L’Apocalisse: il Mistero Pasquale luce della storia
Terzo incontro del ciclo 2006-2007
5 dicembre
2006
Leggiamo questa sera i capitoli 4 e 5 dell’Apocalisse.
A partire dalla prima grande visione nel capitolo primo, nel giorno del Signore mentre è in corso la celebrazione dell’Eucaristia, Giovanni “vede”. Il Mistero Pasquale è il criterio interpretativo di tutto. Il Signore, morto e risorto, è il protagonista della storia umana; è Lui che è presente e operante, laddove la Chiesa è impegnata nella missione che le è stata affidata. Mentre è in corso l’evangelizzazione e la Chiesa celebra i sacramenti della salvezza, il Figlio dell’Uomo glorioso percorre le strade della storia umana, incrociando la vicenda di tutto e di ciascuno. E’ Lui che conferma la Chiesa nello svolgimento della missione che i discepoli hanno ricevuto dal Signore.
Nei capitoli 2 e 3 abbiamo letto le lettere alle sette Chiese e abbiamo visto come il Signore vivente si rivolge alla sua Chiesa. Le sette Chiese sono diverse configurazioni dell’unica Chiesa; sono sfaccettature che ci aiutano a riconoscere la Chiesa di ieri, di oggi, di sempre; Chiesa dopo Chiesa; e così le situazioni della vita cristiana nei vari momenti che si succedono e le diverse avventure della coscienza che nel cuore umano si apre ad un cammino di conversione. Lettere di rimprovero, per un verso; di elogio, per altro verso: è il Signore che conosce la sua Chiesa e la conferma in quell’impegno d’amore per cui essa gli appartiene ed è energicamente sostenuta nel corso della sua missione tra gli uomini, laddove è proprio la Chiesa in se stessa che, dal canto suo, è impegnata a corrispondere al dono d’amore che ha ricevuto. La vita cristiana, nella storia degli uomini, è costantemente sollecitata dal Signore vivente ad affermarsi mediante quella pazienza, quel coraggio, quella fedeltà nella conversione che è il motivo intrinseco e strutturale di ogni evangelizzazione.
In adorazione di “Colui che siede sul trono”.
Cap. 4, v.1: “Dopo ciò ebbi una visione: una porta era aperta nel cielo. La voce che prima avevo udito parlarmi come una tromba diceva: Sali quassù, ti mostrerò le cose che devono accadere in seguito”. Giovanni è invitato a penetrare nel segreto del Dio vivente, in modo tale che, da quel particolare punto di osservazione che, così, gli sarà messo a disposizione, potrà considerare lo svolgimento della storia umana nella sua interezza. Abbiamo messo a fuoco fin dall’inizio della nostra lettura l’espressione: “le cose che devono accadere in seguito”, che è tipica del linguaggio apocalittico per indicare lo svolgimento completo della storia umana così com’è possibile decifrarlo a partire dalla fine. E’ appunto questa la posizione che, adesso, Giovanni viene sollecitato a occupare: “Sali quassù”. Così gli è data l’occasione per scrutare la scena del mondo e per contemplare lo svolgimento della storia umana in quanto oramai essa è compiuta in rapporto al Dio vivente, che è il Signore della fine. E siccome la fine appartiene a Lui, “se sali quassù (come senz’altro salirai) sarai in grado di vedere”. “Una porta era aperta nel cielo”. Giovanni è alle prese con il mistero del Dio vivente e varca questa soglia, in ascolto della voce che si era fatta sentire precedentemente, nella grande visione introduttiva, con un accenno a quella tromba di cui già si parlava e che rievoca momenti particolarmente significativi della storia della salvezza: tra tutti, quel momento che segna l’incontro con il Dio vivente presso il Sinai, come leggiamo nel libro dell’Esodo, laddove coloro che sono stati liberati dall’Egitto vengono invitati ad accogliere la rivelazione del motivo di quella liberazione, consistente nel fatto che il Signore vuole fare alleanza con loro. Tutto questo avviene mentre rimbomba “un suono fortissimo di tromba” (Es. cap. 19, v.16). “La voce che prima avevo udito parlarmi come una tromba diceva: Sali quassù”. E’ il Mistero di Dio, così come Giovanni sa e desidera parlarcene: come un cristiano che, a suo modo, elabora un’esperienza che è massimamente segreta perché riguarda l’accesso all’intimità della vita di Dio e che si pone al di là di ogni possibilità di discorso, di commento, di interpretazione. D’altra parte è proprio il linguaggio apocalittico, con tutte le sue particolari caratteristiche ed evocazioni simboliche, che permetterà a Giovanni di parlar con noi di quel che, nella sua esperienza di incontro con il Mistero del Dio vivente, è e rimane indicibile. “Sali quassù”.
V. 2: “Subito fui rapito in estasi” (prosegue quel raccoglimento di cui Giovanni già ci parlava facendo cenno alla sua partecipazione, il giorno di domenica, alla celebrazione dell’Eucaristia). “Ed ecco c’era un trono nel cielo, e sul trono uno stava seduto”. Un trono che, come poi constateremo, ha le misure di un cubo. Siamo rimandati a immagini dell’Antico Testamento: le misure del Santo dei Santi sono misure cubiche; e, nel Santo dei Santi, l’Arca che contiene le tavole della legge. Ricordate come, nella grande visione del profeta Ezechiele (Ez. 1, 26-28; 10, 1), l’Arca è deposta su un carro; il trono di cui si parla qui, nell’Apocalisse, assume una fisionomia che è assimilabile a quella che Ezechiele attribuiva a quel carro. Più esattamente ancora, come adesso vedremo, questo trono ha tutte le caratteristiche di una “ara”, di un focolare all’aperto. E’ l’altare, per come era concepito dagli antichi e ancora nella tradizione di Israele. Noi non sempre ci rendiamo conto del fatto che, quando si parla di altare, si parla di un focolare su cui arde sempre una fiamma crepitante, inesauribilmente protesa verso l’alto in modo tale da divenire, poi, il luogo sul quale vengono bruciate le vittime secondo le consuetudini. Sorvolo su quest’ultimo aspetto, mentre è interessante constatare come davvero il trono, di cui il nostro Giovanni ci parla, qui assuma in modo sempre più evidente la fisionomia di un focolare, su cui si erge, si muove, fluttua e avvampa una fiamma inesauribile. “Colui che siede sul trono”, dice Giovanni. Una presenza innominabile. E’ la presenza santa di Colui che non possiamo identificare con un nome proprio. E’ Lui, è il Santo; e, da questo momento in poi, Giovanni lo individuerà così, con questa circonlocuzione: “Colui che siede sul trono”, là dove avvampa la fiamma, una sorgente di luminosità e di calore, una sorgente inesauribile, dirompente che manifesta un’incontenibile volontà di comunicazione.
V. 3: “Colui che stava seduto era simile nell’aspetto a diaspro e cornalina. Un arcobaleno simile a smeraldo avvolgeva il trono”. Si tratta davvero di una presenza che effonde luce e calore allo stesso tempo e notate come, di questa presenza, il nostro Giovanni colga le valenze cromatiche, le sfumature di colore: diaspro e cornalina sono sfumature di rosso; un’iride di smeraldo, sfumature di verde. Sono i bagliori, i fervori della vita; sono i colori della vita; il rosso e il verde. Anche nel linguaggio cromatico delle icone potremmo, con qualche esempio, rintracciare, nel corso di una lunga tradizione iconografica, l’uso teologicamente sapientissimo di questi colori: i colori della vita. La potenza del rosso (il sangue, il fuoco) e la delicatezza del verde (la vegetazione); in ogni caso, la vita. Abbiamo, dunque, a che fare con il Vivente, Colui che siede sul trono. E’ il linguaggio simbolico del nostro Giovanni. Bisogna che noi impariamo ad ascoltarlo così come egli è in grado di esprimersi e impariamo anche ad apprezzare l’impegno con cui vuole comunicare a noi la sua esperienza di Dio. Il rosso e il verde; sfumature di rosso e sfumature di verde. Irruenza: il rosso; dolcezza: il verde. Arsura: il rosso; frescura: il verde. Vigore e riposo, fiamma e rugiada, sangue e linfa; è il Vivente: una potenza travolgente, una delicatezza soavissima. E’ il Mistero di Dio, è il Vivente, è il protagonista della vita. Rosso e verde.
V. 4: “Attorno al trono, poi, c’erano ventiquattro seggi e sui seggi stavano seduti ventiquattro vegliardi avvolti in candide vesti con corone d’oro sul capo”. Chi sono questi ventiquattro anziani che siedono su altrettanti seggi? Per dirla in breve, sono i rappresentanti del popolo di Dio nel corso della storia umana: dodici più dodici. A loro competono le prerogative della regalità e del sacerdozio; il popolo di Dio nella storia umana; e, con un’estensione del significato che viene naturale, i ventiquattro vegliardi sono i rappresentanti della storia umana; di quella storia che si è realizzata come offerta al Dio vivente della risposta che aderisce alla sua gloria. Seduti sui ventiquattro troni, ventiquattro anziani stanno lì a rappresentare la storia umana che si è realizzata e si realizza come immersione nella comunione con il mistero del Dio vivente. Essi sono avvolti in candide vesti con corone d’oro sul capo. Le vesti candide con le corone alludono alla vittoria conseguita, nella storia oramai realizzata in pienezza, in modo corrispondente all’intenzione gloriosa del Dio vivente.
V. 5. “Dal trono uscivano lampi, voci e tuoni; sette lampade accese ardevano davanti al trono, simbolo dei sette spiriti di Dio”. Notate questa effusione di suoni, di rumori, di tutte le modalità espressive, discorsive, comunicative che appartengono a Colui che siede sul trono. Dove dice “lampi, voci e tuoni” è soprattutto (anche nel caso del termine “lampi”) l’aspetto sonoro che viene messo in evidenza. Strepiti, suoni, voci: è la pienezza del rumore. Tutto quel che serve a stabilire la volontà di comunicazione che scaturisce dall’intimo del Dio vivente, l’attore per eccellenza; di Colui che, inesauribilmente, produce questa corrente comunicativa che si espande senza limiti. Notate: dinanzi al trono i sette spiriti (il candelabro a sette braccia) che rievocano i doni dello spirito, così come se ne parla nell’antico oracolo messianico (Isaia, cap. 11, v. 2). “Sette lampade accese ardevano davanti al trono”: qui i sette spiriti sono contemplati e descritti dal nostro Giovanni in quanto protesi verso il trono nel senso che adesso veniamo, per così dire, coinvolti in un circuito straordinario e il trono (che è un’ara su cui arde quella fiamma incandescente e luminosissima, mediata dalla varietà dei colori che abbiamo già preso in considerazione) in realtà funziona come una stufa, per dirla in modo un po’ banale. Una stufa che prende aria e nel circolare del soffio, nel circolare di questo respiro, si esprime con quel linguaggio sonoro così variegato, così elaborato, così travolgente di cui già ci siamo resi conto. Per dirla, adesso, in un modo che potrebbe essere giudicato sommario o forzato, è il mistero della vita trinitaria di Dio. E’ indebito parlare della Trinità santissima del Dio vivente in questo modo? E’ il Padre colui che siede sul trono? E’ il Figlio la voce, la parola, la sua volontà di comunicazione? Il soffio del Dio vivente, il suo respiro, è lo Spirito? Ecco: Giovanni si trova alle prese con questo immenso circuito di suoni e di vento che lo costringe, per così dire, a immergersi nell’intimo del Dio vivente.
V. 6: “Davanti al trono vi era come un mare trasparente simile a cristallo”. Dunque, il trono è poggiato su un mare di cristallo, come lo chiama Giovanni: è il firmamento, l’involucro che contiene l’universo. Tutta la creazione viene osservata, scrutata e descritta come un’immensa boccia di cristallo. Il nostro Giovanni trova il linguaggio adatto per parlare della realtà indicibile com’è. Il Dio vivente è intronizzato in modo tale che l’universo intero, da Lui creato, sottostà all’esercizio della sovranità che compete solamente a Lui. “In mezzo al trono e intorno al trono vi erano quattro esseri viventi”. Compaiono, adesso, altri personaggi: i quattro viventi che sono i rappresentanti di tutte le creature viventi e incarnano, ciascuno nel suo ordine particolare, l’espressione più qualificata della vita. Poi (nel successivo v. 7) veniamo a sapere che si tratta: per quanto riguarda gli animali selvatici, del leone; per gli animali domestici, del toro; per i volatili, dell’aquila; per l’ordine umano, dell’uomo. E’ il massimo delle potenzialità vitali così come sono segnalate nel contesto della creazione. E queste quattro creature viventi rappresentano la creazione intera, perché tutto, nell’universo creato da Dio, tutto, all’interno di quella boccia di cristallo, è funzionale alla vita. I quattro viventi, citati in rapporto a quella descrizione così sommaria ma così essenziale dell’universo che è contenuto entro l’involucro del firmamento, rappresentano la totalità delle creature che sono al servizio della vita. Tutto nel creato è funzionale alla vita, promuove la vita. “In mezzo al trono e intorno al trono vi erano quattro esseri viventi pieni d’occhi davanti e di dietro”. Notate che questi esseri viventi sono “in mezzo” al trono e “intorno”. Se sono in mezzo non possono essere intorno e viceversa, diremmo noi a rigor di logica; ma qui la logica conta poco: sono in mezzo al trono, nel senso che proprio là dove il Dio vivente è intronizzato, là è la sorgente di quella vita che, attraverso successivi sviluppi e manifestazioni, giunge fino a noi che siamo testimoni della presenza della vita nel contesto della creazione e stiamo constatando come tutta la creazione è al servizio della vita. Infatti questi “quattro esseri viventi (sono) pieni d’occhi davanti e di dietro”, il che sta a significare la capacità di relazione e di adattamento che è propria della vita. La creatura vivente si sposta, si muove, è capace di relazioni (per questo è vivente); si adatta man mano che le situazioni ambientali assumono diverse configurazioni. Noi, dinanzi a questo linguaggio potremmo ogni tanto restare quasi un po’ spaventati: mostri da impedirci di dormire serenamente, incubi su incubi. Ma non c’entra niente, vedete. Non c’entra proprio niente. E’ la vita; la vita in quanto capacità di relazione. I quattro esseri viventi sono pieni di occhi davanti e di dietro.
Vv. 7 e 8: “Il primo vivente (qui, naturalmente, siamo rinviati a quelle pagine che leggiamo nel libro di Ezechiele a cui in molti modi il nostro Giovanni si rifà) era simile a un leone, il secondo essere vivente aveva l’aspetto di un vitello (un toro), il terzo vivente aveva l’aspetto d’uomo, il quarto vivente era simile a un’aquila mentre vola. I quattro esseri viventi hanno ciascuno sei ali, intorno e dentro sono costellati di occhi”. Dunque: gli occhi, di cui già vi parlavo, e le ali. Questa è una citazione che viene da Isaia, (Is. cap. 6, v.2). Anche le sei ali stanno a indicare la disponibilità della vita a evolversi; illustrano la duttilità, la versatilità, la mobilità della creatura vivente. Tutta la creazione è ricapitolata nell’immagine di questi quattro viventi, che sono in mezzo al trono e intorno ad esso. Ora i quattro viventi cantano: “giorno e notte non cessano di ripetere (la creazione intera celebra una liturgia che è permanente, espressione di una veglia intramontabile; tutta la creazione, attraverso i quattro viventi, proclama):
“Santo, santo, santo
il Signore Dio, l’Onnipotente,
Colui che era, che è e che viene!”
Ancora una citazione di Isaia: “Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti” (Is. cap. 6, v.3). La creazione celebra la santità del Dio vivente? Quel rigo che si aggiunge – “Colui che era, che è e che viene!” (che ci consente di tornare ad altri testi dell’Antico Testamento) – serve a proclamare la signoria del Dio vivente nei confronti della storia umana: Colui che era, che è e che viene! E questo è interessante: la creazione, attraverso i quattro viventi, celebra il Signore della storia.
Gloria a Dio creatore
Vv. 9-11. «E ogni volta che questi esseri viventi rendevano gloria, onore e grazie a Colui che è seduto sul trono e che vive nei secoli dei secoli, i ventiquattro vegliardi (ritorniamo a loro che, come già sappiamo, sono i rappresentanti della storia intera, della storia compiuta) si prostravano davanti a Colui che siede sul trono e adoravano Colui che vive nei secoli dei secoli e gettavano le loro corone davanti al trono dicendo (i ventiquattro vegliardi sono in adorazione dinanzi al Dio vivente e anche loro si esprimono mediante un canto che ha tutte le caratteristiche di una testimonianza liturgica):
“Tu sei degno, o Signore e Dio nostro,
di ricevere la gloria, l’onore e la potenza,
perché tu hai creato tutte le cose,
e per la tua volontà
furono create e sussistono”».
(Alla lettera bisognerebbe tradurre invertendo l’ordine: “sussistono e furono create”).
Poco fa vi dicevo: la creazione, attraverso i quattro viventi, celebra il Signore della storia e adesso i ventiquattro anziani, che rappresentano la storia compiuta, celebrano il “Creatore” dell’universo. La storia e il creato si incrociano in questa liturgia celeste: l’universo, creato da Dio, si volge al Dio vivente per proclamare che Egli è il Signore della storia; la storia, giunta al suo compimento, è in adorazione dinanzi al Dio vivente per applaudire a Lui, Creatore dell’universo. E’ la liturgia celeste. E nell’intimo del mistero, per come Giovanni riesce a esprimersi con il suo linguaggio, egli si rende conto di essere coinvolto in questa celebrazione del Mistero che costituisce il segreto della vita, nell’intimo di quella fecondità inesauribile, di quella corrente d’amore, di quella pregnanza di comunione, dove tutto si ricapitola di quel che Dio ha creato e di quel che è avvenuto, sta avvenendo e avverrà nel corso della storia umana. Ed è interessante considerare quel certo incrocio a cui accennavo: la creazione proclama la santità del Dio vivente in quanto è Signore della storia e la storia, attraverso i quattro viventi, festeggia il Creatore di tutte le cose.
Il segreto del libro della storia
Affrontiamo il capitolo 5, dove Giovanni prosegue in questa visione che, adesso, potremmo intitolare così: “la visione della vita di Dio”, nel contesto della quale una liturgia è celebrata, nella profondità del Mistero che coinvolge tutta la creazione e l’intero sviluppo della storia umana. Il segreto del Dio vivente è svelato e Giovanni scopre che esso coincide con il Mistero Pasquale; il Mistero del Figlio che è disceso e risalito, che è morto ed è risorto, che ha attraversato, scandagliato, penetrato tutte le dimensioni dell’universo e che si è affermato come protagonista dell’intera storia umana.
V. 1: “E vidi nella mano destra di Colui che era assiso sul trono...”. Come dicevo, questa è la denominazione mediante la quale Giovanni si rivolge a Colui di cui non si conosce il nome: Colui che era assiso sul trono. In base al suggerimento che proponevo, forse ci aiuta, nella nostra lettura e nel nostro discernimento, chiamarlo il “Padre”. Colui che era assiso sul trono. Non ha una sagoma, non ha una sua configurazione ben definita (abbiamo avuto a che fare con delle fiamme che si muovono nella loro irruente vitalità, nella loro sonorità e con quella capacità di effondere onde cromatiche così sfumate, come notavamo). Ha una mano (ritornando ancora al linguaggio proprio della tradizione iconografica, di tanto in tanto compare una mano). E “nella mano destra di Colui che era assiso sul trono vidi un libro a forma di rotolo, scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli”. Qui dice “nella mano destra”; il testo in greco dice “epì”, “sulla” mano destra. E’ vero che il greco dell’Apocalisse è molto rozzo (non avrebbe consentito a Giovanni di superare non dico l’esame di maturità, ma neanche di quinta ginnasio; sarebbe stato subito bocciato); un greco piegato, dominato, governato e strumentalizzato per dir cose non riducibili alla puntualità della grammatica. Dunque, c’è una mano destra e sulla mano destra un rotolo scritto sul lato interno e su quello esterno e questo significa che non ci si può aggiungere nulla. Però il rotolo è sigillato. Il rotolo (non c’è da dubitarne, in base a quel che leggiamo in altri testi dell’Antico Testamento) sta ad indicare lo svolgimento completo della storia umana; quella storia umana che nella sua completezza è già – come sappiamo – finita, in obbedienza al Dio vivente. E’ esattamente questo il punto di vista proprio della visione apocalittica. Per questo Giovanni è salito in quella posizione elevata che gli consente di considerare lo svolgimento completo della storia umana, che è finita in modo tale da corrispondere alle intenzioni del Dio vivente, dimostrando che Lui è vittorioso, che Lui ha instaurato la sua gloria, che Lui ha realizzato la sua intenzione d’amore, così da coinvolgere tutto della creazione e attirare a sé il cammino percorso dalla storia umana. Ma intanto, vedete, questo rotolo è sigillato con sette sigilli; dunque una sigillatura per la quale non ci sono soluzioni di pronto impiego; non è che possiamo prevedere un intervento che risolva la questione. Badate bene: qui si tratta di una questione ermeneutica riguardante il senso di quello che sta succedendo. Un conto è la storia che nel suo svolgimento completo è già finita e appartiene a Lui; un conto è affrontare la realtà di quel che “sta” accadendo. E noi siamo alle prese con gli eventi che si succedono, con le situazioni che, nella loro particolarità, ci coinvolgono; siamo alle prese con i passaggi di una vicenda che nel momento particolare ci appare indecifrabile, se non addirittura incomprensibile, se non addirittura assurda. Chi ci darà il senso di quello che “sta” succedendo? Vedete: il rotolo è sigillato. Non è in questione il compimento finale della storia umana; è in questione la possibilità di spiegare il senso di quello che avviene adesso, il senso della nostra storia mentre è in corso, mentre essa ci coinvolge, ci travolge, ci lascia disarmati e ci costringe a constatare come siamo sproporzionati, insufficienti, incapaci – appunto – di spiegare ciò che accade. E il rotolo rimane sigillato, nella sua mano destra.
V. 2: «Vidi un angelo forte che proclamava a gran voce: “Chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli?”». Non si tratta tanto di individuare un modo efficace per aprire i sigilli, ma di scoprire “chi” è in grado di farlo. Un interrogativo poderoso questo, così come forte (iskiròs) è l’angelo che interviene proclamando «a gran voce: “Chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli?”». E’ una questione di dignità, non di strumenti. L’interrogativo non è su quale arnese questo ipotetico dominatore dei sigilli farà ricorso per aprirli uno dopo l’altro; ma quale dignità è quella che lo abilita ad aprire i sigilli. Ma chi è costui?
V. 3: “Nessuno né in cielo, né in terra, né sotto terra era in grado di aprire il libro e di leggerlo”. Non c’è, tra le creature terrestri e quelle angeliche, alcuna figura che possa esercitare il ruolo di interprete della storia umana, che possa imporsi come presenza che spiega, che ci mette a disposizione un criterio esplicativo efficace. Una radicale e tragica insufficienza ermeneutica: chi ci darà il senso di quel che sta succedendo? E intanto, vedete, noi siamo coinvolti nella storia che è in fase di svolgimento, che è in corso e, momento dopo momento, siamo esposti all’impatto con questa radicale incapacità interpretativa. “Nessuno né in cielo, né in terra, né sotto terra era in grado di aprire il libro e di leggerlo”. Notate che il verbo tradotto qui con “leggerlo”, come già precedentemente e come ancora nel v. 4, in greco è il verbo “blépo”, che non vuol dire semplicemente “leggere”, ma “guardar dentro”. Chi è in grado di aprire e di guardarci dentro? Non è un esercizio di lettura in senso scolastico, ma la testimonianza di quella dignità che consente l’interpretazione del senso intrinseco di quel che sta succedendo: chi è in grado di guardarci dentro? Nessuno.
Il pianto di Giovanni
V. 4: “Io piangevo molto perché non si trovava nessuno degno di aprire il libro e di leggerlo”. Un’esperienza dolorosissima, un pianto di desolazione inconsolabile quella di Giovanni e notate come, qui, egli usi tempi che riguardano il passato. Giovanni sta piangendo adesso? “Ma io piangevo” e “io piansi”, per essere più letterali; anzi: “non si trovò nessuno…”. In questo modo immediatamente emerge una constatazione più che mai persuasiva: l’esperienza di una situazione antica, che si trasmette di generazione in generazione; di una sofferenza che viene da lontano e che ci consente, adesso, di scoprire come già coloro che ci hanno preceduti hanno dolorosamente cercato senza trovare e così ancora per il tempo che verrà. “Io piangevo molto”, “io piansi”. Nel pianto di Giovanni confluisce quel torrente di lacrime che si è venuto convogliando lungo il corso delle generazioni: l’umanità che piange, l’umanità dolente, l’umanità disturbata, l’umanità angosciata, l’umanità che non trova, generazione dopo generazione, l’occasione propizia e il criterio adeguato per spiegare quel che sta succedendo. “Non si trovava nessuno degno di aprire il libro e di guardarci dentro”.
V. 5: «Uno dei vegliardi mi disse: “Non piangere più”». Notate bene: il pianto di Giovanni finisce, ma noi sappiamo già che non è soltanto il pianto di Giovanni; è il pianto di generazioni e generazioni; è il pianto di Giovanni in quanto ha ereditato questa alluvione di lacrime che si è venuta effondendo nel corso dei secoli e dei millenni. “Non piangere più. Ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli”. Qui interviene uno dei vegliardi, rappresentanti della storia umana, che già porta in sé l’esperienza di quella storia che è giunta a compimento e che è storia di salvezza in modo da corrispondere alle intenzioni del Dio vivente, alla sua volontà di salvezza. “Uno dei vegliardi mi disse non piangere più” e il vegliardo adesso usa due espressioni per identificare un personaggio che noi, immediatamente, siamo in grado di riconoscere: Colui che ha vinto, perchè ha la dignità di aprire il libro e di guardarci dentro; il personaggio a cui ha fatto riferimento tutta la storia della salvezza nel corso delle varie vicende che hanno coinvolto il popolo dell’Alleanza; il personaggio nel quale tutte le promesse messianiche si sono compiute; il personaggio capace di spiegarci il senso della storia in corso, di quello che sta avvenendo qui, adesso, così come quello che è accaduto ieri o che accadrà domani, dappertutto, in ogni angolo dell’universo e in ogni frangente anche il più inafferrabile della vicenda umana. Lui è il vincitore, Colui che ha portato a compimento le promesse, che avevano alimentato e sostenuto l’attesa, la ricerca, il cammino del popolo dell’Alleanza, pur in un tempo ancora segnato dall’angoscia, dalla solitudine e dal pianto. Adesso è Lui, indicato con due figure che ritroviamo nell’Antico Testamento in testi davvero esemplari: il leone della tribù di Giuda (Genesi 49, 9), il germoglio di Davide (proprio in questi giorni, in tempo di Avvento, stiamo leggendo testi che, in un modo o nell’altro, rievocano questo linguaggio che è proprio della tradizione messianica; qui “germoglio di Davide” ci rimanda a Isaia, cap. 11, v. 10). Il “leone”, il “germoglio”: anche in questo caso immagini che sembrano contraddittorie. Il leone: la potenza, l’irruenza, la forza; Il germoglio: la delicatezza, la soavità, un bocciolo. E’ Lui; è proprio Lui, con tutta la maestà del leone che avanza e che si impone, e con tutta la dolcezza di quella gemma appena spuntata. E’ Lui che aprirà il libro e che vi leggerà dentro.
Solo l’Agnello immolato sa leggere il libro
Nei vv. 6 e 7, l’attenzione di Giovanni si concentra verso questa figura messianica, che è stata descritta in base alle promesse antiche e al linguaggio consolidato nella storia della salvezza.
V. 6: “Poi vidi ritto in mezzo al trono circondato dai quattro esseri viventi e dai vegliardi un Agnello, come immolato”. E’ l’Agnello sgozzato, eppure in posizione di trionfatore: ritto in mezzo al trono. Questo Agnello è rappresentato da Giovanni con immagini che vengono anch’esse dall’Antico Testamento. Mi limito a ricordare il IV “Canto del Servo” (Isaia, tra i capp. 52 e 53), laddove il Servo assume la fisionomia dell’agnello che diventa pastore in grado di raccogliere tutte le pecore sbandate. E poi, l’agnello pasquale (Esodo, cap. 12), il cui sangue è stato versato per segnare le porte delle case in cui coloro che ancora sono schiavi del Faraone in Egitto stanno celebrando il banchetto secondo le norme che Dio stesso ha prescritto tramite Mosè. Potremmo soffermarci su altri testi, che qui il nostro Giovanni rievoca nei termini di questa visione così sintetica e definitiva: si tratta del Mistero Pasquale. Ci risiamo: è Colui che è disceso e risalito, che è morto ed è risorto; è l’Agnello sgozzato... vittorioso. Notate: il Figlio in mezzo al trono; il Figlio che è intronizzato, là dove “Colui che siede sul trono” si è manifestato a noi; è la Parola del Padre, eterna, che nella carne umana ha percorso quell’itinerario di discesa e di risalita che fanno del Figlio il protagonista di tutto quel che avviene nel tempo e di tutto quello che coinvolge le creature dell’universo. Visione massimamente sintetica, questa; davvero esauriente, definitiva. Ancora Giovanni dice dell’Agnello: “Egli aveva sette corna e sette occhi, simbolo dei sette spiriti di Dio mandati su tutta la terra”. Dunque, questo Agnello dimora nel centro della vita, in mezzo al trono: è il trionfatore sulla morte, è dotato di una potenza inesauribile, perfetta, divina. “Sette corna” (non c’è da spaventarsi: è il motivo per cui in certe località d’Italia – e anche altrove –i pasticcieri pongono sul capo dell’Agnello pasquale una stella a sette punte). La potenza del Vivente, del Vittorioso e, insieme, i sette occhi di cui abbiamo già appreso il valore simbolico: stanno a testimoniare come la capacità di relazione del Figlio sia capillare, universale; non c’è alcuna creatura che sfugga al contatto con Lui, nè alcun momento della storia umana che possa sottrarsi all’esercizio della sua impresa vittoriosa, in quanto è morto ed è risorto. E quindi, vedete: i sette spiriti di Dio mandati su tutta la terra. E’ proprio attraverso l’effusione dello Spirito Santo che il Figlio, nell’atto di morire e di risorgere, attrae a sé la totalità delle creature.
V. 7: “E l’Agnello giunse e prese il libro dalla destra di Colui che era seduto sul trono”. Si manifesta la sua dignità: è Colui che viene e prende; entra in scena Lui, perché Lui è il protagonista, in una consonanza eternamente piena con il Padre, in quell’originaria e inesauribile volontà di comunione che è il segreto del Dio vivente. E’ proprio Lui che viene e prende. Il libro, che era nella destra di Colui che era seduto sul trono, adesso è nella mano dell’Agnello. Ed è proprio Lui (e qui avremo a che fare con le visioni successive, dal cap. 6 in poi), l’Agnello, che dimostrerà di essere in grado di interpretare: apre i sigilli, uno dopo l’altro; scioglie i nodi. E’ Lui che guarda dentro ed è Lui che illumina per noi non soltanto il significato complessivo della storia umana, ma il senso di quello che “sta” succedendo.
Esplode il canto
V. 8: “E quando l’ebbe preso, i quattro esseri viventi e i ventiquattro vegliardi si prostrarono davanti all’Agnello avendo ciascuno un’arpa e coppe d’oro colme di profumi, che sono le preghiere dei santi”. Siamo per davvero ancora una volta attratti in quella liturgia celeste che assume una fisionomia sempre più intensa e coinvolgente, e che è la celebrazione celeste del Mistero Pasquale: la Pasqua del Figlio, morto e risorto, celebrata nel segreto del Dio vivente. I quattro esseri viventi e i ventiquattro vegliardi sono presenti come in quella visione di Giovanni della vita di Dio che leggevamo nel cap. 4: rappresentano il creato e la storia. Tutte le creature e la storia umana ormai compiuta celebrano, adesso, con un cantico nuovo, l’opera che Dio, attraverso il Figlio e con la potenza dello Spirito Santo, ha realizzato per noi.
E’ un coro unico. V. 9: “Cantavano un canto nuovo”, quel canto che è in grado di celebrare la novità per eccellenza, oramai pienamente realizzata e rivelata: l’opera di Dio per la salvezza del mondo, che – vedete – coincide con la rivelazione di Dio. Dio rivela se stesso, il suo segreto, il suo mistero, la sua identità, la sua vita; e nella vita di Dio, così rivelata, noi siamo coinvolti in quell’opera di salvezza per cui viviamo. E tutta la creazione è al servizio di questa volontà d’amore che ci fa vivere. I quattro esseri viventi e i ventiquattro vegliardi cantano:
“Tu sei degno di prendere il libro
e di aprirne i sigilli,
perché sei stato immolato
e hai riscattato per Dio con il tuo sangue
uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione
e li hai costituiti per il nostro Dio
un regno di sacerdoti
e regneranno sopra la terra”.
L’opera redentiva compiuta dall’Agnello, che è stato immolato e ha riscattato l’umanità con il suo sangue, ha una validità universale: uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione. Un’opera salvifica di efficacia inesauribile, in grado ormai di attirare a sé la moltitudine umana e conferire ad essa le prerogative di un unico popolo, regale e sacerdotale: il popolo dell’Alleanza. “Tu sei degno”. Così cantano i quattro viventi e i ventiquattro anziani all’Agnello.
Il cosmo intero contempla Dio che si rivela nell’Agnello
Vv. 11 e 12: «Durante la visione poi intesi voci di molti angeli intorno al trono e agli esseri viventi e ai vegliardi (è l’eco delle schiere angeliche). Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia e dicevano a gran voce: “L’Agnello che fu immolato... (le creature angeliche sono testimoni di un’opera di redenzione che, di per sè, non riguarda loro ma l’umanità; esse sono testimoni. Notate come qui si passi dalla seconda persona singolare: “Tu sei degno”, alla terza persona singolare: l’Agnello “è” degno. Una dossologia che si aggiunge alla precedente e che allarga la risonanza del canto liturgico. Adesso sono le creature angeliche che, nella loro moltitudine incalcolabile, proclamano la divinità dell’Agnello):
L’Agnello che fu immolato
è degno di ricevere potenza e ricchezza,
sapienza e forza,
onore, gloria e benedizione”»
Sette titoli che sono i titoli di Dio. L’Agnello che è il Figlio – e che nella carne umana è sprofondato fino in fondo all’abisso della miseria, fino alla condivisione della morte degli uomini peccatori – è Lui degno di ricevere potenza, ricchezza, sapienza, forza, onore, gloria, benedizione.
V. 13; adesso, l’eco di tutto l’universo (i quattro viventi rappresentano il creato, ma qui viene espressamente rimarcata la partecipazione di tutte le creature, anche quelle inanimate: un’assemblea cosmica nella quale la presenza è davvero completa): «Tutte le creature del cielo e della terra, sotto la terra e nel mare e tutte le cose ivi contenute, udii che dicevano:
“A Colui che siede sul trono e all’Agnello
lode, onore, gloria e potenza,
nei secoli dei secoli”»
Unico Dio: il Padre, il Figlio, nello Spirito Santo. Una dossologia che celebra la sovranità di Dio creatore e la sua volontà di redenzione e di salvezza. Tutte le creature, nel tempo e nello spazio, sono chiamate a partecipare a quest’unica liturgia celeste.
V. 14: «E i quattro esseri viventi dicevano: “Amen”». I quattro esseri viventi: ritorniamo a loro e a questo “si”; l’Amen di coloro che rappresentano le creature dotate di quella prerogativa specialissima che è la vita e che sono, in un modo o nell’altro, collegate con il segreto della vita stessa, nella profondità del Mistero. Tra tutte le creature viventi, la presenza dell’uomo; è proprio l’uomo che dice “Amen”, “sì”! “E i vegliardi si prostrarono in adorazione”: i vegliardi; la storia umana che fa silenzio e contempla. Il capitolo 5 si conclude così; la grande visione di Giovanni si chiude con questo silenzio della storia, giunta alla pienezza, in adorazione del Dio vivente.