Incontri di discernimento e solidarietà
 
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Vittime di guerra

Gegia Adinolfi, di Emergency



Vorrei riallacciarmi a ciò che disse Bertotto sulla possibilità di tutelare i diritti umani in situazione di guerra. Mi pare che questa sia una contraddizione, mi pare impossibile pensarlo. Pur con tutta la stima che abbiamo per Marco Bertotto.


Sapete come sono chiamate le vittime di guerra nel linguaggio politico o militare? Sono chiamate ‘effetti collaterali’. La scelta di questi termini fa capire tutto quello che c’è dietro. Le vittime sarebbero una conseguenza inevitabile di un atto che è inevitabile. Si dà per scontato che la guerra è qualcosa che si deve fare comunque. Non si vorrebbe, sono tutti d’accordo, ma è necessario farla. Chi ne fa le spese, morti e feriti, ne sono una conseguenza inevitabile.


Noi invece gli ‘effetti collaterali’ li chiamiamo vittime. Questa parola ci accontenta un po’ di più ma anche la parola ‘vittima’ è una scatoletta chiusa presa dal congelatore: non odora, non fa vedere niente di quello che c’è dentro. Che cosa ci dice la parola ‘vittima’ di una persona che ha perso la vita o la salute? Niente. Era una donna, un uomo, un capo famiglia che manteneva molte persone, o anche un anziano che aveva comunque un futuro davanti. Il concetto di vittima non ci dice nulla, è collegato soltanto ad un numero. Si dice ‘ci sono state cinque vittime’ e allora pensiamo ‘meno male che sono state poche’. Peccato che quelle cinque persone non siano qui a compiacersi per quante poche siano state le vittime. Oppure diciamo ‘le vittime sono cinquanta’ ma possiamo abituarci anche a questo: pensate all’Iraq di tutti i giorni.


Delle vittime, quando ci viene dato, ci viene dato soltanto un numero. E qui c’è un’altra mistificazione: nei media si dà per scontato che assurga al ruolo di vittima soltanto colui che ha perso la vita. Quando invece in moltissimi contesti forse perdere la vita non è neanche la cosa peggiore. Pensate alla situazione che si crea in un’economia agro pastorale quando un uomo si trova, dall’oggi al domani, senza gambe e con una famiglia alle spalle.


Dunque, visto che delle vittime conosciamo soltanto i numeri, parliamo di numeri. Intorno alla prima guerra mondiale, i morti di guerra erano per il 90% militari e per il 10% civili. Infatti allora si combatteva uomo contro uomo. Gli obiettivi erano militari, le vittime erano militari in larghissima maggioranza. Chi combatteva era assolutamente cosciente del suo atto, chi sparava lo faceva contro una persona che gli stava vicino, chi dava un colpo di baionetta vedeva cadere e morire la persona che aveva colpito. E molti dei cosiddetti ‘disertori’ (un termine infamane) cioè di coloro che lasciavano il campo di battaglia, lo facevano non solo per paura (cosa a mio parere onorevolissima) ma anche perché preferivano rischiare la vita pur di non continuare ad uccidere.


Che cosa succede intorno alla seconda guerra mondiale? Due fattori lavorano insieme per produrre danni veramente catastrofici alla popolazione civile. L’aviazione da una parte e la progettazione e la produzione di armi sempre più complesse e letali dall’altra. Fino ad arrivare ai nostri giorni in cui il 93% delle vittime è civile, contro un 7% di vittime tra il personale combattente. Quindi abbiamo un ribaltamento totale. Infatti dall’alto è possibile colpire tutto quello che si vuole, perciò non sono solo obiettivi cosiddetti militari o strategici ad essere colpiti (ponti, stazioni, porti, aeroporti) ma anche ospedali, scuole, biblioteche, musei… Che cosa si ottiene facendo questo? Non soltanto un altissimo numero di vittime civili (perché per esempio anche i mercati vengono colpiti) ma danni che rendono il paese colpito prostrato per decenni. Infatti quando si distruggono strutture e infrastrutture un paese perde anche la speranza di potercela fare. Pensiamo a quello che sta succedendo in Iraq. I conflitti sociali precedenti diventano più acuti, se ne creano di nuovi. Non c’è più speranza.

Chi può cerca di scappare. Lo fa per i figli, lo fa per se steso, lo fa perché non c’è alternativa. Così migliaia e migliaia di profughi vanno a concentrarsi in una fettina di terra al confine, tra chi non li vuole da una parte e chi non li vuole dall’altra. E’ una situazione che è vissuta da tutti all’inizio come temporanea: si va via finché le cose si calmino. Dopo un po’ diventa chiaro che quella è invece una situazione che sta diventando drammaticamente stabile. I profughi non possono più tornare per vari motivi ed anche perché ad esempio il loro territorio è minato.


Le mine sono un’altra eredità longeva della guerra. Parlo in particolare di alcune regioni ad economia agro pastorale in cui Emergency è presente. Qui è proprio dalla terra che coltivano e in cui fanno pascolare gli animali che le persone traggono il cibo per la sopravvivenza. I territori sono minati. E parliamo anche del numero delle mine per capire le dimensioni del problema. Si stima che nel mondo ci siano tra i 100 e i 120 milioni di mine. Pronte per esplodere. Con concentrazioni in certi paesi altissime come nel Kurdistan iracheno o nella Cambogia. In Kurdistan ci sono tre volte più mine che abitanti. Ogni abitante ha a disposizione tre mine su cui saltare. Altrettante mine sono pronte nei depositi.

Che cosa hanno in comune le mine? Hanno in comune il fatto di costare poco e di vivere tanto. Una mina costa dai 3 ai 50 dollari e può rimanere attiva per oltre 50 anni. Per disinnescarla, ammesso che sia trovata, ci vogliono intorno ai 1.000 dollari.

Un’altra cosa in comune tra le mine è l’obiettivo: le persone, in particolare i bambini, gli adolescenti. Andando a colpire i bambini e gli adolescenti si va a colpire la speranza. Si toglie di mezzo un potenziale combattente e si carica il paese del peso di prendersi cura di un mutilato. Perché un altro fattore comune tra le mine è il fatto che in maggior parte non uccidono ma mutilano. Un mutilato costa molto di più di un morto.


Vediamo le principali categorie di mine. Ci sono le mine a pressione, quelle che esplodono quando ci si mette un piede sopra. Provocano mutilazioni degli arti inferiori e a volte dei genitali. Se ci va sopra un adulto, sarà fortunato se perde una gamba al di sotto del ginocchio e trova qualcuno che gli mette una protesi. Se il malcapitato è un adolescente, che perde tutte e due le gambe, magari sopra il ginocchio, avrà bisogno di molte protesi successive, sia per la crescita veloce del soggetto, sia perché le articolazioni sono le parti più delicate delle protesi e si possono facilmente deteriorare. Poi ci sono le mine a carica esplosiva, tra cui vi sono le terribili mine giocattolo. Sono mine che esplodono in mano. Se avete letto il libro di Gino Strada “Pappagalli verdi” sapete che c’è una mina, usata su larga scala dai sovietici durante l’invasione dell’Afghanistan, il cui vero nome è PFM 1 ma che fu chiamata dagli Afgani ‘pappagallo verde’. Infatti essendo leggera, quando veniva lanciata dagli aerei ondeggiava come i pappagallini verdi che ci sono in Afghanistan. In realtà assomiglia ad una grossa farfalla. Pensate che ingegneria diabolica c’è dietro quest’arma. La mina ha due alette. In una, un pochino più grossa dell’altra, c’è un liquido che per far scoppiare la mina deve raggiungere il detonatore. Perché questo accada le alette devono essere un po’ flesse. La mina è a terra. E’ di un bel colore verde. Un ragazzino ne è inevitabilmente attratto. La prende e comincia a giochicchiare. Un bambino è raramente solo, tanto meno quando ha in mano qualcosa di interessante. Ecco che si avvicina un altro bambino, poi un altro e un altro. Quando la mina esplode produce al bambino che la tiene in mano una menomazione irreparabile: colpisce mani ed occhi. Il bambino che tiene la mina in mano perderà quasi certamente le mani e la vista. E tutti i bambini che sono intorno ne avranno comunque delle ferite. Poi ci sono le mine a frammentazione. Queste mine, a differenza delle altre due, sono state studiate per uccidere, come la mina di produzione italiana Valmara 69. Sul terreno c’è un filo assolutamente invisibile. Quando qualcuno inciampa su questo filo, la mina si alza di un metro e ruotando lascia partire dei frammenti metallici che colpiscono le parti vitali. E’ mortale per chi è nel raggio di 25 metri dal punto in cui esplode e ferisce chi è entro 200 metri.


Pensate che ogni 20 minuti, nel mondo c’è qualcuno che salta su una mina. Di queste persone il 50% riesce bene o male a sopravvivere, l’altro 50% muore, spesso dissanguato perché non ce la fa ad arrivare in tempo ad un posto in cui possa essere curato. Questo è il terreno di lavoro di Emergency.


Ora vorrei dirvi brevemente qual è la risposta della nostra associazione a queste situazioni. Emergency è un’organizzazione sanitaria per cui la risposta ai bisogni delle persone a cui veramente tutti i diritti sono negati è una risposta prevalentemente sanitaria. Ci sono strutture, ci sono ospedali, ci sono posti di primo soccorso, ci sono centri di medicina di base. Gli ospedali di Emergency sono ospedali piccoli. Come vi può dire Giovanni Senni qui presente, che è uno dei nostri medici che ha una grossa esperienza in Sierra Leone, sono ospedali agili che hanno tra gli 80 e i 120 posti letto.


All’inizio si forniva soprattutto un servizio di chirurgia di guerra, poi man mano in diversi ospedali si sono aperte delle corsie di medicina. Poi ci sono i posti di primo soccorso, che sono importantissimi. Pensate alle persone che saltano sulle mine e non ce la fanno ad arrivare ad un ospedale. Queste persone possono arrivare a posti di primo soccorso disseminati sul territorio in grado di fornire le prime cure e un’ambulanza. Abbiamo infine i centri di medicina di base. Pensiamo alle donne in Iraq o in Afghanistan che non possono raggiungere con i loro bambinetti un lontano ospedale. Quindi un bambino che ha una dissenteria e potrebbe essere curato con un intervento tempestivo non ce la fa. Quindi centri di medicina di base accessibili a strati sempre più larghi di popolazione. Poi ci sono gli interventi nelle carceri, questi si fanno in Afghanistan. Emergency è riuscita ad entrare nelle carceri perché è un’associazione che si è dichiarata e dimostrata neutrale, aperta e non discriminatoria. Quando si sta parecchio tempo in un paese quello che si fa viene riconosciuto. Ci è stato possibile entrare in queste carceri e prestare un’opera socio sanitaria. In Afghanistan c’è soprattutto la cura della tubercolosi, malattia dilagante. Nelle celle piccole e fredde con tante persone insieme l’infezione si propaga rapidamente.


L’intervento di Emergency non si ferma qui. Si è visto molto presto che ricucire una ferita non basta. Pensiamo a un qualunque Mohamed che faceva il contadino e salta su una mina e perde un arto. C’è bisogno di aiutarlo a riprendere un’attività lavorativa. Emergency promuove laboratori artigianali per sarti, tappezzieri, falegnami pagando un locale per i primi sei mesi e fornendo le attrezzature per cominciare le attività. Poi sarà l’interessato a rendersi autonomo. Sono interventi sociali che costano poco ma che hanno spesso un ritorno enorme perché aiutano a ricucire il futuro di una persona dandogli una possibilità. Sono caratteristiche comuni agli interventi di Emergency la formazione del personale locale, creare lavoro e realizzare strutture che possano essere autonome. Per esempio la larghissima maggioranza del personale ospedaliero è locale, con una percentuale di personale straniero che va dal 2 al 10 per cento come massimo.


Occorre sottolineare che l’intervento di Emergency è gratuito. La persona da quando è ammessa a quando esce dall’ospedale non deve pagare assolutamente niente. Si cura particolarmente la qualità dell’assistenza e qui torniamo alla questione dei diritti. Come associazione sanitaria Emergency risponde ad un bisogno ma riconosce che il bisogno alla salute ce lo abbiamo assolutamente tutti e la salute deve essere un diritto di tutti. Quindi a queste persone diamo lo stesso tipo di assistenza che vorremo per noi stessi o per una persona a cui vogliamo molto bene. All’interno delle strutture di Emergency c’è un’assistenza di alta qualità.


In Italia raccogliamo fondi per sostenere le strutture e nello stesso tempo facciamo il massimo per estendere una cultura di pace testimoniando quello che si vede, testimoniando quello che si fa, in incontri come quello di stasera.


Che cosa dobbiamo fare noi per queste vittime lontane? Per accorciare questa distanza vi racconto una vignetta di Vauro, un giornalista del ‘manifesto’ che è un grande disegnatore. E’ difficile raccontare un disegno ma ci provo. C’è la figura di un bambino senza una gamba, con una gamba di legno e due stampelle. La faccia non c’è. La faccia è contornata da una linea tratteggiata che racchiude un cerchio vuoto. Sopra c’è scritto ‘Istruzioni per capire cos’è la guerra’, sotto c’è scritto ‘Ritagliate da una foto la faccia di vostro figlio e attaccatela all’interno della linea tratteggiata.’