Quarto incontro del ciclo 2004-2005
Martedì 1 marzo 2005
Soffermiamoci ancora un po’ sui primi dodici capitoli del nostro Libro, che vengono identificati con il nome del grande Profeta. Sappiamo che, in realtà, fino al capitolo 39 i testi che leggeremo fanno capo – in modo più o meno diretto, pur con la presenza di altre voci – al “personaggio” Isaia, vissuto nella seconda metà dell’VIII secolo, di cui abbiamo già fatto conoscenza, sintonizzandoci con il suo linguaggio e con la sua particolare sensibilità teologica. Questi capitoli iniziali, fino al 12°, rappresentano una prima “sezione” nella quale riecheggiano, in modo più esplicito, la voce del profeta e la sua testimonianza immediata, diretta – potremmo dire “urgente” – all’interno delle problematiche concrete del momento, che sono segnate da un evento dominante: l’espansione dell’impero assiro che, nel giro di pochi anni, determinerà la caduta del regno settentrionale (il regno di Israele), mentre il regno di Giuda rimarrà arroccato in posizione difensiva estremamente precaria. Isaia è spettatore di queste vicende; è persona che guarda lontano e, al tempo stesso, scava in profondità; la sua vocazione profetica fa di lui un attento spettatore rivolto verso quella presenza che occupa la scena della storia umana in qualità di protagonista: la presenza del Santo; il Dio vivente – proprio Lui! – nel contesto di vicende drammatiche, che riguardano il popolo di Dio nelle sue varie componenti, in rapporto ad un passato che, ormai, si è trasformato in attualità estremamente problematica, con prospettive per l’avvenire molto incerte. Ma l’orizzonte di Isaia si estende a tutti i popoli della terra, verso i quali il suo sguardo si rivolge con lucidità, dimostrando come egli sia personalità dotata di singolari competenze nel discernimento politico dei grandi accadimenti internazionali. Fatto sta che Isaia coglie “la presenza” e si incarica di testimoniare l’opera di Colui che è il protagonista: il Dio vivente, il Santo, che ha fatto alleanza con Israele e che è il Signore della storia umana. La situazione complessiva, come sappiamo, è segnata da molteplici fenomeni catastrofici. Ho usato ripetutamente il vocabolo “catastrofe”, nel corso dei nostri precedenti incontri, perché è proprio con il linguaggio della catastrofe – cui Isaia fa ricorso con molta precisione ed efficacia – che viene delineandosi lo sviluppo che la presenza operosa del Dio vivente imprime alla storia umana lungo percorsi che assumono un pieno significato di salvezza. E’ il senso positivo, luminoso, consolante di quel ritorno alla vita, che riguarda “un” popolo – quel popolo particolare, che è stato chiamato e con il quale il Dio vivente ha instaurato un rapporto di alleanza – ma che riguarda anche il significato della storia nel suo complesso e, dunque, la vocazione di ogni singolo uomo. Questo ritorno alla vita; questo cammino di conversione passa attraverso un vaglio pesante, micidiale, massacrante che noi possiamo benissimo ricapitolare con il termine “catastrofe”. Non si tratta di una rovina ricercata per motivi ascetici o imposta da un’autorità superiore che vuole esercitare la propria funzione irrogando punizioni severe e intransigenti. La catastrofe è il criterio che consente a Isaia di interpretare le vicende umane così come si stanno svolgendo, in quanto rappresentano la storia degli uomini, della quale essi vogliono rendersi protagonisti. Ebbene, il criterio ermeneutico dice questo: la storia, in quanto fatta dagli uomini, è catastrofe!
Dentro il disastro, l’opera del Signore
Senonché, proprio nel contesto della catastrofe, l’opera di Dio si impone vittoriosa, in modo tale da trasformare dal di dentro quella vicenda così drammatica nella quale si consumano esperienze di dolore inenarrabile (ricordate i “guai” che meditavano il mese scorso). Dentro la tragedia, l’azione di Dio apre strade di salvezza: è una novità assoluta di cui la Santità del Dio vivente realizza il frutto gratuito, ma definitivo. Non c’è possibilità di sfuggire a questa presa, che è energica e risoluta; così come micidiale e inevitabile è la scadenza della catastrofe, l’opera di Dio si compie con un’efficacia intransigente. Sono l’amore di Dio, la sua misericordia, la sua opera che trovano ingresso nella storia degli uomini, come rivelazione di una gelosia d’amore irrevocabile, che stringe tutto, in obbedienza all’intenzione di salvezza, proprio là dove tutto è travolto dall’esperienza di una catastrofe inevitabile. Noi vedevamo, la volta scorsa, alcuni testi all’interno dei primi dodici capitoli ed eravamo giunti a confrontarci direttamente con il profeta e con i suoi discepoli cui egli affida la responsabilità della sua stessa missione, là dove si presenta dicendo, nel cap. 8 al v. 17, “Io ho fiducia nel Signore, che ha nascosto il volto alla casa di Giacobbe, e spero in Lui”. Colui che ha nascosto il volto è il Dio vivente, che si rivela. Si è nascosto?... Si rivela! E’ la catastrofe che sta dinanzi a noi inevitabile?... E’ l’azione di Dio! E’ la sua opera che si compie per determinare quello sviluppo creativo che ci introduce in una prospettiva di salvezza, verso quella conversione alla vita che dà il senso definitivo e glorioso a tutta la storia umana. Più noi ci inoltriamo nella lettura di queste pagine, più ci rendiamo conto di avere a che fare con un uomo che sta rielaborando, nel proprio animo contemplativo e con l’invenzione di un linguaggio teologico originalissimo, il discernimento. Più precisamente sta rielaborando i criteri del discernimento, da cui dipende l’interpretazione della nostra vocazione umana e il senso di ogni cosa, del mondo e della storia. Questa particolare storia che coinvolge il popolo dell’alleanza è, al tempo stesso, la storia di tutti i popoli, perché qui non si tratta di procedere rimarcando le distinzioni – che pure sono presenti e di cui Isaia non si dimentica mai – ma di spiegare come la storia di tutti gli uomini sia unica e come essa sia segnata da un’unica iniziativa del Dio vivente. Così la storia degli uomini dev’essere interpretata alla luce di quel criterio che Isaia sta mettendo a fuoco in rapporto alle vicende che coinvolgono direttamente il suo popolo, visto però non come popolo separato dagli altri popoli, con una sua storia “riservata”. Il popolo dell’alleanza, nella contemplazione del nostro profeta, diventa il riferimento interpretativo per quanto avviene nella storia umana; per ciò che riguarda i popoli della terra. L’opera di Dio si compie per un popolo e per tutti gli uomini, per tutti i popoli della terra; la sua iniziativa si impone e manifesta la propria gloria come pienezza ricapitolativa di tutto. “Santo, Santo, Santo il Signore Dio dell’Universo; i cieli e la terra sono pieni della sua gloria” , ricordate quel versetto che risuona nel cap. 6, nel contesto del racconto che può essere senz’altro intitolato come “vocazione di Isaia”? Ed è un versetto che amiamo particolarmente, perché è presente nella Messa, nel momento in cui viene avviata la grande e solenne preghiera di consacrazione. “Santo, santo, santo”: è, in qualche modo, una chiave di lettura spirituale e teologica di tutta la missione svolta dal nostro profeta e del messaggio che egli ci sta annunciando.
Messaggio all’Assiria
Prendiamo ora il cap. 10, dal v. 5 al v. 23, dove Isaia si rivolge espressamente all’Assiria. Notate quindi: non semplicemente il popolo di Dio è destinatario della predicazione di Isaia; qui c’è un messaggio indirizzato ad Assur: l’Assiria. C’è da supporre che ci sia qualcuno disposto ad ascoltarlo anche all’interno di questa popolazione straniera. Ma non è questo il punto: è lui, il nostro profeta, personalmente consapevole che quanto ha da proclamare riguarda il mondo intero e tutti i popoli e tutti gli uomini della terra. E dire “Assiria”, nel suo contesto storico, è come dire: ecco il protagonista visibile, così come viene acclamato e temuto dai contemporanei; ecco la potenza dominante, che dà impulso a tutte le vicende universalmente percepite come significative e considerate, nell’interpretazione corrente, punti di riferimento che danno senso alla storia in corso. Leggiamo, cap. 10 v. 5 : “Oh! Assiria, verga del mio furore, bastone del mio sdegno”; vedete, che l’Assiria è al servizio del Signore: il “mio” furore e il “mio” sdegno. Così il Signore qualifica l’Assiria, conferendole un rilievo piuttosto significativo, ma nello stesso tempo ridimensionando radicalmente la sua pretesa di ergersi come protagonista autonoma.
V. 6 “Contro una nazione empia io la mando…”; l’Assiria è uno strumento; la “nazione empia”, in questa circostanza, è il popolo di Dio, che è definito un “goi” (sostantivo solitamente usato per indicare una nazione pagana, mentre qui è riferito al popolo dell’alleanza). Generalmente “popolo” si dice “ham” in ebraico; e invece “goi”: una nazione empia; il mio popolo. Il popolo dell’alleanza, è un popolo di traditori, di rinnegati, di ribelli. Ebbene, l’Assiria è inviata contro una nazione empia “ … e la comando contro un popolo con cui sono in collera …” (è Israele!) “…. affinché lo saccheggi, lo depredi, lo calpesti come fango di strada”. Notate bene, insisto: l’Assiria è inserita all’interno di un progetto che ha Dio stesso come autore; e il fatto di essere incaricata di questa missione correttiva nei confronti di Israele conferma la sua funzione strumentale nell’ambito del disegno che appartiene a Dio e che si compie in obbedienza alla Sua iniziativa, unica, assoluta. Tuttavia l’Assiria, investita di quel compito, non la pensa così: pretende di fare a modo suo, di testa sua; aspira ad ergersi e affermarsi come protagonista della storia contemporanea, la “vera” storia umana. Come se, poi, la soluzione data al problema del momento potesse assumere in sé un valore definitivo; è la logica della storia fatta dagli uomini, per la quale ogni momento presume di imporsi come se contenesse in sé la soluzione piena, ultima, definitiva.
V. 7: “Essa però (l’Assiria) non pensa così e così non giudica il suo cuore, ma vuole distruggere e annientare non poche nazioni”; vedete, l’Assiria doveva intervenire contro il popolo dell’alleanza – per i motivi che sappiamo – ma non ragiona così; vuole comportarsi come se l’intero mondo debba sottostare alle sue intenzioni, alle sue decisioni, ai suoi interessi; vuole distruggere, annientare tutto e tutti.
Vv. 8 e 9: “Anzi dice: «‘”Forse i miei capi non sono altrettanti re? Forse come Càrchemis non è anche Calne? …”» Vedete che l’Assiria rivendica i propri diritti in nome delle vittorie conseguite: i territori che ha progressivamente conquistato, città che sono cadute alla comparsa del suo esercito; dunque, perché non aggiungere a questa città anche quell’altra, a questo territorio anche quell’altro, a questo popolo anche quell’altro? E ogni progresso, in questa prospettiva di espansione, viene giustificato in forza di quel diritto che è intrinseco alla potenza esercitata, dal momento che essa è vittoriosa. Per il fatto che vinciamo, siamo nel diritto di vincere ancora .
V:9 : «“Forse come Càrchemis non è anche Calne? Come Arpad non è forse Amat? Come Damasco non è forse Samaria?”» (Samaria è la capitale del regno di Israele e cadrà proprio nel corso di questi anni, nel 721; Damasco nel 732 e Gerusalemme, capitale del regno di Giuda, sarà assediata, qualche anno dopo). Ebbene, come si comporta l’Assiria?
Vv. 10 e 11: «“Come la mia mano ha raggiunto quei regni degli idoli, le cui statue erano più numerose di quelle di Gerusalemme e di Samaria, non posso io forse, come ho fatto a Samaria, e ai suoi idoli, fare anche a Gerusalemme e ai suoi simulacri?”» Come dire: ho sbaragliato dinnanzi a me tutte quelle nazioni; ho conquistato le capitali di quei regni; ho esautorato le divinità di quei popoli, che pure erano venerate con tanta devozione? Non posso fare lo stesso anche a Samaria e ai suoi idoli? Forse anche a Gerusalemme e ai suoi simulacri? Per l’Assiria, vedete, non ci sono limiti: all’interno di quel disegno che ha Dio – e solo Lui – come autore e protagonista, essa si appropria sfacciatamente delle prerogative che non le competono e vuole trasformare quello che, nello specifico momento storico, è per lei motivo di forza, di supremazia (potremmo anche aggiungere, motivo “di particolare responsabilità”) nel diritto della forza, in nome del quale si sente autorizzata a distruggere tutto a proprio piacimento e a ridurre tutto e tutti all’ossequio delle sue intenzioni particolari. Notate l’aggiunta che, qui, viene introdotta, al v. 12 : “Quando il Signore avrà terminato tutta l’opera sua sul monte Sion e a Gerusalemme, punirà l’operato orgoglioso della mente del re di Assiria e ciò di cui si gloria l’alterigia dei suoi occhi...”. E’ una glossa per affermare che l’Assiria, con tutta la sua arroganza, non sfugge al disegno di cui Dio – e solo Lui – è e resta l’Autore e il Protagonista. V: 13 “Poiché ha detto (il re di Assiria) :<<Con la forza della mia mano ho agito e con la mia sapienza, perché sono intelligente ;…>>”. E’ la forza militare? È la forza fisica di chi si impone con strumenti di ordine tecnico, amministrativo, economico, tipici di un’intelligenza che ritiene di essere superiore a tutti? “… << con la mia sapienza, perché sono intelligente (ho agito) ; ho rimosso i confini dei popoli (ho globalizzato il mondo!) e ho saccheggiato i loro tesori, ho abbattuto come un gigante coloro che sedevano sul trono” . I governanti, i sovrani, i re dei popoli … tutto è spazzatura che io ho frantumato alla mia sola comparsa! E aggiunge al v. 14 «“La mia mano, come in un nido, ha scavato la ricchezza dei popoli…”»; singolare immagine di straordinaria efficacia letteraria : un aggressore che avanza con la mano per penetrare nel nido. E’ il modo con il quale viene considerata l’espansione dell’impero assiro da parte di coloro che in quel “nido” cercavano rifugio e riparo e, in esso, avevano raccolto le loro ultime ricchezze. La grandezza dell’Assiria, così com’è osservata e subìta dagli uomini, è la grandezza del terrore! Sul piano della forza e dell’asserita intelligenza non c’è contesa: “… «come si raccolgono le uova abbandonate, così ho raccolto tutta la terra; non vi fu battito d’ala, nessuno apriva il becco o pigolava»”; gente terrorizzata, paralizzata, ammutolita. Isaia osserva la scena, condividendo il turbamento dei suoi contemporanei, che congela gli animi e priva tutti di quel residuo fervore che ancora potrebbe tradursi in reazione, opposizione, resistenza … “Non vi fu battito d’ala, nessuno apriva il becco o pigolava”: è la storia degli uomini al tempo d’Isaia. Nessuno è in grado di reagire o protestare; l’Assiria fa quello che vuole! Quell’Assiria, che è interna al disegno di Dio, sta spudoratamente esercitando la sua funzione storica come se quel disegno non esistesse. Una contraddizione paradossale; davvero la catastrofe! E – notate bene – non è in questione soltanto Israele; non si tratta di un “discorsetto moralistico” finalizzato a correggere il popolo dell’alleanza venuto meno ai suoi impegni; qui è in questione il senso della storia umana! V. 15 : “Può forse vantarsi la scure (cioè l’Assiria) con chi taglia per suo mezzo ( che è il Signore) o la sega insuperbirsi con chi la maneggia? Come se un bastone volesse brandire chi lo impugna e una verga sollevare ciò che non è legno”. Così viene descritto l’atteggiamento dell’Assiria: la contraddizione è divenuta esplosiva. Ma – insisto ancora su questo aspetto essenziale – lo sguardo del nostro Profeta è sapiente nell’interpretazione teologica non soltanto di una specifica vicenda, rispondente a criteri devozionali propri della particolare relazione tra Dio e il “suo” popolo, ma della storia degli uomini. Questa proiezione ecumenica, quest’affaccio sulla scena del mondo, quest’impegno nell’offrire criteri di discernimento che riguardano la storia umana, tutto questo è elemento caratterizzante la profezia nella storia della salvezza. La profezia non è un dono particolare riservato a un contesto comunitario ben circoscritto. Anche se il profeta è inserito nel popolo – e, a questo riguardo, esercita una sua funzione insostituibile, all’interno di quella comunità – la profezia, nella storia della salvezza, è sempre portatrice di una parola che riguarda il mondo. E’ sempre così nella profezia. Il caso di Isaia è poi esemplare, addirittura magistrale in questo senso: lui che è a capo di un’intera tradizione profetica.
Oracoli sui popoli stranieri
Leggiamo adesso due capitoli, il 13 e il 14, all’interno di una sezione che va dal capitolo 13 al 23, comunemente intitolata “oracoli sui popoli stranieri”. In queste pagine sono raccolti oracoli contro le nazioni e interventi del profeta che riguardano, in modo più esplicito, i popoli della Terra, le nazioni del mondo (in realtà abbiamo già constatato che Isaia si rivolge a interlocutori lontani e sconosciuti, com’è il re d’Assiria, con la stessa lucidità con la quale si rivolge al re di Giuda). Va anche tenuto presente che in questa sezione del Libro (dal cap. 13 al cap. 23) sono contenuti oracoli, poemi, messaggi che appartengono alla storia della predicazione di altri profeti, nel corso delle generazioni e dei secoli successivi a Isaia. Si tratta di tutto un complesso di testimonianze che il redattore del nostro Libro ha inserito qui e che sono accomunate da quel riferimento alla storia dei popoli: lo sguardo del profeta che scava nel vissuto, non soltanto del popolo dei credenti, ma in quello del cuore umano dove è in questione il senso di quello che è avvenuto, sta avvenendo e ancora avverrà sulla scena del mondo.
La storia umana: “Babilonia”
Cap. 13, v. 1: “Oracolo su Babilonia, ricevuto in visione da Isaia figlio di Amoz”. Il poema appartiene certamente ad un momento successivo della storia del popolo di Dio, quando Babilonia sarà diventata una “cifra” emblematica, simbolica, ricapitolativa della storia umana; così come, per altro verso, l’Assiria ed altre realtà assumeranno, via via in modo sempre più preciso, il valore di simbolo universale (pensate all’Egitto). Dunque, Babilonia: la storia fatta dagli uomini; quella di cui essi si rendono protagonisti; la storia così come gli uomini la vogliono costruire, a loro misura, è Babilonia! Qui, naturalmente, si suppone già l’esperienza di ciò che fu, nel corso del VI secolo, l’esilio a Babilonia e, poi, il ritorno da essa. E di Babilonia si parla in tanti altri testi dell’Antico Testamento, fino al Nuovo Testamento dove Babilonia è Roma, la capitale dell’impero!
Il redattore attribuisce il Poema (che si sviluppa in quattro ampie strofe) a Isaia; tutto fa capo a lui, come grande maestro e profeta che svolse, nel suo particolare momento storico, un ministero esemplare.
Il Signore degli eserciti
Prima strofa: da v. 2 a v. 5. V. 2: “Su un monte brullo issate un segnale, alzate per essi un grido; fate cenni con la mano perché varchino le porte dei principi”. Che scena è mai questa? Siamo in presenza di una situazione molto movimentata. Si tratta, esattamente, di tutte le operazioni relative alla leva militare. Si sta impiantando e organizzando la truppa che darà forma ad un esercito imponente. Una moltitudine di gente accorre alla voce del generale.
V. 3: “Io ho dato un ordine ai miei consacrati…”. I convocati, gli arruolati sono i “consacrati”. L’impresa militare che si prospetta ha tutte le caratteristiche di una consacrazione e noi ci rendiamo ben conto che il generale comandante, da cui dipende l’organizzazione e, poi, l’esecuzione dell’impresa, è il Signore; proprio Lui! Non ci sono più distinzioni possibili: è veramente un’unica storia. Il riferimento al popolo di Dio – con il suo particolare vissuto, il suo dramma, il suo fallimento, la sua chiamata a maturare in una prospettiva di salvezza - diventa il criterio che ci aiuta ad interpretare ciò che avviene nella storia degli uomini. Insisto su questo punto perché, nel disegno del Dio vivente, per tutti gli uomini si prospetta una chiamata a percorrere una strada di ritorno alla vita, di salvezza. Tutti sono coinvolti in un’avventura, a dir poco, sconcertante; possiamo ben dirlo un’altra volta: un’avventura catastrofica! E in questa esperienza disastrosa – fatta di spudorate contraddizioni, di una frana dietro l’altra, di manifestazioni clamorose di prepotenza e di violenza, di sconvolgimenti delle coscienze e di indurimento dei cuori – in questo sconquasso generale, è presente l’opera di Dio per trasformare la storia degli uomini – che si chiama “Babilonia” – in storia di salvezza; per cambiare la storia dell’arroganza scatenata, con la quale gli uomini vogliono affermarsi come i protagonisti vittoriosi – ed è catastrofe! – in storia della conversione umana, che riguarda il cuore dell’uomo, la cui durezza è finalmente infranta. Il Signore si fa avanti Lui; non se ne sta a distanza, fuori dagli eventi per osservare e, poi, eventualmente giudicare. Nella visione del profeta, la presenza del Signore incide, scandaglia, passa attraverso tutte le contraddizioni di questo mondo; non è schizzinoso il Dio Vivente così da tenersi fuori scena; c’entra proprio in pieno, ma questa scena è un disastro. Lui, vedete, non viene per difendersi; viene per spiegare come tutto il dramma di questa storia sbagliata è ricapitolato da Lui all’interno di quella sua intenzione che era all’inizio e che è confermata come la realtà definitiva: un’intenzione di salvezza.
Leggiamo, cap. 13 – vv 3-5: “Io ho dato un ordine ai miei consacrati: ho chiamato i miei prodi a strumento del mio sdegno, entusiasti della mia grandezza. Rumore di folla sui monti, simile a quello di un popolo immenso. Rumore fragoroso di regni, di nazioni radunate…” (vedete l’esercito tumultuante) “…Il Signore degli eserciti passa in rassegna un esercito di guerra…”. Eccolo qui! Adesso ci vien dato anche il nome del generale e non possiamo più confonderci: è “il Signore degli eserciti”; è proprio Lui; il Dio vivente, il Santo, il Protagonista. “…Vengono da un paese lontano, dall’estremo orizzonte, il Signore e gli strumenti della sua collera, per devastare tutto il paese”. Orizzonte universale – come sappiamo – nel quale la scena della storia umana si configura inconfondibilmente come un campo di battaglia; ma – insisto – il Signore avanza; l’opera di cui Egli è protagonista non si realizza schivando il contatto con il dramma della storia umana, ma proprio attraversandola in tutto il suo spessore e in tutta la sua iniquità.
Il giorno del Signore
Seconda strofa dal v. 6 al v. 8. V. 6: “Urlate (qui risuona un ululato davvero ossessionante) perché è vicino il giorno del Signore…”. Questo è un termine che abbiamo già incontrato - lo ritroviamo qui – “il giorno del Signore” che incrocia quello di Babilonia, cioè il giorno della storia: è la storia umana visitata dal Signore! Questo è il giorno del Signore, che non è un tempo ritagliato, a sé stante, come una specie di momento magico che trova la propria scadenza opportuna in una nuvoletta che svanisce nel cielo. Il giorno del Signore è il giorno di Babilonia intersecato, inchiodato, attraversato dalla presenza del Signore. E’ il giorno del Signore questo: vv. 6 e 7. “… Esso viene come una devastazione da parte dell’Onnipotente. Perciò tutte le braccia sono fiacche, ogni cuore d’uomo viene meno; sono costernati, spasimi e dolori li prendono, si contorcono come una partoriente; ognuno osserva sgomento il suo vicino; i loro volti sono volti di fiamma”. Notate come gli uomini avvertano questo senso di intima sterilità: sono spossati, fiacchi, desolati; braccia che pendono senza più energia; e, poi, un’agitazione febbricitante, come se si trattasse di un parto; ma la nota determinante – che consente di ricapitolare ciò che sta ora avvenendo - è il dato della sterilità. Ognuno osserva sgomento il suo vicino, quasi a cercare uno specchio in cui illuminarsi, mentre in quello specchio trova soltanto conferma dello spasimo del suo inutile dolore.
La storia umana luogo dell’azione di Dio
Terza strofa, dal v. 9 al v. 16: lo sconvolgimento qui si fa cosmico: “Ecco, il giorno del Signore (torna quell’espressione)arriva implacabile…”. Ripeto ancora che non si tratta del giorno in cui il Signore finalmente realizza la punizione promessa; il “giorno del Signore” è il suo modo di rendersi presente là dove Babilonia voleva affermare l’attualità definitiva del “proprio” giorno; nel giorno della storia umana… il giorno del Signore. E questo giorno catastrofico – perché la storia degli uomini si chiama Babilonia – è il giorno visitato dal Signore; giorno nel quale il crogiolo di miseria in cui l’umanità si sta sconquassando è la condizione che il Signore rende propizia alla sua opera redentiva, alla sua volontà di salvezza, alla sua iniziativa per la conversione del cuore umano.
Vv. 9-11: “Ecco il giorno del Signore arriva implacabile, con sdegno, ira e furore, per fare della terra un deserto, per sterminare i peccatori. Poiché le stelle del cielo e la costellazione di Orione non daranno più la loro luce; il sole si oscurerà al suo sorgere e la luna non diffonderà la sua luce. Io punirò il mondo per il male, gli empi per la loro iniquità; farò cessare la superbia dei protervi… (vedete come vengono scandagliati, in modo sempre più preciso e penetrante, gl’ intimi atteggiamenti del cuore umano: l’iniquità, la superbia), “… e umilierò l’orgoglio dei tiranni” in quei giorni. E’ il giorno del Signore! Ma questo è il giorno di Babilonia? Babilonia si pavoneggia trionfatrice?... Questo è il giorno del grande terrore, del panico, della strage, della contestazione operata da Dio, in modo da frantumare la durezza del cuore umano. E allora leggiamo i vv. 12, 13 e 14 “Renderò l’uomo più raro dell’oro (più prezioso dell’oro) e i mortali più rari dell’oro di Ofir. Allora farò tremare i cieli (è il giorno del Signore e i cieli tremano) e la terra si scuoterà dalle fondamenta per lo sdegno del Signore degli eserciti, nel giorno della sua ira ardente. Allora, come una gazzella impaurita e come un gregge che nessuno raduna, ognuno si dirigerà verso il suo popolo, ognuno correrà verso la sua terra”. Vedete, tutti corrono al riparo, tutti cercano una soluzione ritenuta necessaria, adeguata al proprio interesse; la scena si va man mano frammentando; ciò che sembrava, nelle attese di Babilonia, una via per realizzare il dominio del mondo, in cui tutto doveva unificarsi, comporsi, ricapitolarsi - in un modo che si presumeva armonioso e definito – dà luogo, in realtà, ad una situazione totalmente diversa: la scena si sta polverizzando, sbriciolando e gli animi degli uomini sono frantumanti, il loro cuore si sta scomponendo nell’ esperienza di un disagio inguaribile. Vv. 14-16 “… ognuno si dirigerà verso il suo popolo, ognuno correrà verso la sua terra. (Ma) quanti saranno trovati, saranno trafitti, quanti saranno presi, periranno di spada. I loro piccoli saranno sfracellati davanti ai loro occhi; saranno saccheggiate le loro case…” (qui, a riguardo di Babilonia, viene annunciato quel che si legge nel Salmo 137: v. 1 “Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo…” e, poi, al v. 9 “Beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sbatterà contro la pietra”). Ecco qui: è il massimo dell’abiezione, un’infamia inaudita, una violenza spietata, una situazione nella quale gli animi sono a brandelli; il cuore umano così, finalmente, dovrà cedere sotto i colpi di questa aggressione. Ebbene, vedete: è il giorno del Signore!
Teologia delle nazioni
Quarta strofa, dal v. 17 al v. 22. Si tratta di una sommaria descrizione di ciò che avvenne quando la grande Babilonia – che domina la scena del mondo antico nel corso del VI secolo a.C. – viene anch’essa aggredita, conquistata e, poi, demolita ad opera di Ciro, re dei Persiani, il quale si avvale, per questa sua operazione di conquista, delle tribù guerriere dei Medi a lui alleate. Sono vicende che seguono di quasi due secoli Isaia, ma è evidente che la pagina che stiamo leggendo assume un significato “ricapitolativo” di tutto quel che, nella predicazione di Isaia, era già stata la sua teologia delle nazioni e della storia degli uomini, in quanto storia di salvezza. Qui, all’inizio della raccolta degli oracoli dedicati alle nazioni straniere (cap. 13), il nostro poema si pone come “prefazio” a tutti gli oracoli successivi.
Dice il v. 17: “Ecco, io eccito contro di loro i Medi…”. Ci siamo: adesso vengono usati nomi propri. Fino al v. 16 il poema si era espresso senza riferimenti diretti a personaggi o ad entità politiche identificabili con precisione. Dal v. 17, viene fatto il punto: abbiamo a che fare con “quelle” particolari vicende della storia antica – nelle quali è coinvolto il popolo di Dio, con la sua esperienza così drammatica com’è l’esilio e tutto ciò che ne consegue – tuttavia la pagina che stiamo leggendo assume l’intensità e l’eloquenza di un messaggio profetico che ci aiuta a guardare la storia degli uomini in tutto il suo svolgimento e in tutta la sua profondità, nel senso che qui è in questione la durezza del cuore umano che deve essere stretta, stritolata, aggredita e frantumata. Vv. 17-22: “Ecco, io eccito contro di loro i Medi che non pensano all’argento né si curano dell’oro…” (non sono mercenari; combattono per il puro gusto di combattere, senza bisogno di essere assoldati) “… Con i loro archi abbatteranno i giovani, non avranno pietà dei piccoli appena nati, i loro occhi non avranno pietà dei bambini. Babilonia, perla dei regni, splendore orgoglioso dei Caldei, sarà come Sodoma e Gomorra sconvolte da Dio…” (non ci sono eccezioni; nessuno viene risparmiato; non c’è spazio per raccomandati; la desolazione è generale) “… (Babilonia) non sarà abitata mai più né flagellata di generazione in generazione. L’Arabo non vi pianterà la sua tenda né i pastori vi faranno sostare i greggi. Ma vi si stabiliranno gli animali del deserto,…” (gli animali selvatici sono, qui, segno di una sorte lugubre a cui Babilonia non potrà scampare: resterà un ammasso di rovine) “… i gufi riempiranno le loro case, vi faranno dimore gli struzzi, vi danzeranno i satiri (le capre). Ululeranno le iene nei loro palazzi, gli sciacalli nei loro edifici lussuosi. La sua ora si avvicina, i suoi giorni non saranno prolungati”.
Il perché della caduta di Babilonia
Il cap. 14 si connette in modo diretto al precedente e ci dà, per così dire, la motivazione della condanna alla quale Babilonia è sottoposta. Ne abbiamo già compreso l’urgenza e colto il motivo. Ma adesso ci viene spiegata, in modo più preciso, la ragione per cui Babilonia, la Grande, deve essere condannata e per la quale il giorno della sua catastrofe è il giorno visitato dal Signore, in cui si compie l’opera di Dio, da cui dipende la pienezza definitiva di quel disegno che noi già siamo in grado di definire come opera di salvezza. Qui, più direttamente, viene interpellato il re di Babilonia e, attraverso questa figura emblematica (sarebbe Nabucodonosor) , viene chiamata in causa la superbia del cuore umano; è quella “durezza” di cuore sulla quale mi sono soffermato a più riprese. Il testo che ora leggiamo è composto da un prologo (vv. da 1 a 3), che è un annuncio di liberazione; da un canto satirico (vv. da 4 a 20), che costituisce il nucleo del testo; e da un epilogo (vv. da 21 a 23), che annuncia la sorte di Babilonia. Leggiamo, praticamente senza interruzione, visto che ormai tutti gli elementi utili ad introdurci e, poi, immergerci in questo poema sono a nostra disposizione.
Il ritorno dall’esilio
Il Prologo (vv. da 1 a 3). “Il Signore infatti avrà pietà di Giacobbe e si sceglierà ancora Israele e li ristabilirà nel loro paese. A loro si uniranno gli stranieri…” (vedete, il popolo condotto in esilio sarà riportato alla sua terra e si porterà dietro stranieri) “… che saranno incorporati nella casa di Giacobbe”. L’esperienza dell’esilio è, per il popolo di Dio, occasione efficacissima per rendersi conto di essere intrecciato con la storia di tutti i popoli della terra (questo è un discorso che abbiamo ormai acquisito). Israele torna dall’esilio e gli “stranieri” sono coinvolti in quell’esperienza di conversione che riguarda la vocazione di tutti gli uomini a qualunque popolo appartengano. “I popoli li accoglieranno e li ricondurranno nel loro paese e se ne impossesserà la casa di Israele nel paese del Signore come schiavi e schiave; così faranno prigionieri coloro che li avevano resi schiavi e domineranno i loro avversari. In quel giorno il Signore ti libererà dalle tue pene e dal tuo affanno e dalla dura schiavitù con la quale eri stato asservito”. Fin qui il prologo: un annuncio di liberazione per il popolo di Dio in esilio, che riguarda però tutti i popoli , nel corso della storia umana, perché per tutti c’è una storia di esilio che si prospetta. Appunto: una catastrofe cui non è dato sottrarsi, perché questo è il frutto al quale conduce l’iniziativa di Babilonia. Però, proprio quel passaggio attraverso l’esilio costituirà l’occasione propizia perché l’opera di Dio si compia in modo corrispondente alla sua intenzione antica e sempre attuale; perché questa sia, per tutti i popoli, la storia della conversione alla vita.
L’amaro sarcasmo per il re di Babilonia
Il canto (dal v. 4 al v. 20). Come ho accennato, si tratta di un canto satirico (un mashal). Sarcasmo davvero pungente quello che, qui, viene espresso nei confronti del re di Babilonia: “Allora intonerai questa canzone sul re di Babilonia e dirai: «Ah, come è finito l’aguzzino, è finita l’arroganza!...»”. E’ il titolo del canto, che introduce cinque brevi strofe.
PRIMA STROFA (dal v. 5 al v. 9): “«Il Signore ha spezzato la verga degli iniqui, il bastone dei dominatori, di colui che percuoteva i popoli nel suo furore, con colpi senza fine, che dominava con furia le genti con una tirannia senza respiro…»”; è un momento di stupore per coloro che, dopo aver sperimentato oppressione, dominio, violenza, adesso si guardano attorno e si rendono conto che il grande re di Babilonia si è ritirato, è venuto meno; è finita la sua arroganza. “«Riposa ora tranquilla tutta la terra ed erompe in grida di gioia…»”; sembra incredibile poter godere di una simile pacificazione “…«Persino i cipressi gioiscono riguardo a te e anche i cedri del Libano: da quando tu sei prostrato (notate questo “tu”, che il v. 4 ci ha precisato essere il re di Babilonia, al quale è rivolta l’intera canzone), non salgono più i tagliaboschi contro di noi…»”, così dicono i popoli della terra: la verga degli iniqui, il bastone dei dominatori, l’invadenza di chi percuoteva i popoli, tutto ciò non ci rende più la vita impossibile; un senso di sollievo, quasi una commossa testimonianza di stupore: è incredibile che le cose stiano veramente così! Però i fatti confermano: “«… non salgono più i tagliaboschi contro di noi. Gli inferi di sotto si agitano per te, per venirti incontro al tuo arrivo; per te essi (gli inferi, lo sheol) svegliano le ombre, tutti i dominatori della terra, e fanno sorgere dai loro troni tutti i re delle nazioni.». E’ stupefacente che la situazione sia questa; eppure è così: tu sei sprofondato e gli inferi (il mondo sotterraneo, dove dimorano coloro che sono passati e sono resi inutili) ti vengono incontro per accoglierti e, per così dire, farti festa!.
SECONDA STROFA (dal v. 10 al v. 12): sono appunto le ombre del mondo sotterraneo che celebrano l’arrivo del re di Babilonia festeggiandolo, a modo loro. “«Tutti prendono la parola per dirti: anche tu, sei stato abbattuto come noi, sei diventato uguale a noi…»; anche tu come noi. E’ la storia degli uomini che, di generazione in generazione, ci lascia in eredità questa constatazione: “anche tu, come noi!” anche tu sei stato abbattuto, “«Negli inferi è precipitato il tuo fasto, la musica delle tue arpe; sotto di te v’è uno strato di marciume, tua coltre sono i vermi. Come mai sei caduto dal cielo, Lucifero, figlio dell’aurora? Come mai sei stato steso a terra, signore dei popoli?»”. Come mai, anche tu come noi? E’ il canto delle ombre. Ormai non possiamo più confonderci: è la storia umana che si spalanca, per così dire, in un abisso infernale. Ci sei anche tu; vedi il tuo protagonismo, la tua presunta grandezza, il tuo successo, l’opera di conquista di cui tanto ti sei vantato? Vedi tu, re di Babilonia; tu sei sintonizzato con l’oscurità sterile e disperata delle ombre!
TERZA STROFA (dal v. 13 al v. 14). E’ la strofa centrale. “«Eppure tu pensavi (ancora il pronome di seconda persona, come al v. 10): Salirò in cielo, sulle stelle di Dio innalzerò il trono, dimorerò sul monte dell’assemblea, nelle parti più remote del settentrione…»”; è davvero il canto nel quale si esprime la superbia dell’uomo e la durezza del suo cuore. Le “parti più remote del settentrione” sono quelle in cui abitano le divinità del Pantheon cananeo. Tu dicevi questo: “Salirò in cielo…” “…«Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all’Altissimo»”. Tu cantavi questo; cantavi così; questo era il tuo programma, il tuo manifesto, il tuo progetto, il volto che offrivi al mondo; l’ideale con il quale catturavi le coscienze, trascinavi dietro di te i popoli, violentavi le memorie più sacre dei tuoi contemporanei e volevi rendere ogni cuore umano omogeneo al tuo.
QUARTA STROFA (il solo v. 15): “«E invece sei stato precipitato negli inferi, nelle profondità dell’abisso!»”. Di nuovo il grido delle ombre, che fa eco al tonfo di quella caduta, di quell’abbassamento, di quello sprofondamento; in consonanza con il canto, nella seconda strofa, delle ombre che accolgono il re di Babilonia (v. 10). Adesso, al v. 15, il grido che sa ben spiegare quel che è successo e che sta succedendo: stai precipitando!
QUINTA STROFA (dal v. 16 al v. 20), il commento degli spettatori: “«Quanti ti vedono ti guardano fisso, ti osservano attentamente. E’ questo l’individuo che sconvolgeva la terra, che faceva tremare i regni, che riduceva il mondo a un deserto, che ne distruggeva le città, che non apriva ai suoi prigionieri la prigione? Tutti i re dei popoli, tutti riposano con onore, ognuno nella sua tomba. Tu, invece, sei stato gettato fuori del tuo sepolcro, come un virgulto spregevole; sei circondato da uccisi trafitti da spada, come una carogna calpestata. A coloro che sono scesi in una tomba di pietra tu non sarai unito nella sepoltura, perché hai rovinato il tuo paese, hai assassinato il tuo popolo; non sarà più nominata la discendenza dell’iniquo»”.
Lo sterminio del “nome” di Babilonia
L’epilogo (dal v. 21 al v. 23). L’attenzione torna a Babilonia, nel suo complesso, e non più al solo re, che nel canto ci è stato presentato per spiegarci il motivo del fallimento della storia umana: l’arroccamento in sé stesso del cuore umano, nella pretesa di imporsi come portatore di un’iniziativa divina, sacra, assoluta; il motivo per cui oggi è Babilonia e per cui Babilonia è travolta. Oggi è catastrofe per Babilonia, ma… oggi è il giorno del Signore! Così canta il Profeta; così spiega, evangelizza il profeta: “«Preparate il massacro dei suoi figli a causa dell’iniquità del loro padre e non sorgano più a conquistare la terra e a riempire il mondo di rovine». Io insorgerò contro di loro (ripassa dal “tu”, rivolto al re, al “loro” che è Babilonia) – parola del Signore degli eserciti- sterminerò il nome di Babilonia e il resto, la prole e la stirpe – oracolo del Signore -. Io la ridurrò a dominio dei ricci, a palude stagnante; la scoperò con la scopa della distruzione – oracolo del Signore degli eserciti»”-. Ricordate che nell’antico racconto – in Genesi 11, v. 4 – gli uomini che si accordano per costruire una città e una torre vogliono “darsi un nome”: è il nome di Babilonia, che è sterminato! Non si tratta dello sterminio semplicemente di una città, di un territorio o di una popolazione; qui è lo sterminio di un nome; è lo sterminio di quella pretesa di impostare le relazioni, da cui dovrebbe dipendere la vita, come attestato dell’iniziativa umana che vuole affermarsi in sé stessa e nella ribellione a Dio. Ebbene, vedete, gli uomini che vogliono imporre questo criterio interpretativo della storia umana: per vivere dobbiamo farci a modo nostro, da soli, in nome di noi stessi; vivere per noi stessi, … è Babilonia! E il “nome” di Babilonia è distrutto. Notate: il Salmo 137 canta “sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo…”, i canali di Babilonia. Ma qui è “palude stagnante”, altro che canali di Babilonia! Qui l’acqua - di per sé fonte di prosperità, capace di trasformare il deserto in giardino -concorre alla sterilità del terreno e alla desertificazione dell’ambiente, perché è acqua paludosa, ferma e senza sbocchi!