lettura spirituale di Mc 2,1-3,6
L'evangelista Marco ci ha offerto una visione panoramica di tutto l'itinerario che Gesù affronterà nella sua vita pubblica. Da questo momento in poi la catechesi evangelica si sviluppa seguendo un itinerario molto preciso. Dopo una prima fase introduttiva, che abbiamo già esaminato, il vangelo secondo Marco può dividersi in due grandi parti. La prima inizia con il cap. 2 sino alla fine del cap.8. La ripartizione corrisponde al duplice titolo di Gesù: Cristo e Figlio di Dio, l'evangelo di Gesù che è il Cristo e che è il Figlio di Dio. E’ questa la novità di Dio che stiamo imparando a chiamare per nome, si chiama Gesù.
annuncio dell'evangelo e opposizione del cuore umano
Il testo della prima parte del vangelo secondo Marco può essere suddiviso in tre sezioni. La prima sezione va dal cap. secondo fino al v. 6 del capitolo 3.
Gesù ormai ha dato inizio alla sua attività pubblica, è in contatto con una folla variegata, tumultuante attorno a lui. Accanto a lui ci sono alcuni discepoli, ma la loro presenza non è ancora precisamente qualificata; ciò che viene in primo piano è Gesù e la folla, Gesù e il mondo, Gesù nell'impatto con la storia degli uomini. La novità evangelica attraverso di lui è proclamata e testimoniata in pienezza ed ecco immediata la reazione a cui Gesù va incontro.
La sezione che stiamo esaminando si articola in 5 dispute, in 5 momenti di conflitto. Siamo solo agli inizi della catechesi evangelica e siamo già nel pieno del conflitto, siamo già alle prese con un urto, uno scontro, un impatto brusco che acquista drammaticità in misura crescente. Attorno a Gesù si delinea la realtà di un ambiente ostile. La reazione a cui Gesù va incontro, anche se non mancano segni favorevoli, è caratterizzata da una incomprensione radicale, viscerale, puntigliosa. Compaiono avversari che acquistano una identità sempre meglio precisata: sono i farisei, un gruppo religioso presente nella grande comunità di Israele. I farisei nella catechesi evangelica di Marco sono figure emblematiche, essi rappresentano l'ostilità, la nostra ostilità, quella a cui Gesù va incontro dal momento in cui affronta in pienezza la predicazione della novità evangelica.
Poco importa precisare chi fossero realmente i farisei presenti sulla scena quando Gesù ha svolto la sua missione. Gli storici ci dicono che i farisei contemporanei di Gesù devono aver dimostrato una sostanziale simpatia nei suoi confronti. Sono stati altri nella grande comunità di Israele a manifestare incomprensione e a determinare il rifiuto e la condanna a morte di Gesù. Altri, non i farisei. L'ostilità dei farisei sarà sempre più vistosa e sempre più incalzante in una fase successiva, dopo la Pasqua, alcuni decenni dopo la morte di Gesù, verso la fine del primo secolo. Sono decenni nel corso dei quali la predicazione evangelica andrà sviluppandosi. E' appunto nel corso di questo periodo che la catechesi evangelica diviene un libro. Al tempo di Gesù i farisei come gruppo particolare della grande comunità di Israele, non devono avere dimostrato nei suoi confronti un atteggiamento di rifiuto, se mai di simpatia.
Nella catechesi di Marco i farisei rappresentano gli uomini di ieri, di oggi, di domani, finché ci sarà un seguito della storia umana e finché l'evangelo continuerà la sua corsa fino al ritorno glorioso del Signore. L'evangelo incontra uno ostacolo, urta contro una barriera, sbatte contro un rifiuto. E' un dato che viene posto in evidenza fin dall'inizio: il cuore degli uomini reagisce negativamente. Gesù, che ha affrontato con totale impegno la missione a lui affidata, è contrastato da una ostilità viscerale, da una ostilità cordiale, dalla durezza del cuore umano.
Le cinque dispute seguono un itinerario preciso; di disputa in disputa cresce il valore del dramma, la tensione della ostilità e del conflitto. Le dispute ci sono proposte in modo schematico. Marco da catechista saggio e paziente usa formule e schemi che servono ad approfondire l'insegnamento di Gesù. Lo schema è questo: un fatto, l'indignazione di coloro che reagiscono rispetto a quel fatto(i farisei), Gesù che riprende in pugno la situazione e interviene pronunciando un detto. Disputa dopo disputa ci rendiamo conto che il detto mediante il quale Gesù chiude il discorso riguarda la rivelazione della sua persona.
nella storia degli uomini: il Figlio dell'uomo
«Ed egli entrò di nuovo a Cafarnao dopo alcuni giorni. Si seppe che era in casa e si radunarono tante persone, da non esserci più posto neanche davanti alla porta, ed egli annunziava loro la parola. Si recarono da lui con un paralitico portato da quattro persone». Nel racconto evangelico questo paralitico non dice niente, si trova in un atteggiamento di totale passività: è portato alla casa in cui si trova Gesù; quando Gesù parla con lui, non risponde; quando sarà guarito da Gesù continuerà a tacere. L'attenzione non è concentrata su di lui, ma su un messaggio che riguarda anche lui e che passa attraverso di lui, ma che ha una ampiezza ben più complessa. « Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto ove egli si trovava e, fatta un'apertura calarono il lettuccio su cui giaceva il paralitico. Gesù, vista la loro fede, disse la paralitico: "figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati". Seduti là erano alcuni scribi che pensavano in cuor loro: perché costui parla così bestemmia! Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?». Notiamo innanzitutto che Gesù chiama "figlio" il paralitico; chiamerà "figli" i discepoli solo in un’altra occasione, nel cap. 10. Gli scribi non intervengono espressamente, stanno "rimuginando" in cuor loro. E' Gesù che si rende conto di queste rimuginazioni e interviene. In questa prima disputa l'atteggiamento degli scribi è riservato: stanno soltanto borbottando qualcosa tra sè e sè. Che cosa rimuginano? "Bestemmia! - essi pensano - Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?" Ecco il punto. Gesù è un bestemmiatore, perché solo Dio rimette i peccati e Gesù ha pronunciato una sentenza che è blasfema, che insulta la santità di Dio. Non solo, i farisei si oppongono al trattamento che Gesù ha riservato a quel povero paralitico, un trattamento - a parere loro - a dir poco sprezzante. Quel paralitico è un disgraziato di questo mondo, costretto a essere portato a spalle da chi non ha altro desiderio che scaricare quel peso fastidiosissimo addosso a qualcun'altro; come fa Gesù a rivolgersi a quel povero paralitico e ad annunciargli il perdono dei peccati? Ha bisogno di ben altro. Gesù sta offendendo la dignità di quell'uomo. Gesù bestemmia la santità di Dio e offende la dignità degli uomini.
Al fondo di questo loro modo di pensare c'è una convinzione non dichiarata ma profonda: tra Dio e il nostro mondo non c'è rapporto; Dio sta nella sua realtà, nella sua dimensione, si occupa di cose sue, della sua grandezza, della sua immensità, della sua santità; Dio non ha nulla a che fare con questo mondo. Se Dio avesse a che fare con questo mondo si sporcherebbe e sarebbe una infamia per noi, lui così puro intatto, santo.. Dio sta per conto suo, si occupa di cose sue, non ha nessun motivo per interferire con le cose degli uomini. Le cose di questo mondo vanno così come vediamo: guai, incertezze, dolori e tutto quell'insieme di sofferenze che ci spingono a impegnarci, a darci da fare a fondo con rigorosa serietà. Dio è santo e sta per conto suo; questo mondo affidato a noi deve essere gestito con la serietà del nostro impegno. C'è una barriera tra Dio e il nostro mondo ed è una barriera invalicabile. Questa è la convinzione profonda che si agita nel cuore di quegli scribi che osservano la scena e la commentano con il loro borbottio. Se qualcuno si presenta a noi e dichiara che Dio si prende cura delle cose di questo mondo, sta insultando Dio e sta disprezzando gli uomini! In realtà questo mondo è come prima, quel povero paralitico è un paralitico, siamo nella stessa miseria, alle prese con le stesse calamità di ieri e di sempre. Il nostro mondo non è cambiato! Come fa uno a venire da noi e raccontarci che Dio interviene nelle cose di questo mondo e le cambia? Ci siamo noi! Siamo pronti a venerare, ad adorare, a celebrare la santità di Dio, ma per le cose di questo mondo ci siamo noi, che, come potremo e meglio che potremo, ci impegneremo a risolverle.
Quella barriera - essi non lo dicono, ma è implicito nelle loro rimuginazioni - quella barriera tra Dio e il mondo che serve a difendere Dio dalla contaminazione con questo mondo e a valorizzare questo mondo, - quella barriera in realtà sono proprio loro. Essi, che sono pronti a professarsi veri difensori della santità di Dio e ad assumersi l'impegno di custodire le cose di questo mondo, sono la barriera che separa Dio dalla storia degli uomini.
Gesù interviene: «Perché pensate così nei vostri cuori? Che cosa è più facile: dire al paralitico: ti sono rimessi i tuoi peccati, o dire: alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina? Ora perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, ti ordino - disse al paralitico - alzati, prendi il tuo lettuccio e và a casa tua».
A Gesù preme ribadire che lui è venuto per operare su quel terreno difficile che è il luogo dell'incontro tra Dio e il mondo; una interferenza sgraziata, blasfema, sprezzante, stando all'opinione degli scribi. Proprio quell'interferenza è la novità di cui Gesù si fa protagonista e testimone. « Quegli - continua il testo di Marco - prese il suo lettuccio e se ne andò». Il testo greco dice letteralmente uscì; siamo dinanzi ad un altro esodo, qualcun altro ancora è coinvolto nel viaggio. « E tutti si meravigliarono e lodavano Dio dicendo: non abbiamo mai visto nulla di simile». Non è vero che tra la santità di Dio e la dignità degli uomini esiste una distanza invalicabile, è vero l'opposto: la santità di Dio dà dignità all'uomo, e il Figlio dell'uomo ha la potenza di rimettere i peccati. E' uno scompenso incomprensibile, inaccettabile, insopportabile per gli scribi. Questo scompenso è costantemente motivo di sconvolgimento per ogni cuore umano. Tra Dio e noi la distanza è stata abolita.
a banchetto con i peccatori: il medico
Passiamo alla seconda Disputa, cap. 2 dal v. 13 al v. 17. Gesù è di nuovo in un momento di riflessione sulla sponda del mare , quella stessa sponda sulla quale aveva incontrato i primi quattro discepoli. Mentre transita di là vede Levi, figlio di Matteo il pubblicano, lo chiama e questi si alza e lo segue. Poi Gesù entra nella casa di Levi, nella casa del pubblicano, il peccatore, è alla sua tavola. « Allora gli scribi della setta dei farisei, vedendolo mangiare con i peccatori e i pubblicani, dicevano ai suoi discepoli: " Come mai egli mangia e beve in compagnia dei pubblicani e dei peccatori?" Avendo udito questo Gesù disse oro:" Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori"».
Questa volta gli scribi prendono la parola, non si limitano a borbottare, eppure non si rivolgono direttamente a Gesù, ma ai discepoli e chiedono conto del comportamento di Gesù. La situazione è davvero sconcertante: Gesù siede alla mensa dei peccatori, nella casa di Levi, il pubblicano. Come mai egli mangia e beve in compagnia dei pubblicani e dei peccatori? Benché siano interpellati i discepoli, è Gesù che risponde. Il brano si era aperto con quell'uscita di Gesù verso il mare (v.13): è il viaggio dell'esodo, il viaggio del figlio che ritorna, che guarda il mare, che vuole attraversare il mare. E' lui che parla adesso della sua venuta, della venuta di Dio nella storia degli uomini. Il paradosso diventa ancora più insopportabile per i suoi interlocutori: Gesù espressamente dichiara che Dio viene nella storia degli uomini occupando gli spazi oscuri, infami, negativi della storia umana: là dove è la malattia, l'ingiustizia, la cattiveria e l'orrore del peccato, là viene Dio. Dio viene non soltanto annunciando quella remissione dei peccati che agli scribi sembrava una presa in giro, ma Dio viene in modo da prendere contatto con la malattia, Dio viene in modo da accompagnarsi ai peccatori. L'intensità delle parole di Gesù è sconvolgente. L'evangelo viene così, la novità di Dio viene così, la storia degli uomini è visitata da Dio così.
Nella disputa precedente Gesù aveva attribuito a se stesso il titolo di Figlio dell'uomo, in questa seconda disputa Gesù attribuisce a se stesso il titolo di medico.
il digiuno e le nozze: lo sposo
Più avanti dal v.18 al v. 22 assistiamo alla terza disputa. Siamo sempre in quella casa ed è ancora in corso il banchetto; adesso sono i discepoli di Giovanni e i farisei che si recano da Gesù. Essi stanno facendo un digiuno, e si rivolgono direttamente a Gesù. Il rapporto tra Gesù e i suoi interlocutori si fa sempre più diretto: prima rimuginavano, poi si rivolgono ai discepoli, ora gli parlano faccia a faccia. « Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano, mentre i tuoi discepoli non digiunano?». Essi non chiedono a Gesù come mai egli non digiuna, ma come mai i suoi discepoli non digiunano. Gesù risponde impostando la questione in termini che ancora una volta spalancano dinanzi a noi prospettive sconvolgenti. Il problema è quello del tempo, dell'interpretazione del tempo.
Perché i discepoli di Giovanni digiunano? Si digiuna perché ci si prepara a un banchetto nuziale. E' un'immagine questa ricorrente nell'antico Testamento, un'immagine che serve a ricapitolare tutta la storia della salvezza come preparazione a un incontro nuziale. La storia della salvezza è la chiave interpretativa di tutta la storia umana: una preparazione alle nozze. Si digiuna perché il tempo non è competo in se stesso, per dichiarare la relatività del tempo, così come ci si prepara stando un pò leggeri digiunando per un festino di nozze. La questione del digiuno verte sul rapporto tra questo nostro tempo nella sua fuggevolezza e precarietà e il definitivo tempo di Dio.
La stessa questione della disputa precedente ( Dio che si accompagna ai peccatori) si ripropone qui in termini relazione tra il temporale e l'eterno, tra quel che si consuma nel tempo e il definitivo di Dio. E' Gesù ora che domanda: perché digiunate voi? La preoccupazione dei discepoli di Giovanni e dei farisei è una preoccupazione di tipo morale: è un comportamento a cui bisogna attenersi, una osservanza da cui non si può prescindere, un modo di dare significato a questo nostro tempo. Gesù afferma esattamente l'opposto: il digiuno è un modo per significare che questo tempo non ha un significato in se stesso, perché è relativo alle nozze. «Possono forse digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro? Finché hanno lo sposo con loro non possono digiunare». Quel che conta non è intestardirsi nella osservanza del digiuno, quel che conta è definire la storia umana in rapporto allo sposo. I discepoli di Gesù digiuneranno anche loro, ma quel che conta è lo sposo. Questo è il titolo che Gesù attribuisce a se stesso nella quarta disputa. Lo sposo adesso è con loro, come possono digiunare? Il senso del digiuno non è dato dalla necessità di una osservanza, ma dall'appartenenza di questo mio momento, che si consuma, al definitivo che mi viene incontro. Il mio momento che si consuma appartiene a quel definitivo: lo sposo che viene per questo digiuno. La disputa si conclude con due immagini: «Nessuno cuce una toppa di panno grezzo su un vestito vecchio; altrimenti il rattoppo nuovo squarcia il vecchio e si forma uno strappo peggiore. E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino nuovo spaccherà gli otri vecchi e si perdono il vino e gli otri, ma il vino nuovo in ori nuovi». E' qui impostata una prospettiva che sarà meglio definita a conclusione della quinta disputa. Gesù si rende conto, man mano che procede nella sua attività di evangelizzatore, che la novità evangelica, il vino nuovo, non trova un contenitore adatto in cui riversarsi. Va incontro a una ostilità sempre più dichiarata, sempre più intransigente. Dove potrà essere versato il vino nuovo se l'otre è vecchio? Come potrà essere evangelizzata l'umanità se il cuore degli uomini non è in grado di ricevere la novità di quel messaggio? Tutto è inutile se le cose stanno cosi! La questione è veramente motivo di disorientamento. Man mano che Gesù procede nella sua attività di evangelizzatore, urta contro l'evidenza che la novità del messaggio che egli sta proclamando incontra l'opposizione del cuore umano che non recepisce.
il sabato e la contemplazione della bellezza: il signore del sabato
Passiamo così alla quarta disputa cap.2 dal v.23 al v. 28. «In giorno di sabato Gesù passava per i campi». Siamo nel giorno di sabato. L'accenno al sabato comporta un richiamo al discernimento di quel che significa e di quel che vale il nostro tempo. « I discepoli camminando, cominciarono a strappare le spighe». Ora sono proprio i farisei che si ricolgono direttamente a lui:« Vedi, perché essi fanno di sabato quel che non è permesso?» Lo interrogano ancora una volta circa la sua responsabilità di tenere d'occhio i discepoli: essi lavorano il giorno di sabato. Il sabato è la misura dell'illecito. I farisei sono sinceramente convinti che non sia lecito fare di sabato ciò che stanno, invece, facendo i discepoli di Gesù. Gesù risponde: « "Non avete mai letto che cosa fece Davide quando si trovò nel bisogno ed ebbe fame, lui e i suoi compagni? Come entrò nella casa di Dio, sotto il sommo sacerdote Amiatar, e mangiò i pani dell'offerta, che soltanto ai sacerdoti è lecito mangiare, e ne diede anche ai suoi compagni?" E diceva loro: "Il sabato è stato dato per l'uomo e non l'uomo per il sabato! perciò il Figlio dell'uomo è signore anche del sabato!"».
Il Signore del sabato. La prospettiva ancora una volta è ribaltata, come già prima nella discussione sul digiuno: il nostro tempo si consuma in quanto appartiene già al definitivo di Dio. Adesso è il sabato che sta assumendo una dimensione temporale che si amplia enormemente rispetto a quella del settimo giorno: ogni giorno è sabato. Il sabato invade il presente, il tempo definitivo ci viene incontro fino a occupare il nostro tempo. Non soltanto questo tempo che si consuma appartiene al definitivo di Dio, ma è vero che il sabato ci incalza, ci assedia, instaura un suo regime che serve a interpretare il valore del nostro giorno e della nostra ferialità. E' esattamente ribaltata la prospettiva: il problema non è più il sabato come misura dell'illecito per noi, ma il sabato come rivelazione di quella bellezza di cui Dio si compiace, di quella bellezza che Dio vede nella nostra ferialità; il sabato non serve ad esprimere quello che non possiamo fare, ma a contemplare quale bellezza è vista da Dio, che si compiace delle sue creature, del nostro giorno feriale.
il vino che si perde
Passiamo alla quinta disputa, cap.3. Gesù è di nuovo in sinagoga ed è ancora una volta sabato. C'è un uomo con una mano inaridita. « Lo osservavano per vedere se guariva in giorno di sabato per poi accusarlo». Sono sempre loro, i farisei. In questo caso non parlano, osservano, ma già sono decisi a trovare il capo di accusa, già sono alla ricerca di una imputazione che possa sconfessare il modo risolutivo il comportamento di Gesù. Lo osservano. Questa volta non si limitano ad osservare i discepoli, ma proprio lui, Gesù. «Egli disse all'uomo che aveva la mano inaridita:" mettiti nel mezzo". Poi domandò loro: E' lecito il giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?". Ma essi tacevano». Non è Gesù che è interpellato ora, ma è Gesù che interpella; non è Gesù che è contestato, anche se la contestazione è presente in quel loro atteggiamento silenzioso, ma è Gesù che sta contestando i suoi avversari: è lecito nel giorno di sabato salvare? La questione riguarda esattamente che cosa per i farisei è lecito in giorno di sabato. Il sabato per i farisei è divenuto la misura dell'illecito per Dio, quello che Dio non può fare: Dio di sabato non può guarire, non può salvare. Il sabato non è il sabato di Dio, il sabato è il sabato della malattia; il sabato non è il sabato della bellezza, ma è il sabato della perdizione. I farisei sono intimamente convinti che Dio non vuole guarire. Non è vero che Dio vuole la salvezza, Dio vuole la perdizione: questo è per loro il sabato di Dio. Sono loro ad aver stabilito una norma a cui Dio non si può sottrarre. Il sabato è la misura dell'illecito per lui. Di sabato siamo noi che celebriamo la santità di Dio che è contenuta nel suo involucro incontaminato. Questo involucro incontaminato della santità divina vale per noi come rivelazione della sua estraneità, della sua volontà di non salvare il mondo. Il discorso si fà paradossale, ma è così. Noi osserviamo il sabato proprio per confermare con la nostra osservanza che Dio non vuole la salvezza del mondo. La nostra osservanza è divenuta la dimostrazione convinta, consapevole che Dio non vuole la salvezza: ne siamo così convinti che glielo proibiamo. Dio sta per conto suo e il dio di questo mondo siamo noi, il dio di questo mondo sono io. Adesso il gioco si fa più che mai esplicito perché implicato in quel gioco è Gesù, perché osservatore di quello che succede è Gesù, è lui che commenta per noi quello che sta avvenendo. Questo mondo ha già un suo dio e sono io; sono io che stabilisco quello che è illecito per Dio; il sabato serve proprio a questo: a dimostrare che a Dio non importa niente di questo mondo, che Dio non vuole la salvezza e che a questo mondo ci penso io; questo è mio dovere, anzi è la mia giustizia. « E guardandoli tutto intorno con indignazione, rattristato per la durezza del loro cuore». Gesù è indignato, in collera, è rattristato per la "durezza del cuore". E' il vero ostacolo contro il quale Gesù sta urtando: la durezza del cuore umano. La novità evangelica non passa, il cuore umano non è disposto a quella novità, non l'accoglie, non la riceve, non l'assorbe; anzi il cuore umano si incallisce, si indurisce sempre di più. La novità evangelica è una bestemmia, una offesa menzognera per noi, dice il cuore umano; siamo noi che sappiamo quel che riguarda Dio e quel vale per il bene del mondo; siamo noi che sistemiamo le cose di Dio e ci assumiamo la fatica di gestire le cose del mondo. Mentre noi vogliamo celebrare la santità di Dio in realtà stiamo soltanto dichiarando che lui è distante, che a lui non interessa niente di quello che succede di questo mondo e a noi non interessa niente di lui. La durezza del cuore umano. « Disse a quell'uomo: "stendi la mano!". La stese e la sua mano fu risanata. E i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire.» Siamo alla fine della prima sezione del vangelo secondo Marco e già hanno deciso di condannare a morte Gesù. L'ostilità è spietata: siamo solo all'inizio e già si è stabilita la condanna di Gesù. Il verbo che abbiamo tradotto con morire in greco letteralmente vuol dire perdere. « Tennero consiglio contro di lui per farlo perdere». Gesù deve essere contrastato fino a che sia dimostrata la sua sconfitta; deve morire nel senso che deve perdere. L'evangelo deve perdere, il cuore umano non lo sopporta. Ricordate quelle due immagini che erano presenti alla conclusione della terza disputa, il vino nuovo e l'otre? Compariva lì lo stesso verbo che troviamo alla fine della sezione. Il vino nuovo si "perde", l'otre si spacca. Si spaccherà il cuore umano? Siamo già avvisati: là dove il cuore umano di spacca, il vino si perde. Quel perdersi del vino diviene ragione della apertura, dello spalancamento, del cuore umano. E' vero, Gesù si perderà, ma è vero che nel suo perdersi il cuore degli uomini si aprirà.