Incontri di discernimento e solidarietà


2 - DISCUSSIONE ( 21 ottobre 2008 )


Gaia Rosini. La votazione della Risoluzione per una moratoria della pena di morte, in Assemblea Generale delle Nazioni Unite, a dicembre 2007, segna una pietra miliare non solo nella battaglia abolizionista ma nel progresso dei diritti umani, in quanto sancisce che la pena di morte attiene ai diritti umani, al pari dell’abolizione della tortura e della schiavitù.

La battaglia per la risoluzione per la moratoria è iniziata nel ’94 quando il Governo italiano la presentò, per la prima volta in Assemblea Generale, dove fu battuta per solo otto voti. Questo è un elemento molto importante perché all’epoca la risoluzione fu presentata senza un accurato lavoro di lobby nei confronti dei paesi che avrebbero votato.

La battaglia, successivamente, è stata fatta proprio dall’Unione Europa che per otto anni consecutivi ha presentato la risoluzione (ogni anno con un testo più forte) alla Commissione Diritti Umani dell’Onu a Ginevra, dove ogni anno è stata votata favorevolmente con un sempre maggior numero di voti a favore.

In due occasioni si è tentato di riportare la risoluzione in Assemblea Generale ma in entrambi i casi l’UE ha deciso, all’ultimo minuto, di ritirare la risoluzione, non portandola la voto, per timore che non passasse.

Nessuno tocchi Caino ha monitorato per anni, facendo previsioni di voto che dimostravano che i numeri per far passare la risoluzione c’erano. Anche nel 2006, anno in cui il Parlamento italiano votò per impegnare il governo a presentare la risoluzione in Assemblea Generale, anche da solo, se necessario, secondo di dati raccolti da NtC c’erano i numeri perché la risoluzione passasse. Anche in quell’occasione però l’Unione Europa decise di non esporsi, e il governo italiano disattese la richiesta del Parlamento, adeguandosi alla decisione dell’Ue.

E’ stato solo nel 2007, soprattutto in seguito ad un duro sciopero della fame e della sete di Marco Pannella, che il governo si è impegnato a presentare in ogni caso la risoluzione in Assemblea Generale, che infine fu presentata da una coalizione di paesi, passando, primo in Terzo comitato poi in Assemblea Generale, con un numero di voti molto simile a quello previsto.

La scelta della moratoria in vista dell’abolizione definitiva, invece dell’abolizione immediata, è una scelta pragmatica oltre che ideologica. Pragmatica perché è più facile ottenere che paesi che ancora hanno la pena di morte nei loro codici, sospendano per un periodo la pena di morte, che chiedere loro di abolirla tout court. Ideologica perché è più rispettoso di culture altre e diverse, chiedere di provare a stare senza pena capitale e valutare autonomamente la validità o meno dell’applicazione della pena di morte, senza che questa scelta venga imposta da fuori. Infatti la richiesta di abolizione è sempre stata vista, da molti paesi mantenitori, soprattutto asiatici, come una nuova forma di colonizzazione, l’ennesimo tentativo della società occidentale di imporre i propri principi. La moratoria bypassa questo problema dando modo ad ogni paese di decidere provando. Per questa ragione si è anche deciso, passo molto importante, che la risoluzione fosse presentata e cosponsorizzata non solo dall’Unione Europea ma anche da una serie di paesi di tutti i continenti, di storia, cultura e religione diverse.

Pur non avendo un valore vincolante, la risoluzione è un passo storico, che sancisce una presa di posizione, da parte del più alto organismo internazionale, senza precedenti.

È chiaro quanto sia importante, in tal senso, che il voto non resti una mera dichiarazione di principio ma si trasformi in atti pratici. Per questo si è chiesto che il Segretario Generale dell’Onu presentasse un rapporto sulla situazione nel mondo, a distanza di un anno, rapporto che è stato reso noto a settembre, e che rileva fatti positivi e miglioramenti in atto in particolare nel continente africano dove c’è un trend abolizionista molto spiccato.

Personalmente ritengo che l’abolizione della pena di morte, come sancito dalla risoluzione, salvaguardi la dignità umana. E intendo non solo la dignità del condannato a morte, ma anche e prima di tutto la nostra dignità, la dignità di chi non si mette nella possibilità di togliere una vita, e di non giudicare un essere umano da un unico atto, per quanto atroce, ma nella sua interezza.



Roberto Fantini. Pena di morte: come stiamo, dove stiamo, che cosa possiamo augurarci di riuscire ad ottenere nel prossimo futuro? Giustamente Kant parte dal “che cosa posso sapere”. A monte c’è indubbiamente una questione conoscitiva. Non è per essere idealista o neoplatonico, ma penso che dietro le azioni degli uomini ci siano dei pensieri che si concretizzano. E’ anche vero che i pensieri, a loro volta, sono alimentati dai fatti e dalle azioni in un circuito continuo, ma sicuramente il pensiero non è un qualcosa di secondario nelle scelte che l’uomo opera. Allora dico: il problema è innanzitutto un problema conoscitivo e coscienziale. Nel senso che quando noi diciamo sì alla pena di morte facciamo delle valutazioni che sono, innanzitutto, di carattere conoscitivo (e poi ovviamente di carattere pratico, di carattere etico, politico, economico…). Ora, come prima cosa, dobbiamo tenere ben presente il fatto che, attraverso epoche sconfinate, l’umanità intera in maniera corale ha sposato la tesi della legittimità, della piena liceità, della sensatezza, efficacia, giustizia di questa pena. E che soltanto da qualche breve tempo abbiamo cominciato a sollevare delle obiezioni a tale riguardo. Se ci fosse Piero Angela con l’orologio del tempo, vedremmo che solo nell’ultimo istante della storia dell’uomo abbiamo cominciato a dirci: “ma, insomma, la pena di morte siamo proprio sicuri che abbia senso, che funzioni, ecc …”. Quindi, dietro al dire sì alla pena di morte del passato e del presente c’è un pensiero che ragiona in un certo modo. E che continua a ragionare in un certo modo. Quindi non possiamo non porci questo problema: “come ragiona il pensiero che arriva a dire sì alla pena di morte?”. E’ vero che oggi la pena di morte, come diceva Gaia prima, è legata ad una infinità di questioni che hanno attinenza con i sistemi politici vigenti, con gli interessi economici da difendere ecc. ecc. Però, sicuramente, dietro c’è un modo di pensare che si traduce in modo di essere che, secondo me, non è più di tanto collegabile a determinate culture o civiltà, ma è un modo di essere che ha valenze universali. Come ha valenze universali il modo di essere alternativo. Non credo sia possibile trovare degli agganci diretti, forti, tra il dire sì alla pena di morte in teoria e in pratica e determinati contesti culturali. Si tratta di opzioni universali che sono perfettamente inscrivibili all’interno di qualsiasi contesto culturale, nel senso che ogni cultura umana ha dentro di sé tutti gli ingredienti per arrivare a dire sì come tutti gli ingredienti per arrivare a dire no. Si parlava prima di Francesco d’Assisi che si reca dal sultano scalzo, inerme e indifeso; egli aveva come suoi contemporanei dei signori che facevano viaggi più o meno simili ma con ben altre intenzioni, armati dalla testa ai piedi, con risultati molto diversi. All’interno, dunque, dello stesso momento storico, dello stesso istante culturale, noi troviamo realtà diversissime che convivono, che camminano l’una accanto all’altra, spesso sgomitando, spesso scontrandosi, ma che rappresentano ingredienti vivi, reali, efficaci, autentici, allo stesso titolo, di una stessa civiltà. Quello che valeva nel passato vale, secondo me, anche nel presente. Allora ragioniamo sui percorsi che facciamo, che abbiamo fatto e che continuiamo a fare quando arriviamo a dire sì o a dire no. Su questa strada ci può aiutare il testo della risoluzione per la moratoria, un testo essenziale che non pretende di essere un trattato filosofico, sociologico, sui motivi del sì e del no, ma che tocca alcuni punti fondamentali, tra cui la questione cruciale che è quella della dignità umana, della dignità della persona. E’ la prima cosa che si dice nel testo: “l’uso della pena di morte mina la dignità umana” e soltanto dopo si fa riferimento alla mancata dimostrazione dell’efficacia dell’effetto deterrente e, ancora più in là, si parla degli aspetti discutibilissimi dell’applicazione della pena di morte che non sia subordinata all’applicazione di una giustizia efficace, quindi con i rischi di produrre ingiustizia e danni irreversibili, irrimediabili. Secondo me, c’è un percorso molto coerente, molto intelligente in questa struttura argomentativa nello scegliere di partiredal concetto di dignità umana. La posta in gioco a livello culturale è proprio questa: il grande scontro culturale è proprio su questo, capire se siamo d’accordo nel porre il valore della dignità umana come valore fondamentale da difendere indipendentemente da valutazioni di ogni altro tipo, oppure non siamo d’accordo su questo e anteponiamo al valore della dignità umana e alla sua tutela una serie di altre valutazioni, valori, interessi, ecc. ecc. Lo scontro grande deve passare su questa frontiera. Questo deve diventare il fronte su cui battersi. E non c’è nessuna barriera culturale invalicabile all’interno di nessuna cultura umana che possa impedire un esito favorevole. Non solo non ci sono nessuna barriera od ostacolo invalicabili, da qualsiasi punto si prendano le mosse per arrivare ad affermare questo valore come valore centrale del nostro codice comportamentale universale, ma, secondo me, ogni cultura è ricca, ricchissima di elementi che possono favorire questo cammino con esito positivo. Se, però, ancora la questione è aperta, vuol dire che il tema della difesa e della promozione della dignità umana non è sufficientemente sentito da tutti. C’è un ritardo planetario su questo punto, non semplicemente un ritardo di alcuni paesi rispetto ad altri. Temo che ci sia un ritardo, diversamente manifestato, diversamente espresso, ma un ritardo grosso della civiltà umana su questo tema. Altrimenti non esisterebbero una infinità di cose orribili che ancora caratterizzano il nostro mondo. Allora dobbiamo fare qualcosa in più, anzi dobbiamo fare un’infinità di cose in più, affinché questo valore della dignità umana diventi davvero un valore centrale, una sorta di bussola morale per tutti i cittadini del mondo al disopra, al di là di tutte le identità possibili e immaginabili. Perché la pena capitale minerebbe in maniera così grave la dignità umana? Già le cose che diceva Gaia sono estremamente illuminanti. Alcuni grandi scrittori si sono fermati sul tema dell’attesa, ad es. Dostoevskij. Tema poco sottolineato in genere nei pubblici dibattiti. Già solo questo dovrebbe veramente aprirci gli occhi di fronte a quanto ci sia di orribile, di indicibilmente orribile all’interno di una condanna di un individuo ad essere eliminato con la forza, perché si innescano dei meccanismi di devastazione e disgregazione psichica nell’individuo. E’ una morte vissuta infinite volte nell’attesa usurante, nell’attesa sconquassante del momento, con tutto quello che implica a livello dell’alterazione della propria psiche. Credo che dovrebbe esserci un’attenzione maggiore di tutti noi a tutti i livelli, con tutte le nostre risorse, nei confronti di un’affermazione maggiore di questo valore della dignità dell’individuo. Naturalmente, mi rendo conto di fare discorsi che possono sembrare poco pragmatici e che si dilatano in prospettive molto ampie. Però credo che questa sia la strada. Se noi abbiamo raggiunto qualcosa e se continuiamo a raggiungere cose sicuramente importantissime che ci rallegrano, che ci danno fiducia nel nostro futuro, è proprio perché abbiamo cominciato a fare nostro questo valore centrale, a farlo diventare qualcosa di attivo dentro di noi. Cosa che per millenni non è stata. Gli altri problemi sono sicuramente strettamente correlati perché i motivi per dire no alla pena di morte sono innumerevoli, . Ogni argomentazione può essere supportata da argomentazioni minori e secondarie, ma tutte quante ruotano intorno a questo tema: l’uomo cos’è, cos’è la persona, che valore siamo disposti a concedere al singolo individuo. Se noi continuiamo a dire sì alla pena di morte, evidentemente non siamo disposti a conferire al singolo individuo un grande valore, una grande importanza. Giustamente Gaia diceva che non è casuale il fatto che la pena di morte trionfi con tanta facilità, e ha trionfato con grande facilità proprio in regimi totalitari, perché una democrazia che sia veramente tale dovrebbe spazzare via la pena di morte, reputandola come assolutamente inconciliabile con i principi fondativi dello stesso pensiero democratico e della stessa realtà di un paese democratico. Quindi, nel momento in cui si tollera la pena di morte, la si considera qualcosa di necessario, di utile, di indispensabile, giustificandola magari con i diritti delle vittime, giustificandola magari con il bisogno di garantire la pace e la sicurezza sociale, . In ogni caso, si fa una scelta di campo che è culturale, filosofica. Si dice che l’insieme, l’interesse collettivo, o almeno quello che si considera tale, è più importante del singolo, è qualcosa che, messo sul piatto della bilancia, pesa immensamente di più del valore delle singole persone. Quindi, il problema è la persona. Si tratta di vedere, appunto, come consideriamo la persona, come siamo disposti a vederla, di quali valenze carichiamo la figura della persona, dell’individuo. C’è un momento molto bello nell’opera di Ignazio Silone, “L’avventura di un povero cristiano”, in cui Celestino V, il papa mite, parla con il cardinale Caetani, che poi diventerà papa con il nome di Bonifacio VIII, e gli dice: “Vedi quella povera vecchierella coperta di cenci, sporca, affamata, accartocciata sulle scale della chiesa? Che cos’è, un essere insignificante? Sì, agli occhi del mondo potrebbe sembrare una persona priva di valore, ma è qualcosa di eterno, è qualcosa di immortale, è qualcosa di non quantificabile. Quell’essere lì che potrebbe sembrare l’ultimo della Terra, più vuoto di significato, di importanza, di dignità è invece qualcosa di incomprensibilmente grande, incomprensibilmente degno di essere apprezzato, stimato, rispettato. Perché tutto potrà cambiare, tutto potrà mutare, tutto cambierà, tutto muterà ma quello che rappresenta la persona come ‘sé’, come individuo, come essere pensante, come essere che ha sentimenti, emozioni, è qualcosa di unico, è qualcosa di irripetibile. Tutti i regni del mondo, gli imperi del mondo non possono essere messi sullo stesso livello. L’essere più infimo, più reietto della Terra vale tutti gli imperi del mondo.” A mio avviso, la questione è proprio questa: contano più gli imperi o contano più le persone? Alla fin fine, contano più le grandi strategie, i grandi calcoli, i grandi interessi da una parte, più o meno mascherati in nome degli interessi del popolo, della patria, della propria bandiera, della propria civiltà, ecc, ecc., o contano di più i singoli membri di quella che la Carta delle Nazioni Unite chiama la “famiglia umana”? Norberto Bobbio diceva una cosa molto bella, in conclusione di uno dei suoi saggi dedicati alla pena di morte: la battaglia contro la pena di morte potrebbe sembrare una battaglia secondaria rispetto a tante altre cose apparentemente più urgenti, ma, se noi riuscissimo per davvero a eliminare la pena di morte dalla faccia della Terra, riusciremmo ad attuare un capovolgimento straordinario nel modo di concepire il potere, il rapporto tra potere e individuo. Io penso che si possa capovolgere anche questo discorso e dire: sarà veramente possibile riuscire ad attuare questo progetto doveroso di eliminare la pena di morte dalla faccia della Terra soltanto quando riusciremo davvero ad attuare questo capovolgimento di prospettive, solo quando riusciremo a liberarci di un modo arcaico, anacronistico, primordiale di concepire il potere e la giustizia in rapporto al cittadino. Solo allora sarà possibile sperare che la pena di morte sia sconfitta in maniera duratura e non effimera.


Pietro Bognetti. Ho sentito con piacere l’introduzione di Gaia, la tua relazione invece l’ho trovata insopportabile. Già la citazione di Ingazio Silone mi ha colpito. Il fatto di mostrare la vecchierella a Bonifacio VIII. Mai nessuno ha pensato di condannare a morte la vecchierella. Diverso sarebbe stato se gli avesse mostrato un assassino, ad esempio l’assassino del piccolo Onofri, e gli avesse detto: vedi questo, ha ammazzato, ha stuprato, in questo si invera la dignità umana. Ma quello non è più un uomo. Perché ciò che sta dentro la pena di morte - per lo meno in una parte dei casi perché si ammazzano anche persone di cui si ha stima - è la percezione che alcuni non sono più uomini. Anzi non sono più neanche animali. Un altro aspetto è rappresentato dal fatto che è vero che la pena di morte viene presentata come lesiva dei diritti umani, però ci sono cose che ledono i diritti umani in maniera maggiore, per esempio la prigione. Per alcuni la prigione può essere peggio. Una cosa che mi ha sempre colpito è il discorso che fa Cesare in occasione della congiura di Catilina per evitare la pena di morte ai catilinari; dice: la pena di morte non è una sanzione che trattiene perché la morte è la cessazione di ogni male. Qui fa uno scivolone e poi Catone lo accusa di essere un materialista. Se tu non ti adegui alla legge c’è la sanzione, il procedimento per cui ad un certo momento la legge arriva con una forma di coercizione, riduce l’essere umano ad uno schiavo. Toglie al soggetto umano i suoi diritti, perché non è stato in grado, o dal punto di vista economico o dal punto di vista culturale, di adeguarsi. Tra l’altro tutto questo discorso sui diritti dell’uomo è un discorso occidentale, a nessun Orientale è mai venuto in mente di dire queste cose. Noi per esempio possiamo trarre dal Buddismo alcuni principi generali, ma in sé è estraneo alla mentalità dei pensatori pur eccezionali che vi si ispirano la costruzione di pensieri così congegnati sui diritti umani ecc. Quel che è interessante notare è che in Giappone ci sono 100 persone nel braccio della morte. Cioè in un paese di oltre 100 milioni di abitanti abbiamo 100 persone che devono essere uccise. Il che vuol dire che si è formato un meccanismo all’interno dei paesi più civilizzati per cui un individuo deve essere proprio la crème de la crème per essere sottoposto alla pena di morte. In questi paesi ci deve essere un altro motivo per insistere nel mantenere la pena di morte che non sia la lotta contro il crimine. La pena di morte ha un senso se tu ne ammazzi tanti. Dopo che se ne è ammazzati tanti, si eliminano… Quindi siamo in presenza di processi che rimuovono progressivamente la necessità della pena di morte. Allora ci si dovrebbe chiedere per quale reale motivo gli Americani e i Giapponesi si preoccupano tanto di mantenere la pena di morte. Che se ne fanno? Tra l’altro per loro diventa faticosissimo mantenerla. A proposito del Giappone è interessante vedere come la storia sia così lenta, cambi così lentamente. Il Giappone saranno più di cento anni che è entrato nella modernità eppure conserva la mentalità orientale del controllare, del controllare fisicamente i condannati. E’ una cosa tipica del mondo sinizzato il contegno, il come uno si deve comportare.


Paolo Tufari. Ho trovato Fantini non solo sopportabile ma molto illuminante. Perché credo che l’essenza del problema parta da un “se”. Se noi vogliamo essere coerenti con il principio che la dignità dell’uomo va intesa al punto tale che nessun altro uomo lo può sopprimere. Se partiamo da questo - nonostante tutto l’entusiasmo che abbiamo per le conquiste della scienza, per le conquiste della civiltà, per le conquiste dell’architettura, della medicina - se questo diventa il parametro per giudicare il nostro grado di civiltà noi adesso stiamo semplicemente balbettando perché il fatto che si debba considerare una vittoria che si sia ottenuta non l’abolizione ma solo una moratoria, che si sia ottenuta a fatica, che si sia ottenuta solo da una parte del mondo che rappresenta dal punto di vista demografico una minoranza, vuol dire che siamo veramente agli inizi del cammino della civiltà. La facilità con cui si accetta che si possa sopprimere una vita umana non da un delinquente, non in un atto di ira, ma che si possa sopprimere da parte della civiltà organizzata cioè dallo stato è inaccettabile se si parte da quel principio. Certo se si parte da un altro principio le cose cambiano, perfino la chiesa cristiana ha ritenuto che si potesse tranquillamente condannare a morte ed ammazzare. L’affermazione del principio della dignità umana ci porta alla divisione tra le civiltà. Bisogna avere il coraggio di dire: noi stiamo da questa parte. E’ comprensibile anche se non accettabile che ci siano interi continenti e intere civiltà - che per certi versi hanno fatto grandi progressi - che non siano arrivati a questo caposaldo che la persona umana – anche se si tratti di una persona molto cattiva - è intangibile. Intangibile soprattutto dallo stato.


Gaia Rosini. Paolo Tufari diceva “anche una persona molto cattiva”. Dal mio punto di vista quando si dice porre al centro la dignità umana, non si tratta tanto della dignità umana della persona che viene condannata a morte ma della mia dignità umana. Sono io che non uccido perché non voglio andare a ledere la mia dignità umana uccidendo un’altra persona qualunque cosa abbia fatto. La persona che hai di fronte chi la giudica? Per me è grave che lui stupri un bambino, per un altro è grave che lui gli abbia rubato la donna. In Iran hanno messo nel codice la pena di morte obbligatoria per gli apostati. Per cui se entriamo nella strada tortuosissima del decidere qual è il metro di giudizio da usare non ne usciamo. Quindi dobbiamo scegliere per la nostra dignità umana. Salvando la nostra dignità la salviamo in assoluto come principio. Tra l’altro questo principio è fondante del Buddismo quindi è presente anche nella cultura orientale.


Pietro Bognetti. C’è un bellissimo sutra buddista che parla di un re che non solo concede clemenza ai ladri ma siccome dice che rubare nasce dal bisogno materiale va loro incontro con delle sovvenzioni. Poi si accorge che uno ruba apposta per avere le sovvenzioni e allora dice: caro uomo e se io al rullo dei tamburi ti facessi tagliare la testa? E infatti al rullo di tamburi poi gli fa effettivamente tagliare la testa.


Giuseppe Lodoli. C’è un libro intitolato “Sulle regole” scritto da Gherardo Colombo in cui si tratta della società democratica in contrapposizione alla società autoritaria (che lui chiama ‘verticale’), nel quale si parla una dozzina di volte della pena di morte, ovviamente per condannarla come emblema negativo. In questo libro Gerardo Colombo, che non è solo un teorico e un idealista ma è stato un magistrato che ha operato per molti anni nel sistema reale della giustizia, sostiene che il valore ‘afflittivo’ della pena deve essere superato. Al posto della pena preferisce parlare di sanzione. E’ una posizione la sua, che si collega alla non nuova teoria del superamento del carcere, che a prima vista ci fa sobbalzare. Ma Colombo argomenta la sua posizione in modo tale da essere convincente. Il problema della pena di morte non è separabile dal problema della pena in generale. Si discute in particolare della pena di morte solo perché essa ne rappresenta l’esempio estremo, ma in realtà ci sarebbe da discutere tutto l’insieme delle pene per vedere come esse rispondano anche a bisogni di tipo emotivo oltre che alla necessità della prevenzione del crimine. Una cosa è tenere in situazione controllata un individuo che potrebbe nuocere gravemente agli altri, un’altra cosa è tenerlo segregato per farlo soffrire, cioè per realizzare la funzione affittiva della pena. Perché ci sono vari modi di fare prevenzione del crimine, a cominciare dalla ricerca e dalla rimozione delle sue cause sociali.


Roberto Fantini. Vorrei riprendere e sottolineare un argomento che ho già affrontato prima. Ad un certo punto dicevo, proprio per problematizzare la questione, che ogni cultura ha in sé ingredienti per favorire opposte tendenze e opposte posizioni. Dicevo questo perché occorrerebbe fare uno sforzo, per primi noi Occidentali che abbiamo dato per secoli dimostrazione dei danni rovinosi che l’eurocentrismo, che l’etnocentrismo, può produrre. Bisogna fare uno sforzo di comprensione dell’altro, uno sforzo per vedere innanzitutto la dialetticità ampia che esiste all’interno della nostra cultura e, nello stesso tempo, fare un grande sforzo per cercare di capire le dialettiche vivissime che attraversano le altre culture. Quando sentiamo parlare delle radici della nostra cultura, ad esempio nell’ambito del dibattito che c’è stato riguardo alla prefazione della Costituzione europea, dovremmo chiederci: “ Ma queste nostre radici quali sarebbero? Nelle nostre radici c’è veramente l’infinito. C’è l’infinito non solo all’interno delle nostre radici, ma all’interno di ogni singola radice. L’Illuminismo, sicuramente. Ma nell’Illuminismo che cosa c’è? Abbiamo un ventaglio di posizioni che sono di una grande ricchezza e anche di una grande conflittualità. Idem nel mondo greco. Nel mondo greco trovare qualcuno che era d’accordo con quello che si sosteneva nella scuola filosofica accanto non è facilissimo. Idem per quanto riguarda la civiltà cristiana, che è un territorio sconfinato dove sono nate un’infinità di pulsioni culturali, di fermenti culturali spesso in contrasto fra di loro, ieri come oggi. Diciamo: “la nostra cultura è così, noi siamo arrivati a certe cose sulla base della nostra cultura”. Sì, perché, ad un certo punto, all’interno della nostra cultura, a forza di scontri, sgomitate, tensioni, ha finito per prevalere un certo percorso rispetto ad altri. Altre culture contengono un groviglio di cammini diversissimi fra di loro e hanno altri percorsi che possono, maturando in una direzione analoga, fenomeno in buona parte già realizzato, arrivare a convergere. Ci stanno tutti i presupposti per far sì che da questo groviglio di dialettiche interne possano prevalere determinate posizioni. L’esperienza gandhiana, secondo me, è una di quelle che dimostra più chiaramente come si possa ragionare in sintonia con le proprie radici e, nello stesso tempo, in contraddizione palese con le proprie radici, di come si possa attingere alle radici altrui senza rinnegare le proprie. Credo nella possibilità dell’uomo di riuscire a distillare il meglio di qualsiasi cammino e, sulla base dei frutti migliori di ogni cammino, riuscire a trovare dei punti di convergenza. Nella storia, la riflessione, un certo tipo di sensibilità profonda, carica di umanità, si fanno strada. Ad un certo punto, le grandi barriere, i grandi fossati tra una civiltà e l’altra, pur non scomparendo del tutto, finiscono per diventare dei confini facilmente scavalcabili che non impediscono né di vedersi né di incontrarsi, di capirsi, né di costruire insieme un progetto di vita che possa risultare soddisfacente e convincente per visioni diverse del mondo che continuano ovviamente a sussistere, ad avere il diritto di sussistere.


Pietro Bognetti. Certo non possiamo permetterci di comportarci da uomini istintivi e ‘naturali’, andare lì e tagliare la testa alla gente. Ma attenzione a non staccarsi troppo dalla natura. Perché negare la pena, negare il rigore è staccarsi dalla natura. Stabilire dei principi ideali troppo elevati non è una cosa buona, può essere buona per alcuni però per una gran parte dell’umanità non è così. C’è un ruolo particolare che svolgono alcune associazioni di un’élite particolare che non mi convincono molto. Noi non abbiamo la pena di morte, in parte per la nostra tradizione, in parte perché i paesi ‘più civili’ hanno creato dei meccanismi giuridici per cui già pochi erano quelli che meritavano l’ergastolo e ancora meno erano quelli che andavano davanti al plotone d’esecuzione. Ci sono poi degli ammortizzatori, ad esempio i giornali non raccontano che cosa hanno fatto effettivamente i criminali, certi particolari si autocensurano, perché se certe cose venissero dette il numero di persone che chiederebbero a gran voce la pena di morte sarebbe di gran lunga maggiore. Tutto avviene attraverso meccanismi che hanno poco a che fare con gli alti ideali. Se noi prendessimo qualche decina di famiglie mafiose, le prendessimo e le ammazzassimo tutte… invece per tenere dentro costoro dobbiamo adottare meccanismi giuridici che cominciano ad esserci rinfacciati. Costoro da dentro il carcere continuano a muovere le loro pedine, ad ammazzare, a governare, a governare regioni. Allora facciamo attenzione quando costruiamo queste belle teorie: eliminiamo le prigioni, eliminiamo…


Giuseppe Lodoli. Dobbiamo tener conto che l’abolizione della pena di morte è sempre un’operazione di vertice. Prima viene postulata degli intellettuali, poi per convenienza viene attuata dei politici. L’abolizione della pena di morte non è mai avvenuta per richiesta popolare. Tanto per fare degli esempi: quando è stata abolita la pena di morte, sia in Francia che in Italia il 70-80% della popolazione era a favore. In Italia solo adesso si è arrivati ai due terzi di contrari alla pena di morte partendo da un 71% a favore e 29% contrario nel 1948 quando questa pena è stata abolita con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana. Prima del 1994 la maggioranza degli Italiani era ancora a favore della pena capitale. Che in Italia, sessant’anni dopo l’operazione di vertice, la tendenza verso l’abolizione si consolidi sempre più è dimostrato dal fatto che i più contrari sono i giovani, coloro che hanno studiato di più, coloro che vivono nelle grandi città del centro nord, coloro che sono impegnati politicamente, in parrocchia, nel sociale, insomma coloro che costituiscono la parte più avanzata della popolazione.


Roberto Fantini. Una breve riflessione. Il magistero della natura mi lascia molto perplesso. Non c’è niente di più opinabile del concetto di natura. Non esiste un concetto oggettivo di natura. Esistono soltanto tante filosofie che hanno partorito diversi concetti di natura. Si tratta di vedere quale ci piace di più. Il Nazismo ha prodotto un suo concetto di natura, ha fatto un grosso sforzo per sintonizzarsi con quelle che venivano considerate le leggi-madre della natura. Io penso che le cose migliori che l’uomo ha prodotto sul piano culturale le ha prodotte proprio mettendosi in chiara contrapposizione con quelli che sembrerebbero essere i meccanismi dominanti della natura. I concetti di libertà, di uguaglianza, ad esempio, di naturale non hanno niente. Ci sono filosofie che, per molto tempo, si sono appellate alla natura per dare forza a questi principi, ma era una necessità storico-culturale, come in altri contesti ci si è appellati alla “volontà divina”. E’ un’elaborazione concettuale del tipo:” Va bene, i leoni si sbranano tra di loro, i lupi si sbranano tra di loro, il pesce grande mangia il più piccolo… ma a me non me ne importa niente, non me ne importa assolutamente niente! Come essere umano io dico no a tutto questo. Dico no al fatto che il soggetto malato, claudicante, fragile, malnato venga eliminato nella grande fucina della natura. Dico no perché per me è un valore da difendere al pari dell’individuo più prestante, baldanzoso e forte. Cosa c’è di più ‘innaturale’? Se la natura significa questo, dico no!” Ma la natura significa anche altre cose. Ci sono stati casi documentati di mamme lupo che hanno allattato cuccioli di altre specie compresa quella umana. E così anche mamme orse e mamme scimmie. Anche quella è natura. L'empatia, forse, è la cosa più naturale (e, nello stesso tempo più misteriosa!) che possiamo incontrare nella natura stessa. Bisogna soltanto avere gli occhi giusti per vederla.


Pietro Bognetti. Quando si identifica un principio e a questo principio si sacrifica tutto il resto, quando si dice questo principio è più importante degli altri, si compie un procedimento di idealizzazione, come direbbe Freud. Quando il principio da noi ritenuto il più importante viene isolato da tutto il resto in maniera eccessiva, allora si perde il senso della realtà. E’ vero che la pena di morte è una cosa terribile, di grande forza, ed è giusto eliminarla. L’errore è quello di portare tutto questo soltanto su un piano di carattere ideale. La pena di morte diviene di per sé di scarsa importanza nella nostra vita quotidiana. Le persone che commettono dei reati che in altri tempi nella nostra tradizione avrebbero meritato la pena di morte sono in numero sempre più limitato. Oggi noi abitualmente non scendiamo a vie di fatto per strada, c’è una diminuzione della violenza nella vita quotidiana, checché se ne dica. Allora tutta una serie di reati vengono catalogati in maniera diversa, per cui alla fine solo pochissimi arrivano a meritare la pena di morte. Nei paesi che hanno prodotto l’idea dell’abolizione della pena di morte, in Europa, hanno agito una serie di meccanismi che sono anche ideali ma non sono solo ideali. Questi meccanismi hanno prodotto dei risultati. Adesso però ci si accorge che si riverificano dei fatti che offendono la coscienza di alcuni. Abbiamo un venir meno dalla sanzione e si verifica un ripensamento, persone che ieri pensavano in un modo oggi pensano diversamente. C’è pertanto una necessità di dialogo anche con quelli che oggi chiedono la pena di morte. Altrimenti si creerà una categoria di persone illuminate che influenzeranno pure il prossimo ma che perderanno il contatto con la maggioranza della popolazione. Qualche volta l’idealità si deve confrontare con ciò che non è ideale.


Paolo Tufari. Diciamo che l’idealità è l’orizzonte. All’orizzonte si tende, ma mentre ci si avvicina esso si sposta. L’importante però è che ci siano persone, movimenti, come si diceva una volta, profetici. Capitini era un profeta della non violenza, arrivava al punto di rifiutare un’insalata se c’era un piccolo verme tra foglia e foglia per non nuocere ad un essere vivente. Non è pensabile di essere tutti Capitini, tuttavia se c’è un ideale dobbiamo misurare quanto ne siamo lontani. Quello che dicevi prima è importantissimo. Non si riduce tutto a pena di morte sì, pena di morte no. C’è il problema del perché si dà la pena di morte. Dare la pena di morte ad un terrorista o ad uno stupratore assassino seriale è una cosa, un’altra cosa è darla a due ragazzi che si baciano in pubblico e sono dello stesso sesso. Quel che succede in Iran grida vendetta, e la stessa cosa sta succedendo in Afghanistan dove il presidente Karzai in qualche modo è costretto a venire a patti con i Talebani. L’altro giorno i Talebani hanno ucciso a freddo una operatrice umanitaria solo perché predicava il Cristianesimo. C’è un richiesta di pena di morte istintiva, ‘naturale’ come per esempio quella contro lo stupratore, il massacratore, e una richiesta da parte degli stati che vogliono imporre una loro morale, un loro modo comportarsi. La discussione sulla pena di morte apre uno spettro di analisi sul mondo contemporaneo che ci permette di diversificare i livelli di civiltà umana e giuridica nell’insieme degli Stati che ancora ammettono la pena di morte.