Incontri di discernimento e solidarietà
 
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LECTIO MUNDI 2005 - I DIRITTI UMANI. CODIFICAZIONE E VERIFICHE

L’ACCOGLIENZA AI RICHIEDENTI ASILO IN ITALIA

Relazione introduttiva di P. Francesco De Luccia s.j.

Presidente della Fondazione Astalli per l’assistenza ai rifugiati



Presentazione

Nel quadro più generale dei diritti umani negati a danno di persone e popolazioni costrette a lasciare la propria terra pur di sopravvivere, quella dei rifugiati è forse tra le condizioni peggiori. Sono persone costrette a lasciare il proprio Paese per sfuggire a ritorsioni inique e violenze compresa la pena di morte per mano del regime al potere o della fazione più forte. Attualmente, lo status di rifugiato è riconosciuto a circa 10 milioni di persone nel mondo, come risulta dai rapporti presentati periodicamente dall’ Unhcr, Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati A questa categoria appartengono i richiedenti asilo, persone che lasciato il proprio paese d’origine e avendo inoltrato una richiesta di asilo, sono ancora in attesa di una decisione da parte delle autorità del paese ospitante riguardo al riconoscimento dello status di rifugiato.

Come per altri campi dei diritti umani, però, c’è spesso una sensibile distanza per non dire un vero distacco tra le garanzie formalmente riconosciute a livello internazionale e la prassi vigente nei singoli Stati. Per l’Italia in particolare, la comunicazione del P. Francesco De Luccia S.J., da anni impegnato attivamente su questo terreno, sarà utile per conoscere meglio quali sono al presente i problemi più seri per l’accoglienza dei rifugiati nel nostro Paese e come un’ opera tipo la Fondazione Astalli può cercare di risolverli nei limiti delle sue disponibilità.



RELAZIONE


Sono un gesuita e dal 1994 mi occupo del Centro Astalli che offre accoglienza a richiedenti asilo e rifugiati. Si tratta di una esperienza interessantissima sia per le persone che si incontrano, sia per le soluzioni che bisogna in un modo o nell’altro trovare per venire incontro a situazioni umane di estrema difficoltà. In quest’ ultimo periodo sono stato assegnato ad altri incarichi e ho dovuto allentare un po’ i miei contatti con il Centro, lasciandone la direzione ad un altro gesuita più giovane che si occupa dell’ intera gestione. Tuttavia continuo a collaborare in questa opera attraverso l’organismo della Fondazione del Centro Astalli e posso perciò parlarvene ancora per esperienza diretta.

Partirò da alcune considerazione generali sullo status del rifugiato politico secondo la legislazione vigente e le procedure da seguire per ottenerlo, per poi passare ad illustrarvi il tipo di attività promosso dal nostro Centro, dalla sua costituzione nel 1981 ad oggi.


La problematica dell’asilo politico è regolamentata dalla Convenzione internazionale di Ginevra per il diritto all’asilo politico. E’ una convenzione delle Nazioni Unite che risale al 1951; fatto non secondario, perché all’ epoca i firmatari del documento avevano davanti a sé lo scenario dell’Europa del secondo dopoguerra e quindi la convenzione pensa ai rifugiati di quel momento e più in particolare ai rifugiati dell’Europa dell’Est. lì. Questo è uno degli aspetti che non va trascurato: in Europa tutta la problematica sui rifugiati si rifà a una regolamentazione di 50 e passa anni fa. Cosa dice la Convenzione di Ginevra? L’articolo 1 definisce la figura del rifugiato: una persona che non intende avvalersi della protezione del suo paese a causa di una minaccia, attuata o comunque temuta, per una o più di queste imputazioni: reati di opinione, appartenenza a gruppi politici o a determinati gruppi etnici, di razza o di religione. Quindi il rifugiato è una persona che nel suo paese è stata perseguitata o è a rischio di persecuzione; perciò ne varca i confini in cerca di sicurezza e libertà altrove. Parliamo di soggetti che hanno lasciato il proprio paese varcandone i confini. Se invece restano all’interno del proprio paese, le Nazioni Unite o un altro Stato non possono mettere sotto la loro protezione questa persona che resta invece sotto la giurisdizione del suo Stato di appartenenza. In questo caso si parla di “sfollati interni”, persone costrette ad abbandonare le proprie case per gli stessi motivi dei rifugiati ma che a differenza di questi non hanno attraversato un confine internazionale.

Per molto tempo, gli Stati che hanno firmato la Convenzione di Ginevra davano asilo politico soltanto alle persone perseguitate dai loro governi. Se invece c’era una guerra tra gruppi etnici - guerra dalla quale il governo almeno formalmente rimaneva estraneo

- non si concedeva asilo politico. Questo è stato per esempio il caso dei tanti algerini arrivati da noi a metà degli anni novanta ma che non venivano riconosciuti “rifugiati”, perché la persecuzione non dipendeva dallo Stato. Oggi l’interpretazione di questa parte è più estensiva, anche se in linea di principio il riconoscimento dell’asilo politico resta collegato all’ incapacità o alla non volontà di proteggere adeguatamente i diritti essenziali delle persone da parte dello Stato di origine.


L’Italia ha firmato la Convenzione di Ginevra nel 1954. Poi la Convenzione ha avuto delle modifiche nel 1967, firmate definitivamente dall’ Italia nel 1990, anno della Legge Martelli sull’ immigrazione. L’Italia, però, pur avendo firmato questa Convenzione non ha mai fatto una legge sull’asilo politico. Siamo l’unico paese europeo che non ha ancora una legge organica su questa materia, e l’unico punto di riferimento restano le poche righe dell’articolo 1 della Legge Martelli che parlano dell’asilo politico e che, per quanto abrogata nel 1998, ancora fa testo su questo problema.


In realtà, c’è un altro punto essenziale di riferimento su questa materia ed è l’ articolo della Costituzione italiana che parla esplicitamente di asilo politico:“L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici.” ( Parte I, Diritti e doveri dei cittadini, Princìpi fondamentali, art.10).


Alla lettera, quest’ articolo della Costituzione ha una portata molto più ampia rispetto all’articolo 1 della Convenzione di Ginevra perché parla di asilo politico e di protezione offerta alle persone che provengono di paesi nei quali non vi sono le stesse garanzie democratiche che esistono in Italia. Questo sulla carta, perché quest’articolo della nostra Costituzione è scarsamente applicato, nonostante che una celebre sentenza della Cassazione del 1999 avesse dichiarato che questo articolo ha carattere immediatamente operativo proprio perché fa parte della Carta Costituzionale e non ha bisogno perciò in senso stretto di un’ altra legge per essere esecutivo.


In Italia tuttavia chi ha la facoltà di concedere lo status di rifugiato è una Commissione legata alla Convenzione di Ginevra. Questa Commissione applica la Convenzione di Ginevra e solo in seguito la persona richiedente asilo può appellarsi al giudice contro le decisioni della Commissione e chiedere che gli vengano applicate le garanzie riconosciute dall’ articolo 10 della nostra Costituzione.


Per capire come sia faticoso il cammino di un immigrato che arriva in Italia e chiede asilo politico, occorre tener presente la legislazione che regola tutta questa materia e la trafila burocratica che deve fare il richiedente.


Attualmente sull’ intera materia dell’ immigrazione vige la legge Bossi-Fini venuta a sostituire, nel luglio del 2002, la Turco-Napolitano in vigore dal 1998. Tra queste due leggi c’è molta differenza. La Turco-Napolitano partiva da una visione profondamente civile che puntava a facilitare l’inserimento dei nuovi cittadini mentre segnava un irrigidimento di fronte agli irregolari. Secondo me, era una legge equilibrata e soprattutto una legge fatta con un ampio processo di coinvolgimento della base (le associazioni, per esempio); inoltre la Turco-Napolitano aveva messo in piedi vari comitati: uno, che ha funzionato poco, a livello di prefetture, il Comitato Territoriale, e poi altre commissioni, per le quali era prevista la partecipazione di singoli immigrati, di associazioni di immigrati e di associazioni a sostegno agli immigrati. Un processo ed uno spirito democratico di coinvolgimento della base. Come ogni legge, anche questa non era perfetta e su di un punto in particolare andava rivista:la fretta nell’ istituire i CPT - Centri di permanenza temporanea - che soprattutto agl’inizi funzionavano molto male, come successe per esempio a Trapani dove per un incendio perirono tragicamente sei dei poveri immigrati che vi erano trattenuti per accertamenti.


La Bossi-Fini non è una legge organica sull’immigrazione quanto piuttosto una revisione della legge Turco-Napolitano del 1998 di cui tralascia molti punti e ne stravolge altri. E’ un procedimento scorretto che rivela tutta l’ideologia del nuovo testo: contrastare l’immigrazione clandestina ma, più in generale, scoraggiare l’arrivo e la permanenza in Italia degli immigrati. A cominciare dalle relazioni introduttive, manca qualsiasi apprezzamento per l’opera degli immigrati che fanno una vita durissima e che sicuramente contribuiscono all’ economia e al buon funzionamento dei servizi sociali nel nostro Paese. Al contrario, questa legge tende volutamente a penalizzarli: parla di restringere alla durata di un anno la validità del permesso di soggiorno mentre allunga i tempi necessari per averlo, non dice nulla sulla cittadinanza e rende più complicato il ricongiungimento familiare, rendendo così ancora più precaria la condizione affettiva e sociale dell’ immigrato. Per quanto riguarda più specificamente l’asilo politico, la Bossi-Fini vi dedica gli articoli 31 e 32 che, coerentemente a tutta l’impostazione della legge, ne mantiene anche su questo punto il carattere essenzialmente restrittivo.


La Bossi-Fini è del luglio 2002, ma solo a tre anni di distanza, ed esattamente il 22 di aprile 2005, ne è stato promulgato il regolamento di applicazione. Restando al tema dell’ asilo politico, bisogna riconoscere il merito a questo regolamento di aver portato ad 8 il numero e le sedi delle Commissioni competenti ad esaminare le richieste di asilo politico in Italia: Milano, Gorizia, Roma, Foggia, Brindisi, Crotone e due in Sicilia. Finora invece non c’era per tutta l’ Italia che una sola Commissione competente, con sede a Roma, con tutte le difficoltà che si possono immaginare, sia per quanto riguarda gli spostamenti a cui erano costretti i richiedenti asilo, sia per quanto riguarda l’intasamento delle pratiche e quindi la lungaggine dei tempi necessari per ottenere il verdetto della Commissione.


Con le nuove disposizioni dell’ultimo regolamento, la presenza sul territorio di 8 Commissioni porterà sicuramente ad abbreviare i tempi che intercorrono fra la presentazione della richiesta di asilo e la decisione della Commissione, che finora hanno oscillato tra i 12 e i 18 mesi. Col nuovo regolamento i tempi si dovrebbero restringere a sole tre o quattro settimane, ma è troppo presto per dire se e fino a che punto questa accelerazione sarà a vantaggio dei richiedenti, se, cioè, la rapidità dell’esame non comporterà una maggiore fretta nell’esaminare la pratica e meno tempo a disposizione del richiedente per avanzare eventualmente il suo ricorso contro la decisione della Commissione. In quattro o cinque settimane, una persona che è appena arrivata in Italia

non ha ancora avuto il tempo per capire in che situazione si trova ed è quasi sempre un soggetto traumatizzato ed è difficile che possa organizzarsi da solo il materiale necessario per affrontare l’intervista presso la Commissione. C’è da aggiungere che i Commissari che fanno parte della Commissione non hanno una preparazione specifica per capire i problemi che devono affrontare nel caso di un richiedente asilo politico, e inoltre il “mediatore” chiamato a fare da interprete molte volte non conosce abbastanza bene la lingua per cogliere il vero significato di quello che l’intervistato cerca di esprimere e tradurlo per i membri della Commissione.


Le Commissioni sono formate da un rappresentante del Ministero degli Interni di carriera di pubblica sicurezza, un rappresentante del Ministero degli Interni di carriera prefettizia, un rappresentante degli Enti Locali, un rappresentante del Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Tutti e quattro con diritto di voto (il presidente ha doppio voto). Il punto è la formazione di questi commissari. Possono essere persone che non hanno mai sentito parlare di queste problematiche e che devono decidere della vita delle persone che si trovano di fronte.


Altro punto critico della Bossi-Fini sono le modifiche apportate alla procedura per l’inoltro del ricorso. La persona che ha avuto l’intervista dalla commissione e riceve il diniego può opporsi a questa decisione con un ricorso che va presentato alla stessa Commissione che gli ha negato l’asilo, solo che in questo caso la Commissione passa da quattro a cinque membri, con l’aggiunta di un nuovo componente che proviene dalla Commissione centrale. Con questa modifica, la Commissione si trasforma in Commissione centrale di controllo. Così, per fare un esempio, un Commissario di Roma deve spostarsi a Foggia, diventarne il quinto componente e riascoltare, dopo 3 giorni, o dopo 15 giorni al massimo, quella persona che ha avuto il diniego.


Se la commissione, anche in questa seconda istanza, conferma il diniego, la persona viene accompagnata alla frontiera. Potrà poi fare un ricorso al Giudice ma l’esito del ricorso lo può seguire attraverso la sede della nostra ambasciata nel suo paese. Tutto questo ha qualcosa di ridicolo se non fosse tragico: una persona che teme di essere perseguitata, che ha chiesto asilo politico, viene rispedita in quattro e quattr’otto nel suo paese e poi nessuno ne sa più nulla. Solo il Prefetto in via eccezionale può decidere che la persona resti in Italia in attesa dell’esito del ricorso. Ma deve avere motivi molto gravi. Dunque, il ricorso al Giudice non sospende l’esecutività dell’espulsione. Rispedire un soggetto al proprio paese senza un serio esame del suo caso ci sembra una cosa estremamente preoccupante, tanto più che molti dei ricorsi che vengono inoltrati contro il verdetto della Commissione si dimostrano fondati e vengono accolti dall’autorità giudiziaria competente. Per l’Italia non abbiamo cifre attendibili, ma per l’ Europa si sa che la media degli esiti positivi sul totale dei ricorsi presentati raggiunge il 60%.

 

Altrettanto grave è il modo come secondo la Bossi-Fini vengono trattenute le persone in cerca di asilo politico nel nostro Paese. Finora il richiedente asilo riceveva un permesso di soggiorno con possibilità di circolare sul territorio italiano e rivolgersi ai Comuni o alle associazioni per l’accoglienza. La Bossi-Fini è molto più restrittiva. A Milano, per esempio, è stato costituito un centro per l’identificazione dei soggetti, all’ interno della struttura che ospita il CTP, Centro temporaneo di permanenza; un altro molto grande è stato costituito a Crotone e a Roma sembra che si voglia procedere alla stessa maniera, mentre la Provincia di Gorizia si è opposta. . In mancanza di altre soluzioni, i richiedenti asilo sono trattenuti così. Questo tipo di soluzione non rispetta i diritti dei richiedenti e non ne rispetta neanche la dignità, accomunandoli negli stessi spazi con persone per le quali è stata già decisa l’espulsione. E’ vero che in questi casi i richiedenti asilo non sono costretti a rimanere nel Centro e possono uscire se vogliono, ma la sera devono rientrare e resta comunque una seria differenza fra il carattere costrittivo di questi CTP e le altre forme di accoglienza ordinariamente gestite dai Comuni.


Come vi accennavo, il regolamento è entrato in vigore da pochissimo e non possiamo prevedere come verrà applicato. Fermiamoci però a considerare quella che finora è stata la trafila ordinaria richiesta per l’ottenimento dello status di rifugiato.


Il primo passo è rivolgersi alla Polizia, a quella di frontiera, alla Questura o a un Commissariato.

La persona va direttamente a uno di questi uffici e presenta la sua domanda di asilo. Di per sé, non c’è nessun filtro; se arrivasse, cioè, un australiano e chiedesse asilo politico, egli potrebbe farlo, perché almeno fino ad oggi non è richiesto un “pre-esame” di verifica della domanda.

Chi ha chiesto asilo politico riceve un permesso di soggiorno valido per tre mesi e che viene rinnovato di trimestre in trimestre fino a che il richiedente non passa l’intervista dinanzi alla Commissione per il riconoscimento dello status di rifugiati. Nell’ attesa, la persona che ha questo permesso trimestrale di soggiorno può rimanere sul territorio italiano ma non può lavorare, non può sottoscrivere un contratto di affitto e non può neanche studiare. Può soltanto seguire un corso di formazione ma non può iscriversi stabilmente ad una scuola o all’ università.

 

Nel periodo che intercorre fra la domanda di asilo e la risposta della Commissione, la situazione del richiedente asilo è particolarmente fragile: non ha garanzie, può appena ricevere l’assistenza medica, e ogni tre mesi è tenuto a presentarsi in Questura per il rinnovo del permesso di soggiorno.


La commissione è presieduta da un Prefetto ed è composta da un rappresentante del Ministero degli interni - carriera di Pubblica Sicurezza- da uno del Ministero degli Esteri, un altro della Presidenza del Consiglio, ed in più da un rappresentante della Nazioni Unite (dell’Alto Commissariato della Nazioni Unite per i Rifugiati), quest’ultimo però solamente con ruolo consultivo, senza diritto di voto.


La Commissione decide sul futuro del richiedente asilo in base ai risultati dell’intervista a voce che vengono confrontati con quanto il soggetto aveva dichiarato per iscritto al momento della sua prima richiesta di asilo. Si sa però che la Commissione non si basa soltanto sulle dichiarazioni del richiedente ma tiene conto di altri input, come per esempio la posizione dei Paesi di origine, alcuni dei quali sono favorevoli alla concessione dello status di rifugiato mentre altri sono contrari.

Così pure ci sono momenti in cui si decide di dare più “protezioni umanitarie” e meno riconoscimenti dello status di rifugiato, o viceversa. Non si può pensare ad un esame neutro delle persone che arrivano. Posso farvi un caso: io ho visto pochissimi Rom riconosciuti rifugiati, eppure vi assicuro che quelle persone erano al 90% nel loro pieno diritto di avere questo riconoscimento. I romeni sono fra i più discriminati. Una situazione analoga vale per i curdi provenienti dalla Turchia, non vengono riconosciuti, anche se la loro situazione richiederebbe il contrario.


I risultati dell’ esame presso la Commissione Centrale possono essere tre:


- il riconoscimento dello status di rifugiati

- il rifiuto del riconoscimento di questo status ma la protezione umanitaria

- il rifiuto dello status di rifugiato con l’invito a lasciare il paese


Prima ipotesi - quella in viene riconosciuto lo status di rifugiato. Questo evidentemente è l’esito migliore. Quando una persona viene riconosciuta rifugiata ha determinati diritti. Intanto ha un permesso di soggiorno che dura due anni, rinnovabile automaticamente; può partecipare ai bandi per le case; ha una facilitazione nei ricongiungimenti familiari (che sono immediati; mentre gli altri immigrati devono avere lavoro, casa, per poter avviare la pratica del ricongiungimento familiare, un rifugiato può avviare questa pratica); ha la carta di identità, può lavorare, e se ha più di 65 anni ha diritto alla pensione sociale. . E’ in tutto come un italiano, dal punto di vista burocratico, tranne che per il diritto di voto e il passaporto (che sono diritti legati alla cittadinanza).

Un rifugiato può chiedere la cittadinanza dopo 5 anni; non dopo dieci anni come gli altri immigrati. Fino a qualche anno fa, riceveva anche dei contributi economici, più o meno una somma di 20milioni di vecchie lire nell’arco di cinque anni (poi questo programma è stato abolito).

Questa è la migliore delle ipotesi: la persona viene riconosciuta come rifugiata.


Seconda ipotesi: la persona non viene riconosciuta rifugiata ma non viene mandata via dall’Italia perché ci si rende conto che se venisse rispedito al suo paese di origine, la sua vita sarebbe in serio pericolo. Questo provvedimento perciò è un diniego dello status di rifugiato ma con la sospensione dell’espulsione e del rimpatrio forzato. La persona che ha la protezione umanitaria gode di un permesso di soggiorno di un anno ma allo scadere di questo termine il rinnovo è molto difficile perché la Polizia non lo considera un suo compito e ne rimanda la decisione alla Commissione centrale, e questa, a sua volta, già oberata dalla richieste correnti,

stenta a trovare il tempo disponibile per occuparsi anche di questi riesami a favore di soggetti che avevano già ottenuta in precedenza la concessione della protezione umanitaria.


In realtà, la posizione di chi ha ricevuto questa “protezione umanitaria” è tutt’altro che facile e può implicare una sostanziale violazione di alcuni diritti umani, ma non c’è verso di spuntarla perché c’è molta discrezionalità da parte della Questura, e se alcuni funzionari fanno di tutto per capire i problemi dei richiedenti e per aiutarli, altri invece tendono piuttosto a scoraggiarli. Comunque prevale la discrezionalità: nessuna norma che regoli questo tipo di situazioni, tutto è affidato a qualche circolare, ai Prefetti, ai Questori, ai responsabili degli Uffici Stranieri, ecc. A volte la Polizia chiede a queste persone se hanno un contratto di lavoro prima di decidersi ad avviare la pratica per il rinnovo della protezione umanitaria, ma a parte le difficoltà comuni a tutti di trovare un lavoro a contratto, chi è in queste condizioni trova difficoltà ad avere i documenti necessari alla sua permanenza: una persona che ha chiesto asilo politico, non ha il passaporto normalmente, o comunque non può andare in ambasciata a chiedere il passaporto: se questa persona riceve la protezione umanitaria poi comunque rimane una persona con dei problemi, quindi non va all’ambasciata. Al momento di fare la carta di identità o altri documenti, chiedono sempre il permesso di soggiorno ed il passaporto o documento equipollente: però questa persona non ha il passaporto e spesso rimane sospesa. E in più non può chiedere il ricongiungimento familiare.


Terza ipotesi: diniego secco, senza nessun tipo di protezione. Chi riceve questo provvedimento chiaramente è la persona più in difficoltà perché insieme al rifiuto della sua domanda riceve l’invito a lasciare il paese. Se non se ne va, fa perdere le sue traccia, diventa un irregolare e se viene trovato dalla Polizia viene condotto in un CPT, Centro di permanenza temporanea, e tenuto sotto sorveglianza fino all’espulsione.

 

Chi ha ricevuto il diniego può fare ricorso ed ecco come si procede. Il richiedente deve fare un primo ricorso al Giudice, al Tribunale Civile, impugnando quel diniego e spiegando i motivi per cui torna a chiedere l’asilo politico. Il Giudice riesamina il caso e può dare l’asilo politico, richiamandosi in questo caso anche all’articolo 10 della Costituzione. Difatti, nella stesura dei ricorsi si fa sempre riferimento anche a quest’ articolo. Oltre a questo ricorso, bisogna fare rivolgersi anche al TAR contro l’invito a lasciare il paese. Il TAR dà la sospensiva a questo provvedimento in presenza del primo ricorso. Tuttavia , questa persona che ha fatto due ricorsi, non ha un permesso di soggiorno. Quindi di per sé non può lavorare e se la Polizia lo ferma, lo potrebbe anche portare al CPT. Su questo punto non c’è tutela perché se il TAR sospende il provvedimento di espulsione , la Polizia potrebbe sempre impuntarsi sul fatto che si tratta di un soggetto senza permesso di soggiorno e complicargli ancora di più la vita.


Bisogna aggiungere che in questi ultimi tempi le norme sono diventate più restrittive a seguito di intese tra le Polizie dell’ Unione europea. Oggi se qualcuno che ha fatto domanda alla Commissione Centrale italiana e non ha avuto il riconoscimento andasse in un altro Paese dell’area Schengen, rischia di venire rispedito in Italia se viene scoperto dalla Polizia di quel Paese. Queste restrizioni sono state introdotte per evitare quello che si chiamava lo shopping dell’asilo politico; si cominciava con fare domanda in un dato Paese e se la richiesta non andava a buon fine, si passava ad un altro Paese e si ripeteva la richiesta. Ora ciò non è più possibile.La sede competente resta quella iniziale dove il soggetto si è presentato per la prima volta ed ha presentato la sua domanda, e se la richiesta viene respinta, non c’è altra soluzione che il ricorso alla Magistratura.


In Italia manca un organismo unico che faccia da referente per le tematiche dell’immigrazione in genere e a quelle dell’asilo politico in particolare. Le competenze sono divise tra Ministero degli Esteri, Ministero degli Interni, Ministero del Welfare, più gli Enti locali ( fondi regionali )che provvedono insieme alla Associazioni all’accoglienza e al sostentamento. C’è da aggiungere l’indeterminazione che c’è quanto ai confini tra il testo della legge e le norme del regolamento, tra aspetto amministrativo e fase esecutiva. Questa indeterminazione, non si sa quanto dovuta a incompetenza e quanto a volontà politica, lascia molte volte il rifugiato alla discrezionalità dei funzionari di polizia che possono di volta in volta adottare una linea di maggiore comprensione o di maggiore rigidità, a scapito di quella certezza del diritto e di quella equità di trattamento che andrebbero garantite a tutti indistintamente, immigrati compresi.


Se guardiamo all’ Europa, la situazione non è molto migliore.

In Germania, per esempio, per molti casi è prevista una vera e propria detenzione. Il richiedente asilo non può circolare; è trattenuto e con lui anche i familiari. La stessa situazione in Belgio dove si vedono donne e bambini tra le sbarre in quanto richiedenti asilo. Questa attesa può durare anche anni. Non tutti i richiedenti, però, subiscono queste restrizioni. Altri possono circolare ma per tutti il riconoscimento dello status di rifugiati è difficile da ottenere e quando viene riconosciuto, il difensore dello Stato è tenuto a fare ricorso contro quel riconoscimento. E talvolta la spunta. Se non c’è la detenzione, c’è comunque la precarizzazione dell’ assistenza e una volontà piuttosto palese di perseguire e scoraggiare piuttosto che di assistere.


Noi pensavamo che come membro dell’Unione Europea l’Italia sarebbe stata costretta ad alzare i suoi standard relativi all’ accoglienza dei rifugiati. E invece è successo il contrario, è l’ Europa che ha abbassato i suoi, avvicinandosi sempre di più a quelli italiani.

Nella seconda metà degli anni ’90, tutti si aspettavano che l’Europa avrebbe portato all’ armonizzazione della legislazione , delle procedure di accoglienza e dei criteri di assistenza. Di fatto era la Commissione Europea a spingere in questa direzione, ma il Parlamento ha messo molti freni e molte delle proposte innovative sono rimaste per aria. Prevale l’orientamento a chiudere gli spazi di accoglienza e a scoraggiare i richiedenti. Si punta a creare centri per l’esame delle domande fuori dai confini dell’Europa: nei paesi dell’Est e nei Paesi nordafricani. Si cerca di concludere accordi per cui se una persona arriva a Crotone, viene subito rimesso su un aereo e portato in Libia dove c’è uno di questi Centri. Ed è là che esaminano la sua domanda e decidono se questa persona può o no entrare in Italia. E così anche nell’Est Europa, vogliono fare dei centri in Ucraina, in Polonia.

E qui c’è un particolare da non sottovalutare. Nella c.d. Europa allargata, gli Stati che si sono più irrigiditi su questa materia sono quelli sono entrati da ultimi nell’Unione perché sono chiamati a dare garanzie di mantenere uno stretto controllo delle frontiere europee. Per poter entrare in Europa hanno dovuto rafforzare il regime di fermo e di individuazione degli immigrati, altrimenti gli stati dell’Europa centrale avrebbero detto che non davano garanzia sufficienti per l’Europa. Infatti Repubblica Ceca, Polonia, Romania hanno tutti centri di permanenza temporanea per i richiedenti asilo, dove il trattamento è particolarmente duro e le garanzie pochissime. Peggio di un carcere, perché nel carcere c’è una struttura, c’è un Direttore, un vicedirettore, un educatore, un cappellano, uno psicologo... Là niente.

 

Attualmente le direttive europee lasciano grande discrezionalità ai singoli Stati. Ci sono altre direttiva in cantiere ma nessuno preme perché vedano la luce. Lo slogan in Europa è: non esistono più i richiedenti asilo; esistono migranti economici che adoperano la richiesta di asilo per restare in Occidente. Questo slogan per me non è accettabile. E’ vero che forse le situazioni fotografate dall’articolo 1 della Convenzione di Ginevra sono diminuite ma è anche vero che molte delle persone che arrivano, hanno bisogno di una protezione effettiva, vera; lasciano delle situazioni nelle quali per loro è difficilissimo se non impossibile sopravvivere. Non sono migranti economici che vogliono migliorare il loro status; scappano perché anche se non sono perseguitati dall’autorità statale, di fatto vivono in una situazione di assoluta insicurezza, nell’assoluta carenza delle più elementari risorse per vivere. Persone che o per insicurezza generalizzata o per povertà gravissima sono di fatto costrette a scappare; come lo sono i rifugiati in senso classico; come non lo sono invece i migranti economici che programmano il loro viaggio.

Si pensi solo alla Somalia, dove non c’è uno stato, non c’è nessuna garanzia; o si pensi all’Iraq attuale. E’ ripreso da noi il flusso degli iracheni. O si pensi all’Afghanistan. Dal 2000 abbiamo visto un numero sempre crescente di afgani, giovani, maschi singoli, ventenni, a formazione zero e nessuna conoscenza della lingua ad eccezione del proprio dialetto: costretti a scappare perché la prospettiva sul posto dove si trovano non è che l’inedia fisica e l’emarginazione sociale.


Purtroppo le situazioni che spingono tante persone a scappare dal proprio Paese non solo non sono scomparse ma tendono piuttosto a crescere. Quello che non cresce è il numero dei richiedenti asilo, ma la contraddizione si spiega con una equazione tanto semplice quanto allarmante: più la legislazione sull’accoglienza si fa restrittiva e magari punitiva, più aumentano gl’immigrati che tentato le vie clandestine della irregolarità per timore di non essere accolto o, peggio, di essere rispedito senza appello al Paese da cui ha dovuto fuggire. C’è da aggiungere che se il numero dei richiedenti è in forte calo, anche il tasso di riconoscimento delle domande continua a restringersi. Prendiamo il caso dell’Italia. La media negli ultimi dieci anni è stata tra le 11 e i 16/17mila domande di richiedenti asilo all’anno. Il tasso di riconoscimento è basso, ma c’è un’altra circostanza da tener presente. Sulle circa 15mila domande che vengono presentate, al momento di doversi presentare per l’intervista quasi l’80% dei richiedenti non è più reperibile. Perché? Generalmente o perché preferiscono passare dall’Italia ad un altro Paese europeo o perché restano in Italia ma, dovendo provvedere alle esigenze primarie della loro sussistenza, scivolano nella clandestinità senza lasciare traccia.


A mio parere, è in questa prospettiva che bisogna leggere le cifre, che comunque restano sempre molto approssimative e di non facile interpretazione. Le Agenzie dell’Onu parlano di vari milioni di persone tra apolidi, sfollati e rifugiati, una cifra enorme a confronto delle poche decine di migliaia di persone che fanno formalmente richiesta di asilo . In Germania, fino a due anni fa, la media annuale era di centomila richiedenti asilo. Ora questa cifra è molto calata e nel 2004 il paese europeo che ha ricevuto più domande di asilo è stata la Francia, con poco più di 50mila. La stessa drastica caduta nel numero delle richieste di asilo vale per l’ Olanda e per l’ Inghilterra: risultato di una politica comune, sempre meno propensa ad accogliere chi, come il rifugiato, chiede disperato di essere accolto. asilo.


Ed ora, come avevo detto all’ inizio, qualche informazione sulla nostra attività.


Il Centro Astalli ( dal nome della Via di Roma in cui ha sede, alle spalle di Piazza Venezia ) nasce nel 1981, quasi 25 anni fa, come uno dei primi progetti nel campo dei servizi ai rifugiati da parte dei Gesuiti. Fu una intuizione dell’allora Padre Generale dell’ Ordine, Pedro Arrupe, che colse l’emergenza e la drammaticità della situazione e chiese ai Gesuiti di far fronte a questo problema.

Agl’ inizi le prime persone che cominciarono a rivolgersi al Centro erano soprattutto etiopi. C’era appena stato il colpo di stato del Colonnello Menghistu, e quelli che scappavano dal paese erano persone di classe medio-alta. erano la classe medio-alta ed erano di transito. A quell’epoca non c’erano ancora leggi sull’immigrazione in Italia; la prima è del 1989-90.


Attualmente, il nostro lavoro si divide in due settori. Quello della prima accoglienza, che è lo zoccolo duro della nostra esperienza: mensa 6 giorni a settimana, gli alloggi notturni, l’ambulatorio medico, il servizio docce, il centro di orientamento. Quest’ attività ci porta all’incontro quotidiano con i richiedenti asilo e con i rifugiati che è il punto essenziale e vitale per tutta la nostra opera.

Nei Centri di accoglienza dove ospitiamo le persone abbiamo: un Centro per uomini a San Saba con 37/38 posti, un Centro per donne sulla Laurentina con una trentina di posti chiamato Casa di Giorgia, la casa delle suore e un Centro per famiglie al Salario, nel complesso ferroviario di Roma-Smistamento, che è una struttura dataci dalle Ferrovie dello Stato e che può arrivare ad ospitare fino a cento persone, in prevalenza famiglie. Questa è la nostra esperienza di fondo e il nostro impatto quotidiano.


Col passare degli anni è si è fatta sempre più chiara la necessità di assistere i richiedenti nel non facile percorso burocratico che va dalla presentazione della domanda all’intervista presso la Commissione competente ed eventualmente all’ inoltro del ricorso se la prima decisione della Commissione dovesse essere negative. Il primo aiuto è quello di aiutare i richiedenti a preparare i documenti richiesti per l’intervista e a prepararsi essi stessi ad esporre bene il proprio caso, mettendo a fuoco i fatti e le circostanze più rilevanti e tralsciando invece altri particolari superflui o irrilevanti. Se la domanda non viene accolta, si apre la via del ricorso che non è semplice e può durare moltissimo, anche anni. E durante tutto questo tempo, queste persone restano sospese, nell’ incertezza e nella precarietà. Da noi c’è un settore che segue proprio questo problema, fornendo tutta l’assistenza legale richiesta per questo genere di cause, grazie al gratuito patrocinio che riceviamo, e che speriamo di continuare a ricevere, dall’Ordine degli avvocati Senza quest’aiuto, moltissimi dei richiedenti asilo farebbero fatica e forse non riuscirebbero a trovare i mezzi necessari per coprire le spese occorrenti per istruire e portare a termine il loro ricorso contro la decisione della Commissione.


Poi abbiamo delle attività di seconda accoglienza, per quelli che sono stati riconosciuti rifugiati o che hanno ottenuto il permesso umanitario. Sono attività di formazione al lavoro e di inserimento nel mondo del lavoro. In concreto, abbiamo una lavanderia per indumenti, dove lavorano tra 6 e 8 rifugiati; e una lavanderia per biancheria cosiddetta ‘piana’, cioè non indumenti personali ma l’occorrente per comunità (lenzuola, asciugamani, tovaglie, tovaglioli, ecc.).


Tutto questo a Roma. Al Nord abbiamo degli appartamenti, uno a Trento e uno a Vicenza, posti letto a Milano e a Padova, dove vengono indirizzate persone che cercano un inserimento lavorativo. Queste persone vengono alloggiate gratuitamente per un periodo di otto mesi. Una volta che hanno i documenti, che hanno appreso l’italiano e che vogliono restare in Italia, molte di queste persone trovano effettivamente lavoro nell’ arco di uno o due mesi, e hanno ancora a disposizione sei o sette mesi di alloggio gratuito, il che permette loro di mettere da parte qualche risparmio per potersi poi trovare una sistemazione alloggiativa a spese proprie.


Abbiamo anche organizzato e continuiamo a svolgere corsi di formazione veri e propri su campi di attività professionale e sociale particolarmente utili, come quello che stiamo facendo attualmente per formare 25 operatori di associazioni che lavorano con gli immigrati (operatori socio-assistenziali in strutture che lavorano con gli immigrati) e tra i partecipanti figurano anche diversi rifugiati che si preparano così ad essere di sostegno per altre persone che dovessero arrivare in Italia con le stesse difficoltà e la stessa esigenza di ottenere l’asilo politico.

Io sono molto contento di questa esperienza. Questo corso nasce dal fatto che nel Centro Astalli ci sono sei o sette rifugiati che lavorano con noi ed il loro apporto è di grandissima qualità, a livello di coinvolgimento, a livello di conoscenza dell’esperienza , di rapporto con gli ospiti, di quantità di lingue conosciute. Quindi ci siamo detti: proponiamo anche ad altre associazioni la figura di un immigrato formato che possa lavorare in questo campo. Abbiamo anche la scuola di italiano che funziona cinque pomeriggi la settimana. Questa è la seconda accoglienza.


Ognuno dei servizi che ho menzionato (mensa, ambulatorio, scuola, centro di ascolto) ha un certo numero di persone che vi lavorano stabilmente. Il Centro che assorbe più personale è quello per famiglie (cinque persone stabili). La mensa ne ha tre, l’ambulatorio ne ha uno a tempo pieno e uno a tempo parziale. Complessivamente sono una trentina le persone stabili, stipendiate. Attorno a questi ci sono i volontari, che si alternano con un ritmo più o meno settimanale. Quello che fa funzionare bene è la combinazione delle due figure. La persona che lavora assicura continuità (non potrebbe essere altrimenti in un posto dove vivono cento persone, ci vuole qualcuno che assicuri una gestione seria), però tra i suoi compiti ha la facilitazione dell’inserimento dei volontari e non il sostituirsi al volontario. Il volontario apporta un suo contributo di motivazione, di stile, di solidarietà, di freschezza, di coinvolgimento che è necessario.

Anche chi lavora stabilmente lo fa un po’ per scelta, perché potrebbe lavorare altrove e se non ha questo tipo di impegno, dopo un po’ molla. Ad esempio, quelli che gestiscono la fila della mensa ( circa 200-250 pasti giornalieri) : è un lavoro duro, pesante. Quindi anche chi lavora stabilmente deve avere le sue buone motivazioni sennò non dura, però deve avere il supporto dei volontari.

Ci sono diversi rifugiati che lavorano all’interno di queste strutture e va molto bene.

Queste sette strutture a Roma hanno circa 150 volontari. Solo il Centro sulla Salaria avrà tra i 30 ed i 35 volontari che aiutano i ragazzini nel doposcuola, laboratorio di ceramica, la proiezione del film, il gruppo Scout.


Aggiungo che da qualche anno abbiamo messo in piedi anche delle attività di tipo informativo e culturale indirizzate prevalentemente agli italiani. Il progetto che si chiama “Finestre” e si svolge nelle scuole medie superiori. Abbiamo preparato un testo che va in mano agli studenti, su questo testo la classe lavora, poi la classe ha un incontro con un rifugiato e con un nostro operatore ed il rifugiato racconta la sua storia. In molti casi, questa è la prima volta che uno studente italiano sente parlare un rifugiato, un immigrato. Questo progetto va avanti da anni ed è stato già realizzato in una quindicina di città, con il coinvolgimento di moltissime scuole e di circa cinque o seimila studenti.


Attualmente c’è allo studio un progetto inteso a favorire il dialogo inter-religioso e intanto abbiamo curato un volume che stiamo per presentare a Torino con 11 storie di rifugiati scritte dai rifugiati stessi, sempre con lo spirito che ci ha sempre: fare del rifugiato non un assistito ma un protagonista.