoritaria corrente di sinistra, ma di tutto il partito guidato da Moro e da Fanfani.

Una nota particolare va fatta per la nomina di Lazzati alla direzione del quotidiano «L'Italia». Per valutare il fatto occorre sottolineare che per tutto il 1959 era emersa una vera e propria urgenza di sostituire mons. Ernesto Pisoni che era schierato contro una qualsiasi apertura a sinistra e agiva di concerto con organi di stampa come il Borghese e con personalità come Luigi Gedda. Era una linea ben definita che per di più urtava il cardinale per gli attacchi che la stessa stampa di destra gli rivolgeva tanto che aveva promosso una commissione di studio nell'A.C. che prendesse in considerazione la qualità e il volume degli attacchi per produrre alla fine una serie di contrattacchi.

In quell'anno però era già in fase di avvio proprio l'apertura a sinistra. Il problema non era se farla, ma come farla e con chi farla (s'intende con quali socialisti). Nello stesso tempo Montini rivelò una certa rigidità verso le correnti di sinistra della Dc verso le quali non voleva apparire né sostenitore né collaboratore. La questione della successione al quotidiano si era posta sin dall'aprile del 1959 e lo stesso cardinale aveva già detto a Lazzati che era suo intendimento nominare proprio lui. Gli altri nomi vennero scartati e alcuni non sapranno mai di essere stati in elenco. Il 10 giugno il cardinale ricevette Lazzati, Brasca e Manfredini per esaminare la situazione il da farsi. Brasca mi informava di tutto. La questione quindi nel 1960 era matura per ulteriori scelte. Il cardinale non pensava forse a tempi brevi e immaginava la direzione di Lazzati pro tempore. Tuttavia la creazione dei primi casi di apertura a sinistra amministrativa in varie città, Milano compresa, aveva reso urgente una decisione drastica che fu presa in aprile del 1961 quando già era operante il gruppo di analisi organizzato da Manfredini e Brasca con la partecipazione dello stesso Lazzati. Il caso era molto maturo. Infatti, nel settembre del 1961 mons. Francesco Olgiati che presiedeva alla direzione di "Vita e pensiero" dopo la morte di Padre Gemelli, mi chiamò e mi propose di scrivere un articolo di «apertura di possibilità» verso un avvicinamento con la Dc. Il testo fu poi pronto e uscì dopo qualche atto chirurgico prudenziale dell'ultimo momento nel fascicolo di settembre. Quello che qui interessa ricordare è che Olgiati mi disse in primo luogo che con i socialisti si era già sbagliato nel 1922. Egli stesso, più volte invitato alle sue riunioni da Filippo Turati (che abitava in P. Duomo a qualche centinaio di metri e a quelle riunioni talora andava anche P.G. Frassati), si era tirato sempre indietro, sbagliando. Poi, però, mi disse anche chiaramente che il centro-sinistra era stato già deciso in sede competente e che dapprima si sarebbe fatto a Milano e poi a Roma. E aggiunse che il cardinale era d'accordo. Olgiati mi spiego anche la storia del'articolo di Carlo Colombo del 1953 in cui il teologo riteneva plausibile un'apertura a sinistra di cui ho già fatto cenno.

Tutto questo aiuta a capire che Lazzati aveva ricevuto, esplicito o implicito, un mandato politico che andava nella direzione detta dell'apertura a sinistra, creando un canale autonomo per cattolici che avrebbero dovuto trovare un orientamento fuori delle correnti politiche. Stando dentro questo meccanismo di relazioni ecclesiali, si capisce che la cosa era molto più complessa e matura di quanto non si sia tentato talora anche con libri di ridurre la questione a puri e semplici orientamenti personali, opinioni, di Montini e di altri.

Il giornale cominciò a compiere analisi di struttura politica e inaugurò per primo tra i quotidiani, una pagina dedicata all'economia. Erano in gioco anche questioni economiche e di struttura come la nazionalizzazione dell'energia elettrica e l'istituzione delle regioni, che facevano parte dei programmi democristiani sin dal 1943. Il problema era legato soprattutto ai legami del Psi con il Pci. Su questo terreno lo scontro divenne aspro. A un certo punto lo stesso arcivescovo che non aveva appoggiato il centro-sinistra, ma ne aveva favorito l'analisi preventiva, una coltivazione entro una prospettiva morotea, accettò certe analisi fatte nella sede ricordata e decise di non parlare più negativamente dell'eventuale fatto nuovo, in nome di un'apertura pastorale che non portava a rinnegare i dettati della gerarchia, ma collocarli nella situazione. Cosa questa che fece conoscere anche gli interessati consiglieri comunali DC che temevano invero una reprimenda accentando l'alleanza con i socialisti. Personalmente ho assistito a colloqui che Brasca aveva con alcuni interessati riluttanti e timorosi.

Per chiarire questa complessa situazione, Lazzati iniziò con un gruppo di collaboratori un esame accurato e pignolo, dei programmi, dei socialisti e, ovviamente, anche del volere della chiesa.

In pratica Lazzati, al termine di una vera battaglia in cui aveva dovuto far fronte agli attacchi più duri e accaniti anche di ecclesiastici autorevoli, rispondeva che disobbedienza non c'era stata. Infatti, rimaneva uno stato di pericolosità nel centro-sinistra, ma non di illiceità. Il fatto era che si era chiarito che i comunisti restavano comunisti e i socialisti erano pure gli stessi, ma non di sempre.

L'evoluzione c'era stata nella ricerca di un programma di governo per il bene comune in cui sia i cattolici che i socialisti potevano convenire. Quello che più ripugnava a Lazzati era che si affermasse ripetutamente e in molte sedi che per i cristiani il centro-sinistra sarebbe stato illecito perché promuoveva nel programma la nazionalizzazione degli elettrici e la regionalizzazione del paese che erano tempi squisitamente economici e politici. La liceità c'era perché non poteva essere un giudizio di opportunità programmatica quello della chiesa che metteva in guardia contro l'inquinamento marxista, e restava la responsabilità dei laici che volevano attuare i punti programmatici concordati.

Nel testo c'è l'osservazione nodale che, in fondo, un fine non secondario è quello di separare i socialisti dai comunisti. Fine non trascurabile perché a nostro avviso e ad avviso espresso nelle conversazioni di allora, si sapeva e si diceva, anche come argomento di rinforzo, che, una volta compiuto il passo, i socialisti non sarebbero ritornati indietro. E, infatti. solo una parte minoritaria di loro rifluì sull'estrema sinistra con una scissione che dette vita al Psiup.

Questo orientamento Lazzati lo espresse con una relazione del 12 dicembre 1962 a Lecco in sede di A.C., sul tema semplice e apparentemente non problematico, L'azione dei cattolici nella vita pubblica. Il testo fu poi pubblicato da «Relazioni sociali» in febbraio e diffuso anche in un opuscolo a parte. Come articolo lo ritroviamo sul settimanale delle Acli «Azione sociale», col titolo La DC ha compiuto atti in contrasto con la sua ispirazione cristiana?, uscito a puntate. Il testo tuttora importante per capire Lazzati e non solo la spiegazione di un evento limitato nel tempo, lo possiamo leggere nel volume Pensare politicamente, I, pp.244-265. Lui stesso alla conclusione del processo politico in questione né parlò in un'ampia relazione. È praticamente impossibile sapere in quale misura l'articolo rappresentasse anche l'opinione di Montini. Difficile però immaginare il «tutto contrario». Indubbiamente la scelta della pubblicazione della relazione su «Relazioni sociali» rimane una testimonianza importante perché il quindicinale era sostenuto dal Cardinale, e non sarebbe stata possibile l'uscita di un testo simile senza un consenso sia pure indiretto attraverso mons. Manfredini che sorvegliava a vista il periodico. D'altra parte l'atteggiamento del cardinale verso il centro sinistra era ben noto al sottoscritto e ad altri, anche se è stato negato nella sostanza da una scrittrice recente, la Versace.

Peraltro il quindicinale con articoli di Ranci Ortigosa, di Orfei e di Giovanni Campelli (ancora Orfei) si batteva esplicitamente per il centro-sinistra nell'ambito di una linea diocesana che era ormai acquisita, da Lazzati e da tutti noi. Il cardinale in incontri collettivi della redazione e in incontri personali ci aveva sempre fatto sapere che egli leggeva dalla prima all'ultima riga sia l'Agenzia di stampa, con cui consentiva interamente, sia col quindicinale, sebbene con qualche riserva su quest'ultimo. Riserva che non fu mai notificata in senso preciso su un testo e tantomeno su una questione di orientamento politico. Peraltro con me su centro-sinistra fu esplicito.

Per Lazzati c'era il punto nodale dell'autonomia politica dei cattolici, l'attuazione della dottrina sociale cristiana i cui punti erano tutti salvaguardati e addirittura promossi nel centro-sinistra, una maggiore consapevolezza politica legata a una linea di promozione delle novità e non solo della conservazione delle cose vecchie e degli interessi sovrastanti delle classi forti.

Tutto il quadro delle prospettive lazzatiane era contenuto in una visione del laicato nella Chiesa. Egli riteneva che nella storia della Chiesa ci fosse stato un avanzamento che aveva fatto crescere l’iniziativa laicale, in tutte le attività, e che bisognasse approfondire quest’aspetto responsabile in un disegno di formazione che oggi conserva intero la sua idoneità a far fronte agli impegni temporali dei cristiani.

D'altra parte in una lezione che «Relazioni sociali» pubblicò il 20 gennaio 1963, Lazzati spiegò in maniera organica e piana la sua visione politica, in un testo organico che poneva dialetticamente la sua posizione in contrasto con quella dei conservatori.

Tuttavia si può osservare che la linea Lazzati-Montini si affermò e per le elezioni del 1963, i vescovi italiani fecero un appello ai cattolici, in cui, ribadendo la necessità dell'unità e della fedeltà all'insegnamento della Chiesa, non si faceva cenno alle possibili alleanze, neppure come avvertimento cauteloso. «Relazioni sociali» pubblicò anche questo testo.

Un capitolo a parte si aprì e meriterebbe un discorso compiuto a parte, per i molti risvolti teologici e d ecclesiologici e le derivazioni tattiche e strategiche del movimento cattolico italiano, il rapporto con Comunione e Liberazione che era nata entro l'A.C., ma in questa si insinuò con forza dirompente che poi dilagò ovunque con una visione lontana non solo da Lazzati, ma da tutta la cultura espressa nella posizione dei laici e nella politica, dalle scuole ricordate prima e dal concilio.

Lazzati si mosse molto per un chiarimento in quanto Cl proponeva una visione della chiesa e della presenza dei cristiani come immediatamente derivante dall'evento o fatto storico dell'ingresso del cristianesimo nella storia. L'immediatezza di tutte le conseguenze possibili spirituali e temporali, di apostolato e di azione politica venivano dapprima tendenzialmente e poi apertamente a una conclusione di un unico percorso della presenza storica dei cristiani. Cioè un integralismo che avrebbe ricondotto i cattolici al temporalismo in nome di una presenza e dove interessi remoti e immediati si sarebbero mescolati. Lazzati, e non solo lui, cercarono di chiarire il caso con la gerarchia ed esistono documenti suoi e di mons. Carlo Colombo, ma si sapeva anche di altri meno sistematici, che analizzavano il rischio di una deriva temporalista di vecchio stampo rivestita da un modernismo legato alle tecniche della comunicazione e di un costume apparentemente più spigliato di quello serioso che veniva dalla 'A.C. e dalla Fuci.

Lazzati che era nel frattempo ritornato ad alcuni ruoli importanti nell'A.C., si trovò a tentare un chiarimento che non ci fu e che egli voleva ardentemente. In compenso negli anni subì attacchi che conosceva, perché ritornò fuori anche l'accusa di protestantesimo che in fondo Gedda aveva avanzato per primo. Certo è che Lazzati vide esplodere la crisi dell'A.C. e poi della stessa Dc entro la quale Cl compì un'azione di destrutturazione, ricercando una via moderata che partiva da alleanze trasversali nel partito, che poi si ripeteranno con la nascita di Forza Italia nel quale movimento politico personale di una persona, estranea alla tradizione cattolica democratica che anche nei suoi simboli e esponente compiva non una svolta, ma una vera rottura. Cl entrò in scena interamente come movimento popolare con incarichi di responsabilità e prestigio innegabili.

Lazzati si trovò in difficoltà anche come rettore della Cattolica, perché l'erosione del consenso nei suoi confronti non veniva solo dai contestatori di sinistra, ma anche da parte di Cl che doveva, alla fine, uscire vincente dato che pare fronteggiasse la crisi della cattolicità italiana con un attivismo e un presenzialismo che le vecchie organizzazioni non sembravano più garantire. Rimase letteralmente allibito quando uscì il giornale del nuovo movimento e vi vide impegnati i nomi di suoi amici e anche collaboratori di un tempo. Fu per lui un segnale di involuzione, che lo portava a pensare che davanti a una simile iniziativa non ci sarebbe stato molto da fare, perché era cominciata anche la fase della confusione vera e propria, che è peggiore di tutte le contrapposizioni e le contraddizioni al netto agitate nella chiarezza. Lazzati immaginava, giustamente, che ormai anche nella Gerarchia un mutamento profondo che tagliava con la tradizione del laico democratico, fosse più esteso di quanto non sembrasse nelle esplicite dichiarazioni. Cl era riuscita a dare la sensazione a molti che era capace di guidare una riscossa rispetto a una situazione che era di sconfitta forse per i cattolici democratici, ma non per loro e per la parte della chiesa che vi si riconosceva presa da irremovibile timore di un peggio che stavano elaborando.

Di Lazzati resta sempre attuale, invece, il messaggio, perché il tempo delle vacche magre è alle porte e si richiederanno visioni di solidarietà da introdurre nella politica sfuggendo alla dichiarata «tecnofilia» dei nuovi cattolici di destra che ormai ignorano anche i nomi che dettero vita a un movimento cattolico in Italia non privo di dignità, di intelligenze, di coerenze, benché alla fine si trovò minoritario.

Per quanto riguarda la situazione attuale che noi giudichiamo involutiva dei cattolici che intendono ancora interessante l'azione politica, chiudo con l'avvertimento che lo stesso Lazzati ha fatto con l'aria di chi formula un giudizio storico che si rivela invece come una premonizione che pure parte da una meditazione sul passato.

Mi riferisco a una serie di pensieri sulla democrazia e i cattolici. Il più piano e nello steso tempo preciso testo mi pare sia contenuto nella Lezione introduttiva al secondo corso della Scuola superiore di scienze sociali di Reggio Emilia nel 1960 (contenuto ora nel I volume di Pensare politicamente, pp.209 segg.).

Diceva Lazzati: «Se si vuole essere sinceri, nonostante quello che si è fatto, la democrazia non è ancora entrata nella prospettiva culturale dei cattolici italiani con le sue giustificazioni di validità. In realtà la cultura dei cattolici italiani, nonostante importanti tentativi, non ha sufficientemente riflettuto sui valori della democrazia, non ha sufficientemente meditato sulle profonde prospettive di rispondenza di tali valori ai più alti valori religiosi, che noi proprio in quanto cattolici, difendiamo. Come cattolici ci impegniamo a difendere la democrazia come una formula, non assolutamente valida sempre, per tutti gli stadi di sviluppo della civiltà, ma certo l'unica valida per taluni stadi di sviluppo della civiltà. Ciò non è ancora dato di sentire appassionatamente accettato e consapevolmente difeso dai cattolici italiani, i quali sono per l'Italia unica garanzia della democrazia, venendo meno la quale, la democrazia in Italia non ci sarà. Le ragioni profonde di questo disagio sono nella non sufficiente meditazione culturale di questi valori, nel non averli fatti entrare in quella visione del tutto ridotta ad unità, che è per noi la cultura, nell'averli lasciati ai margini, quasi con sfiducia e quasi pronti a rifiutarli, giudicandoli solo come valori da mettere in pista, se convengano o non convengano».

In sostanza Lazzati vedeva il pericolo oggi diventato attuale e in corso di «applicazione» secondo cui la democrazia può anche essere abbandonata. La propensione per il «principato» di Berlusconi che afferma con successo anche con plauso vaticano il fastidio per le procedure democratiche, per il parlamento, per la rappresentanza non plebiscitaria ma legislativa del parlamento, rivela che i cattolici stanno ritornando indietro. E riemergono spinte e sollecitazioni vive nell'antico «non expedit» che tanto danno fece all'Italia, sottraendo alla politica liberale e democratica - dall'inizio dello stato italiano - il consenso dei cattolici organizzati.

Lazzati percepiva la situazione nuova che stava crescendo e avanzando e che nei nostri giorni sta diventando realtà, con una ritirata palese nel silenzio dei cattolici democratici che come dimensione di gruppo non sembrano aver niente da dire di vecchio e di nuovo.

Per queste ragioni Lazzati offre ancora un’attualità di pensiero e di modelli di azione che devono essere non solo seguiti ma anche sviluppati con un'auspicabile riflessione sul suo pensiero che non sia solo ricordo e valorizzazione culturale, ma anche iniziativa pedagogica d’ampio respiro per una possibile ripresa dei cattolici in politica che non si sono ancora ripresi dalla perdita di schemi d’azione unitari per entrare in altri caratterizzati dal pluralismo.