Incontri di discernimento e solidarietà
 
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15 febbraio 2002

Ispirazione evangelica di S. Francesco verso l’Islam

Massimo Fusarelli, o.f.m.


( Testo registrato durante l’incontro e poi trascritto; una prima parte riporta l’esposizione fatta dal P. Fusarelli e una seconda parte le sue risposte ad alcune questioni nell’ordine come sono state proposte dai presenti all’incontro)

Dopo che P. Pio mi aveva chiesto di fare questa conversazione sull’ispirazione evangelica di San Francesco nei confronti dell’Islam, mi è arrivato dalla Germania un libro proprio su questo tema, scritto da una équipe di nostri frati tedeschi, a cui ho attinto e ho visto quanto in quell’area sia vivo l’interesse per questo aspetto del francescanesimo che invece da noi stenta a trovare respiro. Chissà che quanto andiamo vivendo non sia l’occasione per riflettere di più su questo tema.

Penso che conosciamo un poco la vita di San Francesco, almeno quella dei fioretti. Partiamo da un episodio della sua giovinezza e della sua conversione: il sogno di Spoleto. A Spoleto F. va dopo che è stato un anno prigioniero a Perugia per la guerra tra Perugia e Assisi. Dopo una malattia, torna ad Assisi dove ha una lunga convalescenza al termine della quale risponde all’appello del cavaliere Gentile che cercava volontari, altri cavalieri, per andare in Terra Santa per la crociata. F. risponde con entusiasmo e nobiltà cavalleresca. A Spoleto sogna un castello pieno di armi e una voce che gli dice: è meglio servire il servo o il padrone? F. dice: il padrone. Allora torna ad Assisi e là ti sarà detto che cosa devi fare.

L’Anonimo Perugino e la "tre compagni" – tre delle fonti meno canoniche, non legate all’ideologia dell’Ordine che presto si affermerà e darà un F. ufficiale – situano qui la chiamata di Cristo. In queste fonti più vicine ai compagni di F. la chiamata di Spoleto è molto importante, mentre invece nelle successive fonti, specie quella di San Bonaventura, diventerà quasi la risposta al travaglio esistenziale di F. dopo la convalescenza; comunque, un episodio di passaggio. Invece queste fonti più antiche, più vicine ai compagni di Francesco, ci dicono che lui è in viaggio per la crociata dopo l’indizione di Innocenzo III. Il comando veniva dal Papa e non poteva essere disatteso. Potremmo anche leggere che in quel "meglio servire il padrone che il servo", il servo è Innocenzo III, il servo dei servi di Dio, alla cui voce non si può non rispondere. Eppure la voce suggerisce a F. che cosa sia meglio e lui non ha dubbi: preferisce il Padrone, cioè il Signore e, dicono queste fonti antiche, da questo momento F. diverrà – l’espressione non ci piace - "duce di una nuova milizia", non quella con cui si stava recando il Terra Santa, ma una nuova che non ha e gli sarà data.

Per i biografi è stato difficile comprendere questo episodio essenziale per la vocazione di F., vocazione ecclesiale, e per il suo atteggiamento verso il mondo musulmano. Possiamo scoprire la vocazione speciale di F. di richiamare la cristianità al suo spirito veramente evangelico, anche di fronte ai saraceni e, come vedremo, di fronte a tutti gli infedeli che al tempo di F. erano gli eretici, gli ebrei, i musulmani e i Tartari che premevano alle frontiere dell’Europa.

San Bonaventura nella biografia ormai ufficiale del Santo segue Celano, il primo biografo di F. Entrambi dicono che in questa visione le armi viste a Spoleto erano segnate di croci; è un’allusione alle armi dei Crociati che erano "crucis signatae." Giuliano da Spira parla di armi spirituali e non materiale e dice che F. si munisce del segno della croce "se signo crucis munire"; è di nuovo l’espressione tipica del mondo crociato che si segna del segno della croce e per questo può combattere per Cristo, "impegnarsi per la crociata". Invece per F. significa un’altra cosa: tornare sui suoi passi ad Assisi.

Innocenzo III in quegli anni aveva scritto fra le altre cose una Enciclica, la "Quis major", con cui chiamava tutti i cristiani a raccolta per un nuovo cammino della croce. Cioè, alcuni andavano in Terra Santa a liberarla dai nemici della croce di Cristo (così Innocenzo III chiamava i Saraceni); poi invitava tutti i cristiani, dal clero ai monaci e ai semplici fedeli, a fare nelle chiese, con tutte le indulgenze annesse, simili a quelle della Terra Santa, un cammino della croce; non la nostra Via Crucis, ma una processione della croce che doveva invogliare gli animi a pregare per chi andava a liberare la Terra Santa e anche a raccogliere le offerte per la crociata. Alcuni studiosi si domandano perché F. non cita mai questo documento del Papa mentre ne cita altri, specialmente intorno al 1215 in cui c’è il Laterano IV, un concilio che richiama ad alcuni princìpi essenziali, per es. la celebrazione della Messa.

F. è molto preciso, non richiama questo documento di Innocenzo III che invita a questo genere di cammino della croce. F. ha un’altra posizione, come testimonia la prima vita di Celano, al n.30, vita che è ancora abbastanza vicina al personaggio della storia. Scrive Celano: "Frate Bernardo con frate Egidio partì per Compostela al santuario di San Giacomo. F. con un altro compagno scelse un’altra parte; gli altri quattro, a due a due, si incamminarono verso le due direzioni, ma passato breve tempo, F., desiderando di rivederli tutti, pregò il Signore di riunirli presto, e tosto, secondo il suo desiderio e senza che alcuno li chiamasse, si ritrovarono insieme e resero grazie a Dio. Raccontano poi dei benefici ricevuti dall’Onnipotente e accusano la loro negligenza. E così solevano fare sempre quando si recavano da lui , non gli nascondevano nulla e manifestavano i loro pensieri. Allora F. stringendo a sé i figli con grande amore, cominciò a manifestare loro il progetto che il Signore gli aveva rivelato". Nel seguito della storia, questo progetto è quello di andare pellegrino nella terra dei mori per annunciare il vangelo con il segno inerme della croce: un altro segno. Questa forma devozionale, il cammino della croce, proposta da Innocenzo III, è fatta propria da F. ma su tutta un’altra via.

Dopo il fatto di Spoleto, sia Celano sia Bonaventura chiamano F. "miles Christi", il soldato di Cristo nel senso paolino. Questa espressione in S. Bernardo da Chiaravalle indica chiaramente i crociati. I biografi dicono che F. è un "novus" miles Christi. Ma F. non usa mai per sé questa espressione, F. si chiama araldo del Gran Re e non voleva che fosse confusa la sua missione con quella dei crociati. La sua missione è quella ricevuta a San Damiano: "Va e riedifica la mia Chiesa che va in rovina". Non poteva che esprimersi, tra gli altri modi, anche nell’aiutare la Chiesa ad avvicinarsi al mondo musulmano nello spirito del Vangelo, nel segno della croce che F. non mostra "contro" i musulmani, ma nella "carità della croce", come la chiama F. Anche i musulmani possono essere visti come fratelli, perché, come scrive più volte F., dobbiamo amare molto colui che per tutte le creature ha versato il suo sangue. Quando F. parla della redenzione della croce è sempre preciso: per tutti gli uomini, per tutte le creature, non solo per i cristiani, come invece in una letteratura coeva si poteva leggere. In questo proposito F. racchiude l’annuncio della pace, da offrire a tutti, anche ai musulmani, più che il rumore delle armi. Solo l’annuncio della pace prepara il terreno per l’ascolto del Vangelo. Potremmo attualizzare dicendo: solo dei cristiani che hanno il sapore delle beatitudini, sapranno accettare di non rispondere al male con il male.

Nella Regola "non bollata" - la più antica e la meno influenzata dai canonisti - F. dice: dobbiamo seguire le orme di Gesù, lui che chiamò amico il suo traditore e si offrì spontaneamente ai suoi crocifissori. Sono quindi nostri amici tutti quelli che ingiustamente ci infliggono tribolazioni ed angustie ignominie e ingiurie, dolori e sofferenze, martirio e morte. Quando F. scrive questa Regola, già cinque dei suoi frati sono stati uccisi dai saraceni in Marocco. E F. stesso verrà malmenato, secondo le fonti, in Egitto, prima di essere portato dal Sultano. Martirio e morte: chi dava il martirio

in quel tempo ai cristiani? I musulmani, sono loro. Alcuni studiosi affermano che qui F. dice ai suoi frati: dovete amare coloro che vi infliggono il martirio, i saraceni, e li dobbiamo amare molto perché a motivo di ciò che ci infliggono, abbiamo la vita eterna.

Il sogno di Spoleto ci riconduce al periodo violento di F. che lì termina. E’ stato un soldato, ha combattuto anche per distruggere la rocca di Assisi. Quello della giovinezza è il periodo violento. A Spoleto questo passato si arresta. F. resterà un "miles Christi" ma trasfigurato. La pace evangelica non sarà per lui un rifugio, la reazione di una vita timorosa che cerca di proteggersi dai rumori del mondo, ma sarà non tanto "un al di qua" ma un "al di là" della guerra.

Dopo Spoleto F. compie un altro incontro importante, quello con il lebbroso nella pianura di S. Damiano, sotto Assisi. F. incontra il lebbroso e, attraverso l’umanità dolente di Cristo che contempla sulla croce, incontra lo sguardo dolente del lebbroso, incontra l’umanità ferita. Qui avviene un cambiamento molto forte in F.: cambia il mondo delle sue relazioni; non capiremmo il suo desiderio di pace se non comprendessimo come F. incontra, attraverso il lebbroso, lo sguardo compassionevole di Dio. E allora F. non sa che unirsi in una unica fraternità con questo mondo di umiliati, di emarginati, che erano i lebbrosi del suo tempo. F. diventa attento agli uomini nel segno della misericordia.

Nei suoi scritti, quando per es. parla delle relazioni tra i frati, ne parla sempre in questo contesto di misericordia e di compassione. Questa via lo porta a scoprire, possiamo pensare, la sua vocazione evangelica alla pace e la sua missione di pace. Nel testamento, scritto pochi giorni di morire, dice: il Signore mi rivelò che dicessimo questo saluto, il Signore ti dia pace. La prima vita di Celano testimonia che il saluto dei primi frati con F. era: il Signore vi dia pace. Riportare la pace sarà l’attività più grande di F. Le fonti più antiche lo testimoniano. Dopo, per la canonizzazione, F. diventerà il santo dei miracoli; per forza, perché questa era l’immagine popolare ed ecclesiastica. Ma nelle fonti F. appare di più messaggero di pace. In questa turbolenta civiltà dei consumi in piena trasformazione, questa pace rappresenta un nuovo tipo di relazioni fra gli uomini. F. lo sa bene.

Veniamo a noi. Sempre nella Regola non bollata, al c. 16 F. parla di coloro che vanno tra i saraceni e gli altri infedeli. E’ un capitolo dedicato alle missioni. E’ la prima regola di un Ordine che ha un capitolo per la missione ed è certamente la prima regola che nella missione inserisce anche i saraceni. E’ il primo testo cristiano che parla dei saraceni non in chiave offensiva – distruggerli, difendersi – ma in chiave propositiva: annunciare loro il Vangelo. Secondo studi autorevoli, i capp. 1-17 della regola non bollata sono stati scritti prima del Concilio Lateranense IV (1215) in cui si emetterà un decreto "Spedizione per recuperare la Terra Santa". In esso si dice: i musulmani ci attaccano con violenza, l’unica risposta è la violenza per liberare il sepolcro di Cristo. Il metodo che invece F. adotta verrà approvato "ad experimentum" nel 1221 e F. lascia questo capitolo anche dopo il Concilio Lateranense IV, lui così attento a rispettare la Chiesa romana. F propone un metodo di annuncio e di presenza tra i musulmani, evangelico. Ecco il testo molto espressivo: dice il Signore, vi mando come pecore in mezzo ai lupi; perciò qualsiasi frate che vorrà andare fra i saraceni e altri infedeli, vada con il permesso del suo ministro e servo, il provinciale. Il ministro dia loro il permesso e non li ostacoli, infatti dovrà rendere conto al Signore se in queste cose come in altre avrà agito senza discrezione. I frati poi che vanno tra gl’infedeli possono comportarsi spiritualmente, cioè nello Spirito, in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani. E’ il modo dell’esempio, senza liti o dispute.

Il Corano esalta la dolcezza di Gesù testimoniata dai monaci cristiani, e questo sembra trovare una eco in F. I frati siano sottomessi ad ogni creatura. Cristo ha dato il sangue per ogni creatura, i frati siano sottomessi ad ogni creatura. Qui gli studiosi notano che sempre il Lateranense IV proibisce ai cristiani di stare sotto autorità pagane o saracene, perché questo è indegno di un battezzato. F. dice: siano sottomessi a ogni creatura, anche ai saraceni. Quindi riconoscano la loro autorità come proveniente da Dio. Paolo dice: ogni autorità proviene da Dio, anche la loro. Cita quindi la 1 Pt: siate sottomessi a ogni autorità umana, e invita i frati a riconoscere anche l’autorità dei musulmani come proveniente da Dio. E’ il modo di missione della minorità, dell’essere il più piccolo. Confessino di essere cristiani con la vita e con l’esempio.

Il secondo modo è: quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio perché essi credano in Dio onnipotente, Padre, Figlio e Spirito Santo, creatore e redentore e salvatore, e siano battezzati. E’ l’esplicita predicazione del Vangelo. Ma quando viene l’ora? F. non fa un piano strategico, oggi diremmo, non fa un progetto pastorale. F. dice "quando piace al Signore" che è una espressione tipica: i frati vadano per il mondo così, e come piacerà al Signore, facciano. E’ un criterio di grande libertà. Devono leggere in concreto la situazione e discernere che cosa in quella situazione si può fare. F. non dice che discernere l’ora dello Spirito è qualcosa che va con la sapienza umana: così li conquistiamo, né dice che bisogna annunciare loro un messaggio sopra la loro testa. Al contrario, F. non vuole offendere la coscienza di chi lo ascolta. Per i contemporanei i saraceni erano pagani e infedeli. F. sa che adorano il Dio di Abramo e allora non dice: annunzino loro che Dio esiste, ma annunzino loro che Dio è Padre, Figlio e Spirito Santo, cioè annuncino quello che a loro manca: la Trinità e la Pasqua, il Figlio è salvatore e redentore. Che c’è un Dio grande e misericordioso lo sanno e non c’è bisogno di annunziarlo. E siano battezzati, e si facciano cristiani, non siano fatti cristiani. Nella loro libertà aderiscano al Vangelo. La libertà di F. raggiunge qui uno dei suoi vertici più alti. "Queste ed altre cose che piaceranno al Signore possono dire ad essi, etc."

Questa attività apostolica dei frati, certamente particolare, sarà confermata, se Dio lo vorrà, con il martirio. F. ha chiesto per se stesso il martirio. F. è solo fra i suoi contemporanei a sentire l’esigenza di evangelizzare i musulmani, quale dovere più alto del diritto di difendersi da loro e di attaccarli. F. non parla di questo ma di evangelizzarli. Non troviamo niente di simile in altri documenti dell’epoca.

Certo, dopo le decisioni del Lat.IV F. avrà sperimentato la sua impotenza. C’era un’altra voce nella Chiesa; F., come al solito, non critica, anche se qui noi abbiamo le fonti molto sistemate, edulcorate. Una versione antica della predica agli uccelli, ad esempio, dimostra come gli uccelli dell’Apocalisse, con un becco molto pungente, pericoloso, e con l’angelo dell’Apocalisse che sembra fra di loro, potrebbero essere la visione di F. che predica – secondo alcune fonti fuori dall’Ordine – ai musulmani, così pericolosi. E che predica, è detto in altre fonti, ai crociati stessi che sono pericolosi. E’ l’angelo dell’Apocalisse che farà giustizia, non le armi cristiane. Poi la predica agli uccelli diventa quella scena bucolica che Giotto ha consacrato nella basilica superiore. Probabilmente in origine c’era altro.

F. andrà personalmente in Terra Santa (la Frugoni ve lo ha detto magistralmente); non andrà a Gerusalemme (c’era la scomunica di Onorio III) e non si parla di un suo pellegrinaggio a Gerusalemme. Potremmo dire che F. non è andato in Terra Santa per visitare innanzi tutto i luoghi santi ma per stare con i musulmani, per annunciare il Vangelo, come lui prescrive ai frati. Infatti F. torna e farà di Greccio una nuova Betlemme, dicendo – celebrando l’eucarestia sul presepio – che non c’è bisogno di andare a Betlemme: Cristo è là dove si celebra l’Eucarestia. E si farà dare per la Porziuncola la stessa indulgenza che si otteneva in Terra Santa, senza pagare niente, senza crociata; si può ottenere misericordia in qualsiasi luogo della terra e non solo in Terra Santa. Sono tutte ipotesi suggestive, comprovate anche dalle fonti.

Il nucleo centrale, concludo, che F. chiede ai frati è raccolto nella lettera a tutto l’Ordine che F. scrive dopo il 1220, una volta tornato dalla Terra Santa. All’inizio di questa lettera quasi compone un salmo che i frati devono imparare ed usare nella predicazione:

Ascoltate, miei signori, figli e fratelli/ Prestate orecchio alle mie parole,

Inclinate l’orecchio del vostro cuore /E obbedite alla voce del figlio di Dio.

Questi frati che F. invia per la missione sono innanzitutto uomini, cristiani che hanno ascoltato il Vangelo, non predicano un messaggio che hanno imparato, qualcosa che hanno ascoltato, non convertono nessuno, testimoniano con la loro voce ciò che ha toccato innanzitutto la loro vita. E quale è quest’annuncio? Lodatelo perché è buone ed esaltatelo nelle opere vostre, perché per questo vi mandò per il mondo intero, affinché rendiate testimonianza alla voce di lui. Siamo ancora nella modalità da minori, da umili, da soggetti a tutti, della missione: rendere testimonianza alla voce di lui, non alla dottrina ma a lui stesso che parla, con la parola e con le opere e facciate conoscere a tutti che non c’è nessuno onnipotente eccetto Lui.

Secondo alcuni, questa espressione che F. ripete spesso "non c’è nessuno onnipotente eccetto Lui" evoca la grande proclamazione coranica "Dio è il più grande" che F. aveva ascoltato nei minareti di Damiata; così pure l’uso di salutare la Vergine tre volte al giorno, uso francescano. F. dice tre volte al giorno e anche di più, fate pregare, prostratevi davanti a Lui. Alcune espressioni sembrano richiamare il fascino che la pietà islamica deve avere esercitato su F.

Questa onnipotenza non è innanzitutto forza evocatrice ma bontà e amore: facciate conoscere che non c’è nessuno onnipotente eccetto Lui, che per sua grazia e amore ci ha creati. Annunciare la bontà e l’amore. Lodatelo, continua F. nelle opere vostre. Non sono opere eccezionali, ma le opere di chi si è lasciato trasportare da questi sentimenti di pace. Secondo questo testo, la missione dei frati – anche per i saraceni, perché F. non fa distinzioni – consiste nel proclamare l’annuncio del mistero di Dio, del Suo amore onnipotente e di quanto questa realtà opera nella vita di chi lo accoglie. Ascoltare e custodire la parola, conformi al Vangelo, fedeli alla vita: questo è il cuore della missione francescana. Tutto il resto, anche quello che F. scrive nella regola per i frati, è a servizio di questo messaggio. E allora l’annuncio missionario di F. ai musulmani non può che muoversi su questa linea: testimonianza attraverso la presenza e la vita.

Quello che ho potuto riflettere e ora sintetizzarvi al massimo è che se c’è una proposta evangelica che F. rivolge al mondo islamico sta proprio in ciò: essere testimoni attraverso la presenza e la vita, testimoniare che nessuno è onnipotente eccetto Lui e testimoniarlo rinunciando a qualsiasi altra logica. Sarebbe interessante addentrarsi negli scritti, anche nei documenti storici. Nel libro che segnalavo all’inizio, questo lavoro è fatto molto bene e si vede come si può ricostruire con una certa sicurezza l’estraneità di F. allo spirito e alla logica delle crociate tutt’altro che scontata al suo tempo. Immediatamente dopo di lui, diversi suoi frati faranno l’esatto contrario, perché l’Ordine si avvierà molto speditamente e con molta efficienza su ben altra strada da quella tracciata da F. In F. troviamo questa linea che – P. Pio mi ha esortato questa sera ad avere pazienza – nello spirito della perfetta letizia si risolve in una sonora sconfitta. Questo è un altro punto centrale del modo come F. affronta l’Islam.

RISPOSTE AD ALCUNI INTERVENTI

L’Ordine certamente non ha condiviso, cioè i Vicari che F. lascia in Italia non condividono il suo viaggio. F. parte con tre o quattro compagni. E’ segno che il suo gesto non fu compreso, non solo per la paura per la sua incolumità. Quando arriva in Terra Santa, F. trova frate Elia – il discussissimo frate che poi sarà suo vicario - e trova altri frati che lo accompagnano. Ma in Egitto è solo con un solo compagno. Questo, anche tra le righe, può dire qualcosa. F. deve tornare dopo l’impresa a Damiata perché vede che ormai la sua mediazione è inutile; è sconfitto, non è un missionario molto efficiente. Deve tornare perché i vicari che ha lasciato impongono osservanze monastiche ai frati, producendo molto scontento. Quindi torna per mettere le cose a posto nell’Ordine. Reazioni al suo gesto non appaiono.

Se questo discorso lo faccio ai miei confratelli che vivono in Egitto sono contrari. Loro vivono in una situazione drammatica, di oppressione, specialmente da parte degli integralisti. I frati che dall’inizio vivono in Marocco sono su questa linea. La nostra presenza in Marocco è assolutamente senza senso; non ci sono vocazioni perché non ci sono cattolici e i cristiani sono pochissimi. E’ una presenza nella cultura: le scuole e le biblioteche dei frati sono frequentate dai musulmani; si cerca di stabilire un contatto, ma senza nessuna forma di proselitismo. Per noi è una testimonianza preziosa ininterrotta. Ora è in pericolo perché vi sono rimasti 35 frati molto anziani Il nostro Generale ha fatto una richiesta a tutto l’Ordine che i frati più giovani vadano in Marocco e non muoia questa presenza tipica francescana. Da 800 anni i frati sono lì senza fare altro che essere presenti, dirsi la Messa tra loro, accudire gli stranieri e poi agire nel mondo della cultura, della carità e della promozione umana. Hanno risposto una quindicina di frati per cui questa presenza in Marocco si sta risollevando.

In Terra Santa, Israele, Palestina i nostri frati hanno anche un atteggiamento ambivalente perché sono molto più filopalestinesi che filoisraeliani. I cristiani sono palestinesi, anche se verso i musulmani che vogliono costruire la moschea davanti alla basilica di Nazareth non riescono ad avere pensieri molto pacifici. In Sicilia abbiamo una presenza a Mazara del Vallo dentro l’immigrazione tunisina, come presenza senza nessuna forma; presenza di aiuto, di vicinanza, di accompagnamento. Ci sono molte esperienze diverse. Siamo ancora presenti, anche se ridotti a pochissimi, in Turchia, Istanbul, Efeso, Smirne; presenza simbolica.

Attualmente siamo stati richiamati anche noi ad attuare questa riflessione perché è nel Dna del francescanesimo. Che F. lo metta nella Regola non è poco. Nella Regola "bollata" che è quella che ancora oggi professiamo, scompare tutta questa poesia di F. Si dice semplicemente: quelli che vogliono andare presso gli infedeli, chiedano, vadano, annuncino che Dio....punto. F. è stato costretto a dimagrire, ripulire e sistemare. Sparisce la ricchezza della Regola "non bollata" che testimonia invece uno spirito evangelico molto profondo.

Reazioni della Chiesa al suo tempo, no. Dell’incontro di F. col Sultano ci sfuggono i contorni storici perché molto è costruito su storie di monaci orientali. I Copti, per es., narrano che un loro Patriarca come F. avrebbe sfidato i saggi musulmani con l’ordalia e ne sarebbe uscito illeso. F. realmente fa l’ordalia che era proibita dai documenti pontifici? Facilmente c’è stata una costruzione successiva.

Alcuni studiosi analizzano e vivisezionano le fonti sul viaggio in Terra Santa e trovano molta vicinanza anche con il Corano. Probabilmente, frati che vivevano lì e avevano conosciuto il Corano, la tradizione e la psicologia musulmana hanno costruito questi racconti su quella base storica che c’è, facendo vedere delle assonanze. Si tratterebbe quindi di sedimentazione di un tentativo di dialogo profondo, che a noi sfugge e di cui non abbiamo documenti. Non siamo stati bravi come i gesuiti che hanno raccolto tutto il materiale delle loro missioni. Noi allegri e contenti non abbiamo raccolto niente e abbiamo poche testimonianze, specialmente di questa antichità. Dobbiamo fermarci allo spirito evangelico di F. letto nella totalità del suo messaggio.

La disponibilità di F. al martirio. Due volte ha tentato. Una volta andò verso la Siria da Ancona e poi è stato riportato indietro. Un’altra volta voleva andare verso il Marocco ma anche lì è stato riportato indietro dalla malattia. Le fonti dicono chiaramente che andava lì per cercare il martirio, desideroso di martirio, come quando gli portano la notizia dei primi cinque frati uccisi in Marocco che il martirio se lo erano un pò cercato andando dal Califfo dicendogli noi siamo cristiani, questo è il Vangelo, convertiti; il Califfo li prende, li tortura e li ammazza. F. dirà: ora posso dire di avere cinque frati minori. Questo desiderio profondo di martirio lo vediamo anche in S. Antonio di Padova che lascia il monastero, si fa frate, va in Marocco, ma anche lui si ammala, lo rimandano indietro e il martirio non arriva; deve venire in Italia e fare il predicatore, sarà martire in altro modo. Anche questo rientrava a quell’epoca nel desiderio di martirio. In F. questo desiderio non ha molto di eroico o quasi di patologico; non era la ricerca della morte ma di una testimonianza del Vangelo portata fino all’estremo.

La sconfitta. F. è uno sconfitto. Su parecchi fronti, a Damiata,...Nel suo ideale di vita, anche all’interno del suo Ordine che seguirà altra strada. F. non è andato per vincere ma per testimoniare, per essere in quel contesto, a partire dal Vangelo. Questo lo ha realizzato, e da questo punto di vista non è uno sconfitto. E’ sconfitto il suo disegno, il suo desiderio di avvicinarsi al mondo musulmano. Pensiamo che a Damiata c’era un esercito crociato, le fonti parlano di ventimila soldati che in cinque giorni tornano in occidente. Cosa poteva illudersi di fare F.? Questi ventimila erano tra l’altro capitanati da un cardinale mandato dal Papa, che fece valere la ragione forte, quella dell’attacco a tutti i costi, mentre un altro capo tendeva più a contrattare con i musulmani, forse meno evangelicamente ma con più intelligenza politica. Vinse la linea dura del Cardinale Pelagio. F. stava veramente fra botti più grandi di lui, il suo tentativo è in partenza fallimentare. Alcuni storici pensano, data la grande familiarità di F. con la curia romana - F. era semplice ma non sprovveduto - che F. possa aver parlato con la Curia romana prima di partire, forse con il Papa stesso, che non era un dio così irraggiungibile come è stato dopo. Innocenzo III viveva non nello sfarzo di una corte rinascimentale, era più accessibile e molte fonti lo testimoniano. F. potrebbe aver discusso del suo viaggio in Terra Santa anche a Roma e quindi non essere andato solo così, come un poeta. Da F. non abbiamo risposta. Per lui il valore è quello del segno: questo è stato piantato, è rimasto. Lui come frutto del suo viaggio lascia i suoi frati in Terra Santa.

Con alterne vicende, i frati sono stati sempre presenti in Terra Santa accanto ai musulmani, ai cristiani e agli ebrei allo stesso modo. Ancora oggi le nostre scuole sono frequentate per l’80% da musulmani che vanno tranquillamente. Queste forme in 800 anni ci sono sempre state. I nostri frati in Terra Santa hanno litigato molto più con i greci ortodossi che con i musulmani. Sono stato un mese in Terra Santa e i nostri frati dicevano: noi abbiamo sempre preso il tè con i musulmani, nessun problema; è con i greci che non andiamo d’accordo, quindi tra cristiani. Un gesto come quello di F., sconfitto come tanti altri nella storia, ora è uno di quelli di cui siamo qui a parlare, mentre del cardinale Pelagio non si ricorda neanche il nome. Conclusione forse un pò retorica. Un seme del genere, gettato, è sconfitto su un piano, vincente su un altro.

F. cita soprattutto gli inni dell’Apocalisse. Ha composto l’Ufficio della passione, a memoria, con citazioni per assonanza; ha composto dei salmi e delle laudi e lì cita più volte l’Apocalisse. Diverse volte cita l’Agnello immolato, che lui traduce "agnello ucciso", quasi con più realismo. L’Apocalisse nel Medio Evo aveva il suo grande fascino (Gioachino da Fiore e i francescani spirituali, tra cui lo scatenato Ubertino da Casale). I francescani spirituali si rifaranno a un F. più rigoroso contro quelli "accomodanti"; nell’atmosfera gioachimita citeranno molto l’Apocalisse. La predica agli uccelli, secondo le fonti più antiche che poi le fonti ufficiali hanno oscurato, è fatta da F. al ritorno da Roma perché si era accorto che era inutile predicare ai romani, immersi nei vizi e nelle turpitudini, e Roma, come dice l’Apocalisse, è la grande Babilonia. Tra questi romani pieni di vizi e turpitudini c’era pure la Curia romana che F. ha frequentato e dalla quale si sente dire :è impossibile vivere quello che tu dici. Il Cardinale Colonna avrà il buon gusto di dire al Papa: se diciamo a questo che non si può vivere quello che chiede, diciamo che non si può vivere il Vangelo. L’amicizia con il Card. Colonna permise a F. di farsi approvare una proposta di vita. F. predica agli uccelli perché farlo ai romani è stato inutile. Tra questi uccelli appare l’angelo dell’Apocalisse che fa fuori quei vizi e quelle turpitudini.

C’è una letteratura con lo sfondo dell’Apocalisse, ma più sulle reinterpretazioni di F. secondo gli spirituali che si rifanno all’Apocalisse. S. Bonaventura stesso che ha una visione provvidenziale della vita di F., la legge tutta alla luce dell’Apocalisse: l’angelo del sesto sigillo. Fa teologia della storia.

La testimonianza di F. fa vedere come, se il Vangelo entra, non ci sono resistenze. F. ha saputo leggere la situazione in altro modo da quello di Innocenzo III che nella "Quia major" ordina ai preti di aggiungere nella Messa una preghiera a Dio onnipotente e misericordioso perché sia liberata la Terra Santa dal sangue del suo Figlio, dai nemici della croce di Cristo, e poi c’è tutta una sfilza di aggettivi sui nemici, che non è piacevole. E bisognava dirla dopo la Messa, perché questi nemici fossero distrutti. Erano citazioni prese da diversi salmi, per es.: sorge Dio e i suoi nemici fuggano lontano, sorge Iddio e distrugge i suoi nemici. Erano preghiere a sfondo bellico e dovevano stare nella liturgia perché tutta la cristianità pregasse per quella causa. C’era anche una volontà ideologica forte di fare unità: per riformarsi, la Chiesa ha bisogno di ritrovarsi unita e la crociata diventa un modo per ottenerlo. Innocenzo III doveva anche mandare giù l’inganno della IV Crociata quando la ragione politica aveva prevalso; i crociati si erano fermati a Costantinopoli, lui non lo sapeva anche se dopo ha benedetto (1204).

C’era una difficoltà nella Chiesa del tempo a pensare in altro modo e c’era anche la non conoscenza, anche se le crociate favoriranno lo scambio. Gli anni di F. sono quelli del confronto più forte, di una cristianità che si scopre unita in quella lotta. Alcuni dicono anche che questa politica serviva per unificare la Chiesa sotto il papato. Non c’era l’unità di oggi, il Papa non faceva tutti i vescovi, non esercitava la sua potestà in tutte le diocesi, ecc. La crociata è stata anche un modo per far sentire il peso dell’autorità pontificia ed unificare la Chiesa, almeno un tentativo. Nel libro che citavo all’inizio, diversi documenti fanno vedere come fosse centrale la figura del Papa.

F. non è bucolico, zeffirelliano; è un uomo che più avanza verso la maturità, più è solo. La Verna (1224) rappresenta il vertice della solitudine di F., soprattutto rispetto al suo Ordine, e F. sicuramente sale alla Verna con la domanda: ho sbagliato tutto? Gli altri vanno per un’altra strada. F. testimonia questo in molti modi, anche nei suoi scritti. Nelle lettere che scrive si vede lo sfondo autobiografico. Per esempio scrive a un provinciale che voleva andarsene in un eremo perché i frati erano arrivati a batterlo anche fisicamente ed era stufo. F. gli scrive: io ti dico, rimani nel tuo ufficio e non ci sia un frate che possa peccare mille volte davanti a te che non veda nei tuoi occhi il perdono; se non te lo chiede, chiedigli tu se vuol essere perdonato, e questo sia per te più che stare in un eremo. E conclude: non pretendere che questo frate diventi per te un frate migliore. Qualcuno ha scritto che qui F. va oltre il Vangelo. "Non pretendere per te..." va al cuore dell’orgoglio e della superbia che si ammantano di carità, mentre invece vuole possedere l’altro. "Non pretendere…" fa vedere come F. stesso ha lasciato questa pretesa.

"Perfetta letizia" è una favola che F. racconta, ma chi è quel frate che bussa alla Porziuncola e si sente dire: siamo diventati numerosi, potenti, non abbiamo più bisogno di te, sei ignorante, idiota, vattene dai frati ospedalieri. Quel frate è F., è lui. L’Ordine è diventato grande, potente. F. se in breve tempo – due anni dopo la morte – è stato rinchiuso nell’icona, è evidente che già lo era. Chiara Frugoni vi ha accennato alla questione delle stigmate che lei ha approfondito. Al di là dell’interrogativo se F. avesse o no le stigmate – non è l’aspetto più importante – quello che lei dice è difficilmente criticabile: l’Ordine e la Chiesa hanno costruito di F. una immagine che ci siamo portati dietro fino a un recente passato e che ha tolto gli elementi più duri. Il primo Celano, però, non riesce a nascondere la sofferenza di F. negli ultimi anni rispetto alla situazione del suo Ordine. La sconfitta la misuriamo soprattutto lì. Ma questa sconfitta per F. è scegliere la via della debolezza, che è la via della croce, non la via della forza. F. in alcuni passi diventa terribile con i frati, li maledice, dice che non vuole più vederli, che non sono cattolici, che nelle file dell’Ordine entrava un pò di tutto, probabilmente anche eretici che volevano sfuggire alla pena di morte come in Provenza. C’era un pò di tutto dentro queste file, non tutto era idilliaco e bucolico. Arriva a dire: non li voglio più vedere se non dicono il breviario. Chissà che direbbe di noi. Non sono cattolici. Qualcuno le chiama le durezze di F. morente.

La regola fondamentale dei terziari francescani era non possedere armi. Poi il Terzo Ordine è diventato una pia congrega. Nel Medio Evo scegliere di non avere armi era molto impegnativo. Anche questa scelta di F. ha avuto una sua consequenzialità; questa sconfitta si è poi incarnata in un modo concreto. F. è sconfitto perché dice che nell’Ordine i superiori devono stare sotto i sudditi e i sudditi sopra i superiori. Fa un macello. Per lunghi secoli i superiori non hanno mai citato queste frasi di F. Così deve essere: i ministri siano i servi dei loro sudditi e i sudditi, i frati, siano i ministri dei loro padroni. E’ un gioco...al Vangelo. F. voleva rivoluzionare i rapporti all’interno della comunità. Anche in questo, F. subirà una cocente sconfitta da un parte, ma da un’altra parte no perché il vangelo è nelle vene del francescanesimo e del cristianesimo. Per quanto la Chiesa faccia progetti culturali – che P. Pio ama tanto e promuove – il Vangelo riaffiora. F. non era preoccupato di avere seguaci. Diceva che il numero ideale dell’Ordine era di quattro frati, lui più altri tre. Quando muore, ce ne sono ottomila. Scrive: verrà quel giorno in cui tutti diciamo ecco veramente un frate minore, quando non ci saranno più frati minori. Il Generale attuale in una sua lettera cita questo passo e poi scrive: questo momento è arrivato. Siamo infatti al precipizio con la crisi di vocazioni, siamo nel desiderio di F. Molti frati, però, non hanno gradito questa applicazione.

F. era colto, parlava latino, francese, provenzale, cita i romanzi della Tavola Rotonda con i nomi, conosce la Bibbia a memoria e la liturgia della Chiesa, fa citazioni dai Padri della Chiesa che non si trovavano nel breviario da lui usato. F. recepiva moltissimo. Non era quell’idiota illetterato che si protesta, però non aveva una cultura intellettualistica di élite; era un uomo della buona e solida borghesia di Assisi, molto legato ad aspetti popolari. Scrive canti ritmati da insegnare al popolo con i contenuti della fede vicini a canzoni popolari del tempo. Ha partecipato al Lateranense IV, aveva una grande intelligenza. Chiara di Assisi era più colta, il latino di Chiara è molto raffinato, quello di F. è più andante. Nella Regola bollata si capisce dove l’hanno cambiato perché all’improvviso il latino diventa più forbito. E si vede dove lui si è impuntato con il suo carattere forte, perché spunta fuori l’allitterazione che non sta bene o un termine latino preso dal volgare. F. ha contattato personaggi importanti della sua epoca: Cardinali, Papi, san Domenico.

F. ha paura del potere che le lettere davano. A S. Antonio scrive: "mi piace che leggi la teologia ai frati, purché non si spenga lo spirito della santa orazione e devozione. Sta bene. Frate F." F. dice anche più volte che bisogna onorare e venerare i teologi che ci insegnano la parola di Dio e dobbiamo essere loro molto riconoscenti perché ci trasmettono la parola di Dio. Temeva però che i frati diventassero teologi perché li vedeva assurgere ad incarichi. Morto F., a Parigi c’era un convento di 200 frati che insidiavano i posti di lettori ai laici dell’Università. E i Domenicani davano man forte. Quella degli studi nell’Ordine è una questione che resterà sempre: i frati non studiano per studiare ma per evangelizzare e quello che è più di questo, è superfluo. Poi, la realtà?...