Sapienza:
nell’intimo dei cuori e nella storia Dio si rivela e chiama l’uomo ad aprirsi al suo Mistero
Quarto incontro del ciclo 2008-2009
3 marzo 2009
Torniamo alla fine del cap. 8. Siamo nella seconda parte del nostro libro ed è esattamente in questa sezione, dal cap. 6 al cap. 9, che viene sviluppato l’encomio della Sapienza. Questa sera inizieremo anche la lettura della terza parte, arrivando al v. 14 del cap. 11.
Il maestro, autore di questo discorso, si presenta nei panni di Salomone che invita i suoi interlocutori a cogliere la Sapienza: il rivelarsi del Mistero di Dio, da cui dipende il discernimento del cammino lungo il quale bisogna procedere per ritornare alla pienezza della vita per realizzare, in modo consapevole e coerente, la vocazione alla vita; il nostro maestro si è esposto, attraverso il richiamo alla figura di Salomone, in prima persona singolare; ricordate come ha parlato di sé, della sua ricerca, di come sia stato progressivamente rieducato nel desiderio di vivere, quindi nel desiderio della Sapienza. Ci troviamo, ora, alla fine del cap. 8. Nei vv. da 17 a 21 il nostro maestro parla, ancora una volta in termini autobiografici, di se stesso e della scoperta della radicale impotenza del cuore umano ad acquisire la Sapienza. C’è un mistero nella nostra condizione esistenziale: nessun uomo può possedere, gestire, in nome di se stesso e della propria iniziativa, la Sapienza (il rivelarsi di Dio), attingibile unicamente in forza della gratuita iniziativa di Dio. Solo affidandosi alla rivelazione del Mistero il cuore umano può prendere consapevolezza di sé e dare orientamento al cammino della vita; quel cammino che esige una spinta che venga dall’intimo. Senonchè nessun uomo è in grado di conoscere il proprio cuore; è il rivelarsi di Dio che lo scandaglia e lo rende strumento docile e positivamente fecondo per quella vocazione alla vita che, accolta e custodita, diventa il filo conduttore di tutto il complesso di relazioni che man mano si vengono intrecciando nel contatto col mondo, con gli altri, con gli avvenimenti. Al termine del cap. 8, il nostro maestro ci ha testimoniato quanto leggevamo nel v. 21 che vorrei rileggere: “Sapendo che non l'avrei altrimenti ottenuta(la Sapienza), se Dio non me l'avesse concessa”. Solo nel contesto di quella rivelazione che ha Dio per autore, della sua iniziativa che gratuitamente si esprime, è possibile a un cuore umano come il nostro (”come il mio” dice il nostro maestro) rendersi conto della propria vocazione alla vita. “E man mano che sono maturato nella mia ricerca (ci ha parlato di tanti passaggi che lo hanno impegnato, per cui siamo veramente in una fase di suprema maturità della sua ricerca, divenuta testimonianza ed esperienza didattica) mi sono reso conto che non sono in grado di decifrare il mistero che si nasconde nel cuore di ogni uomo e nel cuore mio. Il rivelarsi di Dio mette in luce questa profondità misteriosa che è nel cuore umano; e da questa consapevolezza, che man mano matura in un contesto di radicale gratuità e povertà, io ho potuto discernere l’orientamento determinante per raggiungere la pienezza della vita e trovare il linguaggio dell’invocazione, della supplica, dell’affidamento alla misteriosa iniziativa di Dio che gratuitamente si rivela”: “mi rivolsi al Signore e lo pregai,dicendo con tutto il cuore”. Qui ci eravamo fermati; adesso il cap. 9 che contiene il testo conclusivo di questa seconda sezione del discorso ed è un testo relativamente famoso perché riporta a noi la supplica per ottenere la Sapienza. Assume l’andatura di un cantico e si sviluppa in tre strofe; la prima strofa dal v. 1 al 6; la seconda dal v. 7 al v. 12, la terza dal v. 13 al v. 18. La prima strofa ruota attraverso attorno a quell’invocazione che ricorre nel v. 4: “Dammi la sapienza”; la seconda ruota attorno a quello che leggiamo nel v. 10: “Inviala dai cieli santi”; la terza non ci propone un imperativo ma un’espressione equivalente in forma ipotetica, nel v. 17: “se tu non gli hai concesso la sapienza” (concedi la Sapienza). La supplica procede, da una strofa all’altra, in modo tale da raccogliere tutte le tensioni che si sono man mano configurate nell’intimo dell’uomo, così segreto, misterioso, impenetrabile, nella relazione con la Sapienza, fino a giungere al momento in cui il suo cuore si esprime con il linguaggio dell’invocazione; non ne ha un altro che sia opportuno, adeguato alla situazione nella quale si trova se non questo. Quanto più si pratica la relazione con la Sapienza, il mistero di Dio che si rivela, tanto più il cuore umano scopre di essere maturato nell’esperienza della propria radicale povertà, e scaturisce la supplica.
Per essere uomo
Prima strofa, cap. 9, vv. 1-6: “Dio dei padri e Signore di misericordia,
che tutto hai creato con la tua parola,
che con la tua sapienza hai formato l'uomo,
perché domini sulle creature fatte da te,
e governi il mondo con santità e giustizia
e pronunzi giudizi con animo retto,
dammi la sapienza(è il perno attorno a cui si sviluppa questa prima strofa) che siede in trono accanto a te
e non mi escludere dal numero dei tuoi figli,
perché io sono tuo servo e figlio della tua ancella,
uomo debole e di vita breve,
incapace di comprendere la giustizia e le leggi.
Se anche uno fosse il più perfetto tra gli uomini,
mancandogli la tua sapienza, sarebbe stimato un nulla”. Notate qui, in apertura della strofa, v. 2, il termine “àntropos - uomo”, che ritorna poi nel v. 5 sempre al singolare, mentre nel versetto seguente è al plurale. L’uomo, creatura collocata da Dio nel mondo, è posto in una situazione di prevalenza, di dominio su tutte le altre creature. Questo è il disegno originario di Dio creatore dell’universo. D’altra parte proprio l’uomo, con questa sua particolare competenza nel contesto della creazione, con tutta la sua responsabilità nei confronti di tutte le altre creature), dice il v. 5, è una creatura servile e “debole, di vita breve”: una creatura ammalata. Per quanto gli uomini si arrabattino nella ricerca di un loro perfezionamento, in base alla loro iniziativa, constatano di essere intrappolati dentro situazioni che li opprimono e li riducono costantemente alle misure di una malattia di cui non sanno venire a capo: “uomo debole e di vita breve,
incapace di comprendere la giustizia e le leggi”. L’uomo – creato da Dio, in base alla sua intenzione originaria e in obbedienza a quel disegno – svetta rispetto a tutte le altre creature ma, stando alla testimonianza registrata nell’esperienza di tutti coloro che vogliono affermarsi come protagonisti della propria presenza nel mondo, è schiacciato sotto un carico di miserie inevitabili. E allora, vedete: “dammi la sapienza… Se anche uno fosse il più perfetto tra gli uomini,
mancandogli la tua sapienza, sarebbe stimato un nulla”, v. 6 che conclude la strofa. Invocazione. La Sapienza che siede in trono (ritorna l’immagine della Sapienza che è presente nell’intimità del Dio vivente, che sembra essa stessa una creatura, ma antecedente a tutte le altre creature…). Ma non c’è dubbio: affinchè la creatura umana sia custodita nella sua autentica qualità, la Sapienza che viene da Dio deve manifestarsi e operare così come gratuitamente le compete. Perché l’uomo sia uomo (l’espressione più essenziale), perché l’”àntropos sia àntropos”, è necessario che si affidi alla Sapienza; solo la Sapienza che viene da Dio, solo quel che Dio ci dona in virtù di una gratuita iniziativa, riversa su di noi una corrente di vita. “Dammi la Sapienza”, non tanto per diventare particolarmente furbo o intelligente; non tanto per dotarmi delle conoscenze sulle grandezze, le complessità, le articolazioni dell’universo; ma “dammila Sapienza” nel senso radicale di quell’invocazione per cui “io non posso essere un uomo se non sono investito dalla gratuita rivelazione di quello che tu vuoi donarmi”.
Per essere all’altezza delle intenzioni di Dio
Seconda strofa, dal. v. 7 al v. 12: “Tu mi hai prescelto come re del tuo popolo” (Salomone). La seconda strofa sposta l’attenzione da quel che riguarda ogni uomo verso questa realtà che, nella storia umana, viene identificata mediante l’espressione “il tuo popolo”, il popolo dell’alleanza. Viene messo a fuoco il popolo di Dio, il popolo di Israele, il popolo dell’alleanza nella storia umana; siamo alle prese con la storia della salvezza. Nella prima strofa è la realtà di un uomo, di ogni uomo, di tutti gli uomini; nella seconda è lo svolgimento della storia della salvezza così come si è andata esplicitando in base a quanto ci è stato rivelato. Ma, per l’appunto, dice il nostro maestro: “noi siamo in grado di interpretare quel che Dio ci ha rivelato attraverso la storia della salvezza in quanto la Sapienza viene riversata su di noi”. “Tu mi hai prescelto come re del tuo popolo
e giudice dei tuoi figli e delle tue figlie;
mi hai detto di costruirti un tempio sul tuo santo monte (Salomone re, giudice – espressione che rinvia a un’attività carismatica testimoniata anche da altri personaggi nella storia della salvezza – costruttore del tempio in relazione con tutta l’attività liturgica che nel tempio si svolge e che ha come strumento qualificato il sacerdozio) un altare nella città della tua dimora,
un'imitazione della tenda santa
che ti eri preparata fin da principio.
Con te è la sapienza che conosce le tue opere(le opere di Dio, quelle opere che si sono man mano realizzate nella storia della salvezza, le conosce Dio), che era presente quando creavi il mondo;
essa conosce che cosa è gradito ai tuoi occhi(questa storia della salvezza come, dove, perché, corrisponde all’intenzione del Dio vivente. Questo ce lo può spiegare solo la Sapienza, quella rivelazione che viene da Dio e che ci inserisce al nostro posto, nel contesto di quella storia, e ci consente di decifrare il valore di quei segni – regalità, profezia, sacerdozio – che diventano eloquenti, trasparenti, positivamente pedagogici) e ciò che è conforme ai tuoi decreti (la Sapienza). Inviala dai cieli santi(l’invocazione, perché è la Sapienza che ci consentirà di decifrare il significato, di discernere i contenuti, i passaggi, i motivi per cui nella storia della salvezza si sono compiute quelle opere che corrispondono all’intenzione custodita da Dio nel suo segreto e che Dio vuole realizzare nella storia umana), mandala dal tuo trono glorioso,
perché mi assista e mi affianchi nella mia fatica(perché: “come posso io stare al mio posto, con le mie responsabilità di re, di giudice, di costruttore del tempio se non sono assistito dalla tua Sapienza?”) e io sappia ciò che ti è gradito”. “Come posso apprezzare la corrispondenza di quel che si è man mano delineato, costruito, consolidato nel corso di questa storia con le tue intenzioni, se non è la Sapienza, inviata da te, che me lo spiega?”. “Essa infatti tutto conosce e tutto comprende,
e mi guiderà prudentemente nelle mie azioni
e mi proteggerà con la sua gloria.
Così le mie opere ti saranno gradite (qui non si tratta più di un livello oggettivo per cui le opere, nella storia della salvezza, corrispondono all’intenzione di Dio: il nostro maestro chiede l’invio della Sapienza per essere interiormente consapevole di questa corrispondenza tra le opere e l’intenzione originaria di Dio); io giudicherò con equità il tuo popolo
e sarò degno del trono di mio padre”. “Io sarò in grado di svolgere la mia missione e di esercitare il carisma che mi è stato affidato e sarò degno di sedere sul trono di mio padre, Davide”. La strofa si apre, nel v. 7, e si chiude, nel v. 12, con “il tuo popolo”. Questa è la cornice che include la seconda strofa. Nella prima si parlava dell’uomo: perché l’uomo sia uomo, manda la Sapienza. Adesso, «perché io possa essere collocato nel contesto della storia della salvezza in modo consapevole, adeguato, corrispondente alla missione che mi hai affidato, al carisma che mi hai donato “invia la Sapienza”. Allora sarò in grado di realizzare la missione che mi hai affidato, esercitare fino in fondo la responsabilità del mio carisma, sostenere il peso della fatica che hai voluto affidarmi, perché sarò interiormente educato nella consapevolezza che esattamente quel che mi riguarda, mi coinvolge, mi impegna in modo così massiccio e totale, corrisponde alle tue intenzioni”». La storia della salvezza è qui rievocata non solo come quel particolare periodo della storia umana che assume oggettivamente un significato di un criterio interpretativo di tutto quello che poi avviene nella storia dell’umanità, sempre e dappertutto; qui la storia della salvezza viene rievocata in rapporto alla maturazione interiore. Su questo il nostro maestro ritorna nella terza strofa: la capacità di apprezzare il valore dei segni; noi diremmo, addirittura, dei sacramenti. Che cosa ci ha voluto dire Dio nel corso di questi eventi, attraverso questi personaggi, in queste congiunture spesso così drammatiche? “Invia la sapienza dai cieli santi” e allora “io saprò che cosa chiedere”.
Per conoscere le Sue vie
Terza strofa, dal v. 13 al v. 18: “Quale uomo può conoscere il volere di Dio? (Attenzione al termine “volere”, la volontà di Dio. Di nuovo abbiamo a che fare con un uomo qualunque che, però, si trova di fronte alla problematica più seria e sbaragliante che possa mai affiorare nell’animo umano: ma che cosa vuole Dio?). Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?
I ragionamenti dei mortali sono timidi
e incerte le nostre riflessioni,
perché un corpo corruttibile appesantisce l'anima
e la tenda d'argilla grava la mente dai molti pensieri.
A stento ci raffiguriamo le cose terrestri,
scopriamo con fatica quelle a portata di mano;
ma chi può rintracciare le cose del cielo?”. L’uomo che si fa da sé; che si arrabatta nel tentativo di individuare la strada da percorrere e poi si arena, si stanca, si consuma: “ma chi può rintracciare le cose del cielo?”. La questione è determinante: la volontà di Dio. Ed è una questione che il nostro maestro rintraccia nel cuore di ogni uomo. Certamente c’è di mezzo il passaggio attraverso la storia della salvezza che ha un suo valore pedagogico insostituibile; ma poi la questione riemerge nel cuore di ogni uomo che si dedica alle proprie cose, che si impegna nella realizzazione dei propri impegni; quell’uomo che fino a un certo punto ha voluto farsi da solo e poi si trova esposto all’impatto col mistero che lo avvolge, lo sorprende, lo sconcerta, lo travolge, gli si impone come espressione di un’altra volontà, la volontà di Dio. Il v. 17 aggiunge: “Chi ha conosciuto il tuo pensiero(notate che in greco “pensiero” è lo stesso termine che avevamo incontrato nel v. 13. “Chi ha conosciuto la tua volontà?”), se tu non gli hai concesso la sapienza(questa formula ipotetica corrisponde alle due invocazioni in forma imperativa incontrate precedentemente) e non gli hai inviato il tuo santo spirito dall'alto?”. C’è di mezzo la positività del cammino che sostiene lo svolgimento di tutta una vita: a chi rispondo, a chi mi rivolgo, da chi ricevo questo dono e a chi posso a mia volta regalare questo dono che è la vita con tutto quello che le sta intorno e dentro, e con tutto quello che il vissuto personale di ciascuno di noi mette in evidenza, quanto a itinerari, contenuti, doni e anche mancamenti, illusioni, delusioni particolari? In questa relazione con il Mistero (è stato sempre il punto di partenza della nostra ricerca ed è sempre il punto decisivo), in questo riferimento a un’altra volontà che non è la mia e che mi precede, mi accompagna, mi viene incontro, mi apre la strada, io man mano mi accorgo che è proprio quest’altra volontà, che gratuitamente si prende cura di me e traccia percorsi lungo i quali io gradualmente mi vado inoltrando; ed è così che il mio animo man mano si viene educando in relazione a quest’altra volontà. Tutto questo nel quadro di un’esistenza umana che si svolge esplicitando la consapevolezza di non essere proprietaria di se stessa: io non sono mio, non mi appartengo; non è la mia volontà che fa il mondo, la storia, me stesso. E d’altra parte: “questa volontà tua chi la conosce se non sei tu che concedi la Sapienza?”. E’ il riferimento a cui il nostro maestro si rifà dall’inizio del suo discorso: “sei tu che ti sei rivelato”, e non per il gusto di fare scenografie, spettacolo; “ti sei rivelato perché è nella relazione con te, con la tua iniziativa gratuita, con la tua volontà d’amore che gli uomini imparano a vivere.
V. 18: “Così furono raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra;
gli uomini furono ammaestrati in ciò che ti è gradito;
essi furono salvati per mezzo della sapienza”. I sentieri, le strade, i percorsi lungo i quali gli uomini sono condotti per corrispondere alla volontà di Dio e questa corrispondenza alla sua volontà è la pienezza della vita che man mano matura e fruttifica in noi. Siamo alla fine della seconda sezione, quella centrale, e all’inizio della terza. Non c’è dubbio per il nostro maestro che è erede di tutta una tradizione sapienziale: Dio si è rivelato in modo tale da metterci in grado di intendere e accogliere la sua volontà e da coinvolgerci in una relazione con lui che ci consente di procedere positivamente, operativamente, nel tempo e nello spazio, così da corrispondere alla sua volontà. Dio si è rivelato in modo tale da fare di noi e della nostra libertà di creature umane l’offerta, la risposta a lui gradita.
L’azione della Sapienza nella storia
Ci troviamo già introdotti nella terza sezione del discorso che ci aiuta a riflettere sulla storia degli uomini in modo tale da decifrare – è questo l’obiettivo a cui il nostro maestro si dedica con grande assiduità – quali sono le costanti dell’agire di Dio nella vicenda umana; come si rivela Dio nella storia? Il criterio determinante è quello che è avvenuto nella storia della salvezza, quella storia particolare di cui il nostro maestro non parla mai usando nomi propri; lo notiamo per quello che già abbiamo letto; lo noteremo ancora per quello che leggeremo. Parla sempre in termini che rispettano l’anonimato; ma parla di quelli che sono i grandi avvenimenti della storia della salvezza e ne parla non per il gusto di ricostruire quei fatti o rievocare quelle pagine dei testi antico-testamentari che gli sono ben noti; ne parla per fornirci strumenti di analisi, di discernimento, strumenti ermeneutici in base ai quali possiamo renderci conto di come Dio si rivela, sempre e dappertutto: ecco la volontà di Dio ed ecco come Dio ha operato per aprirsi la strada; non ha riservato questo regalo ad alcuni privilegiati, ma ha aperto la strada a tutti, sempre, dovunque. Il nostro maestro vive ad Alessandria in Egitto, parla greco, è educato nelle accademie dell’arte retorica; dimostra, dunque, di essere un giudeo perfettamente istruito nelle scritture sacre, ma sviluppa il suo discorso ben sapendo di avere a che fare con un uditorio che tende ad ampliarsi sempre di più e a coinvolgere ecumenicamente coloro che non appartengono affatto al popolo dell’alleanza.
All’inizio della terza sezione del discorso (cap. 10), troviamo una specie di carrellata panoramica che consente al nostro maestro di passare in rassegna certi personaggi che non vengono mai citati per nome; noi, però, li riconosciamo perché siamo già esperti nella lettura di quelle pagine dell’Antico Testamento che sono dedicate a costoro. Personaggi che vengono rievocati, uno dopo l’altro; ritratti quanto mai sintetici messi qui in colonna per arrivare a un personaggio che ci rimanda a uno snodo della storia della salvezza che, per il nostro maestro, acquista un rilievo ricapitolativo di tutto: questo personaggio è Mosè e l’evento ricapitolativo è la Pasqua, la traversata del mare, del deserto, tutto quell’insieme di avvenimenti che segnano in modo indelebile la nascita del popolo di Dio. Tra l’altro, anche da un punto di vista logistico, il nostro maestro dimora in Egitto. Mosè e l’uscita dall’Egitto; lì ci vuol portare e proseguirà per tutto il seguito del discorso. Sono sei tappe per arrivare alla settima (la sequenza settenaria non è casuale) che coincide con la figura di Mosè.
Adamo
Prima tappa, vv. 1-2: “Essa(la Sapienza) protesse il padre del mondo, formato per primo da Dio,
quando fu creato solo(poi gli fu data la compagna);
poi lo liberò dalla sua caduta
e gli diede la forza per dominare su tutte le cose(il lavoro dell’uomo; la caduta di Adamo, con tutte le gravi conseguenze che comporta; e quindi la fatica mediante la quale Adamo si esprimerà nella missione di lavoratore; poi il sollevamento dalla caduta).
Caino e Noè
Secondo quadro, vv. 3-4: “Ma un ingiusto, allontanatosi da essa(la Sapienza) nella sua collera
perì per il suo furore fratricida (è Caino; la storia è inquinata da un veleno rovinoso). A causa sua la terra fu sommersa(il diluvio viene messo in rapporto con lo scatenamento della violenza di cui Caino è l’emblema esemplare) ma la sapienza di nuovo la salvò
pilotando il giusto (Noè)e per mezzo di un semplice legno”. Il contesto di quella storia umana che è travolta dagli effetti disastrosi della violenza, la fragile docilità di Noè testimonia come la strada si apre ancora e ancora e ancora. Precedentemente, in rapporto alla caduta di Adamo, la strada si è aperta, attraverso la fatica dell’uomo che lavora, non più solo; adesso, nel contesto di quella rovina catastrofica che travolge tutto con l’abuso della prepotenza fratricida, Noè galleggia sulla superficie dell’abisso.
Abramo
Terzo quadro, v. 5: “Essa, quando le genti furono confuse(a partire dalla torre di Babele), concordi soltanto nella malvagità,
riconobbe il giusto(Abramo) e lo conservò davanti a Dio senza macchia
e lo mantenne forte
nonostante la sua tenerezza per il figlio”. Una vicenda affettiva che lo ha messo duramente, aspramente alla prova. Nel contesto di quella vicenda solitaria che sembra esplodere per una contraddizione estrema – anche il figlio, l’unico figlio sta per venire meno – Abramo scopre che si apre una strada nuova, ulteriore, che comporta luci imprevedibili e questa strada passa attraverso la rieducazione dei sentimenti.
Lot
Quarto quadro, dal v. 6 al v. 8: “E mentre perivano gli empi, salvò un giusto(Lot) che fuggiva il fuoco caduto sulle cinque città(ricordate Sodoma, Gomorra e le altre città). Quale testimonianza di quella gente malvagia
esiste ancora una terra desolata, fumante
insieme con alberi che producono frutti immaturi
e a memoria di un'anima incredula,
s'innalza una colonna di sale (la moglie di Lot).
Allontanandosi dalla sapienza,
non solo ebbero il danno di non conoscere il bene (queste sono le figlie di Lot; ricordate l’incesto),
ma lasciarono anche ai viventi un ricordo di insipienza,
perché le loro colpe non rimanessero occulte”. La scena è tragica, un fallimento clamoroso, un’empietà mostruosa che viene imputata alle città nelle quali Lot dimora, con il coinvolgimento delle stesse sue figlie; eppure, ancora un’altra strada si apre nel senso che lo stesso ricordo della insipienza umana acquista un valore pedagogico: ricordare la mostruosità di quegli eventi, attraverso la discendenza di Lot, così come poi riusciamo a intendere in alcuni versetti del libro della Genesi attraverso lo sguardo di Abramo, assume il valore positivo di una pedagogia che si prolunga nel tempo.
Giacobbe
Quinto quadro, vv. 9-12: “Ma la sapienza liberò i suoi devoti dalle sofferenze:
essa condusse per diritti sentieri
il giusto(Giacobbe) in fuga dall'ira del fratello(Giacobbe inseguito da Esaù), gli mostrò il regno di Dio(la missione di Giacobbe, Genesi, 28) e gli diede la conoscenza delle cose sante;
gli diede successo nelle sue fatiche (le peripezie di Giacobbe in fuga) e moltiplicò i frutti del suo lavoro.
Lo assistette contro l'avarizia dei suoi avversari
e lo fece ricco;
lo custodì dai nemici,
lo protesse da chi lo insidiava,
gli assegnò la vittoria in una lotta dura(Genesi, 32: la lotta tra Giacobbe e quell’avversario misterioso che si schiera contro di lui quando sta per rientrare nella terra della promessa), perché sapesse (ecco il punto) che la pietà è più potente di tutto”. Giacobbe, coinvolto in vicissitudini così tragiche, ha imparato, alla scuola della Sapienza di Dio, che la pietà è più potente di tutto.
Giuseppe
Sesto quadro, vv. 13-14: “Essa non abbandonò il giusto venduto(questo è Giuseppe, figlio di Giacobbe), ma lo preservò dal peccato.
Scese con lui nella prigione(la Sapienza gli ha fatto compagnia; Giuseppe è esposto alle situazioni più incresciose, è maltrattato, disprezzato, reso schiavo, gettato in prigione e la Sapienza è con lui), non lo abbandonò mentre era in catene,
finché gli procurò uno scettro regale
e potere sui propri avversari,
smascherò come mendaci i suoi accusatori
e gli diede una gloria eterna”. Nel caso di Giuseppe non c’è semplicemente da restare incantati per come, rispetto alle vicissitudini della sua vita, si è manifestata quella soluzione fiabesca che comporta nientemeno che il suo trasferimento dalla prigione alla corte del faraone, quindi il suo inserimento nel governo dell’impero e addirittura l’attribuzione a lui del titolo di gran visir del faraone. Il punto è che Giuseppe, che si trova alle prese con tutti i disastri che man mano lo opprimono, lo offendono, lo schiacciano, lo umiliano, lo mortificano, è accompagnato dalla Sapienza e, dall’interno di questa sua avventura così amara e dolorosa, vengono smascherate le insidie. Non per niente Giuseppe è una delle figure di riferimento nella tradizione sapienziale. Salomone è il grande patrono, ma certamente Giuseppe è una delle figure esemplari: educato alla scuola della Sapienza, ha imparato a riconoscere come si aprano strade (in questo caso c’è lo smascheramento delle insidie) proprio laddove gli eventi assumono una fisionomia totalmente mortificante. Esperienza interiore determinante, radicale, risolutiva per certi versi.
Mosè
Settimo quadro, vv. 15-21. Dopo questa carrellata si giunge a Mosè e al popolo che si viene formando attorno a lui e alla missione a lui affidata. “Essa liberò un popolo santo e una stirpe senza macchia
da una nazione di oppressori(gli egiziani).
Entrò nell'anima di un servo del Signore(Mosè)
e si oppose con prodigi e con segni a terribili re.
Diede ai santi la ricompensa delle loro pene,
li guidò per una strada meravigliosa (il soggetto è sempre la Sapienza; l’iniziativa di Dio che si è rivelata in modo tale da formare un popolo là dove invece c’era da fare i conti con una massa di gente oppressa, schiacciata, senza dignità e senza identità; è questo popolo che è stato poi condotto lungo strade meravigliose),
divenne loro riparo di giorno
e luce di stelle nella notte.
Fece loro attraversare il Mar Rosso,
guidandoli attraverso molte acque (acque profonde);
sommerse invece i loro nemici
e li rigettò dal fondo dell'abisso (per cui i cadaveri degli egiziani, come si legge nel cantico, vengono depositati sulla sponda del mare).
Per questo i giusti spogliarono gli empi
e celebrarono, Signore, il tuo nome santo
e lodarono concordi la tua mano protettrice,
perché la sapienza aveva aperto la bocca dei muti
e aveva sciolto la lingua degli infanti”. Quel popolo, incoraggiato e guidato da Mosè, uscì dall’Egitto e portò con sè un bottino abbondantissimo; in quel contesto la celebrazione della lode; sono due elementi che vengono messi in risalto qui, nel v. 20. Coloro che uscirono dall’Egitto portarono con sé una quantità enorme di beni che furono ad essi consegnati dagli stessi egiziani; maturarono nella celebrazione della lode, al punto che anche i muti furono dotati di bocca per celebrare quella lode, e anche i bambini furono concordi nell’armonia dell’unico coro: “aveva sciolto (la Sapienza) la lingua degli infanti”. Tanto è vero che, per altro verso, si potrebbe dire che l’uscita dall’Egitto coincide con questo apprendistato della lode. Siamo arrivati alla fine del cap. 10, alle prese con Mosè anche se passati attraverso personaggi non citati con il loro nome; lo stesso Mosè rimane anonimo così come gli ebrei, gli egiziani di cui pure il nostro maestro ci sta parlando. Gli eventi relativi all’esodo dall’Egitto certamente acquistano un valore decisivo, ricapitolativo per quanto riguarda la storia della salvezza che ormai è contemplata, illustrata dal nostro maestro come criterio interpretativo della storia umana, sempre e dovunque.
La tribolazione educa e redime
Nel cap. 11 il nostro maestro ci propone alcune considerazioni fondamentali che valgono come regole interpretative della storia della salvezza, che poi sono le regole interpretative della storia umana. Un primo svolgimento, dal v. 1 al v. 14; tre strofe.
Prima strofa, fino al v. 5: “Essa(la Sapienza) fece riuscire le loro imprese
per mezzo di un santo profeta (Mosè): attraversarono un deserto inospitale,
fissarono le tende in terreni impraticabili(i racconti che leggiamo nei libri del Pentateuco), resistettero agli avversari, respinsero i nemici.
Quando ebbero sete(quante volte sperimentano la sete durante la traversata del deserto), ti invocarono e fu data loro acqua da una rupe scoscesa,
rimedio contro la sete da una dura roccia.
Ciò che era servito a punire i loro nemici,
nel bisogno fu per loro un beneficio”. L’acqua, strumento di punizione dei nemici, travolti dal mar Rosso, “nel bisogno fu per loro un beneficio”. Attenzione: in questa prima strofa viene enunciato il principio generale che il nostro maestro vuole mettere in evidenza come criterio interpretativo di tutto quello che avviene nella storia umana; e dice: “l’acqua che ha punito è la stessa acqua che salva”. Ha punito gli egiziani, adesso salva coloro che si trovano nel deserto, assetati. C’è un misterioso contrappasso per cui la stessa acqua che punisce è beneficio che salva.
Seconda strofa, dal v. 6 al v. 10. Va più a fondo, proprio all’interno di questo enunciato del principio generale. “Invece della corrente di un fiume perenne(il Nilo), sconvolto da putrido sangue(ricordate la putrida piaga; la prima piaga, quella delle acque che imputridiscono) in punizione di un decreto infanticida (il Nilo era servito per travolgere tutti i neonati maschi degli ebrei; e anche Mosè si era trovato in quella condizione, esposto alla corrente del Nilo per essere travolto, ma le cose presero un’altra piega), tu desti loro inaspettatamente acqua abbondante(adesso viene messo in rapporto il fatto che l’acqua della prima piaga in Egitto, per gli egiziani fu motivo di tormento, e di tormento che si collega con la sentenza spietata emanata dal faraone che ha condannato a morte i neonati maschi degli ebrei; invece “tu desti loro inaspettatamente acqua abbondante,
mostrando per la sete di allora,
come avevi punito i loro avversari (nel deserto sperimentano la sete e si lamentano; ma quella sete diventa per loro l’occasione di comprendere quale è stata la pena patita dagli egiziani). Difatti, messi alla prova, sebbene puniti con misericordia,
compresero quali tormenti avevan sofferto gli empi(loro si trovarono poi gratificati per come l’acqua è sgorgata dalla roccia più riarsa, ma compresero quali tormenti avevano sofferto gli empi), giudicati nella collera,
perché tu provasti gli uni come un padre che corregge,
mentre vagliasti gli altri come un re severo che condanna”. In ogni caso, vedete, c’è stato un momento in cui l’esperienza della sete è divenuta comunione nella pena; e quei tali che nel deserto hanno patito la sete, attraverso quel che è capitato loro, hanno compreso qual è stata la tribolazione patita dagli egiziani quando l’acqua del fiume imputridì. Precedentemente diceva, nell’enunciato generale: “la stessa acqua che serve a punire, serve a salvare”; adesso dice: “quelli che dall’acqua sono stati salvati sono in grado di comprendere la pena di quelli che sono stati puniti: si stabilisce una comunione tra gli uni e gli altri.
Terza strofa, dal v. 11 al v. 14: “Lontani o vicini erano ugualmente tribolati(adesso sono gli egiziani), perché un duplice dolore li colse
e un pianto per i ricordi del passato”. Ricordate gli egiziani che sono colpiti dalle piaghe: quanti disagi, quante sofferenze; e qui dice: “una duplice sofferenza, un duplice dolore”, perché, oltre alla sofferenza oggettiva, quella sofferenza supplementare qui viene descritta come il pianto per i ricordi del passato. Il dolore che si manifesta come rammarico, come espressione di uno scarto tra quel che è avvenuto nel passato e quel che sta avvenendo oggi: quel che avrebbe dovuto avvenire e non è avvenuto; quel che si prospettava e che ha assunto una fisionomia fallimentare. E’ un dolore interiorizzato che si aggiunge al dolore oggettivo per la singola disgrazia, per il singolo disastro; incidenti di ogni genere, sì, ma il dolore interiore che, attraverso l’esperienza negativa in corso, rielabora motivi misteriosi, profondissimi di rammarico, di compunzione, di ripensamento su tutto quello che è avvenuto nel corso di una vita, di una storia.
“Quando infatti seppero che dal loro castigo
quegli altri ricevevano benefici,
sentirono la presenza del Signore (ebbero la percezione sensibile del Signore. Vedete come, attraverso quello che è capitato agli egiziani, prende vita un processo di redenzione; è una redenzione dolorosissima che li coinvolge nell’intimo più profondo: il loro castigo appare inseparabile da quello che è stato il beneficio degli altri); poiché colui che avevano una volta esposto
e quindi respinto con scherni (Mosè),
lo ammiravano alla fine degli eventi,
dopo aver patito una sete ben diversa da quella dei giusti”. Questo primo svolgimento sta qui a far da premessa a tutto quello che il nostro maestro ci dirà successivamente. Una specie di regola del contrappasso? L’acqua che punisce e salva, tutto quello che è sperimentato come motivo di sofferenza, disagio, tribolazione, è strumento docile che, nell’opera di Dio, in obbedienza alla sua Sapienza, diventa strumento di salvezza, di redenzione, di vita nuova. La sete, sperimentata dagli ebrei nel deserto, diventa per loro il modo di compatire la pena patita dagli egiziani; e nello stesso tempo gli egiziani, che sono costretti a rielaborare tutto l’impianto della loro vita interiore per tutto quello che contemporaneamente succede agli ebrei, a Mosè, sono coinvolti in un processo redentivo: “sentirono la presenza del Signore”.