Lettera agli Efesini:
Il combattimento spirituale
Settimo incontro del ciclo 2009-2010
1 Giugno 20101
Leggiamo questa sera gli ultimi versetti della Lettera agli Efesini, dal v. 10 del cap. 6. Siamo alle prese con la seconda parte della Lettera che ha un’intonazione di carattere esortativo, ma il tono dominante rimane segnato da quell’atteggiamento contemplativo che abbiamo riscontrato, attraverso le parole di Paolo, nell’animo di chi, come lui, si trova in carcere. Il mistero di Cristo è il mistero di Dio che si è rivelato a noi in modo tale da dimostrare come Dio ha realizzato la sua intenzione d’amore, la sua volontà di salvezza. La signoria di Cristo è il tema dominante di tutta la lettera, in un contesto polemico in rapporto a situazioni di carattere pastorale che danno spazio a cedimenti nei confronti di una cultura pagana che rimane dominante anche nel linguaggio e nell’atteggiamento dell’animo: altre signorie, altri riferimenti che conservano il loro valore sacro, che valgono come istanze idolatriche. In questo contesto i cristiani provenienti dal paganesimo restano condizionati, messi alle strette, con il rischio di rimanere impantanati in tanti modi. Paolo interviene con uno scritto – la lettera che abbiamo letto – che è tutto positivo, propositivo, testimonianza di questo animo contemplativo che rimane affascinato dinanzi al mistero, così come si è rivelato; il suo richiamo e i suoi interventi urgenti, pressanti, risoluti, a suo modo intransigenti, sono sempre segnati da una nota di dolcezza, che è propria dell’animo contemplativo, che, anche nei momenti dell’attrito più aspro e tagliente, è in grado di proporre elementi che annunciano un disegno di riconciliazione, un disegno sempre più grande, una rivelazione sempre più larga, uno scavo sempre più profondo nel cuore umano in corrispondenza allo spalancamento del mistero di Dio. Laddove Paolo pone delle alternative in maniera molto radicale non si tratta mai di escludere per cancellare, ma si tratta sempre di ricomporre, riconciliare in una prospettiva che si viene allargando oltre ogni misura, logica, discorsiva, devozionale: la stessa teologia di Paolo esplode man mano che ci pone dinanzi all’Evangelo nella sua inesauribile fecondità e smisurata potenza rivelativa.
Abbiamo letto fino al cap. 6, v. 9. Parlavamo la volta scorsa di come sono nuove le relazioni interpersonali, l’ambiente sociale; relazioni che sono proprio elementi strutturali nella nostra vocazione alla vita. Tutto è nuovo dal momento che noi siamo inseriti nel mistero di Cristo. E, d’altra parte, è proprio la vita che è ristrutturata in tutta la sua dinamica e, dunque, tutte le relazioni sono ristrutturate per quanto riguarda la loro qualità da recuperare in rapporto a quella che è stata l’originaria vocazione alla vita secondo l’intenzione di Dio. Tutto in Cristo si è rinnovato. Si tratta di rivestirsi di Cristo, di assumere pienamente quelle nuove configurazioni strutturali che danno alla nostra vita, nel tempo e nello spazio, una fisionomia che porta con sé la potenza inesauribile di quel mistero di cui non siamo ormai solo spettatori, ma nel quale ci troviamo immersi, risucchiati, sprofondati, coinvolti: il mistero di Dio a noi rivelato in modo tale che tutto del mondo in quel mistero è “tuffato”. E’ la signoria di Cristo; non è una presa di potere dall’esterno, ma è quella novità che ci visita in tutte le dimensioni della nostra condizione creaturale e ci sigilla nella comunione con la vita stessa di Dio.
Rivestiti dell’armatura di Dio
Il testo che leggiamo, gli ultimi versetti della Lettera, si articola in due momenti, due esortazioni: dal v. 10 al v. 17 e dal v. 18 a seguire (fino al v. 20 perché poi ci sono versetti che contengono le notizie conclusive e il congedo). La prima esortazione, dal v. 10 al v. 17, ha come suo tema determinante il combattimento. Poco fa vi parlavo della dolcezza che è propria dell’animo contemplativo e paradossalmente adesso Paolo si rivolge a noi per esortarci al combattimento: tutto dimostrerebbe la contraddizione con l’affermazione di poco fa perché il combattimento è aspro, urgente, pressante, violento, spietato.
Nei versetti seguenti l’esortazione è rivolta ai cristiani che, attraverso l’esperienza del combattimento, imparano a pregare.
“Per il resto, attingete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza”. Siamo ingaggiati in un’avventura che comporta impegno serio, rigoroso, esigentissimo: c’è di mezzo un combattimento, ma Paolo ci parla di un combattimento che ci coinvolge in quanto siamo nel Signore, e questa sottolineatura non è affatto casuale. E’ un combattimento che coincide con quel radicamento nella comunione con il mistero del Dio vivente che si è rivelato a noi di cui Paolo ci ha parlato in lungo e in largo nel corso della Lettera; ma, adesso, quella nostra immersione, quel nostro “tuffo”, quello sprofondamento nella comunione con il mistero del Dio vivente, là dove noi, con tutte le nostre relazioni vitali, i nostri impegni, con tutto quel che ci riguarda in quanto creature nel tempo e nello spazio, apparteniamo alla signoria di Cristo, tutto questo assume, in queste battute finali della Lettera, una fisionomia singolarmente combattiva. E’ vero, ma occorre precisare meglio. “Rivestitevi dell'armatura di Dio”. Paolo parla di una “panoplia”, un’armatura. Vedete che non è un combattimento che può essere definito in sè e per sè: è un combattimento che ci riguarda in quanto apparteniamo al Signore e in quanto noi siamo rivestiti dell’armatura di Dio. Il combattimento per il quale siamo ingaggiati è il combattimento nel quale Dio stesso ha già dimostrato le sue capacità di guerriero e ha riportato vittoria. Si parla a più riprese nell’Antico Testamento di questa intraprendenza di Dio in quanto guerriero che affronta il combattimento e riporta vittoria. Le esemplificazioni sarebbero innumerevoli; un caso classico, forse più di ogni altro, in Esodo, cap. 15: il Signore che affronta il faraone, che scende in campo, che sgomina in battaglia l’avversario, “il Signore è un guerriero, cavaliere potente, ha sgominato l’esercito del faraone”. E’ quello che cantano quanti hanno attraversato il mare, il cantico che è sempre presente nella liturgia di Pasqua, nella veglia pasquale: “Voglio cantare in onore del Signore:
perché ha mirabilmente trionfato,
ha gettato in mare
cavallo e cavaliere”. E così in numerosi altri testi che conferiscono al Signore la fisionomia del combattente e del vittorioso in quanto sa come intervenire con le armi opportune e sgominare l’avversario. Quello che a noi interessa qui è esattamente questo riferimento all’armatura di Dio. Leggevamo a suo tempo la raccomandazione che Paolo rivolge ai cristiani “Rivestitevi di Cristo”: è un rivestimento battesimale; Paolo ribadisce ancora una volta il valore di quella immersione battesimale che ci coinvolge nella radicale intimità della comunione di vita col Dio vivente, così come si è rivelato a noi col suo Figlio, Gesù Cristo e con la potenza dello Spirito Santo. Questo rivestimento battesimale (“Quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo”, Lettera ai Galati) qui assume la forma di una predisposizione al combattimento. E insiste Paolo: “per poter resistere alle insidie del diavolo”. Resistere si può tradurre “per stare in piedi”: è un conflitto nel quale si riporta vittoria restando in piedi in rapporto all’avversario che viene individuato nel diavolo, il divisore. Già si parlava di questo diavolo nel cap. 4, v. 27; l’avversario che è insidioso, petulante, micidiale, invadente nelle sue insidie, tanto è vero che in greco Paolo usa l’espressione “gli interventi metodici del diavolo”; il diavolo ha una sua metodologia. L’avversario non è estemporaneo, occasionale, un interlocutore che ogni tanto si sveglia, scatena la sua aggressione e poi, latente, si assopisce: è un’avversità metodologica. Per fronteggiare l’avversario che è sistematicamente incalzante nella sua aggressività bisogna stare in piedi. E Paolo insiste: “La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne (non è un combattimento comparabile ai criteri correnti nei quali si intendono conflitti, aggressioni, scontri, contrapposizioni, schieramenti che urtano uno contro l’altro), ma (e qui elenca quattro tipologie che servono a raffigurare in maniera più precisa quell’avversario che è stato citato in maniera generica, il diavolo) contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti”. Quattro espressioni che proviamo a passare in rassegna in modo da renderci meglio conto. Non è la prima volta che Paolo usa questo linguaggio; già nel capitolo primo leggevamo quel suo incoraggiamento a restare radicati nell’appartenenza alla signoria di Cristo e non essere preda di quelle situazioni ambigue che rischiano sempre di compromettere l’autenticità della vita cristiana; e qui ci parla del diavolo sotto queste quattro forme descrittive. E’ sempre il medesimo avversario, ma assume una fisionomia cangiante a seconda dei casi e val la pena di notare che dove, nel v. 12, leggiamo “la battaglia”, lui usa un termine greco che indica una rissa, un conflitto corpo a corpo, una colluttazione, un tipo di conflitto che non possiamo rinviare alle grandi scenografie degli schieramenti tra crociati e infedeli, ma è una colluttazione continua, che ci riguarda in ogni ambiente, in ogni luogo, che ci assilla nella dimensione visibile e invisibile del nostro vissuto, che incrocia i nostri passi anche nelle strade più nascoste e solitarie che stiamo percorrendo. Paolo dice: “il nostro avversario con sistematica puntualità, con precisione micidiale continua a tallonarci, a stringerci ai fianchi, a batterci proprio sul viso, dovunque ci volgiamo e comunque pensiamo di poterci districare o di avere raggiunto una posizione di sicurezza”.
I “Principati” sono qualcosa che potremmo definire come i principi di riferimento; per fare un esempio banale, tanto per intenderci, la salute, la malattia o la carriera. Principi di riferimento in base ai quali si interpreta il senso della vita e principi di riferimento in base ai quali la vita si trova intrappolata dentro al meccanismo insidioso che il diavolo a modo suo gestisce: lo stato sociale. Il benessere, il successo sono principi di riferimento che assumono il volto di quell’avversario che ci stringe, ci risucchia, ci svuota, ci imprigiona, ci intrappola, si impossessa di noi. E allora non è più la signoria di Cristo il riferimento determinante, vitale per noi. Le “potestà” sono strutture di dominio, come potrebbero essere, per fare esempi un po’ banali, un diploma scolastico, un diploma universitario o professionale, la cittadinanza, vincoli di parentela, la lingua, la casa in cui abitiamo, il vestito che indossiamo. Quando parla di “potestà” parla di quello che avviene continuamente nella rissa domestica, nella rissa stradale, nella rissa sociale, di quello che avviene quotidianamente nella nostra strada, la strada della vita. Il nostro nemico non è “carne e sangue” ma principati, potestà e “dominatori di questo mondo di tenebre”: io tradurrei “i registi delle ombre o il gioco delle ombre”, con la regia che è competenza di chi si abitua a questo certo sistema e al momento opportuno ne approfitta. Pensate alle mode, giochi d’ombra, quel certo modo di illuminare e corrispondentemente oscurare la realtà in modo tale che appaia e scompaia quello che corrisponde all’intenzione di un regista che gioca con le ombre. La cosiddetta opinione pubblica è un gioco dove la scena si illumina o si oscura a seconda di come si muovono i fari, i riflettori e a seconda di come si provocano certi riflessi, certi giochi, certe allusioni: giochi d’ombra. Tanti sistemi che interferiscono con le nostre relazioni sociali o con l’organizzazione della vita sociale e anche della vita religiosa; interferiscono nel senso che gettano ombre nel discernimento a cui le coscienze sono chiamate. La questione si fa sempre più delicata: come le coscienze sono illuminate od oscurate, sono soccorse nel discernimento o disturbate, danneggiate, offese con argomentazioni che possono essere più o meno brillanti, geniali, persuasive, rigorose, intransigenti in alcuni casi o in altri casi sdolcinature abbastanza melense: giochi d’ombra. E le nostre relazioni sociali sono intrappolate dentro meccanismi che ci ripropongono costantemente l’urgenza della rissa, della colluttazione. E insiste, quarta tipologia: “gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti”; io tradurrei “la spiritualità della cattiveria”, che è il massimo; quelle forze spirituali – chiamiamole pure così – che in realtà si appoggiano sulla cattiveria, solleticano la cattiveria: una spiritualità che promuove la cattiveria. Spiritualità in senso ampio, ma, per fare un altro esempio, la “sicurezza” che diventa un valore assoluto, sacro, divino. E sicurezza allora cosa significa? Respingimenti, fili elettrici sul balcone per mandare all’altro mondo qualche gatto. Oppure il diritto alla vacanza. Cosa vuol dire? Lo spirito si deve ricreare. Quale spirito? L’ambiguità giunge a compromettere, inquinare, deturpare, abbruttire anche i dati che di per sé potrebbero essere considerati come espressioni sane e estremamente positive della nostra condizione umana. Pensate all’eredità, un istituto che ha un suo valore pressoché sacro nel nostro modo di appartenere alla discendenza umana, alla storia di una famiglia, e a come un’eredità diventa l’incentivo più dirompente che esaspera il crogiolo delle cattiverie. Come è possibile? Lì c’è l’avversario. Tutta la cosiddetta pastorale delle nostre chiese è interpellata: tante volte avviene che di fatto la nostra predicazione promuove una spiritualità della cattiveria. Notate bene che mentre Paolo dice queste cose non vuole farci lo sgambetto e dire “siamo veramente ripiombati in una situazione infernale”, ma dice “c’è l’armatura di Dio”, non perché dobbiamo diventare crociati contro gli infedeli, ma perché nella rissa che ci spinge, ci stritola, maciulla quotidianamente noi siamo “rivestiti”, non siamo abbandonati a noi stessi, siamo immersi nella comunione con il mistero; altrimenti saremmo già risucchiati in un inferno di cui eravamo prigionieri e da cui siamo stati liberati. Ci saremmo ricaduti dentro e non potremmo fare altro che ricaderci dentro, ma da quell’inferno siamo stati tirati fuori. Paolo ci vuole aiutare a renderci conto di come è vero che ci ha tirati fuori, che veramente noi veniamo dall’inferno. “Prendete perciò l'armatura di Dio (v. 13), perché possiate resistere nel giorno malvagio”. I giorni sono difficili, Salmo 49, v. 6, giorni aspri, duri, ma senza stare adesso ad imprecare perché i tempi sono cattivi perché non è che lo sono indipendentemente da noi, sono i nostri tempi. Ma in questi tempi noi siamo dotati dell’armatura di Dio per resistere, “e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove” che comunque non ci saranno risparmiate. C’è l’armatura di Dio per noi; siamo veramente rivestiti, tirati fuori, consolidati, confermati, radicati nell’appartenenza alla signoria di Cristo e non possiamo dimenticarcene e scendere a compromessi. “State dunque ben fermi” (per la terza volta Paolo usa quello stesso verbo). E adesso ci dà una sommaria descrizione di questa “panoplia”, di questa armatura. Rimarca più volte la fierezza della resistenza nell’atto di restare in piedi e poi, sommariamente, cita i pezzi dell’armatura. Anche qui abbiamo a che fare con diverse citazioni dell’Antico Testamento, quelle scritte in corsivo, (ce n’è una in particolare su cui poi tornerò, nel libro di Isaia). “Cinti i fianchi con la verità”: il primo pezzo dell’armatura è la cintura; Paolo mette la cintura in rapporto alla verità, la verità non in senso concettuale ma nel senso della solidità, della stabilità. Notate bene che questa solidità è un pezzo dell’armatura di Dio ed è esattamente quell’armatura che adesso noi rivestiamo. Noi siamo in grado di affrontare il combattimento ed è un combattimento in cui già siamo vincitori perché siamo rivestiti: una coerenza, una fedeltà, una stabilità, una pazienza nella posizione che ci è stata conferita, quella posizione che ci ha, per l’appunto, collocati nella comunione con il mistero a noi rivelato.
Il secondo pezzo dell’armatura è la “corazza della giustizia”: la corazza è il pettorale ed è messo in rapporto alla giustizia. Il pettorale serve per sostenere l’impatto. La giustizia, nel linguaggio biblico, è la capacità di sostenere il peso altrui e qui il pettorale è esattamente, nella nostra vita cristiana, la capacità di sopportare l’urto con il peso altrui e di sopportare il peso altrui. Ancora una volta non c’è da pensare a chissà quale avanzata strepitosa, ma là dove si è radicati in una posizione di paziente fedeltà, ci si trova abilitati a sopportare il peso delle situazioni. Terzo pezzo: “e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace”; questa è la citazione di un famoso poema nel libro di Isaia, cap. 52: “Come sono belli sui monti
i piedi del messaggero di lieti annunzi
che annunzia la pace,
messaggero di bene che annunzia la salvezza,
che dice a Sion: «Regna il tuo Dio»”. Le calzature sono considerate non tanto in se stesse, ma perché servono a rendere agile il movimento dei piedi anzi a favorire la corsa della evangelizzazione. Il terzo pezzo dell’armatura in rapporto alla continuità, coerenza, coraggio nella trasmissione dell’evangelo, accolto e proclamato: la corsa, dove ancora una volta tutto si volge nel senso di un consumarsi della nostra vita al servizio dell’evangelo in una positività assoluta, dove non si tratta di eliminare l’avversario, si tratta di evangelizzare.
Quarto pezzo: “Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno”. Lo scudo, uno strumento difensivo, che viene messo in rapporto alla fede come esercizio di libertà, è in grado di spegnere tutti i dardi infuocati del maligno. Lo scudo sta nella fede e sta nell’esercizio della libertà che esorcizza tutte le asprezze anche le più aggressive, incisive, trafiggenti con cui l’avversario riesce a scatenarsi. Quinto elemento: “prendete anche l'elmo della salvezza”. L’elmo serve a coprire il capo che è la componente più preziosa del corpo umano; quindi l’elmo ci rimanda a ciò che è veramente il valore per eccellenza di tutto questo combattimento: l’elmo della salvezza. Questa colluttazione continua nella quale siamo impegnati non perde mai di vista che il valore per eccellenza, il valore supremo, quello decisivo a cui bisogna rivolgersi sta in quell’opera di salvezza che riguarda, nell’intenzione di Dio, la storia umana. Sesto pezzo: “la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio”. La spada, come altre volte leggiamo nell’Antico Testamento, è la parola di Dio, ascoltata, consegnata, trasmessa, testimoniata; e la Parola è inseparabile dal soffio dello Spirito, è la Parola nel soffio dello Spirito, è la Parola non soltanto proclamata come rumore dalla bocca, ma sostenuta, interpretata, motivata, riempita di significato dal soffio dello Spirito: questa è la spada. Qui conviene, tra tutti i testi dell’Antico Testamento, ricordarne uno che leggiamo nel libro di Isaia, cap.11: uno dei grandi oracoli messianici. “Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse,
un virgulto germoglierà dalle sue radici.
Su di lui si poserà lo spirito del Signore, (è uno degli oracoli dell’Emmanuele, il Messia: è in lui che lo Spirito sarà deposto in tutta la sua potenza carismatica)
spirito di sapienza e di intelligenza,
spirito di consiglio e di fortezza,
spirito di conoscenza e di timore del Signore”. E’ l’Emmanuele, questa figura messianica che, impregnata di tutte le qualità carismatiche, “giudicherà con giustizia i miseri
e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese.
La sua parola sarà una verga che percuoterà il violento;
con il soffio delle sue labbra ucciderà l'empio.
Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia,
cintura dei suoi fianchi la fedeltà”. Paolo sta citando Isaia. Rivestire quell’armatura fa veramente tutt’uno con quello che Paolo ci diceva precedentemente: rivestirsi di Cristo, nella comunione con il Figlio, morto e risorto; il Figlio, protagonista dell’impresa redentiva, il Figlio che ha portato a compimento l’opera della salvezza.
Affidati allo Spirito nella preghiera
Questa colluttazione quotidiana ci riguarda, e in questa colluttazione quotidiana siamo già testimoni di quella vittoria che è stata realizzata perché la misericordia di Dio si è riversata su di noi; quella vittoria che adesso in noi trova il riscontro della nostra risposta, della nostra benedizione, della nostra offerta, di quella offerta che diventa (guarda caso, qui dal v. 18 a seguire) la nostra preghiera. Preghiera in un senso pieno, non solo nel senso di qualche formula recitata, di cui pure c’è bisogno, ma nel senso del nostro costante, intenso, affettuoso, puntuale affidamento allo Spirito, quel soffio che era stato segnalato nel v. 17, in rapporto alla Parola, la spada. “Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito”. Vedete come siamo in continuità. E questa esortazione alla preghiera non è un’esortazione che si aggiunge alla precedente ma un’esortazione che prolunga la precedente. Siamo esortati al combattimento, siamo esortati alla preghiera: è il combattimento che si sviluppa, per una sua intrinseca necessità, nella preghiera, ma la preghiera in quanto è esattamente la ricapitolazione e la completezza del nostro combattimento, il nostro affidamento allo Spirito. Nel soffio noi, ormai, siamo in comunione con la signoria di Cristo che ha vinto; nel soffio, nell’affidamento, là dove siamo spossessati, espropriati, sradicati, svestiti per essere rivestiti. Allora la preghiera non si aggiunge, è la ricapitolazione completa, matura, esauriente di quel combattimento, di quella rissa. “Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche (non sta a precisare quale preghiera, se di lode, di supplica, di intercessione) nello Spirito”, questo è il punto. E’ come dire in comunione con l’Emmanuele: su di lui lo Spirito è stato effuso, Spirito di sapienza, di consiglio, di conoscenza, ecc. Si tratta di vivere nel soffio.
Siamo alle ultime battute della Lettera e Paolo ci investe non solo con la sua parola ma col suo soffio; non per nulla ha appena accennato a quella parola di Dio che noi ascoltiamo e testimoniamo in quanto siamo attraversati dal soffio dello Spirito. “Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi (notate come qui, insieme a questo affidamento al soffio dello Spirito, che è espressione matura per eccellenza nella vita cristiana rivestita dell’armatura di Dio, Paolo ci tiene a sottolineare questa larghezza dell’orizzonte nel quale proprio la preghiera ci introduce; la preghiera che man mano viene maturando, si viene esplicitando, diventa la nostra stessa interiore aspirazione al soffio, il nostro modo di essere docili e disponibili all’attraversamento di quel soffio che è lo Spirito; ebbene, la preghiera ci pone sulla scena del mondo e la prospettiva di una intercessione universale, dove imparare a vivere nella rissa significa, paradossalmente, non programmare l’eliminazione di qualcuno, ma significa imparare a respirare al ritmo di quel soffio di Dio che è effuso nell’universo), e anche per me, perché quando apro la bocca mi sia data una parola franca, per far conoscere il mistero del vangelo, del quale sono ambasciatore in catene, e io possa annunziarlo con franchezza come è mio dovere”. Paolo qui parla ancora una volta di se stesso e della sua condizione di carcerato. E parla di sé presentandosi a noi a bocca aperta perchè attraverso questa bocca aperta circoli la parola di Dio; che questa bocca aperta sia adeguata all’Evangelo, alla evangelizzazione. E questo avviene quando la voce è modulata dal soffio, quando la voce è gestita, strutturata, educata, sostenuta, moderata, abitata dal soffio. E Paolo dice: “pregate per me” perché tra voi e me circola il soffio dello Spirito di Dio. E per questa circolazione non ci sono impedimenti, limiti di spazio, limiti di tempo (tanto è vero che noi leggiamo questa lettera duemila anni dopo); la stessa precisione del linguaggio diventa secondaria in questo caso (niente affatto inutile, tanto è vero che noi facciamo una bella fatica per cercare di precisare anche i contenuti linguistici) perché quel che conta è questa circolazione del soffio. La nostra vita, rivestiti dall’armatura di Dio, ci proietta sulla scena del mondo come depositari di una Parola che raggiunge ogni interlocutore nel suo vissuto, nella pesantezza del suo dramma, nell’intimo del cuore; lo raggiunge in quanto è il soffio che circola in noi, quello stesso soffio che, nella sua pienezza, è stato effuso sull’Emmanuele, di cui è impregnato Cristo. E noi siamo crismati del suo unguento, profumati del suo profumo, attraversati dal soffio di cui Lui vive nella sua vittoria, ormai glorioso e definitivo. “Anche se io sono in catene – lo dice espressamente – sono un ambasciatore, un evangelizzatore; evangelizzo in catene”. “Pregate per me perché io possa evangelizzare con franchezza, come è mio dovere”: sta in piedi, rivestito dell’armatura di Dio.
Saluto finale
“Desidero che voi sappiate come sto e ciò che faccio; di tutto vi informerà Tìchico (è il latore della lettera destinata a circolare fra le chiese), fratello carissimo e fedele ministro nel Signore. Ve lo mando proprio allo scopo di farvi conoscere mie notizie e per confortare i vostri cuori”. Notate bene come Paolo ha appena accennato alla sua condizione di carcerato: “in questo mio carcere – probabilmente a Cesarea – sono evangelizzatore. Tichico è inviato a voi come ambasciatore”. Là dove lo Spirito di Dio ha impregnato l’Emmanuele e noi apparteniamo alla Signoria di Cristo, di Lui che è l’Unto, il profumato, là dove noi siamo alle prese con la lotta quotidiana (che per Paolo vuol dire trovarsi in un carcere con un procedimento giudiziario a suo carico), tra di noi la comunicazione è libera, è aperta all’accoglienza più serena e costruttiva.
“Pace ai fratelli, e carità e fede da parte di Dio Padre e del Signore Gesù Cristo. La grazia sia con tutti quelli che amano il Signore nostro Gesù Cristo, con amore incorruttibile”. Tra me e voi la signoria di Cristo, questa comunione indissolubile, incorruttibile (dice Paolo); non c’è incidente, avversità, caduta o smarrimento, debolezza che possa rimuovere o addirittura escludere o cancellare quella novità per cui tra me e voi circola l’unico soffio del Dio vivente in virtù del quale siamo in grado di accoglierci vicendevolmente e affidarci gli uni agli altri perché apparteniamo alla signoria di Cristo.