Lettera agli Efesini:
La vita nuova che si riveste di Cristo
Quinto incontro del ciclo 2009-2010
6 Aprile 20101
Proseguiamo nella lettura della Lettera agli Efesini dal v. 17 del cap. 4. Siamo entrati nella seconda parte della lettera che ha un’andatura, una fisionomia, un’impostazione di carattere esortativo: le pagine che stiamo leggendo sono strettamente collegate con quanto leggevamo nei primi tre capitoli, nella prima parte della lettera dove siamo stati invitati a condividere quell’esperienza contemplativa di cui Paolo ci ha dato testimonianza in prima persona. Paolo, prigioniero, si rivolge a noi come destinatari di questa lettera per coinvolgerci in quella corrente che dal Mistero del Dio vivente scaturisce e a quel Mistero ritorna abbracciando la totalità delle creature e passando attraverso la novità che oramai converte la nostra condizione umana; quella novità che si è espressa nella Pasqua del Figlio di Dio morto e risorto, e che, con potenza di Spirito Santo, opera in noi e ci coinvolge in quell’unico grande abbraccio che ci riporta alla sorgente della vita nel grembo dell’eterna misericordia di Dio.
Leggevamo i primi 16 versetti del cap. 4 il mese scorso e ricorderete l’insistenza di Paolo su quel dato essenziale, costitutivo della novità che ci invita a contemplare e nella quale ci troviamo immersi, che si chiama “comunione”, “unità”; noi siamo tutti inseriti in un immenso circuito, in quella corrente che rivela il Mistero e ci introduce nel Mistero; la rivelazione del Mistero diviene immediatamente la nostra immersione, il nostro battesimo in esso, il nostro radicamento nella comunione con il Protagonista della vita che è lui, il Santo. Tutta la creazione è riempita nel senso che tutte le creature sono ricapitolate, riconciliate e valorizzate nella loro specifica qualità, in riferimento a quest’opera di comunione di cui il Dio vivente è protagonista. Per questo il Figlio, nella carne umana, è morto ed è risorto; per questo lo Spirito Santo è stato effuso: è l’opera della comunione, ma allo stesso tempo è esattamente il Mistero del Dio vivente che si è rivelato in modo tale da inserirci in quella pienezza di vita che è il suo stesso segreto, in quella fecondità di comunione che è inesauribile pienezza della vita in Lui. Tutta la creazione, tutte le creature, la nostra condizione umana sulla scena del mondo, nel rapporto con tutto ciò che ci rimane esterno, ma scoprendo man mano tutto quello che possiamo definire come il mondo attorno a noi e fuori di noi, in realtà trova dimora nell’intimo, nella profondità del nostro cuore umano: noi stessi troviamo dimora nell’intimità della vita divina.
Leggeremo questa sera i vv. da 17 del cap. 4 fino al v. 20 del cap. 5.
Paolo insiste ancora nell’esortazione ad aderire in pienezza a quella novità che ci ha prospettato con la sua diretta, personalissima testimonianza. Dividiamo la sezione della Lettera che abbiamo inquadrato in tre momenti. Il primo momento dal v. 17 ci porterà al v. 31 del cap. 4; il secondo momento è il perno di questa sezione, dal v. 32 del cap. 4 al v. 2 del cap. 5; il terzo momento dal v. 3 al v. 20 del cap. 5.
Primo momento. Paolo usa forme linguistiche che abbiamo già incontrato precedentemente: quel che non ci riguarda più e quel che invece costituisce il dato nuovo di cui dobbiamo renderci conto. Non si tratta più di un’avventura intellettuale, si tratta di un’adesione vitale che rinnova tutto della nostra condizione umana. In più, adesso, la novità ormai ristruttura dall’interno: il nostro relazionamento con il mondo, con gli altri, con noi stessi. Si potrebbe adesso intitolare lo svolgimento che leggeremo, facendo appello ai vv. 23-24, laddove si parla della vita nuova come vita che “si riveste di Cristo”. “Rivestimi di Cristo” è un tema battesimale, che è presente anche altrove nel Nuovo Testamento; è un tema dominante nel tempo pasquale in cui siamo entrati da qualche giorno. Nella lettera ai Galati un versetto famoso diventa uno dei tropari su cui insiste con una ripetitività martellante l’adorazione liturgica dei cristiani d’oriente: “Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo”.
Suprema vanità della mentalità pagana
Vv. 17-19: “Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani nella vanità della loro mente, accecati nei loro pensieri, estranei alla vita di Dio a causa dell'ignoranza che è in loro, e per la durezza del loro cuore. Diventati così insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza, commettendo ogni sorta di impurità con avidità insaziabile”. Paolo ci parla del paganesimo come della suprema vanità: l’inconsistenza, l’evanescenza, l’inconcludenza di una vita che è impostata come riferimento della nostra soggettività umana a se stessa; una vita impostata come riduzione del mondo e di ogni altra relazione con le creature di Dio, all’affermazione della soggettività individuale. La “mente” è un termine che è da intendere come impostazione della vita interiore; la “mente” non nel senso della sede del raziocinio, ma come impianto interiore della vita umana. Può succedere che questo impianto sia prigioniero di una sua intrinseca patologia per cui è un impianto che svanisce, si disintegra, viene meno, toglie luce, si confonde con le tenebre e nelle tenebre tutto si disperde, tutto è vanificato. Questo insieme di elementi che Paolo mette in risalto si ricapitola nella “durezza del loro cuore”: il cuore umano diventa un fortilizio, un luogo che dovrebbe essere riparato e quindi garanzia del successo nel rapporto con il resto del mondo, diventa la vera prigione – non quella in cui è detenuto Paolo – nella quale ci si inabissa come in un luogo oscuro che impedisce le relazioni da cui dipende la vita. “… Estranei alla vita di Dio a causa dell'ignoranza che è in loro”, a causa di questo svuotamento dell’impianto interiore per cui la vita non funziona nella relazione con il resto del mondo. Infatti è soltanto così che la vita può e deve funzionare. Tutto questo conferisce all’esistenza umana una nota di evanescenza, di inconsistenza, di fiacchezza inconcludente. D’altra parte è proprio, invece, di una metodologia esistenziale, quale è quella proposta dalla cultura pagana. E dicendo cultura pagana non mi riferisco a realtà che sono molto lontane da noi: siamo tutti toccati, attraversati, sollecitati da questa cultura pagana.
Paolo, dunque, intende quella certa metodologia nell’impostare e nell’organizzare la vita, che sa ben coltivare il proprio vizio. E il proprio vizio privato addirittura viene rivalutato come valore, a cui deve essere riconosciuto un merito pubblico. Una vita che può anche dare di sé un’immagine rispettabile, proprio perché si sviluppa all’interno di un ambiente ben delimitato nell’intenzione di perseguire degli obiettivi che sono rigorosamente determinati dal soddisfacimento del proprio egoismo personale e privato, ma in realtà questa impostazione della vita descrive il massimo dell’impurità e, al di là di ogni apparenza immediata, è caratterizzata da una nota di sfrenatezza, una avidità incontenibile. Una “avidità insaziabile” dice qua il v. 19: è quella voracità smodata che si esprime mediante il risucchio esercitato dalla ricerca spasmodica del soddisfacimento di sé.
E in quello spazio ristretto, asfittico, limitatissimo, che è circoscritto dalle pareti dure del cuore, si spalanca una voragine insaziabile e divoratrice. Adesso, dal v. 20 al v. 24, Paolo dice: la situazione è cambiata.
“Ma voi non così avete imparato a conoscere Cristo”.
Cristo non si è fatto conoscere da voi come qualcuno che approva, che, anzi, esalta o addirittura consacra quello spazio ristretto dentro al quale voi vi trattenete, quello spazio ristretto che coincide con il circuito della propria soggettività: la durezza del cuore. Non così, anche se qualcuno potrebbe confondersi, anche se qualcuno potrebbe addirittura abusivamente approfittare delle cose per imporre la propria confusione ad altri, quasi che fosse lecito o anzi doveroso proporre l’incontro con Cristo come una consacrazione della propria durezza di cuore. Non così “se proprio gli avete dato ascolto e in lui siete stati istruiti”; se siete divenuti davvero suoi discepoli “secondo la verità che è in Gesù, per la quale dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera”.
Il discepolato di Cristo comporta l’adesione a lui, alla verità che è in lui, dice il v. 21: quella rivelazione che si è compiuta in lui, nella sua Pasqua di morte e di resurrezione. Il discepolato comporta la sequela di lui, nel suo cammino di discesa e di risalita, di morte e di resurrezione. Si tratta dunque di deporre l’uomo vecchio, di svestirlo per rivestire l’uomo nuovo. E’ un cammino battesimale, questo, di morte e di resurrezione, di spogliamento e di rivestimento. L’uomo vecchio viene deposto, “l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici” – dice il v. 22 – l’uomo che pretende di realizzarsi nel soddisfacimento di sé, in realtà di distrugge; quell’uomo deve essere deposto.
“Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente”, prosegue il v. 23. Qui, invece di “mente”, provate a tradurre con “intenzione”. Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra intenzione, per quella che è l’ispirazione, il motivo portante, l’attenzione che struttura scelte e il vostro discernimento. E allora rivestire l’uomo nuovo, l’uomo secondo Dio, l’uomo che è creatura di Dio, l’uomo che non appartiene a se stesso e che non realizza se stesso e che non si compiace di se stesso, perché in realtà l’uomo è soltanto capace da se stesso di distruggersi, di corrompersi. L’uomo nuovo è creato secondo Dio: è creatura di Dio “nella giustizia e nella santità vera”.
La “giustizia” è l’intenzione di Dio; la “santità vera” è la inesauribile fecondità della vita divina. L’uomo di realizza in quanto è creatura di Dio, in quanto non appartiene a se stesso, in quanto non progetta se stesso, in quanto non soddisfa se stesso, ma ecco, c’è Dio che gli parla, c’è Dio che lo chiama, c’è Dio che vuole stabilire un rapporto di vita con lui. C’è Dio che ha una volontà di amore da comunicargli.
Dal v. 25 al v. 31, ecco come Paolo accenna alle forme di quella novità di vita che è il frutto del discepolato.
“Perciò bando alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo; perché siamo membra gli uni degli altri”.
Qui, una citazione tratta dal profeta Zaccaria (8, 16). Una forma della novità che si manifesta nei discepoli del Signore, cioè l’autenticità, senza menzogna. Bando alla menzogna. E’ tipico di un’impostazione pagana della vita assumere la menzogna come strumento, direi proprio come metodologia operativa per il raggiungimento della propria autenticità o di una presunta autenticità. E qui invece di tratta di un’autenticità metodologica. E’ proprio l’autenticità che diventa metodologia: “Dite ciascuno la verità al proprio prossimo, perché siamo membra gli uni degli altri”. Gli altri sono strumenti di cui possiamo, anzi dobbiamo servirci per essere noi realizzati; gli altri sono a noi legati in un’intrinseca e originaria comunione per cui non c’è realizzazione nostra senza l’altrui, mia senza quella dell’altro e viceversa.
E adesso aggiunge, vv. 26 e 27: “Nell’ira non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira, e non date occasione al diavolo”.
Un’altra forma della novità che è frutto del discepolato, consistente adesso nella pacificazione del sentimento, nella – direi proprio – pacificazione dell’ira. Notate bene che Paolo non si limita a suggerirci l’inopportunità di dare sfogo all’ira; non si limita a dir questo; non dice propriamente questo. Dice invece: “Nell’ira non peccate” e cita qui il Salmo 4. “Non tramonti il sole sopra la vostra ira”. Che la vostra ira sia consegnata a Colui che ha la misura della vostra condizione umana. Colui che fa sorgere il sole e lo fa tramontare. La vostra ira sia consegnata a Dio, nella convinzione che siete creature con i vostri limiti e con il tumulto dei sentimenti e con le contraddizioni a cui sempre le creature umane sono esposte. “Non date occasione al diavolo”: il diavolo è il divisore. C’è un’ira che viene consegnata al diavolo e diventa lo strumento di cui il divisore si serve in modo abilissimo per sciupare, per devastare, per sperperare; è il divisore. Si tratta invece – nella consapevolezza di quanti limiti si manifestano nella nostra realtà di creature, dentro di noi, attorno a noi, nel rapporto con gli altri, nel rapporto con noi stessi, si tratta di consegnare l’ira, affidare l’ira, sfogare l’ira nella devota obbedienza a Dio.
E già, in realtà, l’esplosione incontrollata dell’ira si allontana da noi nel momento stesso in cui noi cresciamo – qui i frutti del discepolato – nella consapevolezza di non possedere da noi stessi la misura delle cose, proprio perché siamo creature.
S. Paolo non sta dicendo: “non arrabbiarti più, sii buono!”, ma sta dicendo: “sei arrabbiato, benissimo: ricordati che sei una creatura e vivi la tua rabbia nella consapevolezza che non hai la misura delle cose. Ricordati che il sole tramonta questa sera; il sole tramonta e la giornata della tua collera è già finita”.
Poi, dice S. Paolo, v. 28: “Chi è avvezzo a rubare non rubi più, anzi si dia da fare lavorando onestamente con le proprie mani, per farne parte a chi si trovi in necessità”.
Ancora una forma di novità si presenta là dove i discepoli si rivestono di Cristo, e qui è in questione il lavoro. “C’è chi è avvezzo a rubare: e c’è energia, intelligenza, operosità in questo dedicarsi al furto; ebbene, chi è avvezzo a rubare non rubi più, anzi si dia da fare lavorando onestamente con le proprie mani, per farne parte a chi si trovi in necessità”. Qui S. Paolo non sta dicendo semplicemente: lavorate o lavoriamo, ma va più a fondo e dice: quel lavoro che produce per spartire; lavorate onestamente con le vostre mani per farne parte a chi si trova nella necessità. Perché Paolo sta dicendo: c’è un lavoro che in realtà è un furto. Chiamiamolo lavoro per intenderci, così spesso vien chiamato nel linguaggio corrente; d’altronde siamo tutti impregnati di paganesimo. Chiamiamolo lavoro. E Paolo dice: è un furto. Siamo abituati a lavorare rubando! Non si tratta di puntare il dito su qualche mascalzone che ha compiuto chissà quale truffa o chissà quale assalto alla banca o chissà quale altra ribalderia: qui si tratta di verificare fino a che punto il nostro lavoro è internamente progettato e strutturalmente realizzato per produrre quel che riguarda me ed esclusivamente me. Me: il mio avido, insaziabile cuore indurito. In questo senso il discernimento che Paolo ci propone è molto più raffinato, esigente, anche penetrante. Un lavoro onesto che in realtà io assumo e realizza per un motivo radicalmente disonesto, furfantesco, ladronesco, una vera e propria truffa. La novità sta qui: “si dia da fare lavorando onestamente con le proprie mani per farne parte a chi si trovi nella necessità”. Un lavoro che produce per spartire, se no è un furto, anche se si chiama lavoro. E viceversa è quel lavoro onesto che ti consente di ricevere quanto altri produrranno per spartire con te.
V. 29, ancora una novità: “Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca: ma piuttosto parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano”. Qui, un’attenzione esplicita al linguaggio, perché l’uso della parola sia edificante; non solo evitate le parole cattive, ma usate parole buone, parole che servano “per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano”; parole misurate, parole calibrate, parole che esercitano un effetto positivo in modo da ottenere un riscontro edificante.
E finalmente il v. 30: “E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, col quale foste segnati per il giorno della redenzione”.
Notate che tutte queste forme di novità, così come stiamo leggendo dal v. 25, esprimono gli effetti del discepolato assunto da coloro che hanno deposto l’uomo vecchio e hanno rivestito l’uomo nuovo, secondo Dio.
E qui, nel v. 30, un richiamo da parte di Paolo per evitare la “tristezza dello Spirito Santo di Dio”. Lo Spirito Santo di Dio è triste là dove non fluisce in pienezza, là dove è opaco il filtro attraverso il quale vuole soffiare, vuole penetrare e vuole effondersi. “Siete stati segnati per il giorno della redenzione”; abbiamo ricevuto lo Spirito in vista del giorno finale, ma ecco che lo Spirito trova degli attriti, trova delle scorie inquinate che lo frenano nel suo flusso. La trasparenza! Paolo ha questa immagine della vita nuova: la vita dei discepoli del Signore, figure trasparenti, personalità senza ombre, presenze che vibrano al passaggio dello Spirito Santo. Notate bene che tutto questo – lui dice – “per non rattristare lo Spirito Santo di Dio”, cioè per allietare lo Spirito Santo di Dio, che è poi come dire: per dare gioia a Dio. I discepoli del Signore che hanno rivestito l’uomo nuovo sono figure trasparenti. Per quanto un’espressione del genere possa sorprenderci – è già presente nell’A.T. e poi nel N.T. – questa stessa espressione detta e ridetta anche in altra maniera. Paolo parla qui di questo uomo nuovo intendendo colui che dà gioia a Dio. Ci sono già testi nell’A.T. in cui si parla del “giusto”. Chi è il giusto? Cosa fa il giusto? Il giusto brilla come il sole, il giusto è specchio della luce solare. Cosa fa? Quali imprese le sue? Quali progetti deve elaborare? Il giusto brilla come il sole, dà gioia a Dio. “Non rattristate lo Spirito Santo”. Questa nota di gratuità è segno inconfondibile della novità evangelica, a cui accedono i discepoli del Signore Gesù.
Secondo momento di questa sezione della seconda parte della Lettera: dal v. 32 al v. 2 del cap. 5. Paolo ci invita ad assumere la novità. Incontriamo qui un’espressione che può lasciarci, lì per lì, un poco sconcertati. Anticipo: si tratta, dice Paolo, adesso di “imitare Dio”. Un’espressione del genere, ripeto, può lasciarci un tantino sconcertati. Il modello non è proporzionato a noi, e invece Paolo usa proprio questo linguaggio. Assumere la novità per coloro che si rivestono di Cristo significa imitare Dio.
Proprio un momento fa, un richiamo a quella figura del “giusto” – così come è descritta in certi testi dell’A.T. – che brilla come il sole, dà gioia a Dio, è lì immagine di cui Dio si compiace.
“Siate benevoli gli uni verso gli altri (dice il v. 32), misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato voi in Cristo”. “Fatevi dunque imitatori di Dio”.
E adesso in realtà ci rendiamo conto meglio di che cosa voglia dire per Paolo questa “imitazione di Dio”. V. 32: tutti i modi che caratterizzano l’esercizio della misericordia, l’esercizio della pietà, della compassione, del perdono. Il perdono. Questi fantomatici imitatori di Dio in realtà non sono figure angeliche: sono figure che hanno connotati molto concreti, presenze che aderiscono pienamente alla realtà di questo mondo: sono persone buone. Un uomo buono, ecco, è l’immagine in cui si specchia l’Onnipotente. Un uomo buono. E notate bene, non per questo naturalmente appariscente, non per questo figura eccezionale, che fa notizia; non per questo personaggio che si erge mastodontico sulla scena di questo mondo, che lascia di sé un ricordo che segna tutta una generazione. Non necessariamente. “Benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo. Imitatori di Dio”. E aggiunge: “quali figli carissimi” (5,1).
Adesso: figliolanza. “Figli carissimi” a lui (“tékna agapeta”); figli contenti di essere tali; figli che non hanno altro proposito che quello di realizzarsi come figli; figli che non hanno altro desiderio, non altro intento, non altro progetto che questo: ottenere il suo compiacimento, farlo contento. “E camminate nella carità, nel modo che anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore”.
Questi personaggi di cui Paolo ci sta parlando – gli imitatori di Dio – sono alle prese con le vicissitudini correnti della vita umana; d’altra parte, sono coloro attraverso i quali la partecipazione alla vita trinitaria porta frutti nella storia degli uomini. “Camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore”. Cristo è il Figlio che ha offerto se stesso nell’obbedienza al Padre. Il Padre si è compiaciuto. La devozione del Figlio, sul quale si riversa l’amore eterno del Padre, e noi, presi dentro a questo mistero di comunione, partecipiamo alla vita trinitaria di Dio, noi che siamo immersi in questa onda di profumo, “sacrificio di soave odore”.
Anche questa è una maniera interessante per parlare di queste cose. Gli imitatori di Dio, coloro di cui si riesce a parlare solo con molta fatica; d’altra parte, non è nemmeno possibile sempre fare appello a questo o a quel comportamento, a quel gesto, a quell’altro, a quell’opera, a un’altra ancora: resta il profumo. Questo sì. D’altronde di Gesù, nostro Signore, il Figlio che si è offerto in obbedienza al Padre per il compiacimento del Padre, che cosa rimane a noi di lui? Rimane a noi di lui il suo profumo. Rimane di lui lo Spirito effuso, il vento che muove, suscita ed esalta i profumi; rimane l’unguento, unguento odoroso che ci avvolge di profumi. Del Cristo rimane a noi il crisma, dell’Unto rimane l’unguento, del Figlio rimane a noi il profumo. Gli imitatori di Dio: coloro che si dedicano al compiacimento del Padre, figli carissimi che lasciano dietro di sé una scia profumata.
Terzo momento di questa sezione (dal v. 3 al v. 20): l’invito di Paolo ad assumere il nuovo si esplicita mediante tre quadri che illustrano il passaggio che caratterizza per l’appunto la novità della vita cristiana. E Paolo ci sollecita perché questo passaggio abbia luogo integralmente.
Tre alternative.
Primo quadro (vv. 3-5): “Quanto alla fornicazione e a ogni specie di impurità o cupidigia, neppure se ne parli tra voi, come si addice a santi; lo stesso si dica per le volgarità, insulsaggini, trivialità: cose tutte sconvenienti. Si rendano invece azioni di grazie! Perché, sappiatelo bene, nessun fornicatore, o impuro, o avaro - che è roba da idolàtri - avrà parte al regno di Cristo e di Dio”. La fornicazione, l’impurità, la cupidigia di cui si parla qui sono tutte manifestazioni dell’idolatria. L’idolatria tra l’altro, nella rivelazione biblica spessissimo è descritta come opera di prostituzione, adulterio, l’adulterio per eccellenza, la massima impurità. L’idolatria come culto del sé e del proprio piacere, culto di sé e del proprio vizio, culto di sé e del proprio egoismo, culto di sé e del proprio soddisfacimento. L’idolatria, laddove il culto di sé diviene un valore sacro, laddove quel che di me deve essere venerato, diviene un proprio e vero idolo divinizzato. Fatto sta che qui Paolo dice: qui si tratta di passare dall’idolatria all’eucarestia, v. 4: “Si rendano invece azioni di grazie!”. “Azioni di grazie”: è l’eucarestia.
Dall’idolatria all’eucarestia
Quando il soggetto umano si appropria di se stesso o pretende di gestirsi in nome di un valore sacro, l’idolo, il culto di sé e del proprio piacere, soddisfazione, successo, benessere, diventa un valore tale per cui la debolezza, la fatica, le necessità, le miserie altrui devono essere rigorosamente represse. Infatti, il culto di sé porta, nel suo dinamismo liturgico, un vero e proprio atto di consacrazione del valore sacro della propria auto-soddisfazione. Rispetto all’idolatria noi adesso siamo gli uomini dell’eucarestia: “Si rendano invece azioni di grazie!”. Il passaggio avvenuto non è un passaggio di ordine concettuale per cui eravamo idolatri e ora crediamo nel Dio unico, ma riguarda questa radicale trasformazione dell’impianto che dall’interno sostiene la nostra vita umana, per cui noi siamo depositari di un debito universale, noi siamo alle prese con l’opportunità, anzi la necessità e l’entusiasmo di un rendimento di grazie che diviene il motivo portante del nostro stare al mondo, camminare nelle cose, stare nella relazione con gli altri. “Si rendano invece azioni di grazie! Perché, sappiatelo bene, nessun fornicatore, o impuro, o avaro - che è roba da idolàtri - avrà parte al regno di Cristo e di Dio”. Il regno di Cristo e di Dio è già attuato per noi, laddove non siamo più protagonisti dell’idolatria ma siamo debitori di eucarestia, di ringraziamento.
Ribellione e docilità; tenebra e luce
Secondo quadro (dal v. 6 al v. 14): “Nessuno vi inganni con vani ragionamenti (c’è un inganno): per queste cose infatti piomba l'ira di Dio sopra coloro che gli resistono”. L’inganno riguarda coloro che resistono; più esattamente abbiamo a che fare con i figli della ribellione (v. 6): “coloro che gli resistono” (espressione già presente nel cap. 2, v. 2); l’inganno di cui Paolo ci sta parlando qui è esattamente quello che ci riguarda nel momento in cui aderiamo anche noi a questa ribellione. Prosegue: “Non abbiate quindi niente in comune con loro (i figli della ribellione). Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore”. Si tratta di quella ribellione che cerca le tenebre, che, in nome della libera iniziativa umana vuole affermarsi come protagonista in se stessa e sulla scena del mondo, che ci rimanda peraltro al peccato originario, il peccato di sempre; questo guasto nella nostra condizione umana appare adesso nella sua drammatica gravità perché ci chiude nelle tenebre: “Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce”. I figli che vengono alla luce: chi viene alla luce, chi viene alla vita nella luce, è per eccellenza coinvolto in una vicenda che gli conferisce una totale docilità: rispetto all’inganno della ribellione la docilità di chi viene alla luce perché in realtà la ribellione oscura, è un imbroglio che si diffonde con diverse applicazioni; c’è di mezzo il vissuto personale di ciascuno di noi, c’è di mezzo tutto un impianto di un sistema culturale, una modalità di comunicazione e di organizzazione della vita a tutti i livelli, dalla famiglia alla società nelle sue articolazioni più complesse, il lavoro, la gestione politica. E’ come atto di ribellione, dice Paolo, noi proiettiamo ombre, facciamo buio nel mondo: questo è un inganno ed è rispetto a questo inganno che è avvenuto un passaggio determinante perché noi siamo nati alla luce, siamo figli della luce, e nell’esser generati siamo ridotti in uno stato di docilità. L’alternativa sta qui. Per nascere sei costretto ad essere docile. Ed è esattamente questo passaggio che è avvenuto, ed è esattamente in armonia con questa docilità che ci ha segnati radicalmente, nel momento in cui siamo venuti alla luce, che si tratta di costruire e rilanciare e costantemente restaurare la nostra vita: è nuova. Non siamo più quelli delle tenebre, siamo quelli della luce: non siamo più i ribelli, siamo ridotti in uno stato di docilità. Quella ribellione è un inganno; adesso l’inganno è svelato. “Il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate ciò che è gradito al Signore, e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre, ma piuttosto condannatele apertamente, poiché di quanto viene fatto da costoro in segreto è vergognoso perfino parlare. Tutte queste cose che vengono apertamente condannate sono rivelate dalla luce, perché tutto quello che si manifesta è luce. Per questo sta scritto:
«Svègliati, o tu che dormi,
dèstati dai morti
e Cristo ti illuminerà»”.
E’ una citazione di Isaia e del Libro dei Numeri più che mai appropriata nel tempo pasquale. “Svegliati, tu che dormi, sei nato alla luce”: questa trasparenza alla luce deve essere ulteriormente, pazientemente, coraggiosamente, gioiosamente coltivata proprio perché ormai non siamo più intrappolati nelle spire ombrose di quegli inganni che abbiamo spavaldamente gestito quando eravamo ribelli. Allora eravamo gli uomini dell’inganno, ma adesso siamo gli uomini della trasparenza alla luce; non siamo più ribelli, siamo nella docilità.
Ricolmi dello Spirito
Terzo quadro (vv. 15-20): “Vigilate dunque attentamente sulla vostra condotta, comportandovi non da stolti, ma da uomini saggi; profittando del tempo presente, perché i giorni sono cattivi. Non siate perciò inconsiderati, ma sappiate comprendere la volontà di Dio. E non ubriacatevi di vino, il quale porta alla sfrenatezza, ma siate ricolmi dello Spirito, intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo”. Paolo fa riferimento a quella certa svogliatezza accidiosa che si insinua, alle volte in modo subdolo, alle volte in modo anche spudorato e clamoroso, così da intrappolarci dentro gli ingranaggi di una noia nauseante. “… Comportandovi non da stolti, ma da uomini saggi”: questa stoltezza è esattamente l’ossequio che rendiamo a quella noiosa condizione umana nella quale sprofondiamo come nelle sabbie mobili “perché i giorni sono cattivi”. Paolo qui sta parlando in modo ampio di una situazione che, per quanto in tempi diversi e in forme originali, comunque si ripresenta come alternativa nella nostra vicenda umana. “Noi che siamo quelli dell’idolatria adesso siamo quelli dell’eucarestia”, diceva Paolo precedentemente. E qui aggiunge: “noi che siamo quelli dell’accidia, che diventa poi una pretesa presuntuosa, il diritto di giudicare il mondo come il luogo della perversione; ebbene, noi adesso siamo alle prese con la volontà di Dio”; “sappiate comprendere la volontà di Dio”. Questo tempo cattivo è il tempo nel quale Dio è presente, operante, vivente, vittorioso. “E non ubriacatevi di vino”: qui contrappone adesso quello stordimento al rigore della tempestività, nella perfetta consapevolezza che i tempi sono cattivi. E d’altra parte, in questi nostri tempi, si fa comprendere la volontà di Dio. Essa si manifesta a noi proprio mentre i giorni sono così amari per tutti. Si tratta di imparare a cogliere ogni bagliore di gratuità. “Sappiate comprendere la volontà di Dio”. “Siate ricolmi dello Spirito”, prosegue nel v. 18 san Paolo e “approfittate di questi giorni che sono cattivi per intrattenervi “a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo”. Nel tempo, nella fatica e nella pena. Ecco la “sobria ebbrezza dello Spirito”, così come si esprime la Chiesa nel suo linguaggio liturgico. “Sobria ebrietas”, la sobria ebbrezza dello Spirito: questa abitudine a esprimersi con i salmi, gli inni e i cantici spirituali con una partecipazione di tutto il cuore; questa attitudine ad esprimersi mediante l’esercizio dell’universale benedizione, benedizione rivolta al Padre nel rapporto vivo con Gesù Signore nostro, perché ogni creatura è ricevuta come dono, ogni giorno è affrontato, vissuto e patito come occasione preziosa e insostituibile di comunione e di amore.
Ricapitolo questo terzo momento dell’intera sezione. Paolo ci invita ad assumere la novità. Ci ha aiutato a comprendere come si tratti di passare dall’idolatria all’eucarestia, dalla ribellione alla docilità, dall’accidia svogliata alla tempestività della fatica che si consuma nella gioia spirituale più pura e più forte, più vibrante, più energica e più feconda, perché parlare di gioia spirituale non è parlare di gioia che svanisce, di gioia che svolazza come un filo di fumo. La gioia spirituale è gioia che rimane.
E noi accogliamo l’invito di San Paolo.