Lettera agli Efesini:
Un modo nuovo di vivere
Sesto incontro del ciclo 2009-2010
4 Maggio 20101
La lettera agli Efesini che stiamo leggendo è un testo impegnativo. Più leggo e rileggo queste pagine più mi commuovo perché si sente che c’è sotto un pathos che, per quanto sia trasmesso con un linguaggio teologico molto ricercato, in realtà è proprio l’espressione forte, urgente, dirompente di una tensione patetica: la contemplazione di Paolo mentre è in carcere a Cesarea. Il Mistero, quel disegno che Dio ha realizzato, secondo modalità tutte sue, ci pone in relazione con la signoria di Cristo e in questa tutto si compie, si riconcilia, si ricompone; tutto della nostra condizione umana, della storia, del passato, dell’avvenire, tutto per quanto riguarda il coinvolgimento di ogni creatura nello spazio e nel tempo.
Vi parlavo inizialmente di una situazione problematica da un punto di vista pastorale nella quale Paolo interviene, ma poi, in realtà, la preoccupazione di correggere, moderare, precisare è ampiamente sopraffatta dall’urgenza della contemplazione, soprattutto nei primi tre capitoli, ma ancora adesso, nella seconda parte della lettera, dal cap. 4 a seguire (siamo arrivati al cap. 5, v. 20). Paolo non avvilisce il tono contemplativo del suo scritto anche se, nelle pagine con le quali ci stiamo confrontando, sviluppa considerazioni che riguardano in modo più diretto l’impostazione della vita e rimarcano ancora una volta ciò che conferisce una caratteristica di inconfondibile novità alla vita dei cristiani: un nuovo modo di vivere. Paolo ci invita, ci incoraggia, non in forma propriamente magisteriale, ma con la potenza straordinaria e commovente della testimonianza che proviene da un povero cristiano ridotto in una situazione di miserabile prigionia, in un carcere disgustoso, ma tutto proteso verso la contemplazione del Mistero. E’ l’opera, il disegno, il rivelarsi di Dio, tutto quello che ci è stato manifestato mediante la Pasqua del Figlio e l’effusione dello Spirito Santo. E noi siamo ormai coinvolti in questa rivelazione del Mistero che è, allo stesso tempo, la novità che dall’interno ristruttura la nostra condizione umana e rielabora radicalmente il senso di tutta la storia umana per cui, nel Mistero che ci è stato rivelato, la nostra è ormai una storia di salvezza, nel corso della quale tutto si viene riempiendo in obbedienza a Dio e tutto si viene man mano incastonando, inserendo, immergendo nella comunione con il Corpo glorioso del Signore risorto dai morti.
Nella registrazione della volta scorsa è venuta meno la lettura di alcune pagine, c’è un vuoto che vedremo di recuperare come sarà possibile.
Fino al v. 20 del cap. 5 Paolo ci ha parlato di quel passaggio che conferisce una singolare ed entusiasmante novità alla nostra vita cristiana che appunto possiamo denominare “cristiana” proprio perché è vita in Cristo, immersa nella comunione con Lui che è l’unico Signore. In questa appartenenza a Lui, in questo nostro ormai acquisito trasferimento dalla dipendenza da altre false, presunte e abominevoli signorie, a Lui e alla sua Signoria, alla relazione con Lui, unico Signore, tutto si viene trasformando per quanto riguarda il nostro modo di vivere. Non è una trasformazione che rimane ipotesi teorica, che riguarda un gioco di sentimenti o di intuizioni reso più lucido dal punto di vista concettuale: è una trasformazione che modifica e ristruttura dall’interno, dalle fondamenta, l’impianto della nostra vita e delle nostre relazioni, che dimostrano che siamo vivi perché noi viviamo nelle relazioni. Tutto il nostro modo di essere, coinvolti nelle relazioni in virtù delle quali è strutturata la nostra vita umana, tutto è trasformato.
Siate sottomessi in obbedienza alla Signoria di Cristo
Dal cap. 5, v. 21 fino al cap. 6, v. 9 Paolo ci rivolge incoraggiamenti che sono sempre più mirati a illustrare come per davvero le relazioni, in virtù delle quali possiamo intendere e gestire la nostra vocazione alla vita, sono trasformate.
V. 21: “Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo”. Questo è un versetto che fa da titolo alle pagine che seguono, dal v. 22 al v. 33: le relazioni fra uomini e donne, mariti e mogli. Dal v. 1 al v. 4 del cap. 6 le relazioni tra figli e genitori; nei vv. da 5 a 9, le relazioni tra schiavi e padroni: sono tre tipologie di relazionamento che sono più che mai esemplari strutturali nell’impostazione della vita. Uomo, donna; genitori e figli che appartengono a generazioni diverse e successive; schiavi e padroni, siamo nel pieno dell’organizzazione sociale e dell’attività produttiva. Tutto, adesso, è da reinterpretare in rapporto alla signoria di Cristo. E quando dice “Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo”, il peso dell’affermazione non sta nell’esercizio della sottomissione (che è tutto da intendere e Paolo adesso ci viene incontro), ma in quel riferimento alla signoria di Cristo: “temere” è esattamente assumere quell’atteggiamento che è espressione di una radicale, profonda, autentica apertura del cuore umano in rapporto al mistero che ci è stato rivelato. Il timore non è lo spavento, lo sgomento, il terrore, ma è questa intima apertura del cuore umano che si consegna alla relazione con il Mistero: la signoria di Cristo. Tutte le nostre relazioni sono ristrutturate in rapporto alla signoria che compete a Lui e solo a Lui: Gesù, il Messia, Gesù morto e risorto, Gesù il Figlio crocifisso e glorificato, Gesù tramite per noi per l’effusione di quello Spirito di Dio che ci ha invasi e restaurati dalle fondamenta del nostro essere. “Siate sottomessi gli uni agli altri”: questo invito alla sottomissione non è casuale; infatti è su questa lunghezza d’onda che Paolo riprende il discorso con le raccomandazioni che seguono. Sottomissione in riferimento alla signoria di Cristo: c’è un modo di star sottomessi gli uni agli altri che non è un atto di ossequio a chi è più forte, più autorevole, più anziano, ma un modo che si realizza, si esplica, si esprime nella concretezza del nostro vissuto umano in obbedienza alla signoria di Cristo: questo è il dato determinante. Non è una raccomandazione generica che ci invita ad essere dimessi, rinunciatari, possibilmente un po’ assenteisti e più pronti che mai a obbedire, per evitare grane, a chi fa la voce più grossa. Sottomessi gli uni agli altri “nel timore di Cristo”: questo è fondamentale. Se non capiamo l’insistenza di Paolo su questo riferimento alla signoria di Cristo, tutto quel che riguarda la novità di cui dobbiamo renderci conto e per cui la nostra condizione umana è ristrutturata dalle radici ci sfugge.
Le mogli
Vv. 22-24: “Le mogli siano sottomesse ai mariti”: è un messaggio che non è sempre molto gradito e soprattutto non molto comprensibile perché sembra un invito a ridurre la donna a una situazione di sudditanza che diventa poi di oppressione ingiusta, dove solo la prepotenza o addirittura la ferocia del genere maschile riporta vittoria, ma in un contesto massimamente depravato. E, allora, che cosa sta dicendo Paolo? Leggiamo: “Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore”. E’ vero che a noi sembra un discorso delicato perché si fa presto a far riferimento al Signore quando di fatto poi il maschio di turno approfitta della debolezza intrinseca al genere femminile. Per Paolo questa sottomissione all’uomo è per la donna il suo modo nuovo di vivere nella relazione con la signoria di Cristo. Per Paolo questa è un’affermazione massimamente liberante per la donna. Naturalmente non coincide con le affermazioni del femminismo corrente, più o meno acculturato, ma c’è di mezzo la signoria di Cristo. Che cosa vuol dire per la donna appartenere alla signoria di Cristo e scoprire, in questa signoria, che essa, in quanto donna, è fatta per l’uomo, è creata per l’uomo, è a servizio dell’uomo? “Il marito infatti è capo della moglie (un’espressione più aspra di questa non ce la potevamo certo immaginare. Il fatto è che “il capo” qui non vuol dire “comandante”; vuol dire il principio di riferimento, quella presenza in base alla quale ci si orienta e si compone un intreccio e si sviluppa tutto un percorso) come anche Cristo è capo della Chiesa”. Non l’uomo comanda sulla donna perché normalmente è un po’ più alto e più forte, ma “come Cristo è capo della Chiesa”, come Cristo è il punto di riferimento in rapporto al quale la Chiesa si costituisce. E la Chiesa si costituisce non perché è strumentalizzata, violentata, schiacciata, oppressa, ma perché è vivificata, generata nella comunione; tanto è vero che subito dopo Paolo dice: “lui che è il salvatore del suo corpo”. La Chiesa è il corpo di Cristo e la testa qui non è l’equivalente della plancia di comando, ma è quella presenza attorno alla quale e in virtù della quale il corpo vive; e questo non è motivo di avvilimento per il corpo, è esattamente la qualificazione dell’essere femminile come corpo dell’uomo così come la Chiesa è corpo di Cristo: la Chiesa incorporata in Cristo, non un’aggiunta, un riversamento strumentale che approfitta di appendici più o meno gradevoli, ma è la Chiesa inserita in un rapporto di comunione che è introdotto nella profondità del Mistero, nell’intimo di Cristo. Laddove Cristo è Signore, la Chiesa è presente non come un accessorio, ma come una realtà che ormai gli è incorporata. “E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto”. In questa affermazione non c’è disprezzo, avvilimento, l’accantonamento della presenza femminile a un ruolo marginale, accessorio, gregario, ma c’è, per Paolo, la piena valorizzazione dell’essere femminile che trova il compimento della propria vocazione originaria nell’essere abilitata a valorizzare la vocazione umana dell’essere maschile. Questo è l’antico racconto biblico (Gn., cap. 2): ricordate come Dio crea Adàm e poi Adàm è solo. E’ in grado di dialogare con le cose, con gli animali, di dare un nome a tutto, ma non è in grado di dare un nome a se stesso: Adàm non sa di essere umano finchè il Signore Dio non gli porge la donna. E’ la donna che umanizza l’uomo, che fa di Adàm un essere umano. E in questo essere incorporata nell’uomo la donna non è avvilita ma è valorizzata nella straordinaria novità che ormai è attuata dal momento che tutto avviene in Cristo perché in realtà tutto quello che era il piano originario è stato sconvolto: il peccato, le conseguenze del peccato e tutta una serie di disastri per cui la relazione interpersonale è inquinata, deviata, destrutturata. Ma adesso, in Cristo, le relazioni sono ricomposte in modo così sorprendentemente nuovo, affascinante, commovente. La donna non può più essere confusa, come avviene per l’uomo dopo il peccato, con un pezzo di mondo: l’uomo è abituato a dialogare con le cose e, dopo il peccato, l’uomo si abitua a considerare anche la donna come una cosa. E’ il peccato che destruttura la relazione. Ma ora non è più così; la donna che è presentata dal Signore Dio all’uomo, è nella mano del Signore Dio, la donna è subito in relazione con il Dio vivente. L’uomo invece è in relazione con il Dio vivente in un atteggiamento dialogico, di risposta, che passa attraverso la terra: Adam è fatto di adamà (terra). La donna è fatta dalla carne e dalle ossa dell’uomo: ossa delle mie ossa, carne della mia carne; l’uomo è fatto dalla terra ed è in dialogo con la terra e attraverso il dialogo con le cose, in relazione con il Creatore, risponde al Creatore. Con il peccato tutto è scombinato: l’uomo confonde la donna come una cosa tra le altre perché la relazione con il Creatore è stata sconvolta in seguito a un disordine prodotto dal peccato tale per cui è come se l’uomo volesse affermarsi egli stesso al posto del Creatore, come Dio di questo mondo. E l’uomo che si afferma come presenza divina sulla scena del mondo riduce la donna a una cosa. Ma il guasto coinvolge l’essere femminile perché la donna che radicalmente e originariamente è nella mano del Creatore, del Signore Dio, in relazione diretta e immediata con il Dio vivente, nel grembo del Creatore, è consegnata all’uomo, per il motivo che sappiamo. Dopo il peccato la donna si confonde, un disordine più che mai doloroso e sconvolgente; la donna confonde l’uomo con il suo Dio; la donna fa dell’uomo un idolo. E si trova ridotta in quella condizione di oppressione, di tribolazione che conosciamo (d’altra parte anche l’uomo è oppresso e tribolato a modo suo) ed è travolta da quel disordine che non la rende più libera in rapporto all’uomo: l’uomo è diventato un idolo. E adesso tutto in Cristo si viene ricomponendo e non si tratta semplicemente di un ritorno all’indietro, ma di una novità che apre orizzonti straordinariamente nuovi: essere donna in Cristo, essere donna che, immersa nel mistero di Dio, si rivolge all’uomo senza essere prigioniera di risucchi di ordine idolatrico. E viceversa: anche l’uomo, che non ha più a che fare con la donna confusa, un frammento, una cosa di questo mondo, come l’altra persona ritrovata in Cristo.
I mariti
Vv. 25-33: “E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell'acqua (il battesimo e dunque Cristo, la Chiesa e attraverso la Chiesa tutta l’umanità e tutta la creazione viene ridisegnata in obbedienza a questa celebrazione nuziale che più ampia, ecumenica, completa di così non potrebbe essere: in Cristo) accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunchè di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo…”. Il proprio corpo è la realtà di ogni persona umana che è aperta alle relazioni. Il corpo è lo strumento delle relazioni; non è qualcosa di diverso dalla persona umana; è la persona umana nei suoi dinamismi relazionali e la donna si trova proprio lì perché è mediatrice per l’uomo di una relazione con il mondo che sia umana. Nella relazione con il mondo l’uomo vaneggia, traffica, parla, inventa, costruisce, ma è la donna che rende le relazioni con il mondo adeguate alla vocazione umana per l’uomo. E tutto questo è novità che si realizza in Cristo: la donna in Cristo e l’uomo in Cristo. L’uomo in Cristo scopre finalmente che è possibile incontrare l’altra persona che è veramente “altra”, veramente persona, che non è una cosa. Così come la donna è in grado di incontrare l’uomo e non è un idolo, è un dono di Dio. “… Chi ama la propria moglie ama se stesso”. E’ un linguaggio di per sé molto sospetto perché sappiamo bene che non bisogna amare se stessi: sembrerebbe un invito all’egoismo. Ma qui è proprio il Mistero che ci viene incontro laddove la nostra soggettività umana finalmente è liberata. Laddove la solitudine opera alla maniera di un risucchio terribile (per cui tutto quello che nel mondo c’è attorno a noi, compresa la donna, diventa una presenza che viene trascinata in quel vortice autoreferenziale dove la soggettività domina come valore assoluto), proprio lì una novità: amare la propria carne è amare un’altra persona. E l’incontro tra l’uomo e la donna non è più uno scontro tra egoismi che si arrabattano nel tentativo di recuperare spazi di autonomia o di dominio, secondo la logica della difesa o dell’aggressione possessiva; adesso l’uomo è in grado di amare e la donna è in grado di rivelare la presenza di Dio nella relazione con l’uomo. Questo avviene in Cristo. Il Mistero di cui adesso Paolo ci parla espressamente si inserisce proprio là dove sono in atto le relazioni interpersonali. Là dove noi siamo abituati a sperimentare con tanta angoscia (lì per lì sembra l’unica soluzione possibile, una soluzione tragica, infernale; il valore prepotente e intrattenibile del nostro egoismo) adesso c’è una novità: la soggettività umana è liberata e può attuarsi senza più la vergogna di ricorrere a strumenti difensivi o a forme di aggressione e di dominio. Questo vale per l’uomo come per la donna. “Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa , poiché siamo membra del suo corpo”. E’ costante, insistente, martellante questo riferimento; noi siamo in comunione con Lui, con il suo Corpo glorioso, affidati alla sua Signoria, in relazione di vita con Lui; e questo essere in relazione di vita con Lui non fa di noi degli angeli, ma degli uomini e donne che scoprono come le relazioni interpersonali sono trasformate in virtù della sua Signoria. E qui cita il testo famoso, Gn. Cap. 2: “Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!”. Cristo è lo sposo e la Chiesa è la sposa; e qui l’umanità e tutto quello che nella creazione fa da corredo alla sposa nella celebrazione nuziale: tutto si viene riempiendo nella comunione con il Corpo glorioso di Cristo. Ricordate la benedizione introduttiva: in Cristo… in Cristo… in Cristo. Ecco, adesso, questo Mistero è grande. Questo è il Mistero che adesso abita nelle relazioni tra l’uomo e la donna. Ed è un Mistero operoso, efficace, redentivo; è un Mistero che riconduce l’uomo alla gioia purissima, gratuita, esaltante – come ci viene descritta nel cap. 2 del Genesi – dell’incontro con l’altra persona umana: “carne della mia carne, ossa delle mie ossa”. In Cristo è possibile per l’uomo incontrare l’altra persona umana e in questo modo l’uomo può ritrovare, ristabilire, ristrutturare tutto il modo di relazionarsi con il resto del mondo e rispondere a Dio che chiama: in Cristo. E, d’altra parte, è la donna che in Cristo è in grado di rivolgersi all’uomo in nome di Dio, non per consumarsi, sprecarsi, esaurirsi nell’obbedienza a una figura idolatrata. E’ la donna che può finalmente rispondere alla propria vocazione così come è stata consegnata fin dall’inizio, dalla mano di Dio, all’uomo. Il v. 33 ricapitola tutta la pagina che abbiamo letto: “Quindi anche voi, ciascuno da parte sua, ami la propria moglie come se stesso, e la donna sia rispettosa verso il marito”. Siamo rimandati a quel “timore di Cristo”, del v. 21: la donna sia rispettosa, tema il marito nel senso che ormai abbiamo messo a fuoco; “voi, ciascuno da parte sua, ami la propria moglie come se stesso”, in questa scoperta così sorprendente per cui amare l’altra persona significa amare se stessi senza perdersi nell’inferno del proprio egoismo, ma aprendosi alla relazione con il mondo intero e con Dio creatore unico, in Cristo. “Ami la propria moglie come se stesso e la donna sia rispettosa verso il marito”: è proprio in questo essere rivolta all’uomo che la donna dimostra di essere radicalmente, intimamente aperta alla relazione con il Mistero del Dio vivente, quel Mistero che si è presentato e rivelato a noi in Cristo. E proprio perché la donna è così radicalmente aperta, in Cristo, alla relazione con il Dio vivente può prendersi cura dell’uomo.
Questi versetti sono dotati di una potenza teologica inesauribile: le cose che cerco di dire, a modo mio, sfiorano appena appena, marginalmente i molti spunti su cui bisognerebbe ulteriormente riflettere, ma vi invito a ritornare su questi versetti, leggendoli e rileggendoli cercando sempre (e per questo insieme ci aiutiamo) di non restare condizionati da certi fraintendimenti che dipendono da l’uso di una certa terminologia che per noi prende significati circoscritti, univoci, non adeguati all’ascolto della pagina biblica e all’ascolto di una Parola come quella che Paolo ci ha voluto comunicare. Molto forte è l’esperienza di quella novità, in Cristo, che noi potremmo definire “l’intimità” nel senso di quella scoperta per cui la vocazione altrui è interna alla vocazione propria; questa scoperta di come la vocazione di un’altra persona – che sia la donna per l’uomo o l’uomo per la donna, ma che poi è la vocazione degli altri, dell’umanità – è interna alla vocazione propria; non aggiuntiva o alternativa, pericolosa o addirittura una minaccia, un’insidia. Se la donna mi seduce sono perduto, se l’uomo mi domina divento schiava. La vocazione altrui interna alla propria è intimità. Questa riscoperta dell’intimità nella nostra condizione umana è Mistero di Dio che non è riservato ai giochi della mente che va speculando tra le nuvole, ma Mistero di Dio che si è inserito, insediato, penetrato fin nelle zone più profonde, nascoste, oscure, angoscianti della nostra vicenda umana. Nel nostro intimo, laddove siamo ricondotti alla nostra identità, non abbiamo più da spaventarci o ossessionarci dal fatto di dover fare i conti con un’immagine mostruosa di noi stessi; non è più così. Nell’intimo è la novità, la gratuità, la bellezza, l’originalità, la libertà della vocazione altrui. Questo è un mistero grande, dice Paolo.
Figli e genitori
Cap. 6, vv. 1-4: “Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto. (attenzione, perché qui Paolo non dice semplicemente “obbedite ai genitori perché sono più vecchi di voi, più robusti, la sanno più lunga; oppure perché dopo vi premieranno o perchè vi troverete bene nella vita”. Non dice questo perché dice “nel Signore”, di nuovo. Non è un’aggiunta casuale, è un ritornello martellante. Che cosa vuol dire per i figli aderire alla relazione con i genitori nel Signore? Ancora: “Onora tua padre e tua madre: è questo il primo comandamento associato a una promessa: perché tu sia felice e goda di una vita lunga sopra la terra”. Sta citando il testo che leggiamo due volte nell’Antico Testamento: Esodo, 20 e Deuteronomio 5. Per noi “Onora tuo padre e tua madre” è il quarto comandamento o quinto a seconda della sequenza. Sono in questione le due tavole: comandamenti che riguardano la relazione con Dio e comandamenti che riguardano la relazione con il prossimo. Solitamente collochiamo nella prima tavola i primi tre o quattro comandamenti e questo, che è il quarto (o quinto a seconda della maniera di elencare), farebbe parte della seconda tavola: il prossimo. In realtà una tradizione molto antica fa sì che questo sarebbe il quinto comandamento e fa parte della prima tavola. “Onora tuo padre e tua madre” significa non già obbedire semplicemente (senza troppo banalizzare) perché sono più vecchi o più autorevoli, o perché si è sempre fatto così; ma “Onora tua padre e tua madre: perché tu sia felice e goda di una vita lunga sopra la terra”. I genitori sono la sorgente della vita, ma di quella vita che scaturisce direttamente da Dio; i genitori in quanto sono il tramite della vita rispetto alla quale i figli sono depositari di un dono che è totalmente gratuito. “Tu non appartieni a te stesso, sei un dono che viene da Dio in te stesso tramite loro. Loro sono la dimostrazione per te che tu non ti appartieni, che sei depositario di un dono che scaturisce dal grembo fecondissimo del Dio vivente”. Vedete: “Obbedite nel Signore”. I genitori possono essere un po’ invecchiati e bacucchi, possono anche essere riprovevoli in tante loro prese di posizione; non sono automaticamente incorniciati all’interno di un’aureola consacrata dalle consuetudini sociali; ma sono comunque il tramite di quella corrente di vita che sgorga dal grembo di Dio. E tu vivi in quanto sei figlio e in quanto i tuoi genitori sono stati per te il tramite di quella fecondità che appartiene a Dio. Il comandamento “onora tuo padre e tua madre” come tutti quelli della prima tavola è associato a una promessa: perché tu impari a vivere, imparerai a vivere nel momento in cui i tuoi genitori – per come tu imparerai a riconoscerli, a interpretarli, a contemplarli nel Signore – ti parlano di quella fecondità che adesso è giunta fino a te e ti chiama a vivere in obbedienza a Dio.
V. 4: “E voi, padri, non inasprite i vostri figli, ma allevateli nell'educazione e nella disciplina del Signore”. Dice ai genitori: non inasprite i vostri figli, non rivolgetevi a loro con quella collera che li incapsula, li contiene, li circoscrive; non catturateli imponendo loro il diritto della vostra collera. Spesso i figli sono motivo di insofferenza, di delusione, di preoccupazione per i genitori; questo è abbastanza prevedibile e comunemente sperimentato. Ma Paolo dice: “allevateli nell'educazione e nella disciplina del Signore”. Ecco di nuovo il punto su cui bisogna insistere: questi figli sono oggetto di un amore, di una cura, di una premura provvidenziale da parte del Signore, sono educati da Lui. E i figli, che a volte possono essere motivo di collera o di amara desolazione, appartengono al Signore. Questo significa “impariamo a fare i genitori” non in nome di noi stessi, delle nostre aspettative, della nostra collera, delle nostre delusioni, ma in obbedienza a quella pedagogia provvidenzialmente divina che custodisce e istruisce, nelle forme più imprevedibili, questi figli che appartengono a un’altra generazione e così sarà per le generazioni che verranno.
Gli schiavi
Vv. 5-8: “Schiavi, obbedite ai vostri padroni”. Il fatto è che Paolo non affronta la questione di carattere istituzionale, non scrive ai cristiani di Efeso e dintorni per dire loro “da questo momento in poi l’istituto della schiavitù è abolito” (non sarebbe stato neanche sensato). Non è una questione di carattere amministrativo, giuridico o istituzionale quella che viene impostata qui. E’ una questione sostanziale, radicale, che riguarda il modo di stare nella relazione dal momento che il Mistero invade le relazioni e dal momento che chi si trova in questa collocazione che, dal punto di vista giuridico, chiamiamo “schiavitù”, è nel Signore. “Schiavi, obbedite ai vostri padroni secondo la carne con timore e tremore, con semplicità di spirito, come a Cristo (noi diremmo: qui è proprio la teocrazia imperante. Ma questa semplicità di cuore, questo obbedire a Cristo con timore e tremore è il motivo di quella libertà per cui, quale che sia la condizione di vita, è veramente tutto nuovo) non servendo per essere visti come per piacere agli uomini, ma come servi di Cristo, compiendo la volontà di Dio di cuore, prestando servizio di buona voglia come al Signore e non come a uomini”. E questo essere al servizio del Signore è motivo di liberazione radicale perché può succedere che, anche se l’istituto della schiavitù è abolito da secoli, in realtà ci si vende al primo padrone. E questo quasi come una garanzia di benessere, di stabilità, di progresso nell’economia e nella vita sociale. Paolo invece dice: “siete schiavi, ma non lo siete nel senso che vi misurate in rapporto al compiacimento del padrone che approfitterà di voi, ma siete schiavi in riferimento alla signoria di Cristo”. “… Non servendo per essere visti, come per piacere agli uomini, ma come servi di Cristo, compiendo la volontà di Dio di cuore, prestando servizio di buona voglia come al Signore e non come a uomini. Voi sapete infatti che ciascuno, sia schiavo sia libero, riceverà dal Signore secondo quello che avrà fatto di bene”. Sia schiavo, sia libero quello che conta è fare il bene; il bene qui è un termine che ancora una volta ci riparla del Mistero di Dio che si è rivelato, è il Mistero della misericordia,è l’opera di Dio nella storia umana, e quel che conta è essere inseriti in quella novità. Tra le righe cogliamo l’allusione al fatto che, proprio per come gli schiavi che obbediscono alla signoria di Cristo sono radicalmente liberi, sono gli unici veri evangelizzatori dei loro padroni. E questa è la massima responsabilità, è l’espressione suprema della libertà, è esattamente l’originaria, straordinaria fecondità nel bene di cui è dotata la condizione dello schiavo.
I padroni
V. 9: “Anche voi, padroni, comportatevi allo stesso modo (gli schiavi sono il modello per i padroni) verso di loro, mettendo da parte le minacce, sapendo che per loro come per voi c'è un solo Signore nel cielo, e che non v'è preferenza di persone presso di lui”. Non è, ripeto, in questione il processo evolutivo che mette in gioco l’assetto della società: questo avverrà nel corso delle generazioni e di qualche secolo; l’istituto della schiavitù verrà cancellato anche se poi riemerge in tanti modi. Ma non è la preoccupazione di Paolo questa; non si tratta di andare dai padroni e spiegare loro come devono procedere in base a principi solidaristici di economia politica, ma si tratta di scoprire come tutte le relazioni sono veramente trasformate, nell’intimo del cuore, per quanto adesso ci è dato di essere in relazione con la signoria di Cristo. E che ci sia dato di essere in relazione con la signoria di Cristo per Paolo non si discute; è il motivo stesso per cui l’evangelo ci ha raggiunto e l’abbiamo accolto; la nostra vita è entrata in questa prospettiva nuova. Che cosa vuol dire la signoria di Cristo, l’unico?. Non si tratta di sostituire una retta gestione delle cose con un’altra; queste sono problematiche di ordine accessorio che troveranno soluzioni sempre un po’ approssimative e discutibili e sempre occorrerà inventare ulteriori equilibri, ma, intanto, è proprio divelta quella profonda contraddizione per cui, quando Paolo si rivolge ai padroni, può dir loro: “voi non avete altro modello a cui adeguarvi che non sia quello degli schiavi che vi evangelizzano”.