Sesto incontro del ciclo 2005-2006
Martedì 2 maggio 2006
Oggi concentreremo la nostra attenzione sui capitoli 60, 61 e 62, con un approccio anche al cap. 63. Si tratta della sezione centrale di questa terza parte del libro di Isaia che, da un certo punto di vista, risuona forse più familiare alle nostre orecchie e nella quale ritroviamo in pieno la problematica del profeta anonimo, di cui abbiamo fatto conoscenza il mese scorso, che svolge il suo ministero a Gerusalemme, dopo il rientro delle prime carovane dall’esilio, tra la fine del VI e l’inizio del V secolo avanti Cristo. Ricordate la situazione in cui versa il popolo: uno svuotamento interiore che corrode gli animi e mette a dura prova le coscienze di coloro che, animati da grande speranze, si trovano, al rientro nella terra di Israele, alle prese con motivi di sconforto davvero micidiali. In quella situazione di disperazione, e di catastrofe interiore, interviene il profeta con un fervore sbalorditivo, suggerendo alla gente – che, appena appena, si sta riorganizzando a Gerusalemme – ragioni di conversione che, adesso, esprimono una fecondità inimmaginabile. Proprio nel momento in cui gli animi sono segnati da uno stato di profondissimo avvilimento, ecco che il nostro profeta aiuta coloro a cui si rivolge ( in primo luogo aiuta se stesso) a rendersi conto di come quella situazione di crisi così amara, nella quale si trova il popolo dopo il rientro dall’esilio, sia occasione preziosa per constatare che il disegno di Dio sta assumendo una straordinaria pienezza di significato, nel senso che esso si rivela in modo da toccare situazioni che sono più periferiche, remote, e che sono comunque sempre più universali. Mediante la particolare vicenda del popolo passato attraverso l’esilio, è sempre più evidente che si manifestano occasioni di sintonia con le vicende dell’umanità intera, che coinvolgono la moltitudine dei popoli. Proprio là dove i sentimenti umani sono messi alla prova, si delineano possibilità di conversione sempre più radicale e autentica nell’incontro con il mistero del Dio vivente, che viene a insediarsi, mentre la scena del mondo sembra così deludente, nell’intimo degli animi: la segreta, invisibile profondità del cuore umano assume il valore straordinario della sede nella quale il Dio vivente prende dimora.
Nei capitoli 60, 61 e 62, leggeremo adesso tre canti molto famosi. Quelli contenuti nei capp. 60 e 62 ci aiutano a contemplare la realtà di Gerusalemme. Quello del cap. 61 – che è il capitolo centrale, il perno attorno al quale ruota tutto l’insieme della terza parte del libro di Isaia – è il canto che Gesù stesso legge e interpreta in relazione a sé stesso nella Sinagoga di Nazareth (cfr. Luca 4,18-19).
Gerusalemme luce del mondo
Nel capitolo 60 troviamo, come dicevo, un ampio poema dedicato a Gerusalemme. L’attenzione del profeta si concentra sulla vocazione della città che peraltro, ancora per molto tempo, sarà costituita da macerie: ci vorrà più di un secolo per ricostruire almeno una parvenza di mura e alcuni decenni per allestire un luogo adatto alla celebrazione del culto. Fatto sta che il nostro profeta canta e sono i versetti che, tutti gli anni, costituiscono la prima lettura della festa dell’Epifania. Il canto – che si articola in quattro sezioni – ci aiuta ad accompagnare lo sviluppo della luminosità che invade la scena, così come il profeta ce la descrive. Nella prima sezione (vv. 1, 2 e 3) siamo all’alba. Gerusalemme svetta sulla cima della collina, attorno alla quale la scena del mondo rimane in ombra. Un raggio di sole già lambisce il vertice di quell’altura (in realtà, chi conosce i luoghi sa bene che Gerusalemme è appollaiata sulla collina più bassa tra quelle circostanti; il fenomeno cui allude il profeta è, quindi, in larga misura immaginario, ma il dato non disturba affatto). Gerusalemme, sfiorata dal primo raggio di sole all’alba di un giorno nuovo, è invitata a svegliarsi e a rendersi conto di ciò che sta succedendo ai popoli della terra, all’umanità intera, a coloro che giacciono nelle tenebre e che, man mano, saranno coinvolti in quell’epifania di luce che riguarda in modo esemplare proprio Gerusalemme. Un’indicazione quanto mai significativa: la vocazione di Gerusalemme, alle prese con l’avvento della luce, acquista un valore programmatico, sacramentale, in rapporto a ciò che sta avvenendo nel corso della storia umana, là dove è in questione la sorte di tutti i popoli chiamati ad uscire dalle tenebre per immergersi nella luce. La situazione di Gerusalemme già lambita dalla luce non è una sua prerogativa che le dà prestigio e identità; si tratta della sua vocazione a svegliarsi per accogliere la luce e diventare segno sacramentale della luce stessa che dilaga come potenza di riconciliazione ecumenica, sino a quando tutti i popoli della terra saranno ricomposti all’interno di un unico disegno corrispondente alle intenzioni del Dio Vivente. Nel tempo della catastrofe interiore – della delusione, della disperazione, dell’avvilimento – c’è questa capacità straordinaria di contemplare e spiegare gli eventi della storia umana: è il tempo della venuta alla luce, del passaggio dalle tenebre allo splendore di un giorno nuovo. E là dove Gerusalemme si sta svegliando in modo così farraginoso e ambiguo – con tutto il carico delle situazioni precarie, fastidiose e imbarazzanti, proprie di una creatura sprofondata nel sonno – essa porta già in sé il valore di un sacramento epifanico che riguarda lo svolgimento della storia universale. Questo sta realizzando Dio nella storia dell’umanità intera: la luce splende in modo tale da penetrare fino agli estremi angoli, alle zone più remote, alle periferie più ombrose e ostili; e quel che riguarda Gerusalemme è sacramento della luce che splende sulla scena del mondo; di quella luce che sorge, che viene, che irrompe, che dilaga, che si impone come quadro ricapitolativo e riunificante dell’intera storia umana.
Prima sezione, vv. 1-3: “Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te. Poiché, ecco, le tenebre ricoprono la terra, nebbia fitta avvolge le nazioni; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te. Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere.” Gerusalemme si sveglia perché è raggiunta da quel raggio di luce che già fa di questa città un punto di riferimento, che coloro che ancora giacciono nelle tenebre potranno riconoscere per orientarsi. I popoli sono in marcia, mentre ancora sono nelle tenebre. Gerusalemme, nel momento stesso in cui si rende conto di essere sollecitata bruscamente a svegliarsi e a immergersi nella luce che la sta lambendo, è già punto di riferimento che gli altri popoli della terra potranno individuare a loro vantaggio.
Seconda sezione, vv. 4-9: “Alza gli occhi intorno e guarda: tutti costoro si sono radunati e vengono a te …”. Non te ne eri accorta Gerusalemme, mentre dilagavano le tenebre? Sono in movimento ombre confuse e indecifrabili. Sono i popoli della terra che camminano verso di te, e adesso ti accorgi che si sono radunati e vengono come i figli verso la madre. E’ un’impennata improvvisa, molto, molto istruttiva per noi: nel tempo del grande avvilimento, il nostro profeta spiega a Gerusalemme che si sta manifestando la fecondità materna di cui essa è dotata. Vedi, Gerusalemme: mentre sei ancora un cumulo di macerie, tu sei madre dei popoli, madre dell’umanità; sei madre della storia umana! Guarda che cosa sta succedendo: “ I tuoi figli vengono da lontano, le tue figlie sono portate in braccio. A quella vista sarai raggiante, palpiterà e si dilaterà il tuo cuore, perché le ricchezze del mare si riverseranno su di te, verranno a te i beni dei popoli …”. Assistiamo ad una dilatazione interiore: proprio là dove il cuore era vuoto, si rivela un allargamento di un grembo che, adesso, si configura di una capienza materna sconfinata. C’è di mezzo lo svolgimento della storia universale: i popoli, i loro percorsi, le loro vicende, i loro linguaggi, innumerevoli forme di cultura, le loro “ricchezze” … , tutto è riversato a Gerusalemme in quel grembo materno di cui la città è dotata. “ … Uno stuolo di cammelli ti invaderà, dromedari di Madian e di Efa, tutti verranno da Saba, portando oro e incenso e proclamando le glorie del Signore. Tutti i greggi di Kedàr si raduneranno da te, i montoni dei Nabatei saranno a tuo servizio, saliranno come offerta gradita sul mio altare; renderò splendido il tempio della mia gloria …” (questi sono i popoli che vengono dall’Oriente; come vi dicevo, è il testo che si legge per l’Epifania, in relazione alla visita dei Magi. E adesso – vv. 8 e 9 – i popoli che vengono dall’Oriente) “ … Chi sono quelle che volano come nubi e come colombe verso le colombaie? Sono navi (dunque dal mare) che si radunano per me, le navi di Tarsis in prima fila ( Tarsis è la sponda occidentale del Mediterraneo; oggi diremmo: la penisola Iberica), per portare i tuoi figli da lontano, con argento e oro, per il nome del Signore tuo Dio, per il Santo di Israele che ti onora”. A Gerusalemme affluiscono le testimonianze di questa così varia, complessa e articolata avventura che coinvolge tutti i popoli della terra, e Gerusalemme è vista come il luogo della dimora del Signore, il “Santo di Israele”. Proprio là dove Gerusalemme sperimentava, nel suo disagio e turbamento, quel vuoto amarissimo che a più riprese abbiamo constatato, il nostro profeta spiega che per essa è giunto il momento di svegliarsi e di prendere coscienza di essere punto di luce che diventa criterio interpretativo dello sviluppo complessivo della storia umana. Vedi che tu, Gerusalemme, sei madre di quella moltitudine di genti che, generazione dopo generazione, sprofondano nelle tenebre di vicende inconcludenti; che subiscono motivi di dispersione, situazioni di solitudine che si succedono nel corso delle epoche; genti la cui storia si insabbia e sprofonda in un abisso di dimenticanza e di sterilità … Ebbene, tu sei madre di popoli! La situazione acquista una valenza sacramentale davvero inimmaginabile: il profeta interviene sollecitando con estremo vigore Gerusalemme a rendersi conto della propria responsabilità, non tanto in rapporto al suo vissuto, che appare così deludente, quanto in rapporto alla storia universale. I popoli riconoscono in te la madre che li accoglie, li custodisce, li genera; i popoli trovano in te la luce che li orienta mentre sono sprofondati nelle tenebre; la storia umana che lascia dietro di sé tracce che sembrano i segni di una decadenza irreparabile, che si ripropone di generazione in generazione, di popolo in popolo, cicli di civiltà che si vanno esaurendo in modo sempre più tragico … ; ebbene, i popoli in te scorgono un segno di riconciliazione; in te depositano la propria testimonianza; attraverso te trovano il varco che li ricompone all’interno di un disegno in cui ogni presenza è valorizzata e anche ogni assenza è ricordata, ogni fallimento è recuperato “ per il nome del Signore tuo Dio, per il Santo di Israele che ti onora”.
Terza sezione, vv. 10 – 18. Siamo passati dall’alba al giorno fatto, ed ecco il fervore della giornata: “Stranieri ricostruiranno le tue mura ( proprio loro lo faranno ! ), i loro re saranno al tuo servizio …” . E’ il tempo della ricostruzione che, per Gerusalemme, non consiste tanto nell’aver trovato i mezzi materiali per risolvere il problema pratico della riedificazione delle mura, quanto nel fatto che nella città ormai sono presenti gli stranieri. Gerusalemme “viene ricostruita” in quanto è divenuta spazio di accoglienza ecumenica. Il tempo della sua delusione è il tempo in cui è chiamata a convertirsi e a rendersi conto di essere madre; e quel disastro, che affligge Gerusalemme nell’intimo dell’animo, è il motivo per cui essa scoprirà che il suo cuore è dilatato, così che l’umanità intera troverà casa nella città. E’ il popolo di Dio che accoglie in sé il dramma della storia umana; il cuore dei credenti è lo spazio che si amplia, ormai senza limiti, per accogliere in sé la responsabilità gloriosa – possiamo ben dire – festosa, gioiosa, la responsabilità piena di quanto ha a che fare con la vocazione e con il fallimento di ogni altra creatura umana. Rileggo dal v. 10 : “Stranieri ricostruiranno le tue mura, i loro re saranno al tuo servizio, perché nella mia ira ti ho colpito, nella mia benevolenza ho avuto pietà di te. Le tue porte saranno sempre aperte, non si chiuderanno né di giorno né di notte (versetto citato alla lettera in Ap. 21, 25 : “ non vi sarà più notte”), per lasciare introdurre da te le ricchezze dei popoli e i loro re che faranno da guida (saltiamo il v. 12).
La gloria del Libano verrà a te, cipressi, olmi e abeti insieme, per abbellire il luogo del mio santuario, per glorificare il luogo dove poggio i miei piedi (la presenza dei popoli stranieri a Gerusalemme coincide con la dimora del Signore nella città: là dove io “ poggio i miei piedi”. E mentre Gerusalemme è devastata, scopre di portare in sé il dramma della storia umana, con la ricchezza inesauribile che si riversa come allagamento di luce, come irraggiamento di splendore, come sovrabbondanza di fecondità vitale per l’umanità intera). Verranno a te in atteggiamento umile i figli dei tuoi oppressori; ti si getteranno proni alle piante dei piedi quanti ti disprezzavano (è superato ogni criterio in forza del quale, anticamente, ci si contrapponeva : i cosiddetti “nemici”, verso i quali si esercitava – o dai quali si subiva – violenza). Ti chiameranno Città del Signore, Sion del Santo di Israele. Dopo essere stata derelitta, odiata, senza che alcuno passasse da te (è la misera condizione di Gerusalemme: un cumulo di rovine) io farò di te l’orgoglio dei secoli, la gioia di tutte le generazioni. Tu succhierai il latte dei popoli, succhierai le ricchezze dei re. Saprai che io sono il Signore tuo salvatore e tuo redentore, io il Forte di Giacobbe (la presenza del Signore è sempre più intensa, appassionata, determinante, nel contesto di questa vicenda in cui Gerusalemme si rende conto di essere, in tutto e per tutto, debitrice verso coloro che le trasmetteranno le loro ricchezze mentre, nel contempo, essa assume, con il massimo della consapevolezza, una responsabilità materna). Farò venire oro anziché bronzo, farò venire argento anziché ferro, bronzo anziché legno, ferro anziché pietre. Costruirò tuo sovrano la pace, tuo governatore la giustizia (Gerusalemme sarà ricostruita con materiale sempre più prezioso, in riferimento a questa presenza dominante che costituisce il nucleo della vita piena a cui Gerusalemme è condotta, insieme all’umanità intera che sta anch’essa rinascendo in pienezza. Il nucleo è la pace, shalòm). Non si sentirà più parlare di prepotenza nel tuo paese, di devastazione e di distruzione entro i tuoi confini. Tu chiamerai salvezza le tue mura e gloria le tue porte”.
Quarta sezione, vv. 19 – 22. Il giorno è sorto e noi abbiamo assistito agli avvenimenti che si sviluppano nel corso dell’itinerario di quella luce che ha assunto un valore sempre più coinvolgente. Adesso veniamo a sapere che questo giorno non tramonta più: la luce che si è manifestata in questo modo è una luce che rimane per sempre! “ Il sole non sarà più la tua luce di giorno, né ti illuminerà più il chiarore della luna (non ci sarà più bisogno né di sole, né di luna). Ma il Signore sarà per te luce eterna (ritroveremo queste espressioni nell’Apocalisse. Cfr. Ap. 21,23; 22,5), il tuo Dio sarà il tuo splendore. Il tuo sole non tramonterà più né la tua luna si dileguerà, perché il Signore sarà per te luce eterna; saranno finiti i giorni del tuo lutto”. “Luce eterna” è quella luce che illumina te in modo tale da renderti sacramento di comunione universale , che ti conferisce facoltà così ampie da accogliere in te la moltitudine dei popoli; e viceversa, perché tu – Gerusalemme – ti rendi conto di essere intrinsecamente debitrice verso la storia dell’intera umanità alla cui ricchezza tu potrai fare appello come motivo della tua stessa vita. Questa ricostruzione di Gerusalemme fa tutt’uno con il recupero di tutto ciò che la storia degli uomini ha prodotto, fino alle situazioni più nascoste e più contraddittorie. Allora il sole non tramonterà più, il “ Signore sarà per te luce eterna e saranno finiti i giorni del tuo lutto”. Questo è un dato importantissimo per il nostro profeta: se tu oggi sei in lutto è perché ancora non ti sei resa conto che sei coinvolta, con una particolare responsabilità sul piano della consapevolezza e sul piano sacramentale della conversione interiore, nella storia di tutti i popoli; e sei in lutto perché ancora resti ripiegata all’interno di un circuito esistenziale, di uno spazio empirico e di un respiro ristretti, che ti riducono alla misura del tuo fallimento. Mentre tu sei chiamata ad essere testimone di quella luce che dilaga senza confini e che splende in modo tale da riconciliare in sé le scadenze temporali della storia di ieri e della storia di domani. Allora “saranno finiti i giorni del tuo lutto. Il tuo popolo sarà tutto di giusti, per sempre avranno in possesso la terra, germogli delle piantagioni del Signore, lavoro delle sue mani per mostrare la sua gloria. Il piccolo diventerà un migliaio, il minimo un immenso popolo; io sono il Signore: a suo tempo, farò ciò speditamente.” L'immagine del giardino – che ritroveremo tra poco – è l’immagine di un mondo nuovo; e il Signore ha fretta: “ a suo tempo, farò ciò speditamente”.
Il capitolo 61 contiene il canto che, come accennavo, fa probabilmente da perno a tutta la composizione di questa terza parte del libro di Isaia. Il profeta si presenta in prima persona, alludendo ad una figura messianica; Gesù stesso leggerà questi versetti nella sinagoga di Nazaret, affermando: “Questo mi riguarda” (Luca, 4, 16 – 21).
Vv. da 1 a 3 (prima metà). Il nostro profeta si presenta dicendo così: “Lo spirito del Signore Dio è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione ( siamo di fronte alla consacrazione messianica del profeta, il quale ne assume la responsabilità in piena consapevolezza della superlativa dotazione di carismi che gli è stata elargita; il nostro profeta non si sta, banalmente, inorgogliendo: sta semplicemente assumendo con coerenza la dignità conferitagli, cui egli non si è sottratto e alla quale corrisponde intrinsecamente una specifica missione); mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri ( è l’Evangelo! Mi ha mandato a evangelizzare i poveri della terra; quelli di ieri, di oggi e di domani; qui e dappertutto; non ci sono limiti; non ci sono più barriere che consentono di distinguere i “nostri” e i “loro”, quelli buoni e quelli cattivi, i destinatari delle promesse e quelli che ne sarebbero esclusi), a fasciare le piaghe dei cuori spezzati (qui compare il plurale ΄ànãwîm, termine che nel linguaggio biblico acquista un particolare valore teologico e che sarà poi ripreso nel N.T.; fatto sta che questi “poveri” vengono immediatamente qualificati in rapporto a un disagio che li affligge interiormente; c’è di mezzo la miseria nei suoi aspetti più concreti – non possiamo dubitarne – ma il nostro profeta dichiara di essere stato inviato a curare coloro che sono frantumati dentro, spaccati nel cuore, piagati proprio là dove si sono consumati i sentimenti e si è insediata prepotentemente la delusione più corrosiva: è proprio la situazione di partenza della lettura di questi capitoli), a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a proclamare l’anno di misericordia del Signore (è l’anno giubilare), un giorno di vendetta per il nostro Dio (un giorno in cui Dio rivendica ciò che è suo! Tutto in riferimento a quella guarigione dalla malattia che affligge il cuore umano, perché è il cuore che deve essere risanato, sono i sentimenti più profondi che devono essere rieducati, è l’atteggiamento interiore che deve essere sottratto a quello stato di inquinante oscurità di cui è preda; e qui i vv. 2 e 3 insistono), per consolare tutti gli afflitti, per allietare gli afflitti di Sion, per dare loro una corona invece della cenere, olio di letizia invece dell’abito da lutto, canto di lode invece di un cuore mesto”. Il nostro profeta ci si presenta come il maestro della gioia che rieduca il cuore umano, proprio là dove esso, nella tristezza, nell’amarezza e nella disperazione, ha disimparato a gioire: coloro che vivono in una situazione così derelitta sono sollecitati, con tanto energico entusiasmo dal nostro profeta in qualità di Messia, a prendere consapevolezza che, proprio nello stato di miseria, di povertà e di frantumazione interiore in cui si trovano, irrompe in loro e per loro la potenza di una gioia nuova. Verrà il momento in cui Gesù dirà: “Beati voi!. E’ una gioia regale questa, è la gioia di chi detiene la corona e non la cenere; di chi è splendente per l’unguento prezioso cosparso sul suo volto e non segnato dal lutto; di chi è già rieducato nel canto interiore di lode e non in preda a un triste spirito accidioso. Si impone, quindi, in modo travolgente la regalità, la dignità, la qualità della gioia. E, badate bene, che non si tratta tanto di una gioia che “subentra” all’avvilimento, quanto di un’epifania, di una rivelazione, al pari di quella che ha riguardato Gerusalemme in macerie: adesso è nel cuore svuotato, frantumato, deluso, amareggiato e inquinato degli uomini; è proprio in quello spazio che si è spalancato in modo così tragico, che irrompe la gioia. E il profeta dice: “ Io sono maestro; sono mandato proprio a insegnare questo”. E’ il Messia, il maestro della gioia.
Vv. 3 (seconda metà) – 11 (saltando il v. 10 che riprenderemo tra poco). Dopo che il profeta si è presentato, ci viene descritto il contenuto della sua attività messianica già configurato come obiettivo raggiunto: l’immagine di un popolo nuovo, qui raffigurato attraverso il richiamo al rigoglio di un giardino. E’ un popolo che abita un mondo nuovo e che corrisponde all’intenzione originaria del Creatore. Realizza in sé una vocazione che ha un valore universale: questa chiamata alla gioia è per tutti i poveri della terra; questa chiamata alla vita è per tutti gli uomini che … sono esperti nella morte. “Essi si chiameranno querce di giustizia, piantagione del Signore per manifestare la sua gloria (questa immagine proveniente dal mondo vegetale, tornerà nel v. 11). Ricostruiranno le vecchie rovine, rialzeranno gli antichi ruderi, restaureranno le città desolate, devastate da più generazioni (la gioia che il profeta ha proclamato e che, da parte sua, intende instaurare come obiettivo intrinseco della sua missione è una gioia operosa che, dal di dentro, fa di coloro che sono alle prese con le rovine, con i ruderi, con le desolazioni, un’umanità nuova). Ci saranno stranieri a pascere i vostri greggi (anche qui il coinvolgimento degli “altri”: voi scoprirete di essere debitorie, al tempo stesso, vi accorgerete che gli altri si riferiscono a voi) e figli di stranieri saranno vostri contadini e vignaioli. Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore, ministri del nostro Dio sarete detti (un popolo sacerdotale, che svolge un ruolo di mediazione di insostituibile efficacia). Vi godrete i beni delle nazioni, trarrete vanto dalle loro ricchezze. Poiché il loro obbrobrio fu di doppia misura (qui conviene correggere la traduzione come indicato in nota nella “Bibbia di Gerusalemme”: <<Invece della vostra vergogna, avrete parte doppia>>; la parte doppia è quella che spetta al primogenito. Quindi una “primogenitura” che qualifica la particolare presenza del popolo con il quale il Signore ha fatto alleanza, però nel contesto di una vicenda che è aperta alla partecipazione e, anzi, nella quale il popolo primogenito scopre di essere debitore della presenza altrui: ne ha bisogno, non può farne a meno), invece dell’umiliazione una letizia perenne, una gioia inesauribile. Poiché io sono il Signore che amo il diritto e odio la rapina e l’ingiustizia: io darò loro fedelmente il salario, concluderò con loro un’alleanza perenne. Sarà famosa tra i popoli la loro stirpe, i loro discendenti tra le nazioni. Coloro che li vedranno ne avranno stima, perché essi sono la stirpe che il Signore ha benedetto”. C’è sempre una particolare attenzione a questa posizione di responsabilità affidata a coloro che svolgono un ruolo sacramentale nella storia dell’umanità intera. Ma si tratta di una vocazione che non si esaurisce in sé stessa, né sarà mai possibile questo: il popolo dell’alleanza ha una vocazione che implica un’intrinseca connessione con la vicenda di tutta l’umanità.
Saltiamo al v. 11: “ Poiché come la terra produce la vegetazione e come un giardino fa germogliare i semi (torna l’immagine del giardino, come se ne parla all’inizio della Genesi – capp. 2 e 3 – che non è riservato ad alcuni abitanti privilegiati, non è un ritaglio di mondo ben recintato: è il mondo, è il creato), così il Signore farà germogliare la giustizia e la lode davanti a tutti i popoli”. Il nostro profeta non è un consolatore nel senso banale del termine. Non dice: “Non farci caso; vedrai che le cose per te si metteranno al meglio”. Dice: “In questa storia così avventurosa nel corso della quale tu sperimenti tutti questi disagi e sei così tribolato nell’intimo, tu sei in grado di scoprire quali segrete – ma poderose – possibilità di comunicazione universale si impiantano nel tuo povero cuore umano”. E così viene il giardino; e così la storia di ieri, di oggi e di domani viene alla luce, all’interno di un unico disegno di riconciliazione; e così tu ti rendi conto di quale debito hai verso le altre creature di Dio per il contributo che esse mettono a tua disposizione e quale responsabilità – sacramentale e, addirittura, sacerdotale – ti compete in rapporto a loro.
La giustizia è motivo di gioia nuziale
Andiamo al capitolo 62, recuperando però il v. 10 del cap. 61. Troviamo un terzo grande poema, anch’esso famosissimo, che ci ripresenta Gerusalemme. Nel citato v. 10 del cap. 61, il profeta si rivolge alla città assumendo una fisionomia singolare, perché parla di sé stesso come di una coppia di sposi che stanno celebrando il loro matrimonio: “Io gioisco pienamente nel Signore (maestro della gioia, il profeta è anche protagonista della gioia!), la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza, mi ha avvolto con il manto della giustizia (un rivestimento speciale che, adesso, veniamo a comprendere che si tratta di un abbigliamento nuziale. Il Signore rivela il suo disegno redentivo, a vantaggio di coloro che sono deboli, derelitti, dispersi: l’opera di giustizia in loro favore diventa il motivo della festa per eccellenza, che è l’incontro nuziale. Il profeta usa l’immagine dello sposo e della sposa come unica realtà di festa, in corrispondenza alla giustizia che il Signore ha compiuto e sta compiendo nei confronti dei popoli), come uno sposo che si cinge il diadema e come una sposa che si adorna di gioielli”. Dunque il profeta gioisce pienamente nel Signore, come là dove si celebra l’incontro nuziale. Nel contesto dell’esperienza umana, le nozze diventano sacramento rivelativo di quell’opera di giustizia che si sta realizzando in obbedienza alle intenzioni del Signore.
Capitolo 62. Come dicevo, il poema – che si sviluppa in tre sezioni – torna a concentrare l’attenzione su Gerusalemme, perché proprio ad essa vengono attribuite le caratteristiche della sposa che si sta preparando ad accogliere lo sposo.
Prima sezione, vv. 1-5: “Per amore di Sion non tacerò, per amore di Gerusalemme non mi darò pace, finché non sorga come stella la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada”. Il profeta dichiara questo su Gerusalemme: <<Io non la smetterò di cantare (in continuità con quell’esplosione di gioia che abbiamo visto nel v. 10 del cap. 61), fino a che Gerusalemme non si sarà resa conto della vocazione nuziale che le è stata donata>>. “Allora i popoli vedranno la tua giustizia, tutti i re la tua gloria (come sempre la vocazione di Gerusalemme coinvolge l’assemblea dei popoli, i quali vedranno, concorreranno, accorreranno, parteciperanno all’unico festino nuziale); ti si chiamerà con un nome nuovo che la bocca del Signore indicherà. Sarai una magnifica corona nella mano del Signore, un diadema regale nella palma del tuo Dio. Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma tu sarai chiamata Mio compiacimento e la tua terra, Sposata, perché il Signore si compiacerà di te e la tua terra avrà uno sposo. Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo architetto; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te”. Gerusalemme è la sposa, e siamo convocati anche noi, insieme a tutti i popoli della terra, per partecipare a questa celebrazione nuziale. E’ pronto il nome nuovo; è pronta la corona; la città, chiamata ad accogliere lo sposo, viene incoraggiata in tutti i modi perché si renda conto di questa sua straordinaria, preziosissima identità che, mentre la qualifica in modo così diretto, la pone nel cuore del mondo e nel cuore di ogni uomo, dovunque sia disperso. In qualsiasi luogo in cui gli uomini siano condotti a sperimentare abbandono, devastazione, desolazione, fallimento ... nel cuore di ogni uomo c’è questa vocazione nuziale – della sposa che attende lo sposo e che è pronta a riceverlo – che, adesso, viene rappresentata in modo sacramentale da Gerusalemme. Ogni cuore affranto dell’umanità è il cuore di una creatura a cui lo sposo si rivolge.
Seconda sezione, vv. 6-9: “Sulle tue mura, Gerusalemme, ho posto sentinelle (stanno lì soprattutto per discernere i segnali della venuta dello sposo); per tutto il giorno e tutta la notte non taceranno mai (giorno e notte si daranno la voce ed è proprio a loro che, adesso, si rivolge il profeta). Voi, che rammentate le promesse al Signore (rivolgete insistentemente le vostre richieste al Signore, perché conceda i regali che ha promessi; le sentinelle sono incoraggiate a rivolgersi direttamente a Lui affinché si presenti come ha promesso, in base alla sua incrollabile fedeltà), non prendetevi mai riposo e neppure a lui date riposo, finché non abbia ristabilito Gerusalemme e finché non l’abbia resa il vanto della terra (l’impresa della ricostruzione di Gerusalemme non è soltanto una grande e impegnativa realizzazione tecnica: fa tutt’uno con l’affidamento allo sposo che viene, da parte di coloro che sono in un’evidente situazione di attesa, ma anche di smarrimento e di desolazione per la catastrofe interiore che ha svuotato i cuori). Il Signore ha giurato con la sua destra e con il suo braccio potente: << Mai più darò il tuo grano in cibo ai tuoi nemici, mai più gli stranieri berranno il vino per il quale tu hai faticato. No! Coloro che avranno raccolto il grano lo mangeranno e canteranno inni al Signore, coloro che avranno vendemmiato berranno il vino nei cortili del mio santuario>>”. Si prepara un banchetto che non darà più spazio ai soprusi, alle violenze, alle ruberie, agli sfruttamenti delle fatiche altrui. In questo banchetto nuziale che si sta preparando, ogni presenza sarà valorizzata, ogni contributo sarà apprezzato come il dono necessario per collaborare alla pienezza dell’incontro tra lo sposo e la sposa, tra il Signore che viene e Gerusalemme. Osservate, però: il Signore viene ed è la terra che lo accoglie, è la scena del mondo che diviene giardino ed è l’umanità che scopre di essere Sposata.
I popoli della terra evangelizzano Gerusalemme
Terza sezione, vv. 10-12: “Passate, passate per le porte, sgombrate la via al popolo, spianate, spianate la strada, liberatela dalle pietre, innalzate un vessillo per i popoli (bisogna preparare la strada per accogliere Colui che viene; le situazioni stanno precipitando e i preparativi assumono un’urgenza sempre più incalzante: passate, passate; sgombrate, spianate, liberate la strada. E poi, “ innalzate un vessillo”: Gerusalemme diventa il punto di riferimento in base al quale i popoli potranno orientarsi, perché essi sono invitati e partecipano a quell’unico corteo di cui è guida Colui che viene in qualità di sposo: il Redentore! L’incontro tra lo sposo e la sposa coincide con la costituzione di quell’assemblea di popoli che trova, finalmente, a Gerusalemme la propria dimora). Ecco ciò che il Signore fa sentire all’estremità della terra (il Signore è all’opera presso i popoli lontani che sono sollecitati - in modo misterioso e nascosto, ma inconfondibile ed efficacissimo – ad imparare a vedere quel segnale e ad ascoltare quel messaggio che Dio stesso sta loro suggerendo: di mettersi in cammino, di convergere, di presentarsi a Gerusalemme, perché sono proprio loro a costituire il corteo dello sposo che viene): << Dite alla figlia di Sion (i popoli sono incaricati di portare un messaggio e di recarlo all’unisono con l’arrivo dello sposo) : Ecco, arriva il tuo salvatore; ecco, ha con sé la sua mercede (la situazione si è ribaltata : sono i popoli che evangelizzano Gerusalemme!), la sua ricompensa è davanti a lui (i doni che lo sposo porta a Gerusalemme sono i popoli della terra, che lo precedono in corteo verso l’incontro con la sposa; Gerusalemme è ormai madre dell’unica famiglia umana, nel momento in cui è sposa non più derelitta, ma amata e visitata dal suo Redentore). Li chiameranno popolo santo, redenti del Signore. E tu sarai chiamata Ricercata, Città non abbandonata>>”.
Ecce homo
Seconda domanda, v.2 : “Perché rossa è la tua veste e i tuoi abiti come quelli di chi pigia nel tino?”. Adesso la domanda è espressa in seconda persona (tu). Il rosso è dato dal sangue e dal succo dell’uva. I due termini vengono qua e là interscambiati. L’immagine di “chi pigia nel tino” tornerà spesso nell’A.T. e nel N.T. (Cfr. Ap. 14, 19-20; 19, 15). Il rosso è il colore che evoca la vita, la vittoria, la potenza che si impone in modo travolgente. Risposta, vv. 3-6: “<<Nel tino ho pigiato da solo…>>”. E’ quel personaggio misterioso che si è energicamente presentato a noi in prima persona nel v. 1 (“ Io”, lo sposo, il redentore) e , adesso, compare nella veste del vendemmiatore che viene in forza di un’opera che egli ha compiuto passando attraverso tutti gli strapazzi, le contrarietà, le compressioni della storia umana. Qui abbiamo l’immagine del “tino”, nel quale Lui, il protagonista, ha “pigiato da solo”: quest’impresa macroscopica che, ancora una volta, veniamo a sapere riguarda la scena del mondo e, al tempo stesso, i segreti depositati nell’intimo dei cuori umani, evoca la complessità del vissuto umano in tutte le sue manifestazioni, nel pubblico e nel privato. Il tino colmo d’uva, pigiata da Lui. Notate bene: “da solo”! Quest’impresa solitaria viene qui segnalata in modo inequivocabile: si tratta dell’opera che, nel corso della storia della salvezza, emerge, in prospettiva, in modo sempre più significativo, fino alla pienezza dei tempi, quando è l’impresa solitaria del Figlio Unigenito, il Redentore, che si impone con la sua singolare, eccezionale efficacia. “Da solo” ha affrontato tutta le contrarietà, ha percorso tutti i territori, è disceso in tutti gli abissi, ha sopportato tutte le fatiche, le asprezze, i rifiuti, le violenze … . E’ la storia umana. Le sue vesti sono “tinte di rosso”: è l’abito dell’<<ecce homo>> dell’iconografia tradizionale.
In effetti questo breve poema sta sullo sfondo di quell’immagine che noi siamo abituati a contemplare in un contesto devozionale, anche affettuoso, ma spesso un po’ distratto rispetto all’ascolto dell’A.T. Ebbene: “<<Nel tino ho pigiato da solo e del mio popolo nessuno era con me. Li ho pigiati con sdegno, li ho calpestati con ira. Il loro sangue è sprizzato sulle mie vesti e mi sono macchiato tutti gli abiti …”. Un’immagine così cruenta può anche disturbarci. Qui il Signore è il succo dell’uva, ma … è il sangue … è inutile, infantile domandarci se è l’una o l’altra cosa: il nostro profeta sta contemplando la comparsa di Colui che passa attraverso lo scandalo della catastrofe che è di un popolo ed è di tutti i popoli; è di ieri ed è di oggi; un disastro immane che, pure, va incontro a quest’impresa che, compiuta da Lui, trasforma il dramma generale in una straordinaria opera redentiva. Il succo dell’uva è vino inebriante, è festa della vita, è potenza vittoriosa del redentore. Lo sposo che viene è colui che passa attraverso tutti gli scandali, che fa sua la sconfitta della nostra avventura di uomini derelitti, fino alla morte e in piena solitudine. Ha riportato il trionfo di chi trasforma quello strazio così universale in una fioritura di vita nuova, in una comunione nuziale, in un atto di fecondità vittoriosa. E’ il Vivente; è Lui, lo sposo! “ … mi sono macchiato tutti gli abiti, poiché il giorno della vendetta era nel mio cuore e l’anno del mio riscatto è giunto (è giunto il tempo della redenzione). Guardai: nessuno aiutava (tutto solo!); osservai stupito: nessuno mi sosteneva (tutto solo!). Allora mi prestò soccorso il mio braccio, mi sostenne la mia ira. Calpestai i popoli con sdegno, li stritolai con ira, feci scorrere per terra il loro sangue>>”. Lo sposo spiega così il motivo per cui il suo abito è rosso: “Il sangue versato è il mio stesso sangue; quella sconfitta tragica, che fa della storia umana un fallimento di per sè irreparabile, è divenuta la motivazione della mia venuta: è divenuta il mio stesso corredo nuziale. Tutto il sangue spremuto nel corso della storia umana è divenuto una vendemmia in vista del festino nuziale per me preparato, e per cui sono qui. Così la mia solitudine d’amore è divenuta universale sorgente e definitivo sigillo di comunione”.