Incontri di discernimento e solidarietà

EVANGELII GAUDIUM


Proposte di temi per un percorso sulla Evangelii Gaudium



Franco Passuello



1. Chiamati ad una trasformazione missionaria della Chiesa


Il ruolo centrale della parrocchia

La EG di papa Francesco (e del Sinodo dei vescovi) è una chiamata pressante a fare la nostra parte per una improrogabile “trasformazione missionaria della Chiesa” (Cap. I).

Il papa parla di una Pastorale in conversione. E conferma la parrocchia come un soggetto e un luogo privilegiato di questa conversione missionaria: “attraverso tutte le sue attività, la parrocchia incoraggia e forma i suoi membri perché siano agenti dell’evangelizzazione”. (n. 28).

Tutti i discepoli sono missionari

La nuova evangelizzazione chiama ad un nuovo protagonismo ciascuno dei battezzati (Cap III).

La forza santificatrice dello Spirito opera in tutti i battezzati e li spinge ad evangelizzare. Il Popolo di Dio è santo proprio perché il battesimo lo rende infallibile “in credendo”: se davvero credi non sbagli; lo Spirito ti guida nella verità e ti conduce alla salvezza (n.119).

Dio dota tutti i fedeli di un istinto della fede - il sensus fidei - che li aiuta a discernere ciò che viene realmente da Dio. Anche quando non dispongono di strumenti adeguati per esprimersi con precisione.

Ciascun battezzato, “qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni”.

Un appello diretto

La EG è dunque un appello diretto ad ogni cristiano, perché non rinunci al proprio impegno di evangelizzazione. Chi ha realmente fatto esperienza dell’amore di Dio che lo salva, non ha bisogno di molto tempo di preparazione per andare ad annunciarlo. I credenti sono sempre “discepoli-missionari” (n. 120).

Comunicare Gesù in questo tempo

Anche tutti i laici sono chiamati a crescere come evangelizzatori. Certo, bisogna anche adoperarsi per una migliore formazione, un approfondimento del nostro amore e una più chiara testimonianza del Vangelo. In questo senso, dobbiamo costantemente lasciare che gli altri ci evangelizzino.

Questo non vuol dire che dobbiamo rinunciare alla missione evangelizzatrice: dobbiamo piuttosto trovare un modo di comunicare Gesù che corrisponda alla situazione in cui ci troviamo.

Il bene tende sempre a comunicarsi. Ogni esperienza autentica di verità e di bellezza cerca per se stessa la sua espansione, e ogni persona che viva una profonda liberazione acquisisce maggiore sensibilità davanti alle necessità degli altri. Comunicandolo, il bene attecchisce e si sviluppa. Per questo, chi desidera vivere con dignità e pienezza non ha altra strada che riconoscere l’altro e cercare il suo bene (n. 9).

Una testimonianza esplicita

Siamo tutti chiamati ad offrire agli altri la testimonianza esplicita dell’amore salvifico del Signore, che al di là delle nostre imperfezioni ci offre la sua vicinanza, la sua Parola, la sua forza, e dà senso alla nostra vita (n. 121).



2. Nuova evangelizzazione e “pastorale in conversione”


Una gioia confortante che si rinnova e si comunica

L’evangelizzazione è una gioia confortante che si rinnova e si comunica. Quando la Chiesa chiama all’impegno evangelizzatore, non fa altro che indicare ai cristiani il vero dinamismo della realizzazione personale: «Qui scopriamo un’altra legge profonda della realtà: la vita cresce e matura nella misura in cui la doniamo per la vita degli altri. La missione, alla fin fine, è questo» [Documento di Aparecida, 360] (n. 10).

Una Chiesa in uscita

La Chiesa della nuova evangelizzazione è “una Chiesa in uscita”. Tutti siamo chiamati a questa nuova “uscita” missionaria. Uscire dalla nostra comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo (n. 20). La Chiesa “in uscita” è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano (n. 24).

Questa pastorale “non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine che si tenta di imporre a forza di insistere”. L’annuncio si concentra sull’essenziale, “su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario. La proposta si semplifica, senza perdere per questo profondità e verità, e così diventa più convincente e radiosa” (n. 35).

La missione si incarna nei limiti umani

La Chiesa ha bisogno di crescere nella sua interpretazione del­la Parola rivelata e nella sua comprensione della verità (n. 40). Però gli insegnamenti della Chiesa non saranno mai qualcosa di facilmente comprensibile e felicemente apprezzato da tutti. La fede conserva sempre un aspetto di croce, qualche oscurità”. E ogni insegnamento deve situarsi “nell’atteggiamento evangelizzatore che risvegli l’adesione del cuore con la vicinanza, l’amore e la testimonianza” (n. 42).

La perfezione non è possibile. Un cuore missionario è consapevole di questi limiti e si fa «debole con i deboli […] tutto per tutti» (1 Cor 9,22)” (n. 45).

Una madre dal cuore aperto

La Chiesa “in uscita” è una Chiesa con le porte aperte. È chiamata ad essere sempre la casa aperta del Padre. Uscire verso gli altri per giungere alle periferie umane non vuol dire correre verso il mondo senza una direzione e senza senso. Molte volte è meglio rallentare il passo, mettere da parte l’ansietà per guardare negli occhi e ascoltare, o rinunciare alle urgenze per accompagnare chi è rimasto al bordo della strada (n. 46).

I poveri destinatari privilegiati del Vangelo

Con questo dinamismo missionario la Chiesa deve arrivare a tutti, senza eccezioni. Però nel Vangelo c’è un orientamento molto chiaro: vanno privilegiati soprattutto i poveri e gli infermi, coloro che spesso sono disprezzati e dimenticati, «coloro che non hanno da ricambiarti» (Lc 14,14).

198. Per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica. La Chiesa ha fatto una opzione per i poveri intesa come una «forma speciale di primazia nell’esercizio della carità cristiana, della quale dà testimonianza tutta la tradizione della Chiesa». “Per questo desidero una Chiesa povera per i poveri. La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa. Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro” (n. 198).

La peggior discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale. L’immensa maggioranza dei poveri possiede una speciale apertura alla fede; hanno bisogno di Dio e non possiamo tralasciare di offrire loro la sua amicizia, la sua benedizione, la sua Parola, la celebrazione dei Sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e di maturazione nella fede (n. 200).

Nessuno dovrebbe dire che si mantiene lontano dai poveri perché le sue scelte di vita comportano di prestare più attenzione ad altre incombenze (n. 201).

Niente deve indebolire questo messaggio tanto chiaro. Oggi e sempre, «i poveri sono i destinatari privilegiati del Vangelo» e l’evangelizzazione rivolta gratuitamente ad essi è segno del Regno che Gesù è venuto a portare. Esiste un vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri. Non lasciamoli mai soli (n. 48): “preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze”(n. 49).



3. Superare le tentazioni degli operatori pastorali


Dice Papa Francesco: “come figli di questa epo­ca, tutti siamo in qualche modo sotto l’influsso della cultura attuale globalizzata, che, pur pre­sentandoci valori e nuove possibilità, può anche limitarci, condizionarci e persino farci ammalare. Riconosco che abbiamo bisogno di creare spazi adatti a motivare e risanare gli operatori pastorali” (n. 77).

Sì alla sfida di una spiritualità missionaria

Molti operatori pastorali vivono i propri compiti come una mera appendice della vita. E si riscontrano tre mali che si alimentano l’uno con l’altro: un’accentuazione dellindi­vidualismo, una crisi d’identità e un calo del fervore (n. 78).

Si sviluppa un relativismo prati­co che consiste nell’agire come se Dio non esistesse, decidere come se i poveri non esistessero, sogna­re come gli altri non esistessero, lavorare come se quanti non hanno ricevuto l’annuncio non esi­stessero. Non lasciamoci rubare l’entusiasmo missionario! (n. 80).

No all’accidia egoista

Il problema non sempre è l’eccesso di atti­vità, ma le attività vissute male, senza le motivazioni adeguate, senza una spiri­tualità che permei l’azione e la renda desidera­bile. Da qui deriva che i doveri stanchino più di quanto sia ragionevole, e a volte facciano amma­lare. “L’ansia odierna di arrivare a risultati immediati fa sì che gli opera­tori pastorali non tollerino facilmente il senso di qualche contraddizione, un apparente fallimento, una critica, una croce” (n. 82). “Si sviluppa la psicologia della tomba, che poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo” (n. 83).

No al pessimismo sterile

Una delle tentazioni più serie che soffoca­no il fervore e l’audacia è il senso di sconfitta, che ci trasforma in pessimisti scontenti e disincantati dalla faccia scura (n. 85).

Non si è capaci d discernere i miste­riosi piani della Divina Provvidenza, “che si realiz­zano in tempi successivi attraverso l’opera degli uomini, e spesso al di là delle loro aspettative, e con sapienza dispongono tutto, anche le avverse vicende umane, per il bene della Chiesa” (n. 84).

Sì alle relazioni nuove generate da Gesù Cristo

“L’isolamento, che è una versione dell’immanentismo, si può esprimere in una falsa autonomia che esclude Dio e che però può anche trovare nel religioso una forma di consumismo spirituale alla portata del suo morboso individualismo” (n. 89).

“È necessa­rio aiutare a riconoscere che l’unica via consiste nell’imparare a incontrarsi con gli altri con l’at­teggiamento giusto, apprezzandoli e accettandoli come compagni di strada, senza resistenze inte­riori. Meglio ancora, si tratta di imparare a sco­prire Gesù nel volto degli altri, nella loro voce, nelle loro richieste” (n. 91); “il modo di relazionarci con gli altri che realmente ci risana invece di farci ammalare, è una fraternità mistica, contemplativa” (n. 92).

No alla mondanità spirituale e alla guerra tra noi

“Chiediamo al Signore che ci faccia comprendere la legge dell’amore. Che buona cosa è avere questa legge! Quanto ci fa bene amarci gli uni gli altri al di là di tutto! Sì, al di là di tutto!” (n. 101).

4. Il ruolo dei laici nella Chiesa in uscita


Una coscienza ancora insufficiente

Nel secondo Capitolo la EG fa una constatazione importante: i laici sono semplicemente l’immensa maggioranza del popolo di Dio; al loro servizio c’è una minoranza: i ministri ordinati.

“Disponiamo di un numeroso laica­to, benché non sufficiente, con un radicato senso comunitario e una grande fedeltà all’impegno del­la carità, della catechesi, della celebrazione della fede”.

È cresciuta la coscienza dell’identità e della missione del laico nella Chiesa. Ma la presa di coscienza di questa responsa­bilità laicale che nasce dal Battesimo e dalla Con­fermazione non si manifesta nello stesso modo da tutte le parti.

In alcuni casi perché non si sono formati per assumere responsabilità importanti, in altri casi per non aver trovato spazio nelle loro Chiese particolari per poter esprimersi ed agire, a causa di un eccessivo clericalismo che li mantiene al margine delle decisioni.

Una sfida importante

Si nota una maggiore partecipazione di molti ai ministeri lai­cali ma questo impegno non si riflette nella penetra­zione dei valori cristiani nel mondo sociale, poli­tico ed economico. Si limita molte volte a compiti intraecclesiali senza un reale impegno per l’ap­plicazione del Vangelo alla trasformazione della società.

La formazione dei laici e l’evangelizza­zione delle categorie professionali e intellettua­li rappresentano un’importante sfida pastorale (n. 102).

L’indispensabile ruolo della donna

La Chiesa riconosce l’indispensabile ap­porto della donna nella società, con una sensi­bilità, un’intuizione e certe capacità peculiari che sono solitamente più proprie delle donne che degli uomini.

Ad esempio, la speciale attenzio­ne femminile verso gli altri, che si esprime in modo particolare, anche se non esclusivo, nella maternità (n. 103).

Una nuova pastorale giovanile

La tradizionale pastorale giovanile ha sofferto l’urto dei cam­biamenti sociali. I giovani, nelle strutture abituali, spesso non trovano risposte alle loro inquietudi­ni, necessità, problematiche e ferite.

A noi adul­ti costa ascoltarli con pazienza, comprendere le loro inquietudini o le loro richieste, e imparare a parlare con loro nel linguaggio che essi com­prendono.

Per questa stessa ragione le proposte educative non producono i frutti sperati. La pro­liferazione e la crescita di associazioni e movi­menti prevalentemente giovanili si possono in­terpretare come un’azione dello Spirito che apre strade nuove in sintonia con le loro aspettative e con la ricerca di spiritualità profonda e di un senso di appartenenza più concreto.

È necessa­rio, tuttavia, rendere più stabile la partecipazione di queste aggregazioni all’interno della pastorale d’insieme della Chiesa (n. 105).



5. Una catechesi kerygmatica e mistagogica


Un’evangelizzazione per l’approfondimento del kerygma

Il mandato missionario del Signore comprende l’appello alla crescita della fede quando indica: «insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,20). Il primo annuncio deve dunque dar luogo anche ad un cammino di formazione e di maturazione (n. 160). Non è esclusivamente o prioritariamente una formazione dottrinale. Si tratta di «osservare» quello che il Signore ci ha indicato, come risposta al suo amore, dove risalta, insieme a tutte le virtù, quel comandamento nuovo che meglio ci identifica come discepoli: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12) (n. 161).

Questo cammino di risposta e di crescita è sempre preceduto dal dono. L’adozione a figli che il Padre regala gratuitamente e l’iniziativa del dono della sua grazia (cfr Ef 2,8-9; 1 Cor 4,7) sono la condizione di possibilità di questa santificazione permanente. Si tratta di lasciarsi trasformare in Cristo per una progressiva vita «secondo lo Spirito» (Rm 8,5) (n. 162 ).

Una catechesi kerygmatica

Il kerygma è trinitario. È il fuoco dello Spirito che si dona sotto forma di lingue e ci fa credere in Gesù Cristo, che con la sua morte e resurrezione ci rivela e ci comunica l’infinita misericordia del Padre.

“Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti”. Quando diciamo che questo annuncio è “il primo”, ciò non significa che sta all’inizio e dopo si dimentica o si sostituisce con altri contenuti che lo superano. È il primo in senso qualitativo e lo si deve sempre tornare ad annunciare (n. 164).

“Non c’è nulla di più solido, di più profondo, di più sicuro, di più consistente e di più saggio di tale annuncio”.

La centralità del kerygma richiede che l’annuncio: esprima l’amore salvifico di Dio previo all’obbligazione morale e religiosa; non imponga la verità e faccia appello alla libertà; possieda qualche nota di gioia, stimolo, vitalità, ed un’armoniosa completezza che non riduca la predicazione a poche dottrine a volte più filosofiche che evangeliche.

Questo esige dall’evangelizzatore vicinanza, apertura al dialogo, pazienza, accoglienza cordiale che non condanna (n. 165).

Una iniziazione mistagogica

Nella catechesi, l’iniziazione mistagogica significa essenzialmente due cose: la necessaria progressività dell’esperienza formativa in cui interviene tutta la comunità ed una rinnovata valorizzazione dei segni liturgici dell’iniziazione cristiana. (…)

L’incontro catechistico è un annuncio della Parola ed è centrato su di essa, ma ha sempre bisogno di un’adeguata ambientazione e di una motivazione attraente, dell’uso di simboli eloquenti, dell’inserimento in un ampio processo di crescita e dell’integrazione di tutte le dimensioni della persona in un cammino comunitario di ascolto e di risposta (n. 166).

È bene che ogni catechesi presti una speciale attenzione alla “via della bellezza” (via pulchritudinis). “Annunciare Cristo significa mostrare che credere in Lui e seguirlo non è solamente una cosa vera e giusta, ma anche bella, capace di colmare la vita di un nuovo splendore e di una gioia profonda, anche in mezzo alle prove”. Non un relativismo estetico, che oscuri il legame inseparabile tra verità, bontà e bellezza, ma il recupero della stima della bellezza per giungere al cuore umano e far risplendere in esso la verità e la bontà del Risorto (n. 167).

La proposta morale della catechesi invita a crescere nella fedeltà allo stile di vita del Vangelo. È opportuno indicare sempre il bene desiderabile, la proposta di vita, di maturità, di realizzazione, di fecondità, alla cui luce si può comprendere la nostra denuncia dei mali che possono oscurarla. “Più che come esperti in diagnosi apocalittiche o giudici oscuri che si compiacciono di individuare ogni pericolo o deviazione, è bene che possano vederci come gioiosi messaggeri di proposte alte, custodi del bene e della bellezza che risplendono in una vita fedele al Vangelo” (n.168).

L’accompagnamento personale dei processi di crescita

La Chiesa ha bisogno di uno sguardo di vicinanza per contemplare, commuoversi e fermarsi davanti all’altro tutte le volte che sia necessario. In questo mondo i ministri ordinati e gli altri operatori pastorali possono rendere presente la fragranza della presenza vicina di Gesù ed il suo sguardo personale. La Chiesa dovrà iniziare i suoi membri – sacerdoti, religiosi e laici – a questa “arte dell’accompagnamento”. “Dobbiamo dare al nostro cammino il ritmo salutare della prossimità, con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione ma che nel medesimo tempo sani, liberi e incoraggi a maturare nella vita cristiana” (n. 169).

Più che mai abbiamo bisogno di uomini e donne che, a partire dalla loro esperienza di accompagnamento, conoscano il modo di procedere, dove spiccano la prudenza, la capacità di comprensione, l’arte di aspettare, la docilità allo Spirito, per proteggere tutti insieme le pecore che si affidano a noi dai lupi che tentano di disgregare il gregge Abbiamo bisogno di esercitarci nell’arte di ascoltare, di «una pedagogia che introduca le persone, passo dopo passo, alla piena appropriazione del mistero» (n. 171).

Il Vangelo ci propone di correggere e aiutare a crescere una persona a partire dal riconoscimento della malvagità oggettiva delle sue azioni (cfr Mt 18,15), ma senza emettere giudizi sulla sua responsabilità e colpevolezza (cfr Mt 7,1; Lc 6,37) (n. 172).

Aprire a tutti lo studio della Parola di Dio

Non solamente l’omelia deve alimentarsi della Parola di Dio. Tutta l’evangelizzazione è fondata su di essa, ascoltata, meditata, vissuta, celebrata e testimoniata. La Sacra Scrittura è fonte dell’evangelizzazione. Pertanto, bisogna formarsi continuamente all’ascolto della Parola. La Chiesa non evangelizza se non si lascia continuamente evangelizzare. È indispensabile che la Parola di Dio «diventi sempre più il cuore di ogni attività ecclesiale» (n. 174).

Lo studio della Sacra Scrittura dev’essere una porta aperta a tutti i credenti. È fondamentale che la Parola rivelata fecondi radicalmente la catechesi e tutti gli sforzi per trasmettere la fede. L’evangelizzazione richiede la familiarità con la Parola di Dio e questo esige che le diocesi, le parrocchie e tutte le aggregazioni cattoliche propongano uno studio serio e perseverante della Bibbia, come pure ne promuovano la lettura orante personale e comunitaria (n. 175).



6. Un popolo unito e dai molti volti


Un popolo per tutti

La salvezza che Dio ci offre è opera della sua misericordia. Non esiste azione umana, per buona che possa essere, che ci faccia meritare un dono così grande. Dio, per pura grazia, ci attrae per unirci a Sé (n. 112). Questa salvezza, che Dio realizza e che la Chiesa gioiosamente annuncia, è per tutti e Dio ha dato origine a una via per unirsi a ciascuno degli esseri umani di tutti i tempi. Ha scelto di convocarli come popolo e non come esseri isolati. Nessuno si salva da solo, né come individuo isolato né con le sue proprie forze.

Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali di una comunità umana. Nella Chiesa «non c’è Giudeo né Greco... perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). “Mi piacerebbe dire a quelli che si sentono lontani da Dio e dalla Chiesa, a quelli che sono timorosi e agli indifferenti: il Signore chiama anche te ad essere parte del suo popolo e lo fa con grande rispetto e amore!” (n. 113).

Essere Chiesa significa essere Popolo di Dio, “fermento di Dio in mezzo all’umanità”. Vuol dire annunciare e portare la salvezza di Dio in un mondo, che spesso si perde, che ha bisogno di avere risposte che incoraggino, che diano speranza, che diano nuovo vigore nel cammino.

La Chiesa dev’essere il luogo della misericordia gratuita, dove tutti possano sentirsi accolti, amati, perdonati e incoraggiati a vivere secondo la vita buona del Vangelo (n. 114).

Un popolo dai molti volti

Questo Popolo di Dio si incarna nei popoli della Terra, ciascuno con la propria cultura. L’essere umano è sempre culturalmente situato: natura e cultura sono strettamente connesse. La grazia suppone la cultura, e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve (n. 115).

Quando una comunità accoglie l’annuncio della salvezza, lo Spirito Santo ne feconda la cultura con la forza trasformante del Vangelo. Il cristianesimo non dispone di un unico modello culturale: «restando pienamente se stesso (…) esso porterà anche il volto delle tante culture e dei tanti popoli in cui è accolto e radicato». Nei popoli che sperimentano il dono di Dio secondo la propria cultura, la Chiesa esprime la sua autentica cattolicità e mostra «la bellezza di questo volto pluriforme».

Nell’inculturazione, la Chiesa «introduce i popoli con le loro culture nella sua stessa comunità», perché «i valori e le forme positivi» che ogni cultura propone «arricchiscono la maniera in cui il Vangelo è annunciato, compreso e vissuto» (n. 116).

Se ben intesa, la diversità culturale non minaccia l’unità della Chiesa. È lo Spirito Santo, inviato dal Padre e dal Figlio, che trasforma i nostri cuori e ci rende capaci di entrare nella comunione perfetta della Santissima Trinità, dove ogni cosa trova la sua unità. L’evangelizzazione riconosce gioiosamente queste molteplici ricchezze che lo Spirito genera nella Chiesa. Perciò, nell’evangelizzazione di nuove culture o di culture che non hanno accolto la predicazione cristiana, non è indispensabile imporre una determinata forma culturale, per quanto bella e antica. A volte nella Chiesa “cadiamo nella vanitosa sacralizzazione della propria cultura, e con ciò possiamo mostrare più fanatismo che autentico fervore evangelizzatore (n. 117).



7. Nuova missione e sfide del mondo attuale


Alcune sfide del mondo attuale

L’umanità vive una svolta storica che possiamo vedere nei progressi che si producono in diversi campi. Si devono lodare i successi che contribuiscono al benessere delle persone (nell’ambito della salute, dell’educazione e della comunicazione…).

Non possiamo tuttavia dimenticare che la maggior parte degli uomini e delle donne del nostro tempo vivono una quotidiana precarietà, con conseguenze funeste. Aumentano alcune patologie.

Il timore e la disperazione si impadroniscono del cuore di numerose persone, persino nei cosiddetti paesi ricchi. La gioia di vivere frequentemente si spegne, crescono la mancanza di rispetto e la violenza, l’inequità diventa sempre più evidente. Bisogna lottare per vivere e, spesso, per vivere con poca dignità.

Siamo nell’era della conoscenza e dell’informazione, fonte di nuove forme di un potere molto spesso anonimo (Cap. II, n. 52).

No a un’economia dell’esclusione

Così come il comandamento “non uccide­re” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’e­conomia dell’esclusione e della inequità”. Questa economia uccide. Oggi tutto entra nel gioco della compe­titività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole.

Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è inequità.

Grandi masse di popolazione si ve­dono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’es­sere umano in se stesso come un bene di consu­mo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa.

Non più solo sfruttamento e oppres­sione ma qualcosa di nuovo: gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”. Con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenen­za alla società in cui si vive; in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori (n. 53).

54. alcuni ancora difendono le teorie della “ricaduta favorevole”, che presup­pongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, mai confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e inge­nua nella bontà di coloro che detengono il po­tere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare.

La cultura del be­nessere ci anestetizza. Per soste­nere uno stile di vita che esclude gli altri, o per potersi entusiasmare con questo ideale egoistico, si è sviluppata una globalizzazione dell’indiffe­renza. Quasi senza accorgercene, diventiamo in­capaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete.

No alla nuova idolatria del denaro. No all’inequità che genera violenza



8. Confessione della fede e impegno sociale


Le ripercussioni comunitarie e sociali del kerygma

Evangelizzare è rendere presente nel mondo il Regno di Dio (n. 176). Il kerygma possiede un contenuto ineludibilmente sociale: nel cuore stesso del Vangelo vi sono la vita comunitaria e l’impegno con gli altri. Il contenuto del primo annuncio ha un’immediata ripercussione morale il cui centro è la carità (Cap. IV, n. 177).

Confessione della fede e impegno sociale

Confessare che il Figlio di Dio ha assunto la nostra carne umana significa che ogni persona umana è stata elevata al cuore stesso di Dio. La sua redenzione ha un significato sociale perché «Dio, in Cristo, non redime solamente la singola persona, ma anche le relazioni sociali tra gli uomini». Confessare che lo Spirito Santo agisce in tutti implica riconoscere che Egli cerca di penetrare in ogni situazione umana e in tutti i vincoli sociali. L’evangelizzazione cerca di cooperare anche con tale azione liberatrice dello Spirito (n. 178).

Dal cuore del Vangelo riconosciamo l’intima connessione tra evangelizzazione e promozione umana. L’accettazione del primo annuncio provoca nella vita della persona e nelle sue azioni una prima e fondamentale reazione: desiderare, cercare e avere a cuore il bene degli altri.

L’assoluta priorità dell’«uscita da sé verso il fratello» è uno dei due comandamenti principali che fondano ogni norma morale. Per ciò stesso «anche il servizio della carità è una dimensione costitutiva della missione della Chiesa ed è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza». Come la Chiesa è missionaria per natura, così sgorga inevitabilmente da tale natura la carità effettiva per il prossimo, la compassione che comprende, assiste e promuove (n.179).

Il Regno che ci chiama

La proposta del Vangelo non consiste solo in una relazione personale con Dio. E neppure la nostra risposta di amore può intendersi come una mera somma di piccoli gesti personali verso qualche individuo bisognoso (“carità à la carte”), come una serie di azioni tendenti a tranquillizzare la propria coscienza. La proposta è il Regno di Dio (Lc 4,43); si tratta di amare Dio che regna nel mondo. Nella misura in cui Egli riuscirà a regnare tra di noi, la vita sociale sarà uno spazio di fraternità, di giustizia, di pace, di dignità per tutti. Dunque, tanto l’annuncio quanto l’esperienza cristiana tendono a provocare conseguenze sociali (n. 180).

Il Regno che cresce tra di noi riguarda tutto e ci ricorda che il vero sviluppo riguarda «ogni uomo e tutto l’uomo». Il Vangelo e la vita concreta, personale e sociale, dell’uomo si fanno continuamente reciproco appello. È l’universalità della dinamica del Vangelo. Il mandato è: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15), perché «l’ardente aspettativa della creazione è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio» (Rm 8,19). La vera speranza cristiana, che cerca il Regno escatologico, genera sempre storia (n. 181).

La Chiesa e le questioni sociali

Il compito dell’evangelizzazione, dunque, implica ed esige una promozione integrale di ogni essere umano. I Pastori, accogliendo gli apporti delle diverse scienze, hanno il diritto di emettere opinioni su tutto ciò che riguarda la vita delle persone. Non si può più affermare che la religione deve limitarsi all’ambito privato e che esiste solo per preparare le anime per il cielo. La conversione cristiana esige di riconsiderare «specialmente tutto ciò che concerne l’ordine sociale ed il conseguimento del bene comune» (n. 182).

Nessuno può esigere da noi che releghiamo la religione alla segreta intimità delle persone, senza alcuna influenza sulla vita sociale e nazionale, senza preoccuparci per la salute delle istituzioni della società civile, senza esprimersi sugli avvenimenti che interessano i cittadini. “Sebbene «il giusto ordine della società e dello Stato sia il compito principale della politica», la Chiesa «non può né deve rimanere ai margini della lotta per la giustizia». Tutti i cristiani, anche i Pastori, sono chiamati a preoccuparsi della costruzione di un mondo migliore (n. 183).

Il Papa e la Chiesa non posseggono il monopolio dell’interpretazione della realtà sociale o della proposta di soluzioni per i problemi contemporanei. Spetta alle comunità cristiane analizzare obiettivamente la situazione del loro paese (n. 184).

Due grandi questioni appaiono fondamentali e determineranno il futuro dell’umanità: la inclusione sociale dei poveri; la pace e il dialogo sociale (n. 185).

Ascoltare il grido per la giustizia

Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società; questo suppone che siamo docili e attenti ad ascoltare il grido del povero e soccorrerlo (n. 187).

«La Chiesa, guidata dal Vangelo della misericordia e dall’amore all’essere umano, ascolta il grido per la giustizia e desidera rispondervi con tutte le sue forze». In questo quadro si comprende la richiesta di Gesù ai suoi discepoli: «Voi stessi date loro da mangiare» (Mc 6,37), e ciò implica sia la collaborazione per risolvere le cause strutturali della povertà e per promuovere lo sviluppo integrale dei poveri, sia i gesti più semplici e quotidiani di solidarietà.

La parola “solidarietà” si è un po’ logorata e a volte la si interpreta male, ma indica molto di più di qualche atto sporadico di generosità. Richiede di creare una nuova mentalità che pensi in termini di comunità, di priorità della vita di tutti rispetto all’appropriazione dei beni da parte di alcuni (n. 188).

La solidarietà è una reazione spontanea di chi riconosce la funzione sociale della proprietà e la destinazione universale dei beni come realtà anteriori alla proprietà privata (n. 189).

Avere cura della fragilità

È indispensabile prestare attenzione per essere vicini a nuove forme di povertà e di fragilità in cui siamo chiamati a riconoscere Cristo sofferente, anche se questo apparentemente non ci porta vantaggi tangibili e immediati: i senza tetto, i tossicodipendenti, i rifugiati, i popoli indigeni, gli anziani sempre più soli e abbandonati, ecc. I migranti mi pongono una particolare sfida perché sono Pastore di una Chiesa senza frontiere che si sente madre di tutti (n. 210).

Mi ha sempre addolorato la situazione di coloro che sono oggetto delle diverse forme di tratta di persone. Vorrei che si ascoltasse il grido di Dio che chiede a tutti noi: «Dov’è tuo fratello?» (Gen 4,9) (n. 211).

Doppiamente povere sono le donne che soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza, perché spesso si trovano con minori possibilità di difendere i loro diritti (n. 212).

Tra questi deboli, di cui la Chiesa vuole prendersi cura con predilezione, ci sono anche i bambini nascituri, che sono i più indifesi e innocenti di tutti, ai quali oggi si vuole negare la dignità umana al fine di poterne fare quello che si vuole, togliendo loro la vita e promuovendo legislazioni in modo che nessuno possa impedirlo. (…) Eppure questa difesa della vita nascente è intimamente legata alla difesa di qualsiasi diritto umano. Suppone la convinzione che un essere umano è sempre sacro e inviolabile, in qualunque situazione e in ogni fase del suo sviluppo (n. 213).

Proprio perché è una questione che ha a che fare con la coerenza interna del nostro messaggio sul valore della persona umana, non ci si deve attendere che la Chiesa cambi la sua posizione su questa questione. Voglio essere del tutto onesto al riguardo. Questo non è un argomento soggetto a presunte riforme o a “modernizzazioni”. Non è progressista pretendere di risolvere i problemi eliminando una vita umana. Però è anche vero che abbiamo fatto poco per accompagnare adeguatamente le donne che si trovano in situazioni molto dure, dove l’aborto si presenta loro come una rapida soluzione alle loro profonde angustie, particolarmente quando la vita che cresce in loro è sorta come conseguenza di una violenza o in un contesto di estrema povertà. Chi può non capire tali situazioni così dolorose? (n. 214).

Ci sono altri esseri fragili e indifesi, che molte volte rimangono alla mercé degli interessi economici o di un uso indiscriminato. Mi riferisco all’insieme della creazione. Come esseri umani non siamo dei meri beneficiari, ma custodi delle altre creature. Mediante la nostra realtà corporea, Dio ci ha unito tanto strettamente al mondo che ci circonda, che la desertificazione del suolo è come una malattia per ciascuno, e possiamo lamentare l’estinzione di una specie come fosse una mutilazione. Non lasciamo che al nostro passaggio rimangano segni di distruzione e di morte che colpiscono la nostra vita e quella delle future generazioni (n. 215).

Una solidarietà globale

A volte si tratta di ascoltare il grido di interi popoli, dei popoli più poveri della terra, perché «la pace si fonda non solo sul rispetto dei diritti dell’uomo, ma anche su quello dei diritti dei popoli». Bisogna ripetere che «i più favoriti devono rinunciare ad alcuni dei loro diritti per mettere con maggiore liberalità i loro beni al servizio degli altri» (n. 190).

Non parliamo solamente di assicurare a tutti il cibo, o un «decoroso sostentamento», ma che possano avere «prosperità nei suoi molteplici aspetti». Questo implica educazione, accesso all’assistenza sanitaria, e specialmente lavoro, perché nel lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale, l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita. Il giusto salario permette l’accesso adeguato agli altri beni che sono destinati all’uso comune (n. 192).

Fedeltà al Vangelo per non correre invano

L’imperativo di ascoltare il grido dei poveri si fa carne in noi quando ci commuoviamo nel più intimo di fronte all’altrui dolore (n. 193).

È un messaggio così chiaro, così diretto, così semplice ed eloquente, che nessuna ermeneutica ecclesiale ha il diritto di relativizzarlo. (…) Perché «ai difensori “dell’ortodossia” si rivolge a volte il rimprovero di passività, d’indulgenza o di colpevoli complicità rispetto a situazioni di ingiustizia intollerabili e verso i regimi politici che le mantengono» (n. 194).



9. L’altissima vocazione della politica


I poveri non possono attendere

La necessità di risolvere le cause strutturali della povertà non può attendere, non solo per una esigenza pragmatica di ottenere risultati e di ordinare la società, ma per guarirla da una malattia che la rende fragile e indegna e che potrà solo portarla a nuove crisi. (…) L’inequità è la radice dei mali sociali /n. 202).

La dignità di ogni persona umana e il bene comune sono questioni che dovrebbero strutturare tutta la politica economica, ma a volte sembrano appendici aggiunte dall’esterno per completare un discorso politico senza prospettive né programmi di vero sviluppo integrale (n. 203).

Non possiamo più confidare nella “mano invisibile”

Non possiamo più confidare nelle forze cieche e nella mano invisibile del mercato. La crescita in equità esige qualcosa di più della crescita economica, benché la presupponga, richiede decisioni, programmi, meccanismi e processi specificamente orientati a una migliore distribuzione delle entrate, alla creazione di opportunità di lavoro, a una promozione integrale dei poveri che superi il mero assistenzialismo. “Lungi da me il proporre un populismo irresponsabile, ma l’economia non può più ricorrere a rimedi che sono un nuovo veleno, come quando si pretende di aumentare la redditività riducendo il mercato del lavoro e creando in tal modo nuovi esclusi” (n. 204).

L’economia, come indica la stessa parola, dovrebbe essere l’arte di raggiungere un’adeguata amministrazione della casa comune, che è il mondo intero (n. 206).

L’altissima vocazione della politica

“Chiedo a Dio che cresca il numero di politici capaci di entrare in un autentico dialogo che si orienti efficacemente a sanare le radici profonde e non l’apparenza dei mali del nostro mondo!”

“La politica, tanto denigrata, è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune. Dobbiamo convincerci che la carità «è il principio non solo delle micro-relazioni: rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo, ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici»” (n. 205).

Qualsiasi comunità della Chiesa, nella misura in cui pretenda di stare tranquilla senza occuparsi creativamente e cooperare con efficacia affinché i poveri vivano con dignità e per l’inclusione di tutti, correrà anche il rischio della dissoluzione, benché parli di temi sociali o critichi i governi. Facilmente finirà per essere sommersa dalla mondanità spirituale, dissimulata con pratiche religiose, con riunioni infeconde o con discorsi vuoti (n. 207).



10. Missione e nuova inculturazione della fede


Alcune sfide culturali

Evangelizziamo anche quando cerchiamo di affrontare le diverse sfide che possano presentarsi. A volte queste si manifestano in autentici attacchi alla libertà religiosa o in nuove situazioni di persecuzione dei cristiani, le quali, in alcuni Paesi, hanno raggiunto livelli allarmanti di odio e di violenza. In molti luoghi si tratta piuttosto di una diffusa indifferenza relativista, connessa con la disillusione e la crisi delle ideologie verificatasi come reazione a tutto ciò che appare totalitario.

Ciò danneggia la Chiesa e la vita sociale in genere. Una cultura, in cui ciascuno vuole essere portatore di una propria verità soggettiva, rende difficile che i cittadini desiderino partecipare ad un progetto comune che vada oltre gli interessi e i desideri personali (n. 61).

Nella cultura dominante, il primo posto è occupato da ciò che è esteriore, immediato, visibile, veloce, superficiale, provvisorio. Il reale cede il posto all’apparenza. In molti Paesi, la globalizzazione ha comportato un accelerato deterioramento delle radici culturali con l’invasione di tendenze appartenenti ad altre culture, economicamente sviluppate ma eticamente indebolite (n. 62).

La fede cattolica di molti popoli si trova oggi di fronte alla sfida della proliferazione di nuovi movimenti religiosi, alcuni tendenti al fondamentalismo ed altri che sembrano proporre una spiritualità senza Dio (n. 63).

Il processo di secolarizzazione tende a ridurre la fede e la Chiesa all’ambito privato e intimo e produce una crescente deformazione etica, un indebolimento del senso del peccato personale e sociale e un progressivo aumento del relativismo. Ne deriva un disorientamento generalizzato, specialmente nella fase dell’adolescenza e della giovinezza (n. 64).

Però ci costa mostrare che, quando poniamo sul tappeto altre questioni che suscitano minore accoglienza pubblica, lo facciamo per fedeltà alle medesime convinzioni sulla dignità della persona umana e il bene comune (n. 65).

La famiglia attraversa una crisi culturale profonda, come tutte le comunità e i legami sociali. Nel caso della famiglia, la fragilità dei legami diventa particolarmente grave perché si tratta della cellula fondamentale della società, del luogo dove si impara a convivere nella differenza e ad appartenere ad altri e dove i genitori trasmettono la fede ai figli. Il matrimonio tende ad essere visto come una mera forma di gratificazione affettiva che può costituirsi in qualsiasi modo e modificarsi secondo la sensibilità di ognuno. Ma il contributo indispensabile del matrimonio alla società supera il livello dell’emotività e delle necessità contingenti della coppia (n. 66).

L’individualismo postmoderno e globalizzato favorisce uno stile di vita che indebolisce lo sviluppo e la stabilità dei legami tra le persone, e che snatura i vincoli familiari (n. 67).

Sfide delle culture urbane

La nuova Gerusalemme, la Città santa (cfr Ap 21,2-4), è la meta verso cui è incamminata l’intera umanità. È interessante che la rivelazione ci dica che la pienezza dell’umanità e della storia si realizza in una città. Abbiamo bisogno di riconoscere la città a partire da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze. “La presenza di Dio accompagna la ricerca sincera che persone e gruppi compiono per trovare appoggio e senso alla loro vita. Egli vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata. Dio non si nasconde a coloro che lo cercano con cuore sincero, sebbene lo facciano a tentoni, in modo impreciso e diffuso” (n. 71).

Nella città, l’aspetto religioso è mediato da diversi stili di vita, da costumi associati a un senso del tempo, del territorio e delle relazioni che differisce dallo stile delle popolazioni rurali. Nella vita di ogni giorno i cittadini molte volte lottano per sopravvivere e, in questa lotta, si cela un senso profondo dell’esistenza che di solito implica anche un profondo senso religioso. Dobbiamo contemplarlo per ottenere un dialogo come quello che il Signore realizzò con la Samaritana, presso il pozzo, dove lei cercava di saziare la sua sete (cfr Gv 4,7-26) (n. 72).

Nuove culture continuano a generarsi in queste enormi geografie umane dove il cristiano non suole più essere promotore o generatore di senso, ma che riceve da esse altri linguaggi, simboli, messaggi e paradigmi che offrono nuovi orientamenti di vita, spesso in contrasto con il Vangelo di Gesù. Una cultura inedita palpita e si progetta nella città. Il Sinodo ha constatato che oggi le trasformazioni di queste grandi aree e la cultura che esprimono sono un luogo privilegiato della nuova evangelizzazione. [Cfr Propositio 25.] Ciò richiede di immaginare spazi di preghiera e di comunione con caratteristiche innovative, più attraenti e significative per le popolazioni urbane (n. 73).

Si rende necessaria un’evangelizzazione che illumini i nuovi modi di relazionarsi con Dio, con gli altri e con l’ambiente, e che susciti i valori fondamentali. È necessario arrivare là dove si formano i nuovi racconti e paradigmi, raggiungere con la Parola di Gesù i nuclei più profondi dell’anima delle città. Non bisogna dimenticare che la città è un ambito multiculturale. Nelle grandi città si può osservare un tessuto connettivo in cui gruppi di persone condividono le medesime modalità di sognare la vita e immaginari simili e si costituiscono in nuovi settori umani, in territori culturali, in città invisibili. Svariate forme culturali convivono di fatto, ma esercitano molte volte pratiche di segregazione e di violenza. La Chiesa è chiamata a porsi al servizio di un dialogo difficile (n. 74).



11. Il bene comune e la pace sociale


Economia e distribuzione delle entrate

Abbiamo parlato molto della gioia e dell’amore, ma la Parola di Dio menziona anche il frutto della pace (cfr Gal 5,22) (n. 217).

La pace sociale non può essere intesa come irenismo o come una mera assenza di violenza ottenuta mediante l’imposizione di una parte sopra le altre. E falsa sarebbe anche la pace che servisse come scusa per giustificare un’organizzazione sociale che metta a tacere o tranquillizzi i più poveri, in modo che quelli che godono dei maggiori benefici possano mantenere il loro stile di vita senza scosse mentre gli altri sopravvivono come possono.

Le rivendicazioni sociali, che hanno a che fare con la distribuzione delle entrate, l’inclusione sociale dei poveri e i diritti umani, non possono essere soffocate con il pretesto di costruire un consenso a tavolino o un’effimera pace per una minoranza felice. La dignità della persona umana e il bene comune stanno al di sopra della tranquillità di alcuni che non vogliono rinunciare ai loro privilegi. Quando questi valori vengono colpiti, è necessaria una voce profetica (n. 218).

La pace «non si riduce ad un’assenza di guerra, frutto dell’equilibrio sempre precario delle forze. Essa si costruisce giorno per giorno, nel perseguimento di un ordine voluto da Dio, che comporta una giustizia più perfetta tra gli uomini». In definitiva, una pace che non sorga come frutto dello sviluppo integrale di tutti, non avrà nemmeno futuro e sarà sempre seme di nuovi conflitti e di varie forme di violenza (n. 219).

In ogni nazione, gli abitanti sviluppano la dimensione sociale della loro vita configurandosi come cittadini responsabili in seno ad un popolo, non come massa trascinata dalle forze dominanti. Se «l’essere fedele cittadino è una virtù e la partecipazione alla vita politica è un’obbligazione morale», diventare un popolo è qualcosa di più, e richiede un processo costante nel quale ogni nuova generazione si vede coinvolta (n. 220).

Quattro principi per lo sviluppo della convivenza

È un lavoro lento e arduo che esige di volersi integrare e di imparare a farlo fino a sviluppare una cultura dell’incontro in una pluriforme armonia. 220. Papa Francesco ci indica quattro principi che orientano specificamente lo sviluppo della convivenza sociale e la costruzione di un popolo in cui le differenze si armonizzino all’interno di un progetto comune (n. 221): il tempo è superiore allo spazio (nn. 222-225); l’unità prevale sul conflitto (nn. 226-230); la realtà è più importante dell’idea (nn. 231-233); il tutto è superiore alla parte (nn. 234-237).

Il dialogo sociale come contributo per la pace

L’evangelizzazione implica anche un cammino di dialogo. Per la Chiesa, in questo tempo ci sono in modo particolare tre ambiti di dialogo nei quali deve essere presente, per adempiere un servizio in favore del pieno sviluppo dell’essere umano e perseguire il bene comune: il dialogo con gli Stati, con la società – che comprende il dialogo con le culture e le scienze – e quello con altri credenti che non fanno parte della Chiesa cattolica. In tutti i casi «la Chiesa parla a partire da quella luce che le offre la fede», apporta la sua esperienza di duemila anni e conserva sempre nella memoria le vite e le sofferenze degli esseri umani. Questo va aldilà della ragione umana, ma ha anche un significato che può arricchire quelli che non credono e invita la ragione ad ampliare le sue prospettive (n. 238).

La Chiesa proclama «il vangelo della pace» (Ef 6,15) ed è aperta alla collaborazione con tutte le autorità nazionali e internazionali per prendersi cura di questo bene universale tanto grande. Nell’annunciare Gesù Cristo, che è la pace in persona (cfr Ef 2,14), la nuova evangelizzazione sprona ogni battezzato ad essere strumento di pacificazione e testimonianza credibile di una vita riconciliata (n. 239).

Approfondendo il tema del dialogo per la pace, l’EG ne individua quattro dimensioni: il dialogo tra la fede, la ragione e le scienze (nn. 242-243); il dialogo ecumenico (nn. 244-246); le relazioni con l’Ebraismo (nn. 247-249); il dialogo interreligioso (nn. 250-254); il dialogo sociale in un contesto di libertà religiosa (nn. 255-258).

Il dialogo sociale in un contesto di libertà religiosa

Su quest’ultima dimensione, l’esortazione apostolica ricorda che i Padri sinodali hanno sottolineato l’importanza del rispetto per la libertà religiosa, considerata come un diritto umano fondamentale. Essa comprende «la libertà di scegliere la religione che si considera vera e di manifestare pubblicamente la propria fede». Un sano pluralismo, che davvero rispetti gli altri ed i valori come tali, non implica una privatizzazione delle religioni, con la pretesa di ridurle al silenzio e all’oscurità della coscienza di ciascuno, o alla marginalità del recinto chiuso delle chiese, delle sinagoghe o delle moschee (n. 255).

Viene poi riaffermato che “come credenti ci sentiamo vicini anche a quanti, non riconoscendosi parte di alcuna tradizione religiosa, cercano sinceramente la verità, la bontà e la bellezza, che per noi trovano la loro massima espressione e la loro fonte in Dio”. Li sentiamo come preziosi alleati nell’impegno per la difesa della dignità umana, nella costruzione di una convivenza pacifica tra i popoli e nella custodia del creato. Uno spazio peculiare è quello dei cosiddetti nuovi Areopaghi, come il “Cortile dei Gentili”, dove «credenti e non credenti possono dialogare sui temi fondamentali dell’etica, dell’arte, e della scienza, e sulla ricerca della trascendenza». Anche questa è una via di pace per il nostro mondo ferito (n. 257).



12. La spiritualità della missione (Cap. V)


Motivazioni per un rinnovato impulso missionario

262. Evangelizzatori con Spirito significa evangelizzatori che pregano e lavorano. Dal punto di vista dell’evangelizzazione, non servono né le proposte mistiche senza un forte impegno sociale e missionario, né i discorsi e le prassi sociali e pastorali senza una spiritualità che trasformi il cuore. Sono proposte parziali e disgreganti che raggiungono solo piccoli gruppi e non hanno una forza di ampia penetrazione, perché mutilano il Vangelo. Occorre sempre coltivare uno spazio interiore che conferisca senso cristiano all’impegno e all’attività.

C’è il rischio che alcuni momenti di preghiera diventino una scusa per evitare di donare la vita nella missione, perché la privatizzazione dello stile di vita può condurre i cristiani a rifugiarsi in qualche falsa spiritualità (n. 262).

L'incontro personale con l’amore di Gesù che ci salva

La prima motivazione per evangelizzare è l’amore di Gesù che abbiamo ricevuto, l’esperienza di essere salvati da Lui che ci spinge ad amarlo sempre di più (n. 264).

L’entusiasmo nell’evangelizzazione si fonda su questa convinzione. Abbiamo a disposizione un tesoro di vita e di amore che non può ingannare, il messaggio che non può manipolare né illudere. È una risposta che scende nel più profondo dell’essere umano e che può sostenerlo ed elevarlo. È la verità che non passa di moda perché è in grado di penetrare là dove nient’altro può arrivare. La nostra tristezza infinita si cura soltanto con un infinito amore (n. 265).

Uniti a Gesù, cerchiamo quello che Lui cerca, amiamo quello che Lui ama (n. 267).

Il piacere spirituale di essere popolo

A volte sentiamo la tentazione di essere cristiani mantenendo una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Ma Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri (n. 270).

È vero che, nel nostro rapporto con il mondo, siamo invitati a dare ragione della nostra speranza, ma non come nemici che puntano il dito e condannano. Siamo molto chiaramente avvertiti: «sia fatto con dolcezza e rispetto» (1 Pt 3,16), e «se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti» (Rm 12,18). Siamo anche esortati a cercare di vincere «il male con il bene» (Rm 12,21), senza stancarci di «fare il bene» (Gal 6,9) e senza pretendere di apparire superiori ma considerando «gli altri superiori a se stesso» (Fil 2,3)(n. 271).

L’amore per la gente è una forza spirituale che favorisce l’incontro in pienezza con Dio fino al punto che chi non ama il fratello «cammina nelle tenebre» (1 Gv 2,11), «rimane nella morte» (1 Gv 3,14) e «non ha conosciuto Dio» (1 Gv 4,8) (n. 272).

“Io sono una missione su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo. Bisogna riconoscere sé stessi come marcati a fuoco da tale missione di illuminare, benedire, vivificare, sollevare, guarire, liberare. Lì si rivela l’infermiera nell’animo, il maestro nell’animo, il politico nell’animo, quelli che hanno deciso nel profondo di essere con gli altri e per gli altri”. Se però uno divide da una parte il suo dovere e dall’altra la propria vita privata, tutto diventa grigio e andrà continuamente cercando riconoscimenti o difendendo le proprie esigenze. Smetterà di essere popolo (n. 273).

Per condividere la vita con la gente e donarci generosamente, abbiamo bisogno di riconoscere anche che ogni persona è degna della nostra dedizione (n. 274).

L’azione misteriosa del Risorto e del suo Spirito

Alcune persone non si dedicano alla missione perché credono che nulla può cambiare e dunque per loro è inutile sforzarsi. Pensano così: “Perché mi dovrei privare delle mie comodità e piaceri se non vedo nessun risultato importante?”. Si tratta di un atteggiamento autodistruttivo perché «l’uomo non può vivere senza speranza: la sua vita, condannata all’insignificanza, diventerebbe insopportabile» (n. 275).

La risurrezione di Cristo non è una cosa del passato; contiene una forza di vita che ha penetrato il mondo. È vero che molte volte sembra che Dio non esista: vediamo ingiustizie, cattiverie, indifferenze e crudeltà che non diminuiscono. Però è altrettanto certo che nel mezzo dell’oscurità comincia sempre a sbocciare qualcosa di nuovo, che presto o tardi produce un frutto.

Ogni giorno nel mondo rinasce la bellezza, che risuscita trasformata attraverso i drammi della storia. I valori tendono sempre a riapparire in nuove forme, e di fatto l’essere umano è rinato molte volte da situazioni che sembravano irreversibili. Questa è la forza della risurrezione e ogni evangelizzatore è uno strumento di tale dinamismo (n. 276).

Continuamente appaiono anche nuove difficoltà, l’esperienza del fallimento, meschinità umane che fanno tanto male (n. 277).

La fede significa anche credere che la risurrezione di Cristo produce in ogni luogo germi di un mondo nuovo; e anche se vengono tagliati, ritornano a spuntare, perché la risurrezione del Signore ha già penetrato la trama nascosta di questa storia, perché Gesù non è risuscitato invano. Non rimaniamo al margine di questo cammino della speranza viva! (n. 278).

Poiché non sempre vediamo questi germogli, abbiamo bisogno di una certezza interiore, cioè della convinzione che Dio può agire in qualsiasi circostanza, anche in mezzo ad apparenti fallimenti, perché «abbiamo questo tesoro in vasi di creta» (2 Cor 4,7).

A volte ci sembra di non aver ottenuto con i nostri sforzi alcun risultato, ma la missione non è un affare o un progetto aziendale, non è neppure un’organizzazione umanitaria, non è uno spettacolo per contare quanta gente vi ha partecipato grazie alla nostra propaganda; è qualcosa di molto più profondo, che sfugge ad ogni misura. Forse il Signore si avvale del nostro impegno per riversare benedizioni in un altro luogo del mondo dove non andremo mai.

Impariamo a riposare nella tenerezza delle braccia del Padre in mezzo alla nostra dedizione creativa e generosa. Andiamo avanti, mettiamocela tutta, ma lasciamo che sia Lui a rendere fecondi i nostri sforzi come pare a Lui (n. 279).

Per mantenere vivo l’ardore missionario occorre una decisa fiducia nello Spirito Santo, perché Egli «viene in aiuto alla nostra debolezza» (Rm 8,26). Ma tale fiducia generosa deve alimentarsi e perciò dobbiamo invocarlo costantemente: “non c’è maggior libertà che quella di lasciarsi portare dallo Spirito, rinunciando a calcolare e a controllare tutto, e permettere che Egli ci illumini, ci guidi, ci orienti, ci spinga dove Lui desidera. Egli sa bene ciò di cui c’è bisogno in ogni epoca e in ogni momento. Questo si chiama essere misteriosamente fecondi!” (n. 280).

La forza missionaria dell’intercessione

La preghiera di San Paolo era ricolma di persone: «Sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia […] perché vi porto nel cuore» (Fil 1,4.7). Così scopriamo che intercedere non ci separa dalla vera contemplazione, perché la contemplazione che lascia fuori gli altri è un inganno (n. 281).

«Rendo grazie continuamente al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù» (1 Cor 1,4); «Rendo grazie al mio Dio ogni volta che mi ricordo di voi» (Fil 1,3) (n. 282).

I grandi uomini e donne di Dio sono stati grandi intercessori. L’intercessione è come “lievito” nel seno della Trinità. È un addentrarci nel Padre e scoprire nuove dimensioni che illuminano le situazioni concrete e le cambiano (n. 283).

Maria, la Madre dell’evangelizzazione

Con lo Spirito Santo, in mezzo al popolo sta sempre Maria. Lei radunava i discepoli per invocarlo (At 1,14), e così ha reso possibile l’esplosione missionaria che avvenne a Pentecoste. Lei è la Madre della Chiesa evangelizzatrice e senza di lei non possiamo comprendere pienamente lo spirito della nuova evangelizzazione (n. 284).

Maria è Il dono di Gesù al suo popolo. “In quel momento cruciale, prima di dichiarare compiuta l’opera che il Padre gli aveva affidato, Gesù disse a Maria: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse all’amico amato: «Ecco tua madre!» (Gv 19,26-27). Queste parole di Gesù sulla soglia della morte non esprimono in primo luogo una preoccupazione compassionevole verso sua madre, ma sono piuttosto una formula di rivelazione che manifesta il mistero di una speciale missione salvifica”.

Ci conduce a Lei perché non vuole che camminiamo senza una madre, e il popolo legge in quell’immagine materna tutti i misteri del Vangelo. Al Signore non piace che manchi alla sua Chiesa l’icona femminile. Ella, che lo generò con tanta fede, accompagna pure «il resto della sua discendenza, […] quelli che osservano i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù» (Ap 12,17) (n. 285).

Maria è la Stella della nuova evangelizzazione. Guardando a lei scopriamo che colei che lodava Dio perché «ha rovesciato i potenti dai troni» e «ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,52.53) è la stessa che assicura calore domestico alla nostra ricerca di giustizia. È anche colei che conserva premurosamente «tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19). Maria sa riconoscere le orme dello Spirito di Dio nei grandi avvenimenti ed anche in quelli che sembrano impercettibili. Questa dinamica di giustizia e di tenerezza, di contemplazione e di cammino verso gli altri, è ciò che fa di lei un modello ecclesiale per l’evangelizzazione (n. 288).




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