Incontri di discernimento e solidarietà
 
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Presentazione della raccolta di schede


Che sono questi discorsi che state facendo

fra voi durante il cammino? (Lc. 24, 17)







Parole

nei discorsi

nel Vangelo

nella vita





I



Avvio di una comunicazione spirituale








Incontri Maurizio Polverari

Luglio 2008






Avvio


Presentazione della raccolta di schede




° Da settembre 2007 ci siamo proposti di sollecitare

la comunicazione di esperienze spirituali.


Per questo abbiamo pensato di scegliere delle parole, da conservare in ordine alfabetico, suggerendo di riflettere in tre tempi:


  • come queste parole sono presenti nei discorsi correnti

  • come sono presenti nel Vangelo

  • come il significato evangelico è presente nella vita di molti.


Per ogni parola ci siamo proposti di scrivere una scheda.



° Cerchiamo la comunicazione di quel che ognuno pensa sui tre punti, riguardo alla parola, o alle parole che sceglie, non preoccupandosi di fare una ricerca sul tema, rivolgendosi alle fonti valide.


La ricerca è cosa certamente preziosa, ma quel che ci proponiamo, la comunicazione di quel che pensiamo, non è meno importante. La semplicità della comunicazione, del dono di quel che siamo interiormente, non è facilitata dal clima culturale e religioso in cui oggi viviamo.



° Lo scopo


Aiutare la comunicazione stimolando così anche la riflessione personale.


Rendersi conto dell’insufficienza dei discorsi correnti in confronto alla ricchezza del vissuto.

Riscoprire il Vangelo nella vita e la vita nel Vangelo

- Non abbiamo altri fini, anche se si possono prevedere altri frutti secondari.


- Le schede finora raccolte sono molto diverse in rapporto alla elaborazione, alla fedeltà nell’adesione ai tre tempi proposti. Ma in tutte si può riconoscere la comunicazione dello spirito. “Lo Spirito del Signore riempie l’universo, tutto unisce perché conosce ogni linguaggio” (Antifona di Pentecoste).


- La comunicazione avviata non ha limiti di tempo né confini.



Incontri Maurizio Polverari
















PREMESSA




1 dicembre 2007



Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”. (Rm. 12, 1-2)


Anche noi dunque, circondati da un così gran nugolo di testimoni, deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede. Egli in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l'ignominia, e si è assiso alla destradel trono di Dio”. (Ebr. 12, 1-2)



  1. Riflettere su ciò che noi pensiamo e non solo su quanto è pensato da altri, come avviene per lo più nello studio.

  2. Pensare a quel poco o molto che sappiamo del Vangelo.

  3. Tentare di non “conformarsi”, secondo l’esortazione di S. Paolo.

  4. Cominciare da singole parole riflettendo in tre tempi:

  • come queste parole sono presenti nei discorsi correnti;

  • come sono presenti nel Vangelo;

  • come il significato evangelico è presente nella vita di molti.

Per ogni parola una scheda.

  1. Cercare uno sguardo globale, non una sintesi ma una sinossi.

  2. Proporsi una comunicazione e una circolazione di esperienze, cosa diversa da una ricerca culturale come comunemente intesa.

  3. Ricercare un lessico, un linguaggio evangelico:

cogliendo lo scarto fra questo e il linguaggio corrente,

la presenza del Vangelo nel vissuto,

lo scarto fra il vissuto e il linguaggio corrente.

  1. E’ una ricerca da avviare e che non sarà mai compiuta.

  2. Un linguaggio evangelico con la sua radicale novità porta inevitabilmente emarginazione.

  3. Il primo tempo: sulle parole nei discorsi correnti (compresi i media) lo tentiamo alla luce del Vangelo, come da tanto tempo cerchiamo un discernimento della dimensione sociale della nostra vita alla luce della Parola.

  4. Quanto ci proponiamo ci appare semplice ma anche difficile, essendo abituati a proporci altri tipi di ricerca individuale e di gruppo.

  5. E’ difficile per alcuni limitarsi e concentrarsi su una sola parola e scrivere una sola scheda di una o poche pagine.

  6. Ci proponiamo di non istituzionalizzare niente per essere totalmente liberi e a servizio di tutti e di tutto.

  7. Cerchiamo di procedere con il massimo ordine:

le parole e relative schede conservate in ordine alfabetico.

  1. Non ci diamo nessun termine né scadenza.

  2. Non ci proponiamo altro fine se non quello di vivere un’autentica comunicazione di esperienze spirituali.

  3. Pensiamo di avviare un metodo nuovo della sola novità che è lo Spirito che ci apre al Vangelo.















Roma, 13 dicembre 2007




Carissimo Giorgio,

mi hai detto che bisogna approfondire i 17 punti che ho proposto il 1° dicembre 2007. Lo faccio molto volentieri.

Quel testo breve cominciava con la citazione di R. 12, 1-2 e di Ebr. 12, 1-2. La ricchezza della Parola è inesauribile.

Nel primo punto proponevo di riflettere su ciò che noi pensiamo e non solo su quanto pensato da altri.

Viviamo in gran parte proiettati fuori da noi stessi. E’ un fatto sotto vari aspetti positivo perché ci aiuta a superare il ripiegamento su noi stessi e a fare attenzione agli altri e ai loro problemi. In qualche caso ci aiuta anche a liberarci dall’ansia.

Ogni forma di apprendimento viene da quanto altri pensano e hanno pensato e ciò fa crescere la nostra cultura. E’ una vita che vivo con universitari ed apprezzo il loro impegno per imparare dai loro maestri.

Ci sono però delle fonti di informazione, di presentazione e di interpretazione di fatti, delle affermazioni di principi che non ci arricchiscono perché distorte o anche solo proposte in modo incalzante e quindi violento. Ciò avviene spesso con i mezzi di comunicazione di massa.

C’è il pericolo, a mio avviso crescente, di non stare più in noi stessi, di non avere un pensiero nostro e di non sapere più quello che noi stessi pensiamo. E’ una passività a livello interiore che ha conseguenze molto gravi per ognuno di noi e per la società in cui viviamo.

Riflettendo su ciò che noi pensiamo possiamo scoprire vuoti abissali ma anche ricchezze ignorate.

Nel secondo punto suggerivo di pensare a quel poco o molto che sappiamo del Vangelo.

Penso che molti, a cominciare da me stesso, debbono riconoscere una assai scarsa conoscenza, per non dire ignoranza. Eppure, a mio avviso, la cosa più grave è che quel poco che sappiamo non lo pensiamo con sufficiente attenzione, quindi non ne siamo fecondati e rimaniamo in un terreno in cui il seme della Parola non porta frutto (cfr. Mt. 13, 3-9; 18-23). Se pensassimo sul serio anche solo al fatto che Gesù ci ha insegnato a chiamare Dio “Padre” cambierebbe tutta la nostra vita, e non solo.

Nel terzo riprendevo l’esortazione di S. Paolo a “non conformarci alla mentalità di questo secolo”. Pensando al secolo in cui viviamo, queste parole di Paolo suonano come un invito a liberarci da innumerevoli condizionamenti. Siamo come chiusi in una rete che ci contiene e al tempo stesso ci impedisce. Le sue maglie sono strette e i suoi nodi non facili da sciogliere, rischiamo di rimanere irretiti, invischiati, catturati, anche dolcemente.

Il quarto punto era la proposta concreta di cominciare dalle parole e penso che quanto abbiamo già fatto, con un notevole numero di schede, faccia capire la linea liberissima che ci proponiamo di seguire. Ogni parola su cui ci fermiamo a riflettere può essere un nodo della rete in cui siamo costretti che comincia ad allentarsi e a sciogliersi.

Raccogliendo le esperienze spirituali di molti scopriamo una grande diversità pur nell’unità dello Spirito che illumina e conforta. Ciò potrà suggerire di far delle sintesi, ma non è questo che ci proponiamo. Le sintesi sono necessariamente interventi che per unificare rischiano di ridurre e mutilare, con una qualche pur involontaria violenza.

Ci proponiamo di accogliere e comunicare le esperienze spirituali con il massimo rispetto, cercando quindi una visione più ampia di quello che lo Spirito opera in ognuno. Possiamo azzardare a chiamare questo una “sinossi” invece che una sintesi.

Chi ha, o ritiene di avere, il compito di guidare altre persone sul piano culturale, politico e religioso, deve avere la massima attenzione e il massimo rispetto per le loro esperienze. Sembra, tuttavia, che ciò avvenga raramente.

Quando si propone un tema, con una o più parole, siamo abituati ad ascoltare chi è più competente e ad impostare individualmente o in gruppo, una ricerca. E’ una cosa seria, buona e necessaria, ma non è quello che ora ci proponiamo. Non ci impegniamo in una ricerca, orientata o meno in senso cristiano, ma per la circolazione e la comunione di esperienze spirituali. Si tratta di due itinerari diversi, e privilegiare il primo, il livello culturale, può essere una tentazione, specialmente per la Chiesa nella sua dimensione istituzionale.

Partendo da singole parole potremo un po ‘alla volta ritrovare un linguaggio, un lessico spirituale, animato dallo Spirito che ci apre ad accogliere il Vangelo.

Potremo prendere coscienza dello scarto che c’è fra i nostri discorsi e il Vangelo, scoprendo al tempo stesso che esso è molto più presente nella vita. Di conseguenza ci accorgeremo anche della diversità che c’è tra i discorsi correnti e quello che veramente si sperimenta nella vita. Quest’ultimo scarto è particolarmente accentuato ai nostri giorni.

Se ci si domanda quali sono i tempi previsti per portare a compimento questo nostro proposito possiamo rispondere: come si respira finché si è in vita, così la comunicazione spirituale è necessaria a ognuno di noi, e alla Chiesa, perché siamo spiritualmente vivi. Quindi non ci diamo alcuna scadenza e alcun termine.

Riguardo ai risultati tangibili di quel che ci proponiamo e al successo della nostra iniziativa, non ce ne diamo pensiero, anche se questo sarà uno scandalo per la mentalità oggi dominante.

Riteniamo al contrario che se non saremo in qualche modo scartati, emarginati e perseguitati rimarremo integrati, omologati e irretiti. Il primo Papa ci esorta: “Stringetevi a Cristo, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio”. (1 Pt. 2, 4).

Quanto oggi ci proponiamo è una direzione che scegliamo dopo molti anni di ricerca e di “discernimento della dimensione sociale della nostra esistenza alla luce della parola di Dio”.

L’attenzione a quel che sta accadendo, in particolare nei rapporti Chiesa/mondo, fede e politica, è andata crescendo e la carità ci incalza sempre più urgentemente.

Comunicare con semplicità e sincerità nello spirito è quanto di più proprio per tutte le donne e per tutti gli uomini. La comunicazione poi è necessaria all’anima della Chiesa. Eppure tutto ciò non è facile, è un cammino a cui non siamo abituati perché tanti altri tipi di rapporti occupano il nostro animo e la nostra vita di relazione, determinati in larga misura dalla ricerca di denaro, di successo e di potere.

Impegnarsi a comunicare la propria esperienza a partire da una sola parola e scrivendo una semplice scheda per alcuni può essere assai mortificante, ma è in vista di avviare una comunicazione di gruppo che possa svilupparsi grazie a un ordine diligente ma non limitante. E’ un inizio che non ha termine.

Quel che ci proponiamo è un fatto di gratuità, offrire ad altri la nostra esperienza per ravvivare una comunicazione oggi in tanti modi ostacolata. Ma il momento più importante è l’ascolto, l’apertura, l’accoglienza di quello che gli altri ci comunicano e ci offrono.

Ci proponiamo di vivere una virtù centrale in tutta la parola di Dio: l’umiltà. Gesù ha detto: “imparate da me, che sono mite e umile di cuore” (Mt. 11, 29). Purtroppo questa virtù è poco presente nei discorsi oggi correnti e non si trova nemmeno nella “dottrina sociale della Chiesa”. In realtà è il fondamento della convivenza umana, il riconoscimento del valore dell’altro, di ogni altro, sei miliardi e mezzo di persone viventi.

Quando un gruppo di amici si impegna insieme in qualche direzione normalmente e giustamente stabilisce un obiettivo, dei tempi per realizzarlo, un modo di procedere, se non delle regole, ecc. In una parola un minimo o anche un massimo di istituzionalizzazione. E’ quello che non ci proponiamo di fare, rimanendo totalmente liberi per essere sempre aperti e a servizio di tutti e di tutto.

Pensiamo di dover procedere con il massimo ordine e che per questo ci aiuta il partire da singole parole, e le relative schede, che si possono conservare in ordine alfabetico. Cerchiamo di comunicare, conservare e far circolare ogni esperienza personale spirituale.

Non ci proponiamo alcun altro fine che non sia quello di un’autentica comunicazione spirituale, il che non può essere un mezzo in ordine ad un altro scopo. “Insieme” in questo caso non ha bisogno di un “per”.

Questa non strumentalizzazione è particolarmente necessaria per vivere la Chiesa celebrando la morte e la risurrezione di Gesù Cristo.

Concludendo: ci proponiamo qualche cosa di nuovo? Assolutamente, come oggi va di moda dire, SI! Ma è la novità meno nostra e più antica: è la docilità allo Spirito che ci apre all’accoglienza del Vangelo.


Ognuno di questi punti andrebbe sviluppato e soprattutto vissuto.


Canta e cammina





Pio









Cosenza, 14/01/2008





Carissimo padre Pio,

 

nella chiesa italiana in generale, così come nelle chiese locali in cui siamo radicati, si intravedono segni di una crisi imbarazzante, di uno sgretolamento progressivo delle comunità. La gerarchia appare sempre più distante dai problemi reali della gente, e sempre più in preda ad una sorta di "sindrome da confessionalismo assediato". Si va sfaldando la vita comunitaria, e va crescendo la distanza tra la vita e la fede, tra la chiesa e il mondo.


Mi sembra perciò importantissimo cercare ciò che è essenziale. Il primato della conversione. La centralità dell'ascolto della Parola e dell'Eucarestia. L'insegnamento del Concilio Vaticano II. La ricerca di una dimensione sociale della vita cristiana, che sia illuminata e orientata dal Vangelo. E allora, che cosa fare? Come procedere?


Il percorso che tu proponi va alla radice della questione.


Si tratta di partire dalla consapevolezza dei blocchi che impediscono la maturazione di una coscienza politica ed ecclesiale popolare e diffusa. Blocchi che si esprimono attraverso il nostro linguaggio, da cui traspaiono le "gabbie" che imprigionano le nostre teste e i nostri cuori.


Si tratta, in altri termini, di ritrovare un "lessico spirituale" risciacquando nel Vangelo le parole che utilizziamo. È un'operazione essenziale, se vogliamo ritrovare il filo di una autentica comunicazione spirituale. E la comunicazione (o l'amicizia) spirituale rappresenta la "struttura" portante di una vita ecclesiale liberata.


Si tratta di fare tutto questo chiedendo allo Spirito di suggerirci vie di rinnovamento della Chiesa. Che cosa vuol dire (per ognuno di noi, e per tutti noi insieme) chiedersi oggi: "Signore, cosa vuoi che io faccia?" Che senso ha per noi oggi l'invito rivolto dal Signore a Francesco ("Va‘ e ripara la mia casa")?


Sento che una delle questioni cruciali sia quella della povertà. E non solo di quella degli altri, ma di quella a cui siamo chiamati. È la povertà in cui ci radicano l’ascolto e l’urgenza del Vangelo. E che è condizione essenziale per la nostra conversione, e per un autentico annuncio.


Proprio sul tema della povertà mi riprometto di scriverti qualcosa in seguito, magari nel quadro del lavoro sulle parole.


Intanto, un abbraccio forte. E grazie di tutto.




Giorgio




ADORAZIONE


  1. Nei discorsi


E’ una parola usata spesso impropriamente, più spesso ancora in modo banale e superficiale per esprimere quello che si sente per una persona in quanto a conoscenza, a stima, in rapporto al proprio interesse o alle relazioni che si intrecciano con lei; talvolta è detta sinceramente, altra volta in modo interessato; spesso viene riferita anche a cose: adoro quel colore, quel profumo e, peggio ancora, il successo, il potere ecc.

E’ un uso frequente che potrebbe essere sostituito da “opto, prediligo, mi piace, mi dà gusto, preferisco ecc.”.

Soprattutto è usata molto spesso nei rapporti d’amore: “ti adoro”, si dice alla persona amata, per esprimere la profondità del proprio sentimento permanente o di quel momento.

Perfino viene usata riguardo alla Madonna, per ignoranza.

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  1. Nei Vangeli


Il I° comandamento dice “Non avrai altro Dio di fronte a me”…cioè “non adorerai il denaro, il potere, il piacere….”.

In Mt. 2, 8: è espressa da Erode, con cuore falso: “…fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo”.

E ancora: 2, 20-24: espressa dai Magi con atteggiamento di fede profonda: “…prostratisi, l’adorarono”.

Nelle varie preghiere liturgiche, specie nei periodi forti come l’Avvento e la Quaresima, si moltiplicano le espressioni, “Ti adoreranno tutti i re delle terra

Verranno ad adorarti tutte le genti

Adoriamo il tuo Nome” (Inno di Natale)

Cristo è nato per noi: venite adoriamo” (Ant. Ufficio Letture)

Adoriamo il Segno della nostra salvezza” (Settimana Santa)

Ti adoriamo, Cristo, e ti benediciamo” (Via crucis)

Nel libro dell’Apocalisse: tutte le prostrazioni citate, in continuazione, davanti all’”Agnello immolato” sono vere e profonde “adorazioni”.

Nella preghiera del “buon cristiano” (mattino e sera) si dice “Ti adoro, mio Dio, e ti amo con tutto il cuore”; e anche popolarmente si canta: “T’adoriam, Ostia divina…”.

  1. Nella Vita


Questa parola, ritengo, spesso inconsciamente, è “dentro” il cuore di ogni uomo, anche nel cuore più indurito…ma sicuramente inespressa e, perciò, non proclamata, e tanto meno annunciata.

Nel linguaggio ecclesiale la parola “adorazione” viene richiamata e proclamata negli Inni della liturgia, nelle preghiere della Messa, nelle letture bibliche… ma anche nel parlare quotidiano tra cristiani che vivono, in modo impegnato, la fede.

Indubbiamente la parola è in relazione anche al concetto, più o meno corretto, che ci si è fatti di Dio, per cui essa viene spontanea, ed è sincera e vera.

Ma è quando si entra, con la preghiera, nel Mistero di Dio e del Cristo “Agnello immolato”, quando più si ascolta e si accoglie, nella vita, la Sua Parola, che l’“adorazione” diventa un atteggiamento costante, profondo, non facilmente esprimibile se non con il silenzio adorante e continuo.


Eugenia Lorenzi

ADORAZIONE


Nei discorsi.


Disposizione dell’animo a essere coinvolti da qualcosa che attira.

Desiderio da soddisfare per se stessi e per essere più affascinanti: si adorano aspetti dell’esistenza e cose materiali che fanno godere, oltre il semplice soddisfare un bisogno, e che spesso consentono di metterci in mostra per acquisire consenso.

Come termine è più utilizzato dalle donne o persone con animo femminile.

L’adorare comporta un atteggiamento di positività nello sperimentare emozioni, come esercizio di un potere di attrattiva, nell’offerta o consumo di un piacere che conquista il gusto, il tatto, l’udito e i sensi tutti con diverse aspettative e possibilità di appagamento.

L’adorare coinvolge come una pulsione che preme e spinge anche a mettersi in gioco quando poi si desidera essere oggetto di adorazione.

I giovani e le persone, non sufficientemente consapevoli delle proprie qualità umane, adorano automobili, marche di abbigliamento, motociclette, strumenti e mezzi che affascinano, che legano gli altri alla propria persona.

In pubblicità è il sentimento col quale si fa leva per indurre all’acquisto di profumi, cosmetici e prodotti per la cura del corpo da avere assolutamente per poterli adorare e per rendersi adorabili.

Sessualità e adorazione vengono per questo considerati come aspetti della fisicità che conquista perché seduce.

Legata anche ad una gioiosità che è modo di vivere per la propria esclusiva felicità: si adorano certi viaggi, delle modalità di vestirsi, stili legati ad uno specifico comportamento posto in essere per dominare sugli altri, per sentirsi privilegiati.

Sui blog dei ragazzi, si comunica elencando le varie “adorazioni” nel gusto e nelle tendenze della moda, come modalità di presentazione della propria personalità, espressione che in una ipotetica classifica di gradimento equivale al massimo livello di coinvolgimento personale.

Si è poi adorati quando si è graditi, potenti, famosi.


Nel vangelo.


Adorano quelli che pregano continuamente.

Dio invita al dialogo e si fa adorato purché corrisposto.

È il compimento del cammino di purificazione del credente che viene liberato dalla falsità degli idoli.

Nella libertà ricercata Cristo è l’adorare il respiro di vita che si fa preghiera, dalle labbra dell’amante alle labbra dell’Amato, è preghiera incessante che diventa liturgia, movimento di vita che diventa benedizione: per questo gli adoratori sono in spirito e verità, perché la vita è spirituale in quanto vissuta nel mistero non spiegato ma sperimentato.

Adorare è abbandonarsi a Dio, in un singolare approccio all’Essere che cela la restante superficie.

L’adorazione è la contemplazione del mistero che non si tocca ma che ci immerge nel nascondimento di Dio, perché adorano quelli che lottano per rendere audace lo sguardo dentro l’incomprensibile.

Gesù spinge sempre oltre nei significati e difende gli indifendibili, spingendo ad adorare il Padre per possedere la gioia della pienezza, l’adorazione è il compimento della grazia che incessantemente ci chiama.

Adorano le donne quando corrono dal sepolcro vuoto, tutti gli uomini che riconoscono il figlio di Dio nello spezzare il pane, come ad Emmaus.

Gesù spinge all’adorazione poi quando nel far riconoscere l’adultera quale creatura di Dio, segnando la polvere a terra fa cadere i discorsi e le contraddizioni come sassi oramai inermi, nella resa a Gesù Cristo si sanano le inconciliabilità, comunicando piano piano l’adorazione nell’amore.


Nella vita.


Adorare è amare Dio come prossimità, pur nella distanza, è attesa paziente di sorsate di vita nelle mille preghiere che si fanno incessanti e poi all’improvviso prendono corpo e dis-velano momenti; adorare è pregare senza intenzioni, esercizio d’amore che sperimenta l’amore.

Alito di vita nel respiro di Dio.

Vita che si affida all’altro, per ritrovarsi nell’Altro.

L’inversione di senso che ribalta prospettive e logiche, scoprire che è Colui che è oggetto dell’adorazione che ci spingeall’adorazione attraverso lo spirito, coincidenza della soggettività e oggettività nel movimento di vita dell’amore perché in esso si crea comunione, corrispondenza che non è quantitativa, né qualitativa perché nella sproporzione c’è la giustizia e il compimento della legge di Dio, aspettativa mai meritata e mai ricompensata con le opere o per meriti.

Adorare è la rinuncia all’empietà perché dinamica di svuotamento per vivere in Dio, movimento di labbra che ripetono il silenzio perché cercano sonorità divine, afflato nella lotta per restare in situazioni impossibili e rimanendo in esse, senza toccarle, si trasfigura lo sguardo. L’adorazione nasce da una incessante contemplazione, “perché il mio tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli” (Is. 56, 7-8).


Maria Luisa Matera





AMICIZIA


  1. Nei discorsi


Si parla molto dell’amicizia, intendendo relazioni molto diverse. L’uso più frequente è quello della persona amica, nel senso di uno su cui si può contare. Molto spesso si tratta di chi è favorevole ai nostri interessi, ai nostri piani che ovviamente possono essere onesti e corretti ma anche non del tutto tali, fino ad essere delinquenziali. Amico è la persona fidata nel bene ma anche nell’operare il male. E’ l’amicizia conveniente.

Si parla di amicizia, spesso qualificata come vera, quando c’è un rapporto di fiducia reciproca che va oltre l’interesse personale e risponde a esigenze profonde di non sentirsi soli.

C’è l’amicizia che inclina al dono che tuttavia, non di rado, è imbrigliata dalle esigenze di reciprocità e di equivalenza, come per esempio nei doni in occasione di matrimoni.

E’ raro che si consideri l’amicizia come riconoscimento del valore trascendente della persona amata.

Ci sono poi gli “amiconi” fra i quali non è facile distinguere contenuti solidi e profondi.

Tante distinzioni infine andrebbero fatte in rapporto all’età degli amici.


  1. Nel Vangelo


Nel primo Testamento la straordinaria amicizia fra Gionata e David (1 Sam. 18, 1-4).

La bontà di Dio e il suo amore per gli uomini si sono manifestati nel dono dello Spirito per mezzo di Gesù Cristo (Tito, 3, 4).

Gesù versa il suo sangue per tutti (preghiera eucaristica).

Nessuno ha un amore più grande di questo; dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal padre l’ho fatto conoscere a voi” (Giov. 15, 13-15).

Gesù si commuove profondamente per la morte del suo amico Lazzaro (Giov. cap. 11).

Certamente un rapporto di vera amicizia c’era fra Gesù e le donne che lo seguivano e lo aiutavano con le loro sostanze.

Gesù sulla croce vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre, ecco il tuo figlio! Poi disse al discepolo: ecco la tua madre!” (Giov. 19, 26-27).

Sul monte degli Ulivi, prima dell’arresto, Gesù sperimenta la solitudine.


  1. Nella vita


Con lo sguardo rivolto al Signore, autore e perfezionatore della fede (Ebr. 12, 1-2) scopriamo che nell’umanità, anche in mezzo a tante relazioni interessate e non di rado finalizzate al male, c’è tanta vera amicizia specialmente nella forma della compassione che non si vive solo nella sofferenza ma anche nella condivisione della gioia.

L’evangelizzazione comporta la denuncia del male ma solo dopo e in subordine all’annuncio del bene che parte da Dio e che per opera dello Spirito entra in ogni donna e in ogni uomo.

Per cui facciamo attenzione nel catalogare gli “uomini di buona volontà”.

Pio Parisi





AMORE


Nei discorsi correnti


Si dice spesso per manifestare il proprio affetto verso una persona o un qualcosa di cui si nutre un forte interessamento.

Un saluto come “ciao amore mio” lo dice la mamma al figlio. “Amore, alzati che devi andare a scuola”.


Nel Vangelo


Dio disse ama il prossimo come tu ami te stesso.

Gesù disse “se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio cuore”.


Nella vita


È quello che si prova per la propria donna o viceversa.

L’amore di un figlio, della propria famiglia, del proprio lavoro, della vita.

Spesso viene a mancare l’amore tra noi esseri umani e questo non deve accadere.


Ezio Siciliani





APPARTENENZA


  1. Nei discorsi


Si parla spesso e si dà importanza alla appartenenza.

A una famiglia da cui si riceve e a cui si comunicano pregi e difetti, materiali e morali.

A un ceto o a una classe, secondo una scala di valori, da quelli ritenuti più privilegiati agli ultimi.

A una nazione o a “un mondo” ritenuto sviluppato e a un popolo considerato, in modo molto equivoco, in via di sviluppo.

A una chiesa.

A una scuola o a una corrente di pensiero.

A un giro di affari.

A un partito.

A una cosca.


C’è chi è convinto che la cosa di cui, specialmente i giovani, hanno maggiore bisogno è di sentire che appartengono a un gruppo, a un movimento, a una associazione.


  1. Nel Vangelo


I poveri in spirito” (Mt. 5, 3) sono coloro che si affidano totalmente a Dio: si sentono clienti di Dio e quindi liberi di non essere clienti di nessun altro.

La vera vite. “Io sono la vite e voi i tralci. Chi rimane in me ed io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla…” (Gv. 15, 1-11).

La Chiesa, Corpo di Cristo. “Il Figlio di Dio comunicando il suo Spirito, costituisce misticamente come suo corpo i suoi fratelli, che raccoglie da tutte le genti”. (Vat. II, Lumen Gentium 7)

Gesù, gridando a gran voce, disse: Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito. Detto questo spirò” (Lc. 23, 46).

Nessuno ponga la sua gloria negli uomini, perché tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” (1 Cor. 3, 21-23).


  1. Nella vita


In tanti modi e nei confronti di tante appartenenze, specie nell’età giovanile, si sente il bisogno di superare i recinti, di essere liberi e responsabili senza appartenere ad altri.

Al tempo stesso si rifugge dalla solitudine e si sente di dover appartenere a una qualche comunità.

Il disinteresse per la vita sociale e la politica si trasforma in impegno nei confronti dei problemi di più ampio respiro: Nord-Sud, globalizzazione, ecc.

Gli emarginati ed esclusi che non appartengono a nessuno capiscono spesso molte cose: vanno ascoltati come “titolari di una cattedra”.


Pio Parisi





ASCOLTARE


Nei discorsi


Siamo inondati e sommersi dai discorsi.

Si parla molto dell’ascolto come misura di ciò che viene comunicato, specialmente dalla TV.

L’ascolto viene proposto e talora imposto a chi è giovane, inesperto e comunque ritenuto inferiore.

L’ascolto è considerato molto importante specialmente da alcuni politici al fine di ottenere un consenso in una forma di scambio, per esempio prometto un favore per ottenere un voto.

Spesso l’ascolto è superficiale perché lo si sopporta in attesa del proprio turno di parlare e di essere ascoltati.

Tante persone poi non hanno voce in capitolo, non vengono affatto ascoltate.

Un pessimo costume, di cui sono spesso un esempio i dibattiti televisivi, è quello di interrompere chi sta parlando senza lasciare finire neanche una frase.


Nel Vangelo


Gli israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Dio ascoltò il loro lamento” (Es. 2, 22-23). Così inizia la storia della salvezza.

La rivelazione del Mistero infinito è essenzialmente parola di Dio all’uomo.

La fede nasce dall’ascolto.

La fede dipende dunque dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo. Ora io dico: Non hanno forse udito?Tutt'altro: per tutta la terra è corsa la loro voce,
e fino ai confini del mondo le loro parole”
(Rm. 10, 17).

L’uomo deve ascoltare Dio.

Ascoltate, gridano i profeti con l’autorità di Dio. Ascoltate, ripete il sapiente.

Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (Lc. 2, 19).

Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore” (Lc. 2, 51).

Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la custodiscono” (Lc. 11, 28).

La Parola compresa ed accolta produce frutto (la parabola del seminatore e sua spiegazione: Mt. 13, 3.9; 18-23).

Dio ci parla nella Tradizione, nella Sacre Scritture, nella storia, nel prossimo, nell’universo (cfr. Concilio Vat. II, Dei Verbum).


Nella vita


Nonostante il bombardamento mediatico e le scarse difese offerte dalla società, rimane nella coscienza di tanti un desiderio autentico di ascoltare la realtà e quanti gratuitamente aiutano a conoscerla.

Molti riconoscono la provvidenza di Dio nelle cose che loro accadono, liete o tristi, e vanno avanti con serena accettazione. E’ un atteggiamento che andrebbe maggiormente confortato con l’annuncio del Vangelo.

Non altrettanto evangelico è in alcuni casi il riconoscimento facile di segni speciali dell’intervento di Dio nella nostra quotidianità.

L’ascolto è spesso la principale pratica della compassione specialmente da parte di chi capisce perché patisce, e di chi condivide la gioia perché la conosce in profondità. Ciò accade molto più di quanto si pensi.


Pio Parisi





AUTONOMIA


  1. Nei discorsi


Significa capacità/potere/diritto di governarsi da sé secondo regole liberamente stabilite, senza condizionamenti esterni. Il suo contrario è l’etero-nomia che è la dipendenza da norme provenienti da fuori. Più in generale l’autonomia indica la condizione di libertà e indipendenza nel pensare e nel fare (non solo nel normare). E’ generalmente concepita come una qualità positiva. Negli individui il livello di autonomia segna la crescita della persona: dall’infanzia (inesistente o basso livello di autonomia), alla maturità (alto livello di autonomia), alla vecchiaia (ritorno a una ridotta autonomia, almeno dal punto di vista fisico). In campo lavorativo l’autonomia è il principale misuratore della responsabilità e, quindi, dei gradi gerarchici nelle organizzazioni. Tra le istituzioni civili e politiche l’autonomia significa indipendenza e/o sovranità (ad esempio tra gli Stati).

A livello storico-filosofico il concetto di autonomia viene spesso collegato con quello di laicità (o di laicismo) inteso, quest’ultimo, come “il principio dell’autonomia delle attività umane, cioè l’esigenza che tali attività si svolgano secondo regole proprie, che non siano ad esse imposte dall’esterno, per fini o interessi diversi da quelli cui esse si ispirano” (v. voce “Laicismo” in Storia della filosofia di Nicola Abbagnano, vol. 11, pag. 469, Ed. Gruppo l’Espresso). Come si vede, è un concetto assai ampio che ha trovato applicazione non solo in riferimento al rapporto tra attività politica e sfera religiosa: nel secolo XIV Ockam rivendicò l’autonomia della filosofia (dalla fede e dalla teologia) e lo stesso problema fu posto da Galilei, nel sec. XVII, per quanto riguarda la scienza.

Ritengo che a volte si commette l’errore di confondere il concetto di autonomia con quello di distinzione (o di differenza). L’ho verificato soprattutto nel dibattito, di grande attualità, sul rapporto tra l’etica e le altre sfere dell’agire umano. Penso che una cosa sia dire che etica, politica, economia, scienza, ecc. coprono tutte sfere diverse tra loro (nel senso che ognuna ha i suoi propri saperi, regole e tecniche che vanno rispettati), altro è sostenere l’assoluta “autonomia” (nel senso di indipendenza e separatezza) dell’una dalle altre.

Mi sembra che questo equivoco sia all’origine di molte incomprensioni, comprese quelle che si registrano sul tema della laicità. Ad un parlamentare del mio partito, il quale aveva lungamente discettato sulla “autonomia” della politica dall’etica, ho domandato: “Ma tu quando prepari una legge ti poni il problema se stai facendo una cosa buona o cattiva, una cosa giusta o ingiusta?”. Mi ha risposto: “no, naturalmente”, con l’aria di chi sta parlando con un deficiente. Altre volte mi è capitato di esporre, in pubbliche assemblee, un concetto che a me sembra scontato, e cioè che gli ingredienti della politica sono essenzialmente due: la cultura (che serve per capire i problemi e studiare le soluzioni) e l’etica (che serve per scegliere tra opzioni diverse). Più di una volta c’è stato chi mi ha bacchettato con considerazioni del tipo: “Ma allora tu vuoi tornare allo «stato etico!». Aveva capito l’esatto contrario di quello che volevo dire.


  1. Nel Vangelo


L’intero testo biblico ci racconta del rapporto tra Dio e l’uomo. Di un Dio che parla, si rivela, interviene, chiama, sceglie, propone. Il modello positivo di uomo che ci viene presentato (da Abramo ai Profeti; da Maria agli Apostoli) è quello di chi accetta la totale dipendenza da Dio; di chi risponde “si” alle proposte del Signore, quasi sempre in contrasto con i pensieri e i progetti umani; di chi si rende disponibile a missioni che trascendono l’orizzonte del singolo chiamato e comportano la responsabilità del destino di altri uomini, di un popolo, dell’intera umanità. E’ il modello dell’uomo maturo (rinvio al testo “Abramo l’adulto” di S. Corradino), capace di farsi carico degli altri, di sopportare il peso dei loro errori e dei loro fallimenti. Non per nulla il modello per eccellenza – irraggiungibile nella sua perfezione – è Gesù, Re dell’universo in quanto servo sofferente e innocente, in quanto Agnello immolato, docile esecutore del progetto del Padre.

Al contrario, l’icona negativa è quella segnata dal peccato, che ci viene descritto esattamente come temeraria rivendicazione di autonomia. Che cosa chiedono, in sostanza, i progenitori nel Giardino? Che cosa chiede il “figliol prodigo” al padre? Un’autonomia che, peraltro, si rivela ben presto foriera di alienazione e di morte, recuperabili solo con il “rientro in sè stessi” (Lc. 15, 17) e con la fiducia nella divina misericordia.

Sembrerebbe, quindi, la più radicale negazione e condanna dell’autonomia: l’uomo biblico, quello che attraverso la fede si salva, è totalmente “eteronomo”.

Senonchè la parola di Dio, come sempre, ci sorprende, anche se siamo ormai abituati al rovesciamento della nostra logica: la vera ricchezza? E’ la povertà; il potere effettivo e durevole? E’ lo svuotamento di sé; il successo pieno? E’ il martirio. E qui: la vera “autonomia”? E’ la libera e piena accettazione della volontà di Dio.

In effetti, tutta la storia della salvezza, è storia di liberazione: come tale prefigurata sin dalle origini (l’uscita dall’Egitto), annunciata dai Profeti, attesa del popolo dei credenti (“noi speravamo che fosse lui a liberare Israele”, Lc. 24, 21); e come tale pienamente e definitivamente realizzata da Gesù (Galati 5, 1 “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi…”. Cfr. 1 Corinzi, 7, 22; 2 Corinzi 3, 17; Gv. 8, 32-36).


  1. Nella vita


C’è chi usa autonomia e libertà per i propri comodi. Diventa arbitrio. C’è chi la mette a disposizione, a servizio degli altri. Diventa esercizio di responsabilità. Spesso i primi hanno più successo, ma il mondo va avanti, sia pure a fatica, per l’opera dei secondi. Si tratta di opera, impervia e rischiosa, frutto di quella fede matura che, sola, riesce a generare la piena libertà, anche di parola (la parresìa). Oggi, ad esempio, in Italia a dichiararsi “cattolico adulto” si finisce nel tritacarne. Sono decisamente preferiti gli atei professi, che non si capisce perché vengano chiamati “devoti”. Devoto è il fariseo della parabola, che è un osservante irreprensibile (Lc. 18, 9-14). Questi non fanno neanche la fatica di simulare devozioni. La preferenza è loro accordata unicamente in vista di favori e privilegi. Un tempo si sarebbe parlato apertamente di simonia. Oggi accennano al tema solo coloro definitivamente usciti dal giro che conta: i pensionati, ancorché “emeriti”, e… i moribondi.

La cattedra dei piccoli e dei poveri.


Giulio Cascino





AUTORITA’


Nei discorsi


Quando si parla di autorità si intendono per lo più le persone che hanno cariche pubbliche di una certa rilevanza. Sono considerate con rispetto, temute, onorate e in qualche raro caso veramente amate. Molto spesso se ne cerca la benevolenza e la protezione per i propri interessi.

Si parla poi di autorità culturali, accademiche e non, morali, nei diversi campi professionali. Esse sono ricercate per la loro competenza e per la propria sicurezza nei più diversi campi.

Esse sono spesso quelle che formano le opinioni di tanti; vengono seguite, anche se non di rado non capite: si è d’accordo perché l’ha detto lui che è un’autorità.

Grande rilevanza nei discorsi hanno le autorità religiose e in particolare quelle della Chiesa cattolica.

C’è una netta distinzione tra l’essere autorevole e l’essere autoritario.


Il Vangelo


Al sabato ammaestrava la gente…Poi discese a Cafarnao, una città della Galilea, e al sabato ammaestrava la gente. Rimanevano colpiti dal suo insegnamento, perché parlava con autorità(Lc. 4, 31-32).

Tutti furono presi da paura e si dicevano l'un l'altro: «Che parola è mai questa, che comanda con autorità e potenza agli spiriti immondi ed essi se ne vanno? E si diffondeva la fama di lui in tutta la regione”. (Lc. 4, 36-37)


Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, le folle restavano stupite dal suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi” (Mt. 7, 28-29).


Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine. Mentre cenavano, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo, Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugatoio di cui si era cinto” (Giov. 13, 1-5).


Sorse anche una discussione, chi di loro poteva esser considerato il più grande. Egli disse: «I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc. 22, 24-27).


Paolo, “Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio”. “Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato. Di queste cose noi parliamo, non con un linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali. L'uomo naturale però non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito (1 Cor. 2, 3-5; 2, 12-14).


Nella vita


C’è un rispetto per ogni genere di autorità che è dovuto non solo al timore, ma anche alla coscienza di vivere nella società e alla necessità che in essa ci sia un’autorità. In una qualche misura, da noi non facilmente apprezzabile, c’è anche l’apertura a chi è al di là di noi e di tutte le creature: un’Autorità che è garanzia perché è amore e misericordia infinita. Questo rapporto con l’autorità, che è Dio, va incoraggiato e purificato perché si traduca sempre più in vera fede e carità. La speranza considerata e giudicata spesso puramente umana è una fede implicita talvolta superiore a quella di chi ne fa professione pubblica.


Pio Parisi





BAMBINO


Nei discorsi


Nella nostra società i discorsi correnti sui bambini sono in genere coerenti con le ideologie dominanti che fondano, orientano e giustificano le strutture della vita associata (politica), le condizioni materiali di vita (economia), le forme e gli stili di vita (cultura) che la caratterizzano.

Questi discorsi lasciano intravedere il sogno di un bambino che deve essere bello, sano, ben nutrito ma non grasso, da iniziare a tutte le sensazioni piacevoli e a tutte le esperienze che il mercato della felicità artificiale offre.


Egli (o esso?) può esserci solo se voluto da adulti accoppiati o soli che decidono di riprodurlo con ogni mezzo possibile per soddisfare a loro volta un bisogno e/o desiderio genitoriale.


Il bambino deve crescere e svilupparsi attraverso il gioco; bisogna favorire, ascoltare e appagare ogni spontanea manifestazione dei suoi bisogni e dei suoi desideri. Il bambino deve stare “al centro”. Regole e divieti non devono intralciare il suo capriccioso onnivagare. Ostacoli e difficoltà devono essere preventivamente rimossi dal suo cammino. La libertà delle sue scelte deve essere riconosciuta e garantita; deve “farsi da solo”; non deve impegnarsi a conoscere il reale e a riconoscere e rispettare le differenze di età (siamo tutti bambini e giovani vestiti allo stesso modo), di sesso (ciascuno può e deve scegliere il proprio orientamento sessuale), di cultura (seguire le mode globalizzate per essere sempre “in” e accettato), di religione (meglio liberarsi da queste complicate superstizioni generatrici di violenza e di guerre).


Non bisogna turbare la sua vita suscitando domande sul passato e sul futuro; non bisogna distrarlo dal presente, dalla sua immersione nel mondo della televisione, dei telefonini e del computer.


Questa ideologia edonista, consumista e libertaria espressa nei discorsi sui bambini spesso si accompagna e si intreccia con una ideologia che genera discorsi apparentemente diversi, ma in realtà complementari. Entrambe costituiscono i due fuochi intorno ai quali si muove ellitticamente il nostro mondo.


Si tratta dell’ideologia della razionalità economica, dell’efficienza, del dominio degli uomini ottenuto attraverso l’organizzazione tecnocratica delle strutture politiche (democrazia avanzata). Competenza, merito, furbizia calcolatrice, efficienza, decisionismo sono le parole d’ordine; il denaro e il suo incremento sono il punto di riferimento di ogni decisione e l’unità di misura per tutte le valutazioni. Ogni forma di gratuità è un’eresia insopportabile; condividere, aspettare con pazienza, riprendere il cammino della conversazione umana è segno di debolezza, di mancanza di coraggio e di eroismo.

I bambini, allora, devono apprendere rapidamente le forme di autocontrollo; devono impegnarsi per non deludere le aspettative degli adulti. Essi costituiscono il capitale umano; la loro competenza nel sapere e nel saper fare, la loro capacità di applicazione, il loro rendimento e il loro merito sono di grande importanza per il futuro dell’economia, per l’incremento della ricchezza, per raggiungere un alto livello di sicurezza e di benessere. Ai più bravi vengono promessi potere e denaro. Pertanto devono apprendere lo spirito di competizione per costruire il loro futuro (carriera) e arrivare a godere di uno “status symbol” proprio delle classi superiori delle società opulente dove il massimo grado di soddisfazione edonistica e consumistica si ottiene attraverso il potere e il denaro.


Questi discorsi circolano attraverso i messaggi della pubblicità rivolta ai bambini; nella programmazione dei palinsesti televisivi; nella comunicazione intrafamiliare; nei consigli e nelle raccomandazioni che spesso impartiamo ai nostri figli come distillato della nostra sapiente esperienza di adulti; nelle scuole dove gli esperti dell’educazione e della formazione pretendono di formare delle “teste ben fatte” per rispondere agli imperativi del nostro tempo e della nostra società; nei talk show dei politici che cercano facili consensi attraverso le così dette politiche giovanili e per il mondo dell’infanzia; infine nei nostri discorsi, quando con il cuore e la mente annebbiati dalla seduzione del mondo, non riusciamo più o non vogliamo ubbidire alla parola di Gesù (ubbidienza: ascoltare e poi fare).


Nel Vangelo


Innocente è la fragilità delle membra infantili, ma non è innocente l’animo” (S. Agostino, Le Confessioni I,7).

Le parole di S. Agostino suonano oggi lontane, incomprensibilmente severe, sembrano una ingiusta condanna della condizione oggi riconosciuta come la perfezione dell’innocenza: l’infanzia. Si potrebbe pensare che esse contraddicono persino le parole di Gesù riportate nei Vangeli. Infatti nel Vangelo di Marco leggiamo: “Giunsero intanto a Cafarnao. E quando fu in casa, chiese loro: di che cosa stavate discutendo lungo la via? Ed essi tacevano. Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande. Allora sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: se uno vuole essere il primo sia l’ultimo di tutti e servo di tutti. E preso un bambino, lo pose in mezzo e abbracciandolo disse loro: chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome accoglie me; chi accoglie me non accoglie me ma colui che mi ha mandato”. (Mc. 9, 33-37 e paralleli Mt. 18, 1-5; Lc. 9, 46-48)

Leggiamo ancora: “Gli presentarono dei bambini perché li accarezzasse, ma i discepoli li sgridavano. Gesù al vedere questo, s’indignò e disse loro: lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso. E prendendoli fra le braccia e imponendo loro le mani li benediceva”. (Mc. 10, 13-16 e paralleli Mt. 19, 13-15; Lc. 18, 15-17).

Il primo testo è un invito a una radicale conversione. Nessun adulto vuole ridiventare bambino. L’uomo moderno si ritiene un uomo adulto che è uscito dallo stato di minorità (purtroppo anche qualche cattolico si ritiene adulto); è gonfio di sé, si ritiene autosufficiente, orgoglioso della sua potenza e del suo sapere, crede di non avere bisogno di nessuno. Gesù ci invita a farci servi di tutti come lui si fece servo fino all’ubbidienza della croce e per servire tutti volle farsi uomo nascendo bambino bisognoso di ogni cura; in questo suo radicale bisogno di cura, in questa ricerca di un volto capace di accoglierlo ha sperimentato l’amore di sua Madre e in quell’amore ricevuto che da bambino non poteva ricambiare ma solo ricevere, si costruì e si fortificò la potente forza dell’amore che da adulta si sarebbe riversata sul mondo per salvarlo, resa perfetta dal suo scaturire dal cuore stesso di Dio.

Qui vediamo un legame con il secondo testo. Entreremo nel regno di Dio solo se lo accoglieremo come un bambino. E’ necessario andare a scuola dei bambini, farsi istruire dalla loro piccolezza per diventare capaci di accogliere tutto come dono dell’amore di Dio con gioia, stupore, libertà, incanto (fede, speranza, amore).

Nella grotta di Betlemme, nel bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia nel volto di Maria chinata sul figlio con il suo amore di Madre, nella presenza protettiva di Giuseppe uomo giusto e in quella silenziosamente adorante dei pastori e dei Magi contempliamo l’intero mistero divino operante nella storia umana per la salvezza di tutti.


Nella vita


Il mistero del natale e dell’infanzia di Gesù si consuma nella sua morte e resurrezione e continua ad operare nella storia per mezzo della presenza vivificante del suo Spirito.

Ciò che è carne viene dalla carne; ciò che è spirito viene dallo Spirito”. Anche oggi molti uomini non hanno dimenticato che vivono del respiro di Dio e accolgono il dono dei figli con gioia, aperta disponibilità e dedizione; considerano la nascita di un bambino una benedizione divina intravedendovi l’apertura di una finestra di una realtà non mondana da cui ogni uomo è investito e reso “erede”.

Tanti uomini riconoscendo lo Spirito che è in loro si sottomettono al suo consiglio e come bambini rinati, liberamente si impegnano e si legano in scelte di solidarietà, di condivisione, di aiuto verso i più piccoli, i più poveri, i sofferenti, i bambini perché nessuno può essere felice da solo; in tutti infatti risuona lo stesso spirito che grida: Padre!

Tante persone, famiglie, comunità, associazioni senza lamentarsi, senza pretendere niente, senza disprezzare nessuno, senza violenza si fanno piccoli e servi per ubbidire allo Spirito operante in tutti e accolgono i bambini specialmente quelli soli, ammalati, immigrati, analfabeti, sfruttati, abusati, violentati dalla guerra sollevandoli, aiutandoli a ritrovare l’amicizia, la gioia, il cibo, una casa, la salute, una scuola, un padre, la speranza, un futuro.

Tanti oggi lavorano affinché sempre più persone prendano coscienza che i figli non ci appartengono come proprietà biologica. Essi (e quindi tutti i bambini perché tutti i bambini sono figli) ci sono stati affidati perché li aiutiamo a raggiungere l’età matura cioè l’età in cui sviluppiamo la consapevolezza del riconoscimento della filiazione universale: tutti siamo figli; tutti dobbiamo diventare come bambini per poter riconoscere il Padre di tutti ed essere accolti nel suo regno.


Dice Gesù: chi avrà trovato la sua vita la perderà

e chi avrà perduto la sua vita per causa mia la troverà(Mt. 16, 25).


Liborio Oddo





BENEFICENZA


  1. Nei discorsi


Con beneficenzasi intende una o più attività dirette al sollievo della miseria, erogazione di un aiuto a favore di soggetti terzi che versano in condizioni di difficoltà.

Fare la “carità”, come si diceva una volta, l’elemosina ai poveri che si incontrano per caso è sempre stato considerato un atto virtuoso, un aiuto doveroso e richiesto dall’essere credenti.

Una volta il termine “fare la carità” indicava quasi esclusivamente l’elemosina.

Si va però oggi diffondendo una nuova mentalità, forse perché il numero dei poveri diventa sempre maggiore, i “lavavetri” non si contano e c’è qualcuno che ha bisogno ad ogni angolo di strada. Forse non possiamo dare qualcosa a tutti, ma ci si va convincendo che i poveri sono persone che non hanno voglia di lavorare e guadagnano di più stando per pigrizia ai semafori, agli angoli delle strade o davanti alle chiese.

Ci sono poi le grandi campagne televisive: un sms, un’offerta più consistente per aiutare la ricerca sul cancro, su qualsiasi malattia o bisogno vicino o lontano da noi. E queste campagne di solito hanno successo. Ma… è questa la strada? O non è piuttosto una spettacolarizzazione del bisogno, un uso del bisogno per fare spettacolo.


  1. Nel Vangelo


Si può dire che Gesù ha dedicato tutto il suo insegnamento alla carità come amore verso il prossimo: “amatevi come io vi ho amato”, fino al martirio, fino alla croce.

I suoi miracoli sono rivolti in massima parte proprio ai poveri, ai piccoli “perché di loro è il regno dei cieli”.

Ma dice anche: “Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli. Quando dunque fai l'elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini. In verità vi dico: hanno gia ricevuto la loro ricompensa. Quando invece tu fai l'elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”.


  1. Nella vita

Se è vero che tante persone considerano la beneficenza una cosa che riguarda forme di religiosità dei tempi andati è anche vero che sono tantissime le persone che si dedicano all’aiuto e al sostegno dei più poveri. Esistono le mense, i dormitori gestiti dalle associazioni cosiddette non profit che si occupano proprio dei poveri. Spesso c’è autoreferenzialità, bisogno di mostrare, di essere il più possibile visibili.

Più spesso invece è proprio tra i piccoli e i poveri che si esercita la vera carità. Sono loro che ci insegnano con il loro esempio come essere vicini a chi è nel bisogno e ad aiutarsi a vicenda.

Famiglie in difficoltà trovano spesso vicini di casa o anche perfetti sconosciuti che si prendono cura di loro, che portano di persona una pietanza cucinata in casa, che si offrono di assistere un malato o un disabile, che dedicano il loro tempo, libero e non, per dare sollievo alle famiglie dove questi sono presenti.

E questo funziona spessissimo solo con il passa parola: non c’è bisogno di grandi campagne pubblicitarie o di telethon per trovare esempi di questa beneficenza autentica. Ed è questa presenza silenziosa di un esercito di persone che dà credito alla beneficenza come amore per il prossimo.


Laura Marini





CARCERE


  1. Nei discorsi

In generale, i discorsi sul carcere esprimono giudizi e pregiudizi – specialmente in questo periodo in cui i mass-media mettono in evidenza fatti molto negativi che riguardano immigrati… – sono discorsi di un cinismo spietato e generalizzato, anche da parte di cattolici, e suonano così: “hanno sbagliato, che paghino; non è sufficiente l’ergastolo…la pena di morte ci vorrebbe; altro che “indulto” o “atto di clemenza”… sono dei disgraziati, incalliti e recidivi…” e altro ancora…

Per fortuna, ai discorsi-giudizi sopra descritti si contrappongono anche discorsi più miti e comprensivi; ma purtroppo siamo ancora molto lontani dall’atteggiamento di misericordia e di perdono che – almeno per noi che ci diciamo cattolici – devono diventare il fondamento della nostra vita.


  1. Nel Vangelo

La pagina più bella, più invitante e anche provocatoria è quella descritta da Mt. 25, 31-46: è la parabola del giudizio universale; in essa i carcerati sono messi sullo stesso piano degli affamati, assetati, ammalati ecc.

Anche in loro il Signore si identifica: “ero carcerato e siete venuti a visitarmi;quello che avete fatto a ciascuno di loro, l’avete fatto a me!”.


Per il Signore non è sufficiente che proviamo “compassione”: c’è sotteso l’invito a passare “da uno sguardo compassionevole all’aiuto personalizzato”, imitandoLo,perché ciascun detenuto ricuperi il senso della vita e, soprattutto, la convinzione di essere figli di Dio, nonostante tutto, perché Lui perdona sempre e salva.


  1. Nella vita

Nonostante il “pessimismo” che attraversa molti settori della nostra vita civile e politica, è nato e nasce continuamente, anche come reazione, un volontariato maschile e soprattutto femminile a favore dei carcerati; volontariato che ha, come fondamento, specialmente per il ”credente”, oltre che l’aiuto materiale (provvedere ai bisogni più urgenti, specialmente ai più bisognosi, immigrati ma anche italiani, rifiutati dalla famiglia), il sostegno morale-spirituale: creando un rapporto personalizzato con il detenuto, ascoltando il suo “vissuto” spesso drammatico, aiutandolo, con chi è possibile, a coniugare vita e fede, facendo da ponte tra lui e le persone care (madre, moglie o più spesso convivente, attraverso anche un’opera di riconciliazione, educatore, avvocato, garante dei diritti dei detenuti ecc), seguendoli soprattutto nel primo momento di libertà, prodigandosi a trovare lavoro, dove è possibile.


Nei vari Convegni e “laboratori” istituiti per i volontari, a vari livelli, anche istituzionali, si fa continuamente riferimento a comportamenti di fondo, proprio per migliorare la presenza dei volontari in carcere, quali:


  • imparare ad esercitarsi in un tipo di ascolto: attento, intelligente, attraversato da un cuore sensibile e da una misericordia che si modella su quella del Redentore…pur aiutando il carcerato a fare verità dentro di sé in rapporto ai fatti commessi, perché se ne renda responsabile…

  • coltivare fedeltà e costanza in questo “magistero dell’ascolto”, perché il detenuto non cada nella depressione o, peggio, nel tentato suicidio.


Questo tipo di fedeltà al colloquio richiede, al volontario: di fare spazio, nella sua vita, al carcerato (tempo, attenzione, stima, fiducia ecc.); di essere e di restare con i “perdenti”, perché il carcere è antiumano e anticristiano, ma “è luogo teologico”, abitato da Dio che è sempre là dove sono i “perdenti”


Un Relatore, che parlava a noi suore volontarie in carcere, diceva: per il dono che Lui vi ha fatto:


  • andate in carcere per la misericordia di cui vi ha rivestito, per farvi diventare “sacramento della sua visita”

  • visitandoli, fate sentire il desiderio che Dio ha di comunicare con loro


Solo impegnandosi in un esercizio formativo ad alto livello e costantemente,il volontario/a potrà stare vicino e a servizio del carcerato e soprattuttoeserciterà un influsso positivo, lì dove vive, su chi la pensa in modo diverso, spesso in negativo; dimostrerà con la sua vita e il suo modo di pensare, di relazionarsi, che il carcerato, anche il più recidivo e incallito, è da Dio aiutato a riprendersi, a rifarsi la vita, ad accettare di essere stato “visitato” da LUI!


Eugenia Lorenzi





CARISMA


  1. Nei discorsi


Da non molti anni questo termine viene usato spesso per indicare una particolare capacità di persuasione e di comando.

Più spesso significa semplicemente l’attitudine e la capacità di fare qualcosa significativa nella società, poco importa se per doti naturali o acquisite.

In genere si intende la parola senza alcun riferimento alla grazia, al soprannaturale. Così avviene spesso anche nei discorsi di chi si professa cristiano.


  1. Nel Vangelo


E’ il dono dello Spirito Santo che trasforma la nostra mente e il nostro cuore preparandoci fin d’ora alla pienezza della vita che non muore nella comunione con Dio e con tutte le creature in Gesù Cristo.

Ci sono poi particolari doni dello Spirito Santo che sono distribuiti diversamente per il bene di tutta la Chiesa.

Al di sopra di tutti questi doni c’è l’amore. “Ricercate la carità” (1 Cor. 12-14; 12, 1; 4-6; 31; 13, 13; 14, 1).


  1. Nella vita


Lo Spirito Santo è presente e operante in tutte le donne e in tutti gli uomini per la loro e altrui santificazione, con doni particolari che a noi spesso sfuggono, anche se hanno sempre un grande valore nel disegno misterioso di Dio di ricondurre tutto sotto a Cristo come capo.

Un tempo si parlava molto della “grazia di stato”, cioè di quell’aiuto che Dio dà nei diversi stati e situazioni in cui ci troviamo a vivere. Sarebbe importante tornare a questa consapevolezza per vivere la laicità e in particolare il ruolo dei laici..


Pio Parisi





CARITA’


  1. Nei discorsi, nella accezione comune


Oggi la carità viene intesa in modi diversi. Infatti, permane una accezione in uso diversi decenni fa e se ne aggiunge una riproposta dal Concilio Vaticano II. Si va, infatti, dalla carità-elemosina, che ancora persiste nella mentalità di alcuni, come donazione liberale del “superfluo”; alla carità-condivisione nel senso di divisione di ciò che sta sopra la mensa, che si ha, di tempo, risorse, vita, del farsi carico delle persone che fanno più fatica; alla carità come condivisione e complemento della giustizia e strettamente legata a essa.

Anche nei giovani la carità assume questi diversi aspetti, a seconda che in famiglia, a scuola, nel gruppo di amici e amiche, nella associazione, in parrocchia, vi sia stata un’educazione in questo senso e vi siano stati “educatori-testimoni”, che, con la loro vita, hanno indicato che la carità dà gioia, dà senso alla vita.


  1. Nella Parola di Dio (*)… e nella vita recente della Chiesa


Il Dio Agape si rivela: Dio è amore (1 Gv. 4,8) noi abbiamo conosciuto e creduto nell’amore (1Gv. 4,16). E’ Dio fedele (alleanza) nell’AT, “camminerò in mezzo a voi e sarò il vostro Dio” (Lv. 26,12; Is. 54,10; Os. 11, 1-4;…). Dio amore è comunità di persone, che si rivela come tale(1 Gv. 4-13). Rivela l’amore del Padre “In principio era il Verbo…è venuto nel mondo…” (1 Gv. 1,1). Completa e perfeziona il comandamento dell’amore “voi sapete che fu detto…, ma io vi dico “amate i vostri nemici.. affinché siate figli del Padre…” (Mt. 5, 43-45): il comandamento nuovo che chiede di amarci tra noi come Lui ci ha amato, di dare la vita per i fratelli, di fare agli altri ciò che si desidera per sé; e che è sintesi di tutta la legge (Gv. 13, 34; 10,11; Mt. 7,12; Gal. 5,14). La carità è evangelizzazione. La carità è annunciata nella Parola, celebrata nei Sacramenti e testimoniata nel servizio ai più poveri, nei quali Dio stesso è presente “avevo fame, sete…” “Beati…

Il cammino della Chiesa in questi ultimi decenni, dal dopo Concilio è stato significativo. Nel 1971 papa Paolo VI ha voluto la Caritas Italiana - e le Caritas diocesane - come strumento pastorale della testimonianza della carità della Chiesa per l’animazione della comunità intera alla carità e alla scelta preferenziale dei poveri, analogamente come gli altri due Organismi fanno per la Catechesi e la Liturgia. La formazione dei giovani alla carità, la nascita dell’Obiezione di Coscienza e del Servizio Civile, la valorizzazione del volontariato hanno segnato dagli anni ’70 un itinerario importante in questo senso.


  1. Nella vita


La carità non sembra fare parte della vita di oggi. Sembra essere una realtà superata forse dalla solidarietà, termine “laico” più condiviso. Tuttavia, nella maggior parte della gente forse la carità è vissuta come “gesto” a sé stante, quasi si potesse vivere il momento della carità separato dal resto. L’ostilità nei confronti del “nemico”, il rifiuto del “diverso”, la non accoglienza dello “straniero” sembrano forse atteggiamenti e comportamenti che non hanno a che fare con la carità. La carità come valore rimane nella vita di persone e di gruppi, specie di ispirazione cristiana, che collegano strettamente la carità con la giustizia e con la pace, come esigenze sentite nel nostro tempo e come valori da diffondere con la testimonianza di vita.


(*) (cfr. G. Pasini, Carità quinto Vangelo. Per un itinerario formativo. Bologna, EDB, 1998)


Maria Teresa Tavassi





CHIESA


Un dialogo con un giovane amico è uno stimolo anche per chi giovane non è più, ma vive la sofferenza di una fede che non si accontenta della esteriorità religiosa. Anche se ammantata di splendore nelle fastose liturgie ecclesiastiche.

Il Concilio è ormai acqua passata. Possiamo riporre in archivio i suoi documenti, citandoli, semmai, a sostegno dei nostri comportamenti, che ne ripetono la lettera, ma ne tradisco cfr. no lo spirito.

Ci stiamo ripiegando nelle nostre cittadelle, ben difese dai monumenti del passato e dai politici del momento pronti a barattare il Vangelo con aiuti e sostegni, che non impediscono il lento e continuo decadere della fede.

La nostra vita parrocchiale si snoda tra anziani legati alle loro tradizioni, fanciulli che avviamo all’incontro con Cristo per abbandonarli alle soglie dell’adolescenza, gruppi elitari che si chiudono in un cristianesimo di iniziati. Tutto il furore della pastorale sociale si è calmato. Stiamo tranquillamente accettando il liberismo del neo capitalismo senza accorgerci del veleno che inocula nel nostro organismo.

La comunità cristiana cammina tranquilla tra applausi e mugugni. Ma non si riesce a creare un movimento di opinione. Tutto va bene in un conformismo che prende preti e laici. Ma i laici dove sono? Ormai tutto viene progettato a livello di Curia Romana e di CEI. Chi si interroga è un “bastian contrario”. Il grosso della truppa cammina, avanza, senza sapere dove va. L’obbedienza è diventata acquiescenza, spesso comoda per i progetti personali.

Non sono sfiduciato. Preoccupato, sì. Perché nutro la speranza di un forte risveglio, suscitato dallo Spirito, che ci desti dal torpore del nostro accomodamento.


Mons. Giuseppe Casale





CHIESA


  1. Nei discorsi


Si parla delle chiese perché costituiscono gli edifici più rilevanti dei paesi e delle città e sono spesso di grande valore artistico.

Tanti ancora “vanno in chiesa” specialmente alla Messa domenicale. Ci sono poi quelli che frequentano la chiesa nel senso che partecipano e collaborano alle iniziative parrocchiali, personalmente e inviando i loro figli.

Oggi poi si parla molto della chiesa in rapporto alla società e alla politica. In questo caso si identifica la chiesa con la sua dimensione istituzionale, in particolare il Papa, i Vescovi, i preti e le organizzazioni ad essi fedeli. Questa riduzione della chiesa alla sua gerarchia è diffusa e per lo più indiscussa, anche da parte di chi si professa cristiano credente.

Ci sono poi movimenti e associazioni che si considerano ecclesiali pur avendo un forte tasso di autoreferenzialità.


  1. Nel Vangelo


Tutto il primo e nuovo Testamento concorrono alla rivelazione del mistero della Chiesa.

Il Concilio Vaticano II, per il dono dello Spirito Santo, è stato un grande evento di maturazione della coscienza della Chiesa, del proprio essere più profondo. E ciò è avvenuto in rapporto al Mistero infinito di Dio, al mondo e alla storia.

La Costituzione dogmatica su la Chiesa (Vat. II, Lumen Gentium) nel primo capitolo tratta del Mistero della Chiesa in rapporto al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo. Nel secondo capitolo parla del popolo di Dio, del sacerdozio comune, del senso della fede e dei carismi del popolo di Dio. Il terzo capitolo affronta la costituzione gerarchica della chiesa.


  1. Nella vita


Lo Spirito Santo è l’anima della Chiesa per il dono della fede, della speranza e della carità.

Dove cogliamo i segni dello Spirito riconosciamo la Chiesa vivente. Ciò accade in particolare nei piccoli, nei poveri, nei sofferenti.

L’esperienza di precarietà e di fragilità, il senso dell’assurdo e la tentazione di disperazione, contengono in diversi modi una percezione del mistero. Così, nonostante tutto, ci si affida a qualcuno e si continua a vivere; e anche in questo c’è un segno dello Spirito.

Il senso della fede del popolo di Dio discerne, anche nell’istituzione e in tutto l’apparato gerarchico organizzativo, ciò che manifesta lo Spirito del Signore e ciò che rivela solo l’umanità sedotta dal potere.

C’è poi un bisogno di universalità, cioè di cattolicità nel senso più proprio, nell’insofferenza per gli orizzonti ristretti, per confini e barriere stabiliti anche in nome della Chiesa. In questa insofferenza è presente lo Spirito, anima della Chiesa, per cui la Chiesa è viva.



Pio Parisi

COMPASSIONE (*)

  1. Nei discorsi

Nel vocabolario possiamo leggere per ‘compassione’: “Sentimento di pietà verso gli infelici, e anche verso i loro difetti e le loro sventure.”

E’ questo il significato con cui viene prevalentemente usata la parola ‘compassione’. Ma la parola può avere anche un significato spregiativo od offensivo od ironico (“Mi fai compassione!”). In tal caso la si usa per dire che un individuo è caduto ad un livello infimo, sicché è diventato impossibile rapportarsi con lui (se non – eventualmente - in termini di pietà).

L’interesse/la compassione per le popolazioni dei paesi poveri viene definita ‘terzomondismo’. Il termine a volte assume un significato negativo.

La beneficenza fatta da organizzazioni piccole o grandi (religiose o laiche) si alimenta in gran parte con il ‘direct mailing’, un modo di raccogliere fondi tramite (costose) lettere inviate a domicilio ad un pubblico selezionato. Le lettere contengono un messaggio, costruito con parole e immagini accuratamente scelte per suscitare una forte compassione, e uno strumento di pagamento (ad es. un bollettino di c. c. postale).

La compassione può diventare un evento mediatico (si pensi a Telethon = television marathon = maratona televisiva, per la raccolta di fondi a fini benefici).

La compassione, nel circo mediatico, viene suscitata anche nei riguardi degli animali.

In Internet girano all’impazzata falsi allarmi (detti ‘hoax‘= bufala) basati il più delle volte sulla compassione (che contengono ad es.filmati, foto/fotomontaggi di violenze agli animali, ai bambini).

La compassione può essere ostentata, suscitando il sospetto di una simulazione.

La compassione può portare al successo (Achille Lauro distribuiva pacchi di pasta ai poveri e diventò sindaco di Napoli).

George W. Bush, scendendo in campo nel 2000 per concorrere alla Presidenza degli Stati Uniti, si definì “compassionate conservative” (conserva­tore compassionevole).

  1. Nel Vangelo

Gli Evangelisti usano la parola "compassione" per esprimere la
commozione più profonda per la sofferenza altrui.

La dottrina della salvezza cristiana ha via via portato in primo piano il problema del peccato. Invece il cristianesimo originario si caratterizzò principalmente come la religione della compassione verso gli esseri umani più sventurati con la sua sensibilità alla sofferenza.

Nelle ‘beatitudini’ troviamo l’attestazione della compassione di Dio per i poveri, gli affamati, gli afflitti (Matteo 5, 1; Luca 6, 20-22).

Il Magnificat è un inno di compassione: Il Signore“ha ricolmato di beni gli affamati.” (Luca 1, 53)

Gesù Cristo ha dato, in molte occasioni, l’esempio di un atteggiamento compassionevole, ha chiesto ai suoi seguaci di fare altrettanto e si è identificato con l’uomo sofferente. Ad es. troviamo in:

Matteo 9, 36: Gesù, “vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore.”

Matteo 15, 32: “Allora Gesù disse […]: sento compassionedi questa folla: ormai da tre giorni mi vengono dietro e non hanno da mangiare.”

Matteo 20, 31: “Due ciechi, seduti lungo la strada, sentendo che passava, si misero a gridare: ‘Signore, abbi pietà di noi, figlio di Davide. Gesù “si commosse”, toccò i loro occhi ed immediatamente ebbero la vista”.

Marco 1, 41: Un lebbroso disse a Gesù: “Se vuoi, puoi guarirmi”. Gesù “mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e disse: ‘Lo voglio, guarisci!’” e immediatamente egli fu sanato.

Luca 7, 13: La vedova di Nain. “Il Signore ne ebbe compassione” e risuscitò il suo unico figlio.


Giovanni 11, 33-35: morte e risurrezione di Lazzaro. Gesù […] si commosse profondamente, si turbò”, “Gesù scoppiò in pianto”.

Il secondo comandamento dell’amore, sottolineato da Gesù: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Marco 12, 31; Luca 10, 27), costituisce la base dell’autentica compassione, esemplificata in:

Luca 10, 33: Parabola del buon Samaritano. “Un Samaritano […] passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione.”

Nel giudizio finale saremo giudicati individualmente da Gesù davanti a tutta l’umanità in base alla compassione che avremo avuto (Matteo 25, 31-45). La compassione non è solo emozione ma anche impegno, è atteggiamento attento e vigile per accorgersi della sofferenza altrui/della presenza di Gesù stesso nei sofferenti (“Perché io avevo fame e mi avete dato da mangiare”).

  1. Nella vita

Mi è impossibile tentare e perfino concepire un discorso esauriente. Mi limito a testimoniare che nel corso della mia esistenza ho incontrato:

- Chi ha ospitato famiglie di profughi nella propria casa.

- Un padre che diceva che avrebbe dato volentieri la propria vita in cambio di un sollievo per un figlio sofferente.

- Chi va in un paese africano in guerra per far scuola ai bambini, in luoghi remoti e dimenticati da cui non si può comunicare né per posta né col telefono.

- Medici che si recano, nei posti più disagiati e pericolosi del mondo, per curare, in spirito di gratuità, le vittime della guerra.

- Chi si è battuto perché l’Italia accogliesse i ‘boat people’ (1979).

- Persone che danno da mangiare e portano coperte ai barboni.

- Chi porta nelle strade buie un tè caldo alle prostitute intirizzite.

- Volontari che vanno a visitare i malati in ospedale.

- Volontari che vanno a visitare i carcerati (una goccia in un mare di bisogni).

- Donne che hanno stretto un legame epistolare con condannati a morte, li hanno visitati e – per amore – hanno anche assistito all’esecuzione dei loro amici.

- Pensionati poverissimi che hanno offerto per la difesa legale di condannati a morte somme considerevoli (‘obolo della vedova’ a volte sprecato da avvocati incapaci o truffaldini).

- Persone sfinite nell’assistenza paziente a dementi che non danno un’ora di requie, né di giorno né di notte.

- Una signora che avvicina una donna completamente fuori di testa (parla da sola e inveisce tutto il giorno per strada) che tutti evitano, e riesce a stabilire, miracolosamente, un colloquio con lei.

- Volontari che assistono i malati ‘terminali’ e le loro famiglie.

- Un cappellano che assiste i condannati a morte, e le loro famiglie, nell’ultimo mese di vita, facendosi aiutare dalla moglie e con la comprensione dei cinque figli. Ogni volta gli occorrono due o tre mesi per riprendersi.

- E tantissimi altri ‘compassionevoli’.

Aggiungo che ho letto recentemente, con grande difficoltà perché la commozione mi assaliva di continuo, il diario di un vescovo, gravemente malato, che è riuscito - contro i consigli e le previsioni di tutte la persone ‘sagge’ - a portare, in pieno inverno e con un tempo inclemente, 498 ‘matti ‘nella Sarajevo assediata e martoriata, con un carico di compassione e di pace (1992). (***)

_______________

(*) v.: beneficenza, carità, condivisione, dolore, gratuità, malato, pace, pacifismo, pianto, povero, servizio, solidarietà, volontariato

(**) v. “Don Tonino” di Claudio Ragaini, Paoline, 1994, pagg. 157-168.

Giuseppe Lodoli





COMPASSIONE


Compassione: secondo me è la capacità di patire con qualcuno, di condividerne le sofferenze. Non è la pietà. Questa prevede (nel senso migliore del termine) comunque una distanza che certo ci lega, col sottile filo del dolore, all'altro. Ma la compassione, per quello che credo di percepire, è di più. Va oltre; è percorrere insieme all'altro lo stesso cammino, è recidere quel filo e stringersi forte all'altro fino a divenire un'unica persona. La compassione è quella di quel re di cui si parla nel Vangelo che si fa povero per stare vicino al povero, perché solo così può sentirlo e capirlo e confortarlo e consolarlo.

Penso che solo alcuni santi ne siano stati capaci. Charles de Foucault, che Pino tanto amava, era uno di questi.

La compassione è cosa divina. Gesù, che era Dio, fu capace di compassione perfetta: condivise con la croce le sofferenze di un'umanità crocifissa e le condivise nel corpo e nell'anima. Noi siamo al massimo capaci di pietà, di provare dolore per l'altro, ma non di soffrire con l'altro.

Certo questa pietà può trasformarci: può dare senso alla nostra sofferenza e può arricchirla di amore, amore per l'altro che soffre come noi; può farci sentire fratelli, non soli nel dolore, accomunati al resto dell'umanità in un unico destino. Capire questo, riuscire davvero a sentirlo e a viverlo è già un'immensa grazia, perché ci apre al mondo. Mi piace tanto pensare a un Dio perfettamente compassionevole, un Dio che di fronte all'immenso dolore dell'universo intero potrà un giorno abbracciarci tutti nella sua gioia perdonandoci tutti e tutto. Poiché tanto abbiamo sofferto e Lui con noi e Lui ci amerà tanto; tanto, tanto che l'eccesso di sofferenze di alcuni servirà a salvare anche gli altri, i più "fortunati". Mi piace pensare che non ci saranno Purgatorio e Inferno, ma solo un Regno infinito di gioia in cui tutti saranno consolati.


Graziella Trotta





COMUNITÀ


Che strano: dopo più di venti anni in un’altra Parrocchia, un gruppo di persone della mia prima Parrocchia, saputo che ho un po’ di tempo libero, mi chiede di fare degli incontri per leggere insieme la Bibbia.

Li avevo lasciati che erano adolescenti; li ritrovo sposati (di alcuni ho celebrato le nozze), con figli, con le preoccupazioni di tutti i genitori.


Mi dicono subito: “in chiesa ci andiamo poco perché la chiesa è lontana e scomoda; ma soprattutto perché con i parroci che si sono succeduti in questi anni non ci siamo trovati in sintonia; perché non c’è più lo spirito di comunità in cui allora ci sentivamo coinvolti; perché non condividiamo le scelte e gli orientamenti politici di certe autorità ecclesiastiche; perché ci sembra che la Chiesa si sia allontanata troppo dai problemi della gente semplice che lotta ogni giorno per dare senso alla propria vita e una risposta alle proprie responsabilità”.


C’è chi dice di credere in Dio e in Gesù Cristo, ma non nella Chiesa; che la Chiesa è schierata con chi ha il potere, che pensa a difendere propri interessi e privilegi, che i vescovi parlano troppo di morale, delle leggi che riguardano il matrimonio, il divorzio, l’aborto … e poi non si espongono mai sull’ingiustizia palese in tanti problemi sociali, sulla violenza della guerra e delle occupazioni militari in cui siamo coinvolti, sull’economia del profitto, sulla corruzione della politica, sulla frustrazione di tanti giovani che non trovano lavoro e non possono fare progetti per la vita.

Troppo spesso vediamo rappresentanti della Chiesa accanto a personaggi politici invece che accanto ai poveri delle beatitudini.


La stessa vita religiosa è cambiata profondamente. Una volta si mandavano i bambini all’Oratorio e si stava tranquilli. Oggi non ci sono quasi più gli Oratori, o dove è rimasta qualche attività ricreativa, è diventato un Circolo sportivo, ove tutto è regolato con criteri di mercato. E dobbiamo stare sempre attenti perché quasi non esiste più un luogo tranquillo ove lasciare i figli.

Anche la catechesi è tutta cambiata: ci sono catechisti/e di tipo tradizionale, che trasmettono solo formule, e catechisti/e d’avanguardia che spesso non sono capiti e sostenuti nemmeno dai loro parroci o guide ufficiali.

L’incontro della Messa domenicale risulta noioso per i bambini e anonimo per gli adulti.

Senza parlare dei ragazzi che “devono” fare un altro corso di catechesi per la Cresima. Una catechesi a volte proprio subita. Molti non ne vogliono proprio sapere e non fanno più la Cresima. Qualcuno pensa che la farà quando si sposerà. Ma quello che vogliono è un certificato di Cresima, non una presenza dello Spirito di Dio nella loro vita.


Solo qualcuno riconosce che l’ambiente Parrocchia è ancora l’unico che fa ai giovani proposte di impegno, di formazione umana e religiosa, che li coinvolge in azioni di servizio e di apertura ai problemi del mondo.

Alcuni hanno avuto qualche esperienza con gruppi o comunità particolari; sono rimasti abbagliati all’inizio, perplessi in un secondo momento, e poi delusi e rattristati, giudicando quelle esperienze a volte esaltate, o intransigenti, o suggestione collettiva, e comunque lontane dalla realtà sociale e perfino problematiche nei confronti della libertà di spirito e della serenità di un rapporto con Dio.

La conseguenza è una specie di scoraggiamento e di rinuncia. Uno stato d’animo che si presta facilmente a coprire disimpegno, e la delega di ogni responsabilità ad altri.


Tuttavia sono tutti concordi che in certe occasioni più solenni, o per qualche ricorrenza personale o familiare è indispensabile un rapporto con la Chiesa.

E allora sorge l’interrogativo: quale collegamento tra la vita e la religione, tra vita e convinzioni e fede personale?

Se la fede non corrisponde alla vita, è squalificata in partenza. Tutti d’accordo che fa più danno il bigottismo che l’ateismo.

Nello stesso tempo la richiesta di incontrarsi per leggere, conoscere e ascoltare la Bibbia indica una ricerca, una voglia di fede più diffusa e profonda di quanto si pensi.


Qualcuno ha anche incontrato realtà ecclesiali più vive, con una liturgia nobile e festosa, bella e coinvolgente, soprattutto in occasione di celebrazioni particolari, liete o tristi, magari per invito di qualche amico.

Entrando in certe comunità parrocchiali si percepisce subito un clima di apertura e di accoglienza; prima ancora che dai discorsi del sacerdote celebrante, si capisce dal modo con cui i fedeli stessi si salutano, si trovano vicini, si sentono coinvolti, non estranei gli uni agli altri. In certe comunità si nota un’attenzione attiva nei confronti del luogo, delle eventuali necessità, delle persone intorno; c’è poi un modo di osservare e rispettare la presenza dei bambini, degli anziani e di eventuali persone in difficoltà; una specie di simpatia che si percepisce quasi senza capire perché o di dove venga; comunità dove la percentuale di giovani rispetto agli anziani non è molto squilibrata.

Chi può testimoniare di partecipare abitualmente a questo tipo di comunità viene quasi invidiato dagli altri.


E allora viene istintiva la domanda: che cosa intendiamo quando diciamo “Chiesa”? e che cos’è una comunità? E che funzione ha una Parrocchia?

È una specie di Azienda del sacro? Un luogo ove si offrono servizi religiosi? Un’organizzazione umanitaria da cui si pretendono supplenze per realizzare ciò che altri dovrebbero fare? Un’alternativa ai poteri civili? Un’Agenzia tutto fare?

Non è il numero, non il solo stare insieme, non il fare tutti le stesse cose; neanche essere gruppo omogeneo per età, cultura, provenienza … La “comunità” si manifesta con tanti segni, ma non si identifica con nessuno di essi.

Forse è uno spirito che la anima, che è a monte.

Gli Atti degli Apostoli ne descrivono alcune caratteristiche, ma suppongono che ci sia a monte una causa legata alla fede in Gesù Cristo, persona, testimone, risorto, il Vivente.

A quel tale che disse:

Bene, Maestro! Tu hai detto secondo verità, che vi è un solo Dio e che all'infuori di lui non ce n'è alcun altro; e che amarlo con tutto il cuore, con tutto l'intelletto, con tutta la forza, e amare il prossimo come sé stesso, è molto più di tutti gli olocausti e i sacrifici”.

Gesù, vedendo che aveva risposto con intelligenza, gli disse: «Tu non sei lontano dal regno di Dio»” (Mc 12, 32-34).


A quelle persone che si ritengono lontane dalla Chiesa, e tuttavia nutrono una grande nostalgia di comunità, di fede, di rapporto sincero con Dio, potremmo dire, come Gesù:«Tu non sei lontano dal regno di Dio».

Sanno che una comunità perfetta non la troveranno mai; e tuttavia non rinunciano ad ogni sforzo per costruirla, e non si rassegnano ad essere spettatori lontani e disinteressati. La comunità non è un’utopia. È una dimensione dello spirito.

Le occasioni per costruirla possono essere tante. Gruppi di studio, di impegno, di amicizia, comunità preformate … anche il gruppo di amici che mi ha chiesto di aiutarli a leggere la Bibbia.

Ma la comunità vera è ancora un’altra cosa: solo il Signore risorto è in grado di realizzarla. L’incontro con il Signore risorto dove ci sono giovani e adulti, bambini e anziani, uomini e donne, sani e malati, santi e peccatori; quella comunità precedente a qualsiasi catalogazione umana, così come l’ha creata il Signore, e che si riconosce nella celebrazione dell’Eucarestia.

Tutte le obiezioni alla Chiesa-struttura a volte sono vere. Ma la Chiesa di Gesù è un’altra cosa.

Se una Parrocchia non è comunità, che cosa è?


Franco Amatori





CONTAMINAZIONE


  1. Nei discorsi


Parola ambigua da quando viene adoperata in senso difforme dal suo abituale significato, che è sinonimo di inquinamento, corruzione, contagio; fenomeni pericolosi, decisamente da evitare e contrastare, come la trasmissione di infezioni, malattie, impurità da cui difendersi per i temuti effetti di degrado fisico o morale o ambientale. Nel linguaggio comune contaminazioneindica l’alterazione deturpante di ciò che è puro e sano per effetto del contatto (o dell’unione o della mescolanza) con ciò che è infetto o malato.

Al contrario, da un po’ di tempo, questa parola viene spesso usata per indicare una positività, un qualcosa di utile o, addirittura, di necessario. Se ne parla in riferimento alla globalizzazione e, soprattutto, in campo politico di fronte a processi di coalizione/unione/unificazione/fusione di organizzazioni diverse, nei quali si pone il problema della perdita o conservazione o trasformazione di identità politico-culturali preesistenti.

L’intento, probabilmente, è buono: si vuol dire che la diversità è una risorsa, non una minaccia; che essa non deve impedire l’incontro, il dialogo, l’integrazione; che occorre, quindi, sapersi mettere in discussione, aprendosi agli apporti degli altri anche a costo di rinunciare alla “purezza” della propria identità. Resta peraltro difficile superare il “doppio senso” che la parola conserva e che finisce per legittimare la non lodevole intenzione (molto diffusa nella prassi) di utilizzare i processi di unione a soli fini di potere, scambiandosi più i vizi che le virtù, con la conseguenza che le operazioni programmate falliscono, oppure producono effetti opposti a quelli dichiarati.

L’uso ambiguo della parola è anche lo specchio della complessità dei processi che di volta in volta si intendono gestire e che richiederebbero un discernimento molto maggiore di quello in possesso degli attori in campo: capacità e disponibilità di distinguere ciò che deve essere conservato (a volte gelosamente custodito) da ciò che, invece, deve essere modificato o eliminato; ciò che va “unito” di soggetti che mantengono le loro differenti identità, da ciò che va invece “unificato” per dar vita a nuove soggettività del tutto sostitutive di quelle preesistenti. In questa condizione di inadeguatezza e di confusione (spesso più voluta che subita), la scoperta e l’invocazione della “contaminazione come virtù” serve a ingarbugliare ulteriormente le cose, ad opera e a vantaggio di chi enuncia progetti di cambiamento solo a parole, con il reale, gattopardesco intento di lasciar tutto com’è, specialmente per quanto riguarda gli assetti di potere.


  1. Nel Vangelo


Nella Bibbia il tema della contaminazione(e del suo contrario: la purità) è largamente presente. Nell’Antico Testamento prevale un’idea materiale e legalista. La contaminazione è la perdita della purità, che è il requisito giuridico per partecipare al culto e, più in generale, alla vita della comunità ed è assicurato da riti esteriori più che dalla virtù morale. C’è una vera ossessione della contaminazione e del contatto fisico con tutto ciò che è pagano. Tuttavia già nei profeti (Isaia, Osea, Amos, Geremia) c’è l’idea dell’insufficienza della purificazione meramente esteriore e rituale e nel Miserere il salmista invoca da Dio un “cuore” puro (Sal. 51, v.12).

Nel Nuovo Testamento il cambiamento è radicale. Come sempre Gesù sconvolge la mentalità mondana; convocando appositamente la folla proclama con solennità: “Ascoltatemi tutti e intendete bene: non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo… Dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo” (Mc. 7, 14-23). Così pure Paolo: “Tutto è puro per i puri; ma per i contaminati e gli infedeli nulla è puro; sono contaminate la loro mente e la loro coscienza…” (Tito 1, 15). Come ben si vede la novità non consiste nella semplicistica rimozione dell’idea della contaminazione (che resta un male da combattere), ma nel completo rovesciamento della sua causa e, quindi, del suo rimedio: noi ci preoccupiamo che inquinamento e corruzione possano attaccarci dall’esterno, mentre il pericolo è altrove, è in noi, nel nostro cuore e nella nostra mente. E’ lì che dobbiamo lavorare. Torna ancora una volta la cifra caratteristica di chi accoglie il Vangelo: l’attitudine a mettere in discussione se stessi anziché gli altri e a confidare in Dio e non nelle proprie forze. D’altra parte la vera purezza, il candore perfetto non si ottengono con il semplice esercizio della virtù morale, pur necessario, ma con l’ascolto della parola di Dio, con l’intimità con Lui e con l’immersione nel Mistero Pasquale: “Voi siete già purificati grazie alla parola che vi ho annunziato” (Gv. 15, 2) e i puri di cuore, i beati “che vedranno Dio” (Mt. 5, 8) “sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide con il sangue dell’Agnello” (Ap. 7, 14).


  1. Nella vita


L’alternativa tra unire e dividere, tra accogliere e respingere rientra fra le tensioni esistenziali sempre presenti dell’animo umano, di fronte alle quali ognuno è chiamato quotidianamente a scegliere. Il disegno di Dio, che attraverso l’azione dello Spirito Santo si realizza nella storia, è quello di portare ad unità l’umanità dispersa (Gv. 10, 14 e ss.), ricapitolando tutto e tutti in Cristo Gesù. Pietro scandalizza i suoi recandosi dal centurione pagano per annunciare che “Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto” (Atti, 10, 34-35). Il grande mistero tenuto nascosto alle precedenti generazioni è che “i Gentili sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo, e ad essere partecipi della promessa per mezzo del Vangelo…” (Ef. 3, 6). Diversità e unità non si contraddicono (1 Cor. 12, 4 e ss.), e l’uomo è chiamato a concorrere all’instancabile opera dello Spirito verso l’unione dell’intera umanità. Lo fanno gli operatori di pace. Coloro che nelle più diverse situazioni della vita sanno vincere la paura dell’altro che si accosta e – in mezzo a conflitti, gelosie, invidie, egoismi di ogni tipo – cercano di convertire il loro cuore verso la benevolenza, l’accoglienza e la condivisione.


Giulio Cascino





CONVERSIONE


  1. Nei discorsi


Il termine “conversione” assume molti significati, tecnici, giuridici (conversione delle leggi), economici (conversione monete), scientifici, morali, ecc. Nell’uso corrente, con il termine “conversione” si indica sovente il passaggio da una religione all’altra, per abbracciare una fede religiosa che si ritiene vera, abbandonandone un’altra, nella cui verità non si crede più. Ad esempio, sono di moda le conversioni verso il “buddismo”, le religioni orientali e/o forme sincretiste di religione, dal cristianesimo verso l’islam e viceversa. In altri contesti, con la parola conversione si vuole sottolineare una condizione morale, come il volgersi da una vita di vizi e di errori ad una di rigorosa moralità. Si parla, inoltre, di conversione in presenza di radicali cambiamenti di opinioni, di decisioni, di propositi, di scelte, di posizioni politiche e così via. In genere la conversione presuppone, nelle situazioni sovrarichiamate, una iniziativa che parte dal soggetto stesso che si converte, alla luce delle esperienze maturate nel corso della vita.


  1. Nei Vangeli


Nei Vangeli la parola rappresenta un elemento cardine del rapporto con Dio, sia nell ‘Antico che nel Nuovo Testamento. La parola è associata al concetto di “pentimento” per avviare, attraverso un procedimento interiore, una relazione nuova con un “Altro”, con il Signore.


L’iniziativa della conversione viene, però, avviata da Dio stesso, non dipende dall’uomo, ma dall’azione stessa salvifica di Dio che ci chiama a Lui. Dalla esperienza maturata, leggendo vari passi dell’Antico Testamento, emerge come la sostanza della conversione risieda nell'aderire con tutte le forze e con tutto l'essere al Dio d'Israele, affidandosi solo a Lui, senza lasciarsi soggiogare dai vari “idoli” e dai compromessi di potere generati dalle alleanze umane.


Possiamo dire che, a partire dalla Genesi, con la chiamata di Dio nei confronti di Adamo: “Ma il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: «Dove sei?»" (Gen. 3, 9), comincia il cammino di “ritorno” della umanità nel solco della conversione, quale risposta al perenne invito di Dio di instaurare una condizione di amicizia.


Nel Nuovo Testamento, la parola conversione è all’inizio dell’annuncio evangelico, attraverso l’esortazione di Giovanni Battista “Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino” (Mt. 3, 2); “Convertitevi e credete al Vangelo” (Mc. 1, 15).


Lo stesso messaggio di Cristo alla fine del Vangelo (Luca 24, 46-53) rinvia alla predicazione a tutte le genti della conversione e del perdono dei peccati. E’ il programma, la via da seguire nell’azione salvifica della Chiesa, che il messaggio evangelico rivela, alla luce della passione e resurrezione di Cristo e dell’invio dello Spirito Santo.


  1. Nella vita


Per il cristiano e, in senso più esteso, per l’uomo di fede, il vivere la “conversione” assume un significato diverso, spesso in antitesi con la prassi corrente.

E’ ancora molto diffusa la concezione che la conversione consista nell’“essere in regola” con le prescrizioni ed i riti della Chiesa e nell’accettare alcuni dogmi.


Se ci si limita a questi aspetti, pur importanti, si rischia tuttavia di non cogliere la “verità” del messaggio evangelico, che risiede non tanto nella mente quanto nel “cuore” e nello “stile di vita”.


Occorre mettersi in discussione e far sì che Dio entri nella nostra vita: non si tratta di un determinato momento e/o di un atto che conclude, ma di un evento che apre un cammino – segnato da crisi - per incontrare il progetto di Dio e vivere in amicizia con Gesù Cristo. Si tratta, per questo, di vivere controcorrente, abbandonando il disegno stolto di “autosufficienza” per costruire con le nostre forze il nostro bene e la nostra bontà.

Spesso operiamo molti segni di “conversione” ad esempio quando non ci assoggettiamo al modo di fare “del mondo”, trovando una giustificazione in azioni ambigue ed ingiuste, per il fatto che altri fanno lo stesso. Operiamo segni di conversione, quando si cerca il bene, anche se è scomodo; quando non puntiamo sul giudizio dei molti, degli uomini, ma sul giudizio di Dio.

La conversione non è però un atto solo personale: mentre mi converto, distaccandomi dalle formule del pensare corrente e dei comportamenti dominanti, divengo più responsabile e attento agli altri, aprendomi a Dio, che è Padre comune. Possiamo per questo dire che la “socializzazione” si basa inevitabilmente sulla conversione personale, che ci mette in condizione di riconoscere l’altro, di aiutarlo e di realizzare una comunità di vita.


Roberto Giordani





LA CONVIVENZA



  1. Nei discorsi correnti


Può essere citata in una lezione di scuola di lingua italiana come nome.

Dialogo tra individui su una convivenza tra una persona e l’altra.


  1. Nel Vangelo


Convivere con il Mistero della fede.

Convivenza con nostro Signore Gesù Cristo. Frequentare la chiesa e pregare insieme ad altri.


  1. Nella vita


Stare insieme alla gente.

Convivere con un compagno o compagna, convivere in una famiglia.

Inevitabile convivenza con tanti fatti di cronaca nera che inaspriscono la nostra quotidianità.

A volte con malesseri fisici.

Convivenza globale nel mondo.


Ezio Siciliani





CORRUZIONE


  1. Nei discorsi


Si parla molto della corruzione presente in particolare in alcune istituzioni e strutture della società, e di quella diffusa in tutto il tessuto sociale.

Non mancano le generalizzazioni per cui da uno o più casi si passa a tutta la categoria e a tutta la classe.

Si moltiplicano anche i discorsi giustificatori: così fan tutti!

Le denunce della corruzione da parte di persone che contano sono talvolta cariche di ipocrisia.

E’ molto raro sentire discorsi in cui si riconoscono le proprie corruzioni personali e la volontà di convertirsi responsabilmente.


  1. Nel Vangelo


Leggiamo nei salmi:

Salvami, Signore! Non c’è più un uomo fedele;

è scomparsa la fedeltà tra i figli dell’uomo.

Si dicono menzogne l’uno a l’altro,

labbra bugiarde parlano col cuore doppio

Mentre gli empi si aggirano intorno,

emergono i peggiori fra gli uomini” (dal Salmo 12).


Quando sono scosse le fondamenta,

il giusto che cosa può fare?

Ma il Signore nel tempio santo,

il Signore ha il trono nei cieli.

I suoi occhi sono aperti sul mondo,

le sue pupille scrutano ogni uomo.

Il Signore scruta giusti ed empi,

egli odia chi ama la violenza” (dal Salmo 10).


Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male… Il Signore disse: sterminerò dalla terra l’uomo che ho creato… Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore” (Gen. 6, 5-8).

La parabola della zizzania seminata dal nemico dell’uomo in mezzo al grano: “lasciate che l’una e l’altro crescano fino alla mietitura” (cfr. Mt. 13, 24-30).

E’ necessario che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale di immortalità” (1 Cor. 15, 53).

Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare (= il male) non c’era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo” (Ap. 21, 1-2).


  1. Nella vita


Il bosco che cresce fa meno rumore di un albero che cade.

C’è tanta correttezza nel lavoro, nei rapporti familiari e sociali e c’è tanta consapevolezza della corruzione altrui che non si risolve in giudizi sommari e in critiche inutili, ma stimola una coscienza veramente politica e popolare.


Pio Parisi





COSCIENZA POLITICA


  1. Nei discorsi


E’ un termine quasi mai usato; si preferisce coscienza civile o sociale. Qualificare la coscienza con l’aggettivo politica sembra sconveniente, in quanto la politica è considerata e vissuta come un “gioco di potere”, in cui contano al fine del dominio la forza e la violenza, nelle più diverse forme. Conseguentemente non si vede che valore possa avere la coscienza nella politica.

Una proposta sulla coscienza politica, in un libro del ’75, rivolta a numerosi politici, è stata presa in considerazione da pochissimi particolarmente maturi culturalmente e spiritualmente.

Il magistero ecclesiale non propone questo termine, penso, sempre a causa dell’identificazione della politica con la gestione del potere.


  1. Nel Vangelo


La coscienza politica è una categoria fondamentale nel primo e nel nuovo testamento. Dalla città di Caino alla Gerusalemme celeste, tutta la storia della salvezza si svolge come intervento di Dio per la pace, che è la politica di Dio che gli uomini sono chiamati a seguire. Una profonda riflessione in proposito è stata fatta da P. Mario Castelli ed è gravissimo che, a dieci anni dalla sua morte, non si trovi chi la accolga, nemmeno fra quanti dovrebbero essere di ciò più responsabili.

Se la politica per la pace è il disegno di Dio, è chiaro che ciò si realizza a livello delle coscienze, per quel primato dello Spirito che non cessa di essere tale anche se necessariamente vive nelle strutture.

Per questo la coscienza politica è la chiave di comprensione dell’esistenza personale e della storia alla luce del Vangelo.

Una lettura attenta del Magnificat, che non si fermi alla bellissima devozione alla Madonna, ci svela il disegno della infinita misericordia di Dio.

Una lettura spirituale della Parola, giustamente preoccupata di riduzioni sociologiche e politiche del disegno di Dio, può essere tentata di lasciare in secondo piano la vera dimensione politica.

Un fondamento solidissimo e luminosissimo della coscienza politica si trova in due testi di una ricchezza inesauribile:


Vi esorto, dunque, fratelli, per la misericordia di Dio,

ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio;

è questo il vostro culto spirituale.

Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi, rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio,

ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rm. 12, 1-2)


Anche noi dunque, circondati da un così gran nugolo di testimoni, deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede. Egli in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l'ignominia, e si è assiso alla destra del trono di Dio (Ebr. 12, 1-2).


E’ confortevole anche il richiamo dell’ultima enciclica del Papa “Spe salvi” al pensiero del P. De Lubac in “Cattolicismo. Gli aspetti sociali del dogma”.


  1. Nella vita

Tanti piccoli, poveri e sofferenti sono più capaci di maturare una coscienza politica. Sperimentano i problemi che tutta la comunità è chiamata a cercare di risolvere. Ma è necessario che capiscano il valore della loro condizione pur cercando di stare meglio. L’unione fra di loro può e deve aiutarli a superare le loro difficoltà, ma ancora più importante è che si aiutino a maturare la consapevolezza della loro condizione, delle distorsioni e delle potenzialità della società in cui vivono.

Purtroppo si constata molto spesso che chi non patisce non compatisce e non capisce.


Pio Parisi





DEMOCRAZIA

in rapporto a….COSTITUZIONE e CITTADINANZA


  1. Nei discorsi


Democrazia e dittatura sono i due termini che gran parte delle persone contrappone, senza andare ad una percezione più articolata e in tal modo limitando la loro capacità di contributo allo sviluppo democratico.


Nei discorsi ricorrenti tra persone e istituzioni la democrazia viene spesso abbinata, in Italia, alla Carta costituzionale, nata dopo il ventennio di dittatura fascista.

La Costituzione è infatti per il nostro Paese un fattore fondamentale di coesione sociale.

Un “solenne patto di amicizia e fraternità di tutto il popolo italiano”, nato dalla lotta antifascista, come lo definì un padre costituente.


Democrazia è rispetto delle regole, è piena legittimazione di chi governa e di chi si oppone: E’ partecipazione, certezza del diritto, condivisione dei principi di libertà, separazione dei poteri.

Principi sanciti dalla Carta costituzionale.

In democrazia si rafforza l’etica delle istituzioni, la tolleranza, la convivenza civile.

Ma ci sono principi a cui non possiamo rinunciare e quindi alcune cose della riforma dello Stato non vanno fatte necessariamente a maggioranza.

In una democrazia, comunque, la maggioranza non ha sempre ragione; essa è abilitata a governare, ma non ha sempre la verità.

Di contro, spesso le maggioranze non possono partecipare alla scelta di soluzioni poi rivelatesi disastrose; anche come conseguenza delle liste senza possibilità di esprimere preferenze.

In USA il potere è in gran parte in mano alle Oligarchie.


Il problema più profondo del sistema elettorale e della rappresentatività è la rifondazione dei partiti: senza partiti non c’è democrazia. Varrebbe la pena di rileggersi, a questo proposito, gli atti parlamentari della Costituente.


La Democrazia si dovrebbe caratterizzare come un programma e allora occorre poter crederci e poter scegliere.


Allora diventa importante educare alla convivenza civile, alla cittadinanza come un grande essenziale compito, soprattutto nei confronti delle giovani generazioni.


Lo studio è impegno ma anche soddisfazione, perché apprendere e allargare le nostre conoscenze e prima ancora imparare a studiare è un modo per affermare la propria persona, è strumento di libertà.

.quindi non la sciagurata frase… “il lavoro vi rende liberi…” ma la conoscenza vi rende liberi…


Quindi abbiamo il compito di educare alla cittadinanza attiva, educare alla cittadinanza democratica, per sviluppare la democrazia, come ci raccomanda anche il Consiglio d’Europa…

L’obiettivo finale è quello di promuovere una società libera, tollerante e giusta.

Educare in situazioni formali e informali… per permettere ad ogni individuo di agire… lungo tutto l’arco della propria vita, come un cittadino attivo e responsabile.

E’ un obiettivo prioritario delle politiche educative nazionali… cogliendo tutte le opportunità nella scuola, nella famiglia, in altre istituzioni e organizzazioni della società civile.

Ognuno adempiendo ad una specifica missione, che confluisce in una comune missione generale.



  1. Nel Vangelo.


Non so se nel Vangelo si può parlare di Democrazia o se non si debba parlare di Comunità, poiché è la Comunità di persone che rende superflua la preoccupazione della Democrazia o addirittura di seguire le decisioni della maggioranza.

Non mi sembra che nel vangelo Gesù sia così democratico…nel senso corrente del termine…e non mi sembra che inviti ad adottare o a rispettare rigidamente carte costituzionali.

Anche se da quello che ho capito da Pino Stancari e Pio, la città nasce da Caino e tutte le strutture essenziali del vivere civile, etico e morale in città portano agli Statuti e ad un anelito di Democrazia.



  1. Nella vita.


E’ molto più complicato e difficile perseguire e attuare la Democrazia nella propria vita e con le persone con cui si è a stretto contatto, anche affettivo e familiare.

Il rischio è sempre quello di prevaricare, di aggredire, di imporre regole e comportamenti.

Nella famiglia esiste piuttosto un principio non di maggioranza tra padre madre e figli, ma di comune condivisione.


Certamente anche qui una discussione sulle regole, su una carta per la comune convivenza e il rispetto dei diritti può essere utile, ma a volte può anche sclerotizzare le situazioni, trasformare in strutture le regole che nascono da valori legati al rispetto delle persona e all’amore per il prossimo.


Nel lavoro, nei gruppi, nella famiglia e nella coppia spesso prevalgono i ruoli o le personalità, non rendendosi conto che alcuni comportamenti, percepiti come senza malevolezza da chi li mette in atto, possono essere antidemocratici, invadenti, concorrenti, superficiali, vessatori; per non parlare dei casi in cui diventano violenti.


Qui aiuta la riflessione e il silenzio, insieme a regole di buon senso.


Giuseppe Marucci





DIALOGO


  1. Dialogo: significato e modello storico


L’espressione verbale dialogo(dal grecodià, "attraverso" e logos, "discorso") indica la conversazione, il discorso come colloquio tra più persone, e per estensione il confronto verbale tra due o più persone, mezzo utile per esprimere sentimentianche diversi e discutere su ideepiù o meno concordi, discussione che non escluda a priori una intesa o punti comuni.

Come pratica sociale, modello ideologico e forma letteraria; il dialogo appare caratteristico di societàa larga facilità di comunicazione.

Come genere letterario nasce con Platone, per l’esigenza di rappresentare drammaticamente il processo di scoprimento e di conquista della verità, attraverso il confronto di opposte opinioni; nel mondo romano Cicerone fu un esempio di dialogo, sulla scia del dialogo aristotelico, ma più “urbano”, con maggiori agganci alla vita circostante.

Nella letteratura cristiana il dialogofu uno dei mezzi più usati ed efficaci di discussione e di propaganda religiosa, utilizzato per convincere il contraddittore alle nuove idee o per riferire dispute realmente avvenute. (v. d. di Giustino ("Il Dialogo col Giudeo Trifone"), di San Girolamo e S. Agostino).

A cominciare dal periodo medioevale vi fu un’ampia fioritura di dialoghi di argomento spirituale, morale, filosofico, scientifico, letterario, fino ad arrivare alla forma dialogica di molte delle Operette morali di Giacomo Leopardi.


  1. Dialogo e comprensione



Il dialogo, per essere valido strumento di comprensione e quindi di pace, presuppone una conoscenza e cultura 1, sia pure parzialmente comune 2, ed un rispetto reciproco di ogni persona umana.

Il dialogo deve essere sempre aperto e pacato (immune da pregiudizi e da conflittualità preconcetta di schieramento), con l’umiltà essenziale in ogni civile discorso nel rispettoso raffronto tra più soggetti, ciascuno ispirato anche dai sentimenti della propria fede religiosa ed orientato dal principio di leale collaborazione e da uno spirito di servizio, nell’interesse esclusivo della collettività. Il metodo del dialogo esclude una “diffidenza” o manifestazione di sfiducia o di chiusura preconcetta (v. voce Reciprocità di M. Panvini Rosati).

Questo non è altro che il metodo essenzialeche deve guidare ogni società civile, democratica e pluralista in senso moderno. Lo dobbiamo ricordare e pretendere tutti, sia come semplici componenti della comunità sociale, sia come titolari di pubblici uffici, sia quando impegnati in organizzazioni sindacali e di categoria, sia – e soprattutto – quando si concorre a determinare con metodo democratico la politica nazionale e quella supernazionale e dei rapporti tra i popoli.

Dialogo, unito a rispetto della persona e a conoscenza-cultura, è elemento indispensabile per ogni sviluppo di rapporti tra persone, sia individuale sia nelle diverse formazioni sociali e quindi anche tra popoli.

Questo principio del dialogo 3dovrebbe anzitutto informare i rapporti interni di ogni comunità a cominciare da quella familiare, da quella scolastica, dalla comunità del lavoro (lavoratori e imprese) a quella politica, nei partiti e tra partiti, poli o schieramenti politici, tra stati, tra confessioni religiose. Ancora il dialogo, a maggiore ragione deve informare i rapporti tra le diverse comunità di popoli e nazioni per una civile e leale convivenza di pace.

Non dobbiamo dimenticare che ogni dialogo è tra persone e “vi è una logica morale che illumina l’esistenza umana e rende possibile il dialogo tra gli uomini e tra i popoli”4e che il rispetto della persona umana è “cuore della pace”. Questo è stato il messaggio di Papa Benedetto XVI per la celebrazione della giornata mondiale della pace del 1 gennaio 2007. E’ stato un “augurio di pace” rivolto “in particolare, a quanti sono nel dolore e nella sofferenza, a chi vive minacciato dalla violenza e dalla forza delle armi o, calpestato nella sua dignità, attende il proprio riscatto umano e sociale”, rivolto “ai bambini, che con la loro innocenza arricchiscono l'umanità di bontà e di speranza e, con il loro dolore, ci stimolano a farci tutti operatori di giustizia e di pace….rispettando la persona si promuove la pace, e costruendo la pace si pongono le premesse per un autentico umanesimo integrale. È così che si prepara un futuro sereno per le nuove generazioni”. Questa pace è intesa “insieme un dono e un compito”.

La visione della persona, pur con variazioni secondo le diverse culture, non deve subire pregiudizi ideologici né essere viziata da interessi economici o politici; quando questo si verifica, si rischia di trasformare tali concezioni in “ideologia”. E qui mi viene spontaneo sottolineare che tanti popoli europei ed extraeuropei hanno sperimentato, di recente ed in epoche risalenti, le conseguenze di queste ideologie, aventi il comune denominatore di non rispettare la dignità della persona umana.



  1. Dialogo e culture, popoli e Religioni


Occorre sottolineare che di fronte ad una tendenza di radicalizzazione delle identità culturali, che si rendono impermeabili ad ogni benefico influsso esterno, è altrettanto rischiosa una supina omologazione delle culture5, o di alcuni rilevanti aspetti, a modelli culturali del c.d. mondo occidentale, che rischia di ispirarsi ad una concezione secolarizzata, edonistica e praticamente atea della vita e a forme di esasperato individualismo: questo è un fenomeno che sta assumendo vaste proporzioni, sostenuto da vaste campagne mass-mediali e pubblicitarie, accompagnate da penetrazione e persuasione commerciale (v. catene alimentari, spettacoli di importazione con fenomeni di globalizzazione, modelli di intrattenimento, tipologie di attività violente pseudosportive, show e realty, esibizioni di ogni genere, modelli di vita devianti).

In realtà attraverso il dialogo si facilita il riconoscimento della ricchezza delle diversità(da mantenere, in contrasto con una omologazione strisciante verso il basso) e si induce gli animi ad una accettazione reciproca in prospettiva di una autentica e leale collaborazione, che corrisponde alla originaria vocazione all’unità della intera famiglia umana: il dialogo assume il valore di strumento eminente per realizzare la civiltà dell'amore e della pace, ideale a cui può ispirarsi la vita culturale, sociale, politica ed economica del nostro tempo. Di qui l’urgenza di riproporre – sono sempre parole di Papa Giovanni Paolo II – la via del dialogoad un mondo percorso da troppi conflitti e violenze, talvolta sfiduciato e incapace di scrutare gli orizzonti della speranza e della pace” 6

E’ auspicabile un dialogo tra le diverse culture e popoli 7, inteso come dialogo per la comprensione e la pace 8mediante la creazione di incontri e ambiti di interscambio, dove i valori, le idee e le credenze delle persone si possano incontrare; non solo per far conoscere la propria cultura, le inquietudini e le aspirazioni, ma anche per costruire un dialogo fra la grande varietà e ricchezza di modi di vivere – in realtà la diversità è una risorsa che non esclude il dialogo e l’integrazione aperta agli altri (v. voce Contaminazione di G. Cascino) – e trovare così i punti in comune che, al di sopra di ogni differenza, si trovino in ogni popolo e individuo senza alcun “fondamentalismo”, che non ammetta un confronto (v. voce Verità di F. Giordani).

Questo dialogo deve essere imperniato sul valore della persona umana, nella pari dignità umana, nella eguaglianza senza discriminazioni, nel riconoscimento delle libertà inviolabili dell’uomo e nel rifiuto della violenza.


Nell’ambito dell’ecumenismo in Italia deve essere ricordato il SAE (Segretariato Attività Ecumeniche)per le sue peculiarità.

Si tratta, infatti, di una realtà “di base”, che non si pone come espressione ufficiale di nessuna delle confessioni coinvolte nel dialogo ecumenico e dalle quali è, quindi, autonomo, sia nelle strutture che dal punto di vista economico. Vive di volontariato e delle quote sociali dei soci. Sacerdoti, pastori e religiosi partecipano come “amici“, ma non come membri effettivi. Scopo dell’associazione è statutariamente quello di “assicurare in modo permanente e di espandere l'esperienza del dialogo e il servizio di formazione ecumenica, nella volontà di contribuire all'attuazione dei Documenti ecumenici e di dialogo delle varie Chiese, a partire da quelli prodotti dal Concilio Ecumenico Vaticano IIe dal Consiglio Ecumenico delle Chiese(C.E.C.)”. “L'Attività dell'Associazione è intesa alla promozione di una cultura di rispetto tra diverse espressioni religiose, di educazione alla collaborazione per la giustizia, la pace e la salvaguardia del Creato”.


Nell’ambito propriamente cattolico assume un rilievo particolare il Pontificio Consiglio per il dialogo Interreligioso, istituito, nella domenica di Pentecoste del 1964,da Papa Paolo VI come speciale dicastero della Curia Romana per le relazioni con persone di altre religioni, con il nome diSegretariato per i non Cristiani; nel 1988 ebbe il nuovo nome diPontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso(P.C.D.I.)9


  1. Dialogo e rapporto con fedeli di altre religioni ed in particolare con i mussulmani


Il pensiero va immediatamente ad una esortazione dell’allora Arcivescovo di Milano 10sulla esigenza di cercare insieme “un obiettivo comune di tolleranza e mutua accettazione.”. “Dobbiamo sfatare a poco a poco il pregiudizio radicato che i non musulmani sono di fatto non credenti. Solo quando ci riconosceremo nel comune solco della fede di Abramo potremo parlarci con più distensione, superando i pregiudizi”.

Dobbiamo far cogliere loro che anche noi cristiani siamo critici verso il consumismo europeo, l'indifferentismo e il degrado morale che c'è tra noi; far vedere che prendiamo le distanze da tutto ciò. Data la loro abitudine a vedere legate religione e società e anche in forza delle esperienze storiche delle crociate, essi tendono a identificare l'occidente col cristianesimo e a comprendere sotto una sola condanna i vizi dell'occidente e le colpe dei cristiani.

Bisogna far comprendere che siamo solidali con loro nella proclamazione di un Dio Signore dell'universo, nella condanna del male e nella promozione della giustizia.

Il dialogo con i musulmani sarà in particolare per noi un'occasione per riflettere sulla loro forte esperienza religiosa che tutto finalizza alla riconsegna a Dio di un mondo a lui sottomesso. In questo, il nostro giusto senso della laicità dovrà guardarsi dall'esser vissuto come una separazione o addirittura come opposizione tra il cammino dell'uomo e quello del cristiano.


  1. Dialogo accoglienza e regole


Anche a questo proposito appaiono ancora di grande attualità alcune considerazioni del dicembre del 1990 del Cardinale Martini sulla esigenza di insistere su un processo di integrazione", che è ben diverso da una semplice accoglienza e da una qualunque sistemazione.11Integrazione comprende l'educazione dei nuovi venuti per aiutarli ad inserirsi armonicamente nel tessuto della nazione ospitante, ad accettarne le leggi e gli usi fondamentali (per accettare occorre conoscere e comprendere la finalità), per aiutarli a non esigere trattamenti privilegiati, che tenderebbero di fatto a isolarli e a ghettizzarli e a farne potenziali focolai di tensioni e violenze. L'emergenza ha un po' chiuso gli occhi su questo grave problema.

Occorre, al riguardo, pensare a misure preventive attraverso una preparazione nei paesi di origine, utilizzando accordi bilaterali, con la partecipazione di imprenditori e sindacati, tendenti a puntare su un arricchimento preliminare delle capacità ed attitudini di lavoro e di conoscenza di elementi indispensabili (compresi nozioni basilari di lingua, dei diritti e dei doveri fondamentali come i diritti dell’uomo e il principio di eguaglianza) ad evitare che “i nuovi venuti” rimangano subito preda di speculatori o di organizzazioni malavitose di sfruttamento. Andrebbero anche riconfigurati i c.d. centri di accoglienza, distinti da quelli per “nuovi venuti” suscettibili di trovare una sistemazione ed un lavoro.

Questo non solo per un principio caritativo e di rispetto della dignità della persona, ma anche ad evitare che l’accoglienza, senza regole e possibilità di rispettarle, si trasformi in occasione di dolorosi conflitti.


  1. Dialogo e rispetto della persona umana come strumento per evitare conflitti e guerre


La guerra è una violenza che non può servire, da sola, a risolvere conflitti; violenza chiama violenza e terrore, ha sempre provocato e scatenato tanti orrori, deportazioni, stermini, anche quelli razziali, che sono altrettanti delitti contro l’uomo e la umanità intera.12

Costante nel pensiero di Giovanni Paolo II 13è il rispetto della persona umana come cammino necessario per la giustizia e la pace, beni inseparabili per ogni uomo: questo messaggio continuo porta in modo perentorio al rifiuto di ogni violenza e di qualsiasi forma di guerra e all'accettazione del metodo del dialogo.

La migliore riflessione è quella di una rilettura di alcuni passi del Suo insegnamento, da considerarsi fondamentale.

Infatti occorre "imparare a rileggere le lezioni del passato" (11 gennaio 2000 ai rappresentati diplomatici): "le questioni controverse devono essere risolte non con il ricorso alle armi, ma con mezzi pacifici della trattativa e del dialogo". La Sua è la voce comune delle generazioni che hanno vissuto una guerra: “ho il dovere di dire a tutti i giovani, a quelli più giovani di me, che non hanno avuto questa esperienza, «Mai più la guerra»” (Angelus 16 marzo 2003).

"L'antitesi radicale tra la violenza e il diritto" porta ad affermare la esigenza di "fare ricorso al valore supremo della vita associata: la dignità della persona umana" (udienza XXXI convegno nazionale UGCI, 6-8 dicembre 1980).

"Con il solo principio negativodella non violenzanon si può costruire una società, così non si può costruire senza diritto e senza Stato, ma ben si può costruire una società fondata sull'amore. Qui la violenza sarà esclusa perché contraria al diritto, che è carità".


  1. Dialogo e uso della forza


Vi è una esigenza di regole che consentano di rendere stabile un assetto politico, economico ed istituzionale della società internazionale fondato sulla cooperazione, sul rispetto reciproco, sul pluralismo e sui valori della giustizia, della legalità, della democrazia, della solidarietà, del multiculturalismo, della pace.

Occorre una società supernazionale in grado di contenere e governare il ricorso a misure di coercizione e la minaccia dall’occupazione di posizioni dominanti.14; di qui una ammissibilità di nozione di legittima difesa da un punto di vista collettivo,attraverso la reazione di un organismo che abbia la responsabilità principale di mantenere la pace e la sicurezza della società (Consiglio di sicurezza).

Occorre ricordare quanto è scritto sulla campana dei caduti di Rovereto: “con la guerra tutto è perduto, con la pace tutto è salvato”.

L’uso della forza, anche nei casi in cui può considerarsi legittima (legittima difesa o misure umanitarie di interposizione per ridurre un conflitto) si è dimostrato talvolta un fallimento ed è servito solo ad accrescere, piuttosto che a ridurre, le situazioni di disagio, di indigenza e di disperazione. Il pensiero va subito alla Somalia e al primo intervento multinazionale di vari decenni fa: le popolazioni stavano meglio prima o dopo l’intervento militare? Questa è un interrogativo inquietante. Si era creata una enorme confusione, non solo dal punto di vista economico, ma sotto il profilo della stessa esistenza quotidiana della popolazione e della sopravvivenza di uno Stato civile degno di questo nome.

Nel contempo è mancato il coraggio, in epoca successiva, una qualsiasi iniziativa efficace in Africa centrale, nel Darfur, dove un’azione di interposizione sarebbe stata urgente e necessaria per impedire violenze inaudite e massacri fra etnìe in lotta o sopraffazioni legate ad ideologia.

Dobbiamo sforzarci con tutti i mezzi e pretendere che ci sia tra le nazioni un dialogo. senza escludere il ricorso a tutti gli strumenti anche economici di dissuasione della violenza. La violenza non porta mai a benefici per l’umanità. Soprattutto non porta mai benefici per le popolazioni che devono subirla, spesso semplici spettatori atterriti e vittime. Questo è un discorso che vale anche nei confronti della violenza terroristica, che, in ogni caso, vero delitto contro l’uomo, non riuscirà mai, per quella strada di assassinio e di morte, a piegare i principi di libertà e di pace fra i popoli. Se una parte soltanto delle spese militari, che negli ultimi decenni sono state sperperate in tutto il mondo anche da governanti di paesi all’orlo della indigenza (il discorso qui non si riferisce specificamente ad iniziative del nostro paese Italia), se questa parte di spese di armamenti fossero state impiegate in operazioni veramente umanitarie, certe situazioni di grave sofferenza non si sarebbero prodotte, non si sarebbero incrementate situazioni provocatrici di tensione e di odio, con una solidarietà fra i popoli molto più diffusa e condivisa, insieme alla pace.


  1. Dialogo, Europa e spazio comune di valori e di cultura

Occorre valorizzare lo spazio comune di valori, che è il presupposto di ogni altro. È il patrimonio culturale europeo, che contiene le radici dell'unità, un dato fondamentale da cui muovere, con le sue componenti storiche, artistiche, religiose, filosofiche e sociali, ed esprime valori di unità nella diversità, di pari dignità, di solidarietà, di dialogo, di tolleranza, di comprensione reciproca, di saggezza, di centralità della persona umana; tutti valori maturati attraverso la sofferenza ed il superamento di esperienze, talune anche brutali di segno opposto, anche nello scorso secolo.

Questo spazio culturale comune a principale difesa della persona umana, da attuarsi non tanto con semplici enunciazioni di bandiera o di principio, ma soprattutto con renderla effettiva nella disciplina concreta dei singoli istituti, è quello spazio che con la nuova Costituzione per l'Europa può scaldare la fiducia di tutti i cittadini e soprattutto dei giovani. Questo è la vera garanzia di un avvenire migliore, di solidarietà, di comprensione, di sicurezza, di pace, di libertà e, quindi, di sviluppo economico e di benessere per tutti noi, cittadini italiani e insieme di Europa.

Inoltre l’Europa non può svilupparsi se non si rafforza e non consolida un proprio spazio oltre che economico e giuridico, anche culturale e non crea uno spazio politico. Cultura e politica sono aspetti inseparabili: non vi può essere cultura senza politica e non vi può essere politica senza cultura, perché la politica senza cultura porta inesorabilmente a mancanza di dialogo e di comunicazione, che presuppone l’esistenza di pensiero, di linguaggio, di princìpii e di valori riconosciuti, almeno in parte come comuni. Se questi princìpii e valori sono solo apparenti e neppure percepiti, non vi può essere un vero dialogo.

Questo è anche uno dei grossi difetti della civiltà e dello stato attuale della socialità in Italia, ma non solo da noi.

La mancanza di cultura e di valori condivisi non consente lo scambio, il confronto e il ricambio delle idee e delle proposte (questo avverte il cittadino comune); l’Europa può conseguirli con la nuova Costituzione, in cui vengono sanciti i valori fondanti di ogni democrazia: i valori dell’uomo, della difesa dei suoi diritti, della pace, del dialogo e della ricerca comune, della solidarietà e della pari dignità. Sono tutti princìpii riaffermati nella Carta di Nizza e nel progetto per una Costituzione europea, che auguriamo possa rimettersi in moto in modo più snello e perciò più utilmente condivisibile da tutti.

L’Europa è l’Occidente; il vecchio Continente rappresenta una antica cultura, che può salvarsi e rinnovarsi solo aggrappandosi tenacemente ai valori di difesa dei diritti dell’uomo. È proprio con la Carta di Nizza l’Europa ha cominciato ad auspicare la coerenza tra le varie politiche e azioni nella attuazione del principio di eguaglianza e della pari dignità di tutti gli uomini; questo è il futuro comune che la Carta europea indica come valore proprio dell’Unione, basato essenzialmente sul rispetto dei diritti dell’uomo.


  1. Dialogo nelle famiglie e mezzi di comunicazione


Anche in seno alla famiglie si avverte un progressivo difetto di dialogo, soprattutto tra genitori e figli, a seguito di una progressiva invasione dei mezzi di comunicazione televisiva e informatica. Questo desta preoccupazioni, in quanto la famiglia, come unica società naturale primigenia, costituisce un elemento fondamentale nella formazione dei figli.

Secondo una indagine scientifica recente, il tempo medio che i genitori italiani dedicano al dialogo con i figliè di 18 minuti al giorno, in contrapposizione ai tedeschi che dedicano al dialogo 25 minuti al giorno, agli spagnoli con 23 minuti, ai francesi fino a 30 minuti., agli inglesi con 40 minuti, agli svedesi con 45 minuti. I genitori italiani superano solo i greci che si assestano a 16 minuti di dialogo.

Questa assenza di dialogo è da autorevoli studiosi ricondotta essenzialmente agli effetti di eccessivo uso della televisione e ai genitori che tollerano che i figli stiano davanti alla tv in quantità di tempo spropositata, poiché la media dei genitori italiani supera le 3 ore e 30 minuti giornaliere davanti al video, secondo una indagine per campione diligentemente effettuata dall’Osservatorio sui Diritti dei minori15. La televisione viene tenuta accesa perfino nei brevi periodi che la famiglia è riunita per pranzare.

Il vero è che la famiglia, che dovrebbe essere l’interlocutore privilegiato e responsabile di una sana educazione dei figli, resta emarginata per quanto riguarda la scelta della programmazione e le possibilità stesse di un “parental control”, puramente apparente ed esercitabile in maniera solo eventuale ed esclusivamente per le trasmissioni con tecnica digitale o criptata.

I media sono diventati una componente strutturale della vita e incidono in modo profondo sulle dinamiche relazionali, più di quanto non si avverta, assumendo televisione, internet e telefonini di ultima generazione la funzione di strumento di comunicazione privilegiato dai giovani.

Occorre pertanto che le Autorità competenti intervengano con sollecitudine per promuovere, anche attraverso strumenti di coregolamentazione, l’estensione a tutti questi mezzi di comunicazione, quale sia lo strumento tecnico adoperato (analogico, digitale terrestre, satellitare criptato o meno, via cavo o, via internet, via telefonia mobile ed anche i videogiochi), di quelle tutele minime per i minori, che le regole vigenti assicurano nella televisione analogica tradizionale e la normativa europea si appresta ad imporre in via generale, a parte le convenzioni vigenti a tutela dei minori.

E’ necessario altresì che si inizi una effettiva opera di educazione consapevole all’uso della televisione e dei nuovi media (vi è stato un timido inizio su iniziativa del Ministro dell’Istruzione e di quello delle Comunicazioni): e questa educazione deve avvenire in maniera capillare partendo dalle scuole e dai genitori, anche attraverso le loro Associazioni.

Il rischio è che la televisione e gli altri media (internet, telefonini con tv), indiscriminatamente propinati, anche per gli orari e le password facilmente aggirabili, sono tutt’altro che strumento di progresso e di ampliamento del conoscere. Il guaio è che sono coinvolti in questa ottica deviante tutti i giovani, compresi "i nuovi venuti", che subiscono maggiormente gli effetti deleteri di una apparenza di cultura e di civiltà per loro ammaliante, ma in effetti fuorviante. Altro che accoglienza !

Troppo spesso tali mezzi mediali sono solo cattivi maestri di violenza, sopraffazione, omicidi, discriminazioni razziali e sesso a gogò o peggio ancora in perversione, come pura pornografia, che nulla ha a che fare con “la libertà del proprio pensiero” dell’art. 21 Cost, quanto piuttosto è esercizio di pura iniziativa economica in una ottica esclusiva di profitto economico, “in contrasto con l’utilità sociale e con danno alla dignità umana” malgrado la ulteriore protezione prevista dall’art. 41 Costituzione.


  1. Dialogo per una scelta consapevole come umiltà e disponibilità ad ascoltare nel pensiero di un grande maestro del nostro tempo


Luigi Mengoni ci ha lasciato, quanto mai attuali, una serie di ammonimenti 16in quel “servizio utile 17: adempiuto con grande elevatezza, come maestro di diritto e di vita, arricchito da fede autentica, come si addice a chi per decenni ha insegnato, tra l’altro, nella Università cattolica di Milano.

Innanzitutto, a proposito della democrazia pluralista, che ha messo in crisi il principio di maggioranza, Mengoni ci ha indicato l’esigenza di formazione metodica del consenso, come criterio di legittimazione degli atti di applicazione del diritto 18.

La democrazia pluralista deve essere vista anche come dialettica e dialogo per rendere le scelte consapevoli; questo dialogo presuppone cultura e capacità di comprendere con un linguaggio comune e, purtroppo, questi elementi spesso mancano oggi, soprattutto a livello politico, senza distinzione di schieramenti.

Umiltà e disponibilità ad ascoltare è uno dei tanti insegnamenti di metodo, che Luigi Mengoni ci ha lasciato, tanto più necessari in una società, come l’attuale, sempre più caratterizzata da mancanza di dialogo tra sordi, che non vogliono e, soprattutto, non sanno né comunicare, ne riuscire ad essere intesi, né tantomeno ascoltare, comprendere e valutare le opinioni degli altri.

Questa attuale società si mostra, invece, troppo spesso afflitta dal tarlo inesorabile di mancanza di umiltà e consequenziale eccesso di polemica, di frequente aspra ed inconcludente (aizzata e amplificata nel fragore, dai media), spinge ad illuderci di permanere in una superiorità apparente con la semplice convinzione, soggettiva e non ragionata dialetticamente, di supremazia (o superbia) delle proprie idee e scelte talvolta frettolose e superficiali, spesso svincolate da sostegno di approfondite convinzioni e di adeguata cultura ed esperienza, nonché di raffronto di opinioni 19.

La via del dialogo è l’unico percorso da riprendere con comprensione degli altri, con umiltà propria del servizio e con fermezza, sul piano interno e nei rapporti con le altre culture e tra i popoli. Questa è la via del progresso nel bene comune senza egoismi e spinte di interessi individuali, verso la comprensione interna, percorso ineliminabile verso una pace tra popoli.


  1. Il metodo del dialogo e della consultazione per la Costituzione e per le riforme costituzionali


Il 2008 coincide con il 60° anniversario della Costituzione repubblicana, che ha offerto una serie di occasioni per ricordare le origini della formazione della Carta costituzionale. Questo ha indotto a riflettere sulla metodologia e sulla cultura del dialogo, concepito come esigenza di ampia condivisione per il “bene comune” di tutta la Nazione italiana e percepito non in funzione di contingenti interessi o divisamenti di singoli raggruppamenti politici, ma come una operazione ampiamentecondivisa.

Quel “bene comune” era stato il filo di unione dei Padri costituenti e delle generazioni, anche quelle degli anni 20, uscite dalle sofferenze della guerra e che conservano - tuttora - i grandi meriti della ricostruzione di una Italia distrutta anche sul piano della libertà e della dignità dell’uomo, della pacificazione dopo tristi ed inumane esperienze fratricide e soprattutto hanno la benemerenza della ripresa economica – considerata, allora, esempio in tutta l’Europa – accompagnata da un inseparabile progresso nell’adempimento dei doveri di solidarietà sociale soprattutto nel campo del lavoro e della produzione.

Vale la pena di soffermarsi sul metodo del dialogo (più che mai attuale nell’attuale congiuntura economica e politica), come apertura al confronto e alla consultazione, che ha animato tutto il percorso dell’Assemblea costituente e soprattutto i lavori preparatori.

Fu un’opera continua attraverso l’acquisizione di contributi. di relazioni, di questionari, taluni richiesti non solo a uomini politici o a titolari di funzioni politiche e a segreterie di partito senza distinzione alcuna. Vi furono anche contributi pervenuti liberamente o sollecitati ad Università, ad Organi delle giurisdizioni superiori, a singoli professori universitari, a studiosi ed esperti e perfino a riviste, a capi e funzionari di amministrazioni statali e locali20.

Questo metodo consultativo aperto è ormai ampiamente utilizzato con coinvolgimento di competenze qualificate della società civile, sia pure settorialmente e quindi con riflessi corporativi, da alcune autorità indipendenti e in modo particolare ampiamente sviluppato e talvolta istituzionalizzato in sede comunitaria.

Quanti errori ed incongruenze, quante distorsioni (contrarie alle esigenze della collettività intera, pur se a taluni gradite) anche tecniche e non solo giuridiche, si sarebbero potute evitare sia nella elaborazione di tante normative nazionali e regionali, come quelle dei lavori pubblici, degli incentivi e di proroghe di favore nel settore televisivo, dell’ammodernamento delle attrezzature ed infrastrutture, nel campo fiscale, nel campo energetico, nei settori professionali, nell’agricoltura e così in molti condoni ed interventi settoriali, sia ancora in talune scelte di gestione contrastate (v. localizzazioni di discariche per rifiuti, degassificatori o percorsi Tav).

Occorre ritornare ad una cultura del dialogo e del confronto pacato ed aperto, nel pieno rispetto sia della pari dignità sociale di ciascun componente le comunità, sia dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali, tra le quali, in primo luogo, devono restare privilegiate la famiglia, la scuola intesa globalmente come istituzioni di istruzione, di educazione e di cultura, oltre beninteso le associazioni, i sindacati e i partiti, ciascuno nella rispettiva sfera di autonomia.

Questo metodo del dialogo e questa cultura del dialogo devono svolgersi nello spirito delle quattro parole “libertà-unità-eguaglianza-democrazia”, che costituiscono in ripetizione lo sfondo “ a tappeto” del francobollo (verde bianco e rosso) emesso ai primi di questo anno per il 60° anniversario della Costituzione.

Su tale via la Costituzione repubblicana è e sarà ancora più viva e vitale.


  1. Dialogo e confronto come mezzo per superare la conflittualità tra Istituzioni e tra istituzioni e società civile.


Esiste una esigenza viva – sottolineata da più parti - di Camere di compensazione e di procedure di raffreddamento del contenzioso, ma queste devono passare attraverso le istituzioni, come valore essenziale di sistema democratico, mediante la trasparenza, la certezza delle regole di ripartizione di competenze ed insieme la previsione istituzionalizzata di procedure di raffronto e di confronto degli interessi in gioco (nazionale, regionali e locali).

Questi strumenti di confronto non possono limitarsi a Conferenze del tipo di quelle attuali Stato-Regioni, ma occorre una previsione accurata del modo di formarsi della volontà comune, con adeguate garanzie di effettività di partecipazione ed inquadramento della natura ed effetti sul piano istituzionale amministrativo delle determinazioni adottate, con una puntuale previsione di garanzie di effettiva partecipazione di tuttele Regioni, prevedendo anche pareri o apporti scritti.

Uno dei mezzi per ridurre il contenzioso può essere l’utilizzazione di meccanismi preventivi di esame e valutazione dialogata, istituzionalizzandoli, anche sotto il profilo costituzionale, con la previsione di organi collegiali misti Stato-Regioni, attribuendo, attraverso specifiche previsioni, valore giuridico alle relative determinazioni su talune materie con garanzie in ipotesi di dissenso interno. Attualmente talune determinazioni della Conferenza Stato-Regioni sono anomale, con carattere paranormativo, e al di fuori di una previsione corretta delle fonti.

Un altro difetto da superare, deriva da una scarsa collaborazione, almeno consultiva, di tutte le componenti regionali, essendo opportuno prevedere sistemi di compartecipazione anche delle minoranze dei consigli regionali.

In definitiva non si può fare a meno di un confronto continuo e più ampio tra Stato e Regioni, cercando di ridurre lo schematismo di schieramenti ed agevolando una abitudine al dialogo, fino ad ipotizzare sperimentalmente la partecipazione, oltre degli esecutivi, di rappresentanze delle Assemblee regionali ed, in particolare, delle opposizioni, quanto meno per questioni di principio o riforme significative.

Questo presuppone un sistema diverso di concepire i rapporti, soprattutto nella sede politica nazionale e regionale, tra gli schieramenti politici e tra governo ed opposizioni, finora sempre divisi in un bipolarismoforzato e dominato dai vertici, ambedue aspetti che l’attuale difettosa ed insana legge elettorale tende ad accentuare in perenne e netta contrapposizione ed esaltazione, spesso unica giustificazione del dissenso.



Riccardo Chieppa





DIALOGO


Dopo la lettura del bellissimo testo di Riccardo Chieppa la mente è andata subito all’antifona del giorno di Pentecoste:

Lo Spirito del Signore ha riempito l’universo,

egli che tutto unisce, conosce ogni linguaggio. Alleluia”.


Lo Spirito del Signore è il protagonista del dialogo, di ogni dialogo.

Nel Mistero della vita trinitaria lo Spirito è la realizzazione piena del dialogo d’amore fra il Padre e il Figlio.


Conosce ogni linguaggio: conosce, comprende e santifica quello che ogni persona umana vive, sperimenta, elabora dentro di se e comunica. E questa conoscenza riguarda i singoli, le comunità di ogni genere, le culture, i popoli, le istituzioni.


Tutto unisce: la presenza operante dello Spirito porta al dialogo, alla pace, alla fraternità lungo tutto il cammino della storia, dalla città di Caino alla Gerusalemme celeste.

Il protagonismo dello Spirito Santo nulla toglie all’impegno dei nostri spiriti, quello che è indicato con chiarezza da Mario Tronti come l’urgenza maggiore ai nostri giorni.

Il dialogo di cui è protagonista lo Spirito Santo non si attua solo con le parole.


Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno noi sappiamo cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili” (Rm. 8, 26).


Il grido, dalla nascita di ogni bambino a quello di Gesù sulla croce, è nel cuore dell’esistenza umana.

La sorgente di ogni dialogo è il silenzio:

Sta’ in silenzio davanti al Signore e spera in lui” (Salmo 37, 7).


Nei rapporti fra le persone ci sono eloquentissimi silenzi che vanno dal rifiuto di un rapporto al segno di un affetto e una compassione inesprimibile.

Lo Spirito guida all’ascolto e al dialogo anche con chi ha concezioni profondamente diverse sull’uomo e sulla vita.

Il dialogo suggerito dallo Spirito non conosce confini, muri, steccati


Un orientamento dello Spirito è verso i piccoli, i poveri e i sofferenti, per un dialogo che riconosca l’importante cattedra dove loro si trovano.


Pio Parisi





FIDUCIA


  1. Nei discorsi


Parola molto utilizzata nell’accezione di “confidare in qualcuno o in qualche cosa”.

Molto spesso viene preceduta da poca, tanta, un po‘ di, nessuna.

In politica se ne fa uso forse esagerato (…e quando la si ottiene, essa viene utilizzata senza più considerare perché è stata data, da chi è stata data, quali speranze erano riposte in essa).

La fiducia si dà.

La fiducia si ottiene.

La fiducia è mal riposta.

La fiducia può essere reciproca.

La fiducia può essere condizionata.

La fiducia spesso è incondizionata.


  1. Nel Vangelo


Nell’Antico Testamento si respira un vero e proprio sentimento di sicurezza e di tranquillità legato alla fiducia in Dio. Due esempi molto belli sono il salmo 26: “il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò timore?…se contro di me divampa la battaglia anche allora ho fiducia”; il salmo 54: riponi la tua fiducianel Signore ed egli avrà cura di te”.


Tutto il Vangelo è un continuo annuncio di Cristo che bisogna fidarsi di Dio Padre, dello Spirito, della Provvidenza.

Il Ladrone morente sulla Croce ha piena fiducia che l’Altro morente accanto a lui può dargli la vita eterna.

Gli Apostoli lasciano tutto ed hanno fiducia in Lui; calano nuovamente la rete perché si fidano delle Sue parole.

Zaccheo (Luca 19, 1-10) ha fiducia in Gesù: “quando Gesù giunse in quel luogo, alzati gli occhi, gli disse: Zaccheo, scendi, presto, perché oggi debbo fermarmi a casa tua”. Egli si affrettò a scendere e lo accolse con gioia” (una vera e propria materializzazione della fiducia).

Sempre in Luca 12, 22-34: “per questo vi dico: non preoccupatevi troppo…guardate i corvi: non seminano…eppure Dio li nutre…voi avete un Padre che sa ciò di cui avete bisogno…non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto darvi il Suo regno”.

Non riflettiamo mai abbastanza sulla fiducia che ha ispirato la risposta affermativa di Maria all’annuncio portato dall’Angelo.


  1. Nella vita


Tutta la nostra vita è un dare e ricevere fiducia, da quando bambini ci lasciamo condurre dalla mano di nostra madre, a quando morenti ci affidiamo alla fede che ci è stata donata. Certo, sappiamo bene che la fiducia degli altri dobbiamo conquistarcela con atti concreti, e sappiamo anche con quanta vergogna dobbiamo confessare a noi stessi che talora la fiducia che gli altri ci hanno dato era mal riposta, specialmente quando il nostro interlocutore era un povero o un piccolo.

Spesso diciamo a noi stessi e agli altri che bisogna avere fiducia in sé stessi.

Quante volte abbiamo deluso i nostri maestri che avevano fiducia in noi.

Quante volte abbiamo barato con i nostri allievi, dai quali abbiamo preteso fiducia.

Quanti giovani muoiono perché ripongono fiducia in cattivi maestri.

Quanto è bello vivere con la certezza che la fiducia nel Signore salva, tutti e sempre.


Biagio Cinque





FRAGILITA’


  1. Nei discorsi


La fragilità è ritenuta, nel linguaggio corrente, un deficit della personalità, sostanzialmente un handicap.

Le persone fragili le si considera soggetti inadeguati per la competizione, al più da tenere sotto protezione. Per avere successo occorre dimostrare il contrario, cioè apparire forti, indistruttibili, aggressivi, corazzati nei confronti del dolore, delle paure, dello stress.

Coloro che si trovano a vivere momenti di sconforto, angoscia e disorientamento sono spesso costretti, nelle relazioni sociali, ad occultarli ed a simulare sicurezza e imperturbabilità, per non essere giudicati inadeguati o perdenti.

Ai figli i genitori di frequente propongono, come modelli, personaggi perennemente vincenti, che non mostrano mai segni di debolezza o di crisi.

La condizione di fragilità viene associata all’età anziana ed a quella infantile, allo status di ammalato, di rinunciatario, di depresso.


  1. Nel Vangelo


Nel racconto evangelico, è Gesù stesso a fare esperienza di fragilità. Nel percorrere sino in fondo, in obbedienza al Padre, la via della croce, sperimenta drammaticamente la solitudine e l’impotenza, fino a gridare “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc. 15, 34).

Da Gesù vengono chiamate beate persone che, nella loro mitezza, capacità di compassione, spirito di non-violenza, fanno trasparire una consapevolezza della propria fragilità e del limite, che si trasformano in risorse di letizia e di amore fraterno (Mt. 5, 3-12; Lc. 6, 20-23).

Egli è sollecito nel consolare tutti coloro che vivono esperienze di fragilità: “Venite con me, tutti voi che siete stanchi e oppressi: io vi farò riposare” (Mt. 11, 28).

Coloro che incontra sulla sua strada hanno la possibilità di collocare sotto una luce diversa eventi che hanno prodotto angoscia e mandato in frantumi la speranza. I discepoli di Emmaus sperimentano un incontro che trasforma la loro fragilità in una forza nuova (Lc. 24, 13-35). L’incontro col mistero dell’incarnazione, passione, morte e resurrezione del Signore permette a tutti noi di riconoscere ed accogliere la nostra comune condizione di fragilità, trasfigurandola in cammino di speranza e di fraternità.

Nella lettera ai Romani, Paolo ci ricorda che “lo Spirito viene in aiuto della nostra debolezza” (Rm. 8, 26).


  1. Nella vita


La nostra condizione creaturale ci mette tutti e continuamente a rischio di fragilità. Il tempo che stiamo attraversando, poi, così segnato com’è dal moltiplicarsi di spinte alla frammentazione, alla competizione esasperata, a forme di esclusione inedite e violente, moltiplica in modo esponenziale le occasioni di indebolimento del senso del vivere, di precarizzazione dell’esistenza.

Tutto diventa fragile: i legami affettivi, il lavoro, la procreazione, l’accesso alle risorse naturali, la salute, il cibo, la parola data, la pace, l’innocenza dei bimbi, la convivenza tra i popoli, la stessa sopravvivenza dell’uomo sulla terra.

Allo stesso tempo, nuove tentazioni idolatriche, cariche di suggestione tecnologica, spingono gli uomini e le donne ad inseguire miti di successo e di onnipotenza ed a mascherare in mille modi la loro condizione di fragilità.

Riconoscersi fragili e portatori di limite è possibile se ci si lascia istruire dai piccoli e dai poveri, dai malati di mente e da coloro che soffrono. Alla loro cattedra possiamo apprendere che si può vivere insieme riconoscendosi legati da una condizione di vulnerabilità condivisa, che può divenire risorsa per la fraternità, anziché per la dominazione.


Gianfranco Solinas





GIOIA


  1. Nei discorsi


Gioia è una parola che si sente raramente nei discorsi correnti. Si parla più spesso di felicità, di benessere, di successo, di soddisfazione, di festa, di allegria.

Qualche volta si “partecipa la gioia” o “si partecipa alla gioia” in occasione di matrimoni, di nascite, di nomine; ma è spesso un fatto formale.

Le gioie più profonde raramente sono oggetto di comunicazione. Appartengono ad una intimità che si ha un certo pudore a comunicare. In genere poi è l’interiorità che è soffocata da una cultura che privilegia l’azione e l’immagine: l’esteriorità.

La gioia poi sembra appartenere a un mondo femminile di cui ancora poco si capisce il valore.


  1. Nel Vangelo


Il Vangelo è la Buona Notizia ed è quindi sorgente di gioia. Il Vangelo innestato nel primo testamento, di cui non è in alcun modo la sostituzione, è il compimento della gioia già in esso sperimentata.

Quale gioia? Quale il motivo della gioia? Dio Creatore e Signore, Dio Padre, Gesù Cristo figlio unigenito e lo Spirito dono del Padre e del Figlio. Gioia teologale come la virtù della fede, della speranza e della carità.

Gioia pasquale, adesione alla passione, alla morte, alla risurrezione e all’ascensione al cielo del Signore Gesù Cristo.

S. Paolo dice: “Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione”; “Mi vanterò ben volentieri della mia debolezza, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte” (2 Cor. 7, 4; 12, 9-10).

La gioia nel Vangelo non è alternativa alla sofferenza.

La gioia nel Vangelo non è in alcun modo un ripiegarsi su se stessi dimenticando le sofferenze e le gioia degli altri. Non è, come è stato accusato, un camminare nella battaglia con una rosa in mano.

Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (Gaudium et Spes).

Tutte le sofferenze di tutte le creature, tutto il male che causa queste sofferenze, fino alla crudeltà nei confronti dei bambini, fino ai genocidi, tutto è partecipazione alla passione e alla morte di Gesù Cristo, per il quale tutto risorge a vita nuova. Tutto è gioia pasquale.

Il sole di giustizia, Cristo Signore, trasfigura ed accende l’universo in attesa” (Inno di lodi).


  1. Nella vita


Mentre nei discorsi correnti c’è poco spazio per la gioia del Vangelo, la vita di tante persone è piena di esperienze non prive di gioia, intrecciata alla sofferenza, a cui va dato il lieto annuncio della gioia pasquale.

Nei giovani, nonostante condizionamenti mediatici non sempre favorevoli, ci sono una speranza per il futuro e un amore alla vita, un entusiasmo – etimologicamente Dio in noi – che dispone ad accogliere la gioia del Vangelo.

Nelle amicizie fra i giovani e fra quelli che non sono più tali, fino alla tarda vecchiaia, si sperimentano delle gioie profonde che preparano ad accogliere la paternità di Dio e la fraternità di tutte le donne e di tutti gli uomini.

In particolare nella compassione che si dà e si riceve nei momenti più duri della vita si scopre quel che ha detto il Signore: c’è più gioia nel dare che nel ricevere.

Nell’impegno per una società più giusta, meno violenta, e per la pace, anche quando si sperimenta la propria impotenza e cocenti sconfitte, si promuove il regno di Dio nella storia e al di là di questa.

Per annunciare il Vangelo e quindi seminare la gioia è necessario liberarsi dalle ricerche idolatriche di altre ricchezze e sicurezze e dalla tentazione di “propugnare” il Vangelo.

Il Vangelo è l’annuncio della Gioia pasquale che illumina e conforta ogni gioia terrena e ogni tribolazione.

Quando il Vangelo viene ridotto a etica diventa giudizio del bene e del male, legge impotente (cfr. Romani).


Pio Parisi





GIUSTIZIA


  1. Nei discorsi


Nei discorsi più ricorrenti, che sono quelli imposti e plasmati dalla insistenza e dal linguaggio banalizzante dei media, di giustizia si parla quasi solo con riferimento all'apparato burocratico e di leggi che dovrebbe assicurarla: la corporazione dei giudici, la decisione delle liti, la ricerca e la condanna dei colpevoli, l'espiazione (o meno) delle pene, e le relative modalità: ed ecco che la Giustizia è “lenta”, “malata”, “inefficace”, “inaffidabile”.

Di chi viene ucciso dopo un qualche tipo o una qualche parvenza di processo si dice che è stato “giustiziato”.

Si lamenta l'insufficienza o la falsità della “giustizia degli uomini”.

Nei discorsi edificanti delle filosofie e delle religioni la giustizia è la virtù suprema, nella quale tutte le altre si risolvono, ma resta al dunque inattingibile nella sua essenza. S.Agostino esordiva “iustitiam intelligere difficile est”, e dopo gli orrori dell'ultima guerra la voce pacata di Giuseppe Capograssi invita a riconoscere che non si è mai potuto far altro che “balbettare di fronte alla misteriosa idea della giustizia, misteriosamente vivente nell'animo degli uomini”.

La sapienza dei dotti la definisce, analizza e classifica con crescente precisione ma solo, e ormai consapevolmente, in termini formali: giustizia commutativa e distributiva, giustizia come generica conformità a una regola o parametro di comportamento, come conformità a una regola etica, o a una norma giuridica, a una norma giuridica esistente (giustizia come legalità) o a un ordine teleologico di valori che si vogliono tradurre in una norma giuridica nuova e diversa (giustizia come ideologia, quindi legata alla parzialità di una prospettiva storica contingente), come realizzazione di un assetto di interessi e relazioni conforme a un modello riconosciuto espressione di un “valore”, come metro di giudizio disinteressato e non di parte, ecc.

Oltre la forma la sapienza dei dotti non sa, o non può, andare. Platone diceva che solo i giusti sanno cosa è giusto, e i più avveduti giuristi contemporanei tornano a insistere sull'”aspetto emozionale”, sul “sentimento del giusto” quale consistenza ultima dell'etica sociale, del “comune orientamento alla formazione e all'attuazione dei valori fondamentali della società civile”, sulla viscerale reazione all'ingiustizia estrema (la violenza sul debole indifeso, il torto all'orfano e alla vedova) come ragione e fondamento di tutto l'ordine giuridico.

Ogni uomo sperimenta in sè l'esigenza di conformarsi a certe regole, ma fa anche esperienza di come non per tutti, non sempre e non dovunque le regole siano le stesse; e talvolta riconosce e soffre in sè stesso un contrasto fra due ordini o sistemi di regole, che portano a scelte diverse se non opposte. Da una parte si scopre nelle relazioni con gli altri che il proprio assoluto non è tale, dall'altra si scopre in sè stessi la possibilità di un contrasto fra due assoluti: non fra “legge morale” e “legge degli uomini”, ma fra due istanze morali.

Etica e morale hanno alla loro radice (anche etimologica) le “usanze”. E queste possono, in certi casi, rivelarsi “ingiuste”.


  1. Nel Vangelo


In apertura del Nuovo Testamento (Mt. 1,19) ci è additato come “giusto” Giuseppe, che, prima ancora di conoscere la verità dall'Angelo, “non voleva” seguire le usanze, le regole della sua comunità, denunciando Maria.

Nel racconto della Passione (Mt. 27, 19 e 24) “quel giusto” e “questo giusto” sono i termini con cui la moglie di Pilato e Pilato stesso si riferiscono a Gesù: ed è evidente che stanno a indicare ben altro che la semplice innocenza giuridica dalle colpe che gli sono ascritte.

Tutto il Discorso della Montagna, centro della prima predicazione di Gesù in Galilea, è intessuto di riferimenti alla Giustizia: prima ben due beatitudini (“beati quelli che hanno fame e sete di giustizia”, “beati quelli che sono perseguitati per causa della giustizia”), poi una serie di moniti che ne escludono la riconducibilità alla morale corrente, alla “rettitudine” secondo i parametri umani, alla stessa pedissequa osservanza dei precetti della Legge:

- “se la vostra giustizia non sarà maggiore di quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel regno dei cieli” (Mt. 5, 20), e subito dopo: “avete udito cosa fu detto agli antichi: "non uccidete... ma Io vi dico: chiunque va in collera col suo fratello sarà condannato in giudizio...” “amerai il tuo prossimo... ma Io vi dico: amate i vostri nemici...”;

- “guardatevi dal praticare la vostra giustizia davanti agli uomini, per essere ammirati da loro” (Mt. 6,1), e subito dopo: “la tua elemosina rimanga in segreto”;

- “cercate prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in sovrappiù” (Mt. 6, 33), e poi subito (Mt. 7, 1): “non giudicate”.

Sono dunque chiaramente indicate tre “giustizie”:

- la giustizia degli scribi e dei farisei, che è quella della lettera e non del cuore, dell'orgoglio del proprio essere “osservanti”, ma anche del buon senso, pagano, del “suum cuique tribuere”: occhio per occhio, ama il tuo prossimo;

- la giustizia di chi si pone alla sequela di Gesù (la “vostra” giustizia), che conduce al regno dei cieli perché corrisponde all'intenzione del Padre: amate i vostri nemici;

- la giustizia di Dio, che è quasi in endiadi col suo Regno, che è il modello da cercare per prima cosa, senza preoccuparsi del resto, e che è quella da cui scaturisce, e con la quale si identifica, il precetto dell'amore misericordioso.


Qui e solo qui, nel Vangelo, la giustizia non è questione di forme ma ha un contenuto: giustizia è fare la volontà del Padre, e la volontà del Padre è l'amore, filiale e fraterno, prima e al di là di ogni “legge”, perché la legge è data solo per “educare” la durezza dei nostri cuori prima del “comandamento nuovo”. E’ il tema di tutti gli scontri con i farisei: sul Sabato (Mt. 12, 7), sulla tradizione (Mt. 15, 3) “Voi trasgredite il comandamento di Dio per la vostra tradizione” e “Con la vostra tradizione voi annullate la parola di Dio”, su ciò che è essenziale (Mt. 23, 23) “pagate le decime...ma trascurate le cose più essenziali della Legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Sono queste le cose che bisogna fare, senza trascurare quelle”.

La “giustizia di Dio” è la Sua fedeltà a Sè stesso come fonte di perdono e di misericordia, che non giudica col metro “gretto” dei “meriti” secondo i concetti umani. Gesù ce lo insegna con le straordinarie parabole della paga degli operai (Mt. 20, 1-16) e del figliuol prodigo (Lc. 15, 11-32).

La “giustizia di Dio” non è per la condanna ma è volontà di salvezza di tutti i suoi figli: “per l'obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti”, perché “là dove è abbondato il peccato è sovrabbondata la grazia... così regni la grazia con la giustizia per la vita eterna per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore” (Rm. 5, 19-21). Commentando questi testi Stancari ci insegna che nel linguaggio biblico parlare di giustizia è lo stesso che parlare della misericordia di Dio, che educherà le sue creature fino a riceverne la risposta che egli desidera. In tensione antitetica con la giustizia di Dio non è la misericordia ma la sua “collera”, cioè il nostro peccato.

La “giustificazione” è una affrancazione, una liberazione dalla vita vecchia (dal peccato, dalle “regole”): non più servi ma liberi.


  1. Nella vita


Ci siamo inventati (noi!) nientedimeno che una “teodicea”, per stabilire se Dio è o non è giusto, e arriviamo a dire che se gli uomini commettono (se noi uomini commettiamo) certe atrocità è segno che Dio non esiste.

Abbiamo dato alla giustizia il volto della severità, se non della ferocia cieca (“pereat mundus, sed fiat iustitia”), e consideriamo giustizia e misericordia antitetiche l'una all'altra.

Giudichiamo sempre e comunque, addossiamo agli altri fardelli che non siamo capaci di portare.

Non ci convertiamo e non crediamo al Vangelo.

Continuiamo a pensare che il padrone avrebbe dovuto dare di meno a quelli che avevano lavorato di meno, e che i nemici è già tanto se non li ammazziamo.

Invochiamo la “giustizia di Dio” non per essere perdonati ma perché Egli “punisca” i nostri nemici quando non riusciamo a “farci giustizia”, cioè a vendicarci, da soli, perché sia (Lui!) lo strumento della “nostra” giustizia, il nostro “braccio secolare”.

Colleghiamo la giustizia alla misericordia solo in quanto atto di pietà per il debole e l'oppresso.

Poi a tratti qualcosa squarcia il velo.

Hetty Hillesum che prova compassione per il giovane militare nazista che la sta angariando (“Povero ragazzo, cosa ti devono aver fatto per ridurti così!”) mette in crisi tutti nostri schemi e schermi, ci mostra la miseria della nostra pretesa "ansia di giustizia".

L'unica vera giustizia, l'unica efficace “riparazione” dei torti, è amare i nemici, amare chi ci perseguita, “rimettere i debiti ai nostri debitori”. E’ necessario perché è l'unica via che non aggiunge male al male, ed è possibile e avviene ogni giorno, nel cuore e nei gesti spontanei di innumerevoli persone mosse dallo Spirito che si spendono per gli altri, e di cui non ci accorgiamo perché abbiamo occhi solo per noi stessi.

Che la loro giustizia, tanto maggiore della nostra, ci aiuti.


Massimo Panvini Rosati





GLOBALIZZAZIONE


  1. Nei discorsi


Almeno da alcuni decenni se ne parla molto di più.

Se ne parla a partire dall’economia ma si estende a tanti altri campi della vita sociale, fino a poter parlare del mondo come “villaggio globale”. Per lo più se ne parla limitandosi alla constatazione di un fatto. Alcuni la considerano molto positiva, ma molti ne rilevano gli aspetti negativi: perdita di identità personale, regionale, sul piano economico e più ancora culturale.

Movimenti consistenti, specialmente fra i giovani, di resistenza e opposizione alla globalizzazione.


  1. Nel Vangelo


Il Vangelo non parla di globalizzazione ma illumina e conforta – è la buona notizia – quanti ne sono fuori. Illumina lo stesso formarsi del globo, discernendo quanto c’è di positivo e quanto è negativo.

Il sole di giustizia,

Cristo Signore,

trasfigura ed accende l’universo in attesa”.

(Inno di Lodi)


Il disegno del Padre è di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Ef. 1, 10).


La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non v'è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a lui noi dobbiamo rendere conto” (Ebr. 4, 12-13).


Sta‘ in silenzio davanti al Signore e spera in lui” (Salmo 37,7).


Per cogliere la luce che illumina e discerne la globalizzazione in atto, è necessario far silenzio, nel silenzio contemplare e amare tutta l’umanità nella sua storia, presente e futura, e soprattutto aprirsi alla rivelazione dell’iniziativa di Dio21.

Far silenzio soprattutto interiore, interrompere la corrente continua dei nostri ragionamenti e dei nostri sentimenti per esporci interamente alla realtà che ci contiene, ci sostiene, ci sovrasta. Così si sperimenta che l’amore non è necessariamente circoscritto, che anzi, sia pure a partire da una o poche persone, ci porta ad abbracciare tutti.

Il nostro cuore può essere riconosciuto come il massimo globalizzatore; non nel senso che rinchiude tutti in una sfera, ma che si effonde in modo universale. Tutto in Dio perché Dio è in tutti. E’ la vera laicità che ancora quasi tutti si rifiutano di mettere a tema.

Ma come è possibile questo silenzio e questa apertura totale quando sperimentiamo continuamente il ripiegamento sui nostri problemi e l’autoreferenzialità di tutte le nostre iniziative, anche quelle che consideriamo ecclesiali, dimenticando che la Chiesa è per il mondo e non viceversa, che è sale, che è lievito.

Quel che non è possibile agli uomini è possibile a Dio” è la risposta di Gesù a chi gli chiedeva: “chi potrà essere salvato?” (Lc. 18, 26).

Lo Spirito viene in aiuto della nostra debolezza…(Rm. 8, 26).

Sulla tua parola getterò le reti” (Lc. 5, 5).

La forza unificante è la carità, l’amore della cui concretezza ascoltiamo l’inno alla carità nella prima lettera di Paolo ai Corinzi: “La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1 Cor. 13, 4-7).

Può venire in mente di chiederci cosa tutto questo abbia a che fare con la globalizzazione per opera dell’economia e della tecnica. Prima dovremmo chiederci che cosa ha a che fare la nostra ispirazione cristiana con la parola di Dio. Forse siamo ancora quei “sapienti e intelligenti” ai quali è nascosta la conoscenza del Padre e del Figlio (cfr. Mt. 11, 25-27).


  1. Nella vita


C’è sempre una resistenza a tutte le forze che tendono a limitare e togliere del tutto la libertà, a massificare, a… globalizzare.

C’è poi una spinta a superare recinti e confini, un desiderio di allargare gli orizzonti, un sentimento profondo di appartenenza ad un’unica famiglia umana.

Cominciando a maturare uno spirito universale si scopre di essere sempre più se stessi, appartenenti a una famiglia, a una cultura, a una religione in cui ci si realizza non chiudendosi ma donandosi agli altri.


Pio Parisi





GRATUITÁ


Nei discorsi


Nel linguaggio del marketing, il termine spesso indica una opportunità di mercato (“prendi tre, paghi due”); oppure è sinonimo di ciò che è “senza prezzo” (cioè senza valore di mercato definibile).

Usata come aggettivo, la parola “gratuità” qualifica gli atti le cui motivazioni non sono immediatamente percepibili (es.: “una violenza gratuita”).

La gratuità individua anche quell’ambito di relazioni in cui si verificano prestazioni di beni e servizi, effettuate senza chiedere nulla in cambio, con il solo obiettivo di tessere – o ripristinare – legami significativi. È l’ambito del volontariato organizzato. Constatiamo tuttavia che proprio in questo ambito, la gratuità – considerata per decenni come una componente essenziale – è oggetto di sempre minore considerazione. Si ritiene che gratuità sia sinonimo di incompetenza e di improvvisazione. Si privilegiano perciò le organizzazioni che strutturano il lavoro sociale in forma di impresa, che impiegano soprattutto personale competente e retribuito.


Nel Vangelo


Tutto è grazia!”: sono le ultime parole del “Diario di un curato di campagna”, di Bernanos.

Tutta la storia della salvezza è storia della rivelazione dell’amore gratuito di Dio, nella storia degli uomini.

La gratuità di Dio si rivela nella creazione (Gen. 1-2).

Nella chiamata di Abramo e nelle benedizioni a lui rivolte (Gen. 12,1-3).

Nell’ascolto del grido del suo popolo oppresso (Es. 2,25).

Nel dono della Legge (Es. 19-20).

Nella vocazione e nella testimonianza dei profeti (es.: Ger. 1, 4-10; Ez. 1, 1-3; 2, 1-3; 21). Nell’offerta del Figlio per la vita del mondo (Giov. 6,51), cioè per la liberazione definitiva dal peccato e per la salvezza di ogni creatura (Rom. 3,21-26).

Nel dono dello Spirito di verità e di consolazione (Giov. 16, 4-15), vento soffiato nel cuore della Chiesa (At. 2,1-13), affinché nella storia essa sia capace di testimonianza fino al martirio (Ap. 6, 9-11), nell’attesa operosa di un nuovo cielo e di una nuova terra (Ap. 21).


Nella vita


La dimensione del gratuito attraversa le relazioni tra le persone, anche se spesso non è riconosciuta e annunciata.

Nelle relazioni familiari, la gratuità è il carattere prevalente. Basti pensare all’amore gratuito delle relazioni tra genitori e figli. O, anche, al fatto che la comunità familiare continua ad essere l’ambito in cui le persone in difficoltà trovano la prima risposta ai loro bisogni di cura.

In ambito professionale, la gratuità è il timbro che distingue ogni lavoro fatto bene, che, in quanto tale, esprime un valore a cui non si può dare un prezzo.

Nella vita sociale, si può cogliere la gratuità in tutte le situazioni in cui una persona (o un gruppo) si muove verso l’altro anteponendo i bisogni dell’altro ai propri.

Nell’impegno politico, la gratuità si esprime nei tentativi, peraltro sempre più rari, di coltivare (personalmente e comunitariamente) un’attenzione verso tutto e tutti, cercando innanzitutto di comprendere il senso più profondo degli avvenimenti in corso, così come dell’epoca storica in cui viviamo, e di tutta la traiettoria della storia umana. Cercando di rinunciare ad ogni condizione di privilegio e di potere.

Giorgio Marcello





GRATUITA’


  1. Nella vita.

Non è notata né considerata eppure è ovunque, anche se a fatica esce allo scoperto.

Nella mentalità comune fatta di comportamenti distratti è legata all’acquisto di cose, beni, prodotti della quale si diffida perché “nessuno ti regala niente”; si sa che spesso nasconde una finalità diversa dal semplice “offrire gratuitamente” poiché diviene la tattica invece per mascherare una vendita, l’affiliazione ad un club, l’indurre ad una scelta il cui ritorno economico è sempre maggiore rispetto all’offerta.

La gratuità nei processi di mercato è quindi diventata una forma di subdola costrizione per consumatori e utenti.

Viene percepita anche come un dis-valore quando è abbinata ad una prestazione professionale.

Se è segno di una iniziativa libera, quindi non come risposta ad una precisa richiesta, comporta un deprezzamento ed una svalutazione di quanto si offre gratuitamente.

Siccome non è prevista in alcuna norma o legge o comportamento è atto di vera libertà che segna una necessità interiore non giudicata sempre positivamente.


  1. Nel Vangelo.


..è il tema dell’abitare nella casa..

..dolce invito a vivere in Xsto che ci ha visitati.. redenti..salvati..

..attraverso il perdono..

.. le benedizioni in qualsiasi situazione..

..la libertà...

.. mettendosi in ginocchio..

rendendoci servi inutili..

.. amici, figli..

..nell’aver reso prossimo le prostitute, i ladri, le adultere, gli assassini..

offrendo pace ovunque..

..nell’aver indicato la strada attraverso la morte e resurrezione del Figlio..

..nell’averci dato il Mistero..

..insegnato il gusto del Mistero..

..amati nel Mistero..

..resi Mistero..


  1. Nella vita.


E’ l’ambito nel quale sperimentare chi siamo veramente e corrisponde ad una presa di coscienza dell’amore.

La gratuità per gli uomini non può che essere una risposta ad un dono già ricevuto attraverso il quale si ri-attivano i circuiti vitali recisi che ci consentono di mettere in circolo la vera gratuità che è ringraziamento.

E’ anche segno di una guarigione che tocca gli altri e propaga benefici inaspettati anche se temporanei, perché va rivitalizzata continuamente.

E’ il passaggio della creatività, dei carismi, delle qualità, della bellezza, di qualcosa che non è mai spreco ma abbondanza di innesti di vita.

Aiuta ad orientare le azioni verso la libertà per sfuggire alle pratiche di potere, l’azione gratuita è libera ed è liberante perché realizza un bilanciamento tra l’inaspettato e l’impossibile.

Apre e scopre il senso delle relazioni che radica nella ricerca dell’altro, produce gli effetti di un nomadismo interiore che ci spossessa dalle intenzioni e dai progetti e ci mette continuamente alla prova.

De–struttura gli ambiti dove l’esercizio della gratuità è un tabù, è incompatibile con pronostici e previsioni; è l’investimento anche affettivo soprattutto in situazioni svantaggiate.

De-stabilizza chi esercita un dominio perché è come un invito a sciogliere lacci e squilibra le forze perché le invita alla debolezza.

È l’abbraccio della vita con la vita, da soli non la si può esercitare, sperimentare, conoscere.


Maria Luisa Matera




INTEGRAZIONE


1. Nei discorsi


Nel linguaggio comune integrazione è stare al passo degli altri, essere alla moda, stare o sottostare agli altri o meglio, nell’ambito lavorativo, devi sottostare al capo ufficio di turno o, come si suol dire in gergo lavorativo, devi essere della cordata di turno; allora in questo caso sei ben integrato e considerato una persona valida. Se invece vai controcorrente non sai integrarti e quindi non vai avanti e sei emarginato.

Nel linguaggio dei giovani invece integrazione è seguire la moda, magari fumare come gli altri, avere il motorino, la play-station e tutte le nuove tecnologie che oggi si hanno. Nella famiglia essere integrati significa consentire ai figli di seguire gli eventi della vita quotidiana, conoscere le nuove tecnologie del mercato, altrimenti sei un genitore che rischia di non costruire un rapporto con i figli che seguono tutti i nuovi sviluppi che avvengono nell’attualità.


2. Nel Vangelo


Nel Vangelo è l’incarnazione di Gesù che si è fatto uomo per integrarsi nella vita quotidiana.

E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la Sua gloria, gloria come unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Giov. I, 14).

Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale”.

Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rom. 12, 1-2).


3.Nella vita


Nella vita quotidiana c’è una positiva integrazione sui processi culturali, sociali e morali che rendono l’individuo membro di una società.

Il processo più importante è la trasmissione al neonato e successivamente al bambino da parte della famiglia di quelle competenze sociali, valori e norme attraverso le quali l’individuo cresca e possa integrarsi bene nella vita quotidiana. Integrato è il genitore che sta attento alle esigenze dei propri figli senza essere nè troppo permissivo nè troppo esigente, che dà attenzione senza pensare troppo ai propri interessi e al proprio lavoro.

C’è integrazione nella vita quotidiana rispettando il prossimo, nell’ambito lavorativo lavorando con diligenza e costanza, essendo pronti a fare lavoro di squadra, interagendo con i colleghi senza sopraffarli, aiutandoli e facendosi aiutare affinché venga fatto nel migliore dei modi il lavoro da fare.

E’ ben integrato chi mette a disposizione degli altri le proprie idee valutando anche le loro senza però imporre le proprie; un’altra cosa positiva delle persone ben integrate è dare una mano alle persone che hanno bisogno senza chiedere in cambio nulla e senza pretendere.

Il giovane ben integrato è colui che aiuta il coetaneo dando consigli, rispettandolo senza emarginarlo, è anche colui che insegna ad essere umili con tutti specialmente con le persone piccole ed emarginate.


Giacomo Barbalaco





INVITI a pranzo e a cena


  1. Nei discorsi


Diventano sempre più un elemento importante del tessuto sociale.

Sono spesso gli unici tempi liberi per incontrarsi fra amici.

Sono in larga misura determinati da una logica di “ricambio”: sono stato invitato, devo ricambiare l’invito.

Sono occasioni per accordarsi, per combinare: dalle iniziative più positive a quelle mafiose.

Ci sono poi pranzi e cene propriamente di lavoro.

I luoghi prevalenti: ristoranti, trattorie, pizzerie.

Ci sono banchetti in occasione di matrimoni e anche di prime comunioni, in cui non di rado c’è una grande contraddizione fra il Mistero della Messa, comunione con il Signore e tutta l’umanità povera, e quanto si spende nel pasto successivo.

Le conversazioni durante i pasti riguardano in gran parte quel che si mangia e dove si mangia bene.


  1. Nel Vangelo


Gesù partecipa a pranzi e cene: alle nozze di Cana (Giov. 2), dal fariseo (Lc. 7, 36) da Levi (Lc. 5, 27), da Marta e Maria (Giov. 12).

L’istituzione dell’Ecucaristia: «Mentre mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: “Prendete e mangiate; questo è il mio corpo”. Poi alzò il calice…» (Mt. 26, 26 e ss.).

Allora l’angelo mi disse: «Scrivi: beati gli invitati al banchetto delle nozze dell’Agnello!». Poi aggiunse: «Queste sono parole veraci di Dio»” (Ap. 19, 9).

Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per il figlio… molti sono i chiamati ma pochi gli eletti” (Mt. 22, 1-14).

Sulla scelta degli invitati: «Disse poi a colui che l'aveva invitato: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch'essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando dài un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti”»(Lc. 14, 12-14).


  1. Nella vita


In famiglia i momenti dei pasti quotidiani, quando gli orari di lavoro lo permettono, sono il tempo privilegiato dello scambio e quindi dell’arricchimento reciproco, quando ci si salva dalla TV.

Fra amici e in occasione delle feste può avere un gran valore condividere il cibo e più ancora la gioia e le eventuali pene.

I pranzi organizzati per i poveri sono belle iniziative ma non prive di tentazioni, specialmente quella di attenuare la coscienza dei reali squilibri e della coscienza politica di questi.

Sarebbe bello ritrovare le “visite” che si facevano un tempo e illuminarle con il Mistero della visita di Dio all’umanità.


Pio Parisi





LAICITA’


  1. Nei discorsi


Laicità è una delle parole oggi più usate: dalla politica trabocca in tanti altri campi.

Alla radice c’è il conflitto fra il potere dello Stato e quello della Chiesa, considerata ovviamente come fatto di potere.

Non di rado i soggetti che contano si definiscono laici con la stessa sicurezza con cui altri si qualificano cristiani, con una sicurezza che sembra ignorare l’esigenza di una continua ricerca propria della fede.

La considerazione della laicità fondata sulla Parola di Dio non viene presa in considerazione, tranne poche eccezione, nemmeno da chi, per altro, si professa credente in questa Parola.

Quanti si dichiarano laici e quanti si professano credenti convergono per lo più nella considerazione della Chiesa come fatto di potere. La seduzione del potere è fortissima tanto in veste clericale quanto in quella laicale.

Il Vangelo è considerato come un’alternativa dipotere e non alpotere.


  1. Nel Vangelo


Cercare Dio in tutto e tutto in Dio è la via indicata da tanti che hanno cercato e cercano di seguire il Signore Gesù, “Via, verità e vita” (Giov. 14, 6).

Mario Castelli e altri hanno cercato, alla luce della Parola, la laicità come “profezia del popolo di Dio sul mondo, responsabilità dei credenti in Cristo, attesa operante di risurrezione”.

A partire da queste due considerazioni si scopre una laicità luminosissima:

  • una guida per la carità, cioè per l’amore di tutte le donne e di tutti gli uomini in qualunque condizione e situazione si trovino;

  • un impegno che va ben oltre le esigenze di rispetto e di giustizia;

  • una penetrazione nel più intimo di ogni persona come l’intelligenza della complessità e delle svolte della storia;

  • la forza della povertà, della ricchezza, della non violenza per l’incontro con tutti i piccoli della terra e la resistenza a tutti i grandi;

  • il segreto della pace che viene dal Mistero di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo.


  1. Nella vita


Mentre alcuni grandi parlano tanto di laicità, essa è vissuta da gran parte del popolo in gesti e comportamenti molto concreti a cui non si dà la qualifica di laicale:

  • l’accettazione cordiale, anche se sofferta di sé e degli altri;

  • una operosità che, anche nelle angustie, va al di là di ogni calcolo interessato;

  • la solidarietà nella condivisione e nella compassione;

  • la percezione acuta della stoltezza e della iniquità dei giochi di potere;

  • l’accettazione della condizione terminale (mortale) universale senza avvilimento e con una speranza profonda e trascendente, anche se diversamente elaborata culturalmente.


Pio Parisi





LAICITA’


La prima cosa che mi viene in mente nel sentir pronunciare questa parola è che, di questi tempi, la laicità è in pericolo.

Gli attentati alla laicità vengono da molte parti. Da cristiano, mi sento personalmente chiamato in causa. L’integralismo torna a manifestarsi in modo evidente nella Chiesa cattolica cui appartengo, così come si manifesta in altre Chiese cristiane e in altre religioni. Ma anche i miti del progresso umano illimitato, della razza, del socialismo reale, del tecnicismo, del mercato, hanno fondato e fondano dogmi non meno ingombranti e configurano forme di integralismo che più difficilmente vengono riconosciute e criticate. Nel dir questo, non intento ridimensionare la preoccupazione per i recenti interventi della gerarchia cattolica che muovono “dalla convinzione che quello che viene da Dio – e quindi la Chiesa, la verità rivelata – è tanto superiore a quello che viene dalle creature, dalla storia, che l’intera realtà profana può di fatto, e deve di diritto, venir governata a partire dal sacro”, come denunciava nel dopo-Concilio il gesuita Saverio Corradino (1). Dico soltanto che gli attentati alla laicità vengono da molte parti.

La questione nodale sta nel costruire percorsi virtuosi capaci di dilatare lo spazio della laicità nel nostro tempo.

Troppo spesso ancora la parola laicità viene usata per contrapporsi, per distinguersi, per rivendicare una prerogativa, per denunciare attentati nei suoi confronti. Essere alfieri di laicità è un po’ come prendere in mano una bandiera da sventolare contro qualcuno, specie nelle tribune mediatiche. Chi usa questa parola, sembra lo faccia per segnare i confini di un territorio che gli appartiene, per riaffermare una proprietà esclusiva.

In poche parole, il riferimento alla laicità, in molti casi, non è né pacifico, né creativo.

In realtà quello che deve crescere è l’ascolto reciproco, il dialogo senza pregiudiziali, l’apertura alle scoperte e alle sperimentazioni che avvengono in territori altri, la disponibilità a scoprire i valori delle tradizioni altrui ed a capire il senso delle critiche alle proprie. Ciò che conta veramente è legittimare lo spazio del dubbio, della ricerca, dell’approfondimento, educandosi a coltivare quella convivialità delle differenze che don Tonino Bello ha teorizzato e praticato.

Quello della laicità, insomma, è un percorso faticoso e accidentato che richiede, a chi lo vuol compiere, scelte di liberazione personale e collettiva, di vigilanza e di auto-educazione.

La sfida più dura è sul terreno della prassi. Molte dichiarazioni di principio, infatti, vengono clamorosamente smentite dai comportamenti quotidiani di coloro che le formulano.

La laicità ha bisogno di profezia, assai più che di denuncia. Coloro che riconoscono e condividono la loro condizione di povertà, fragilità e piccolezza spianano senza proclami la strada alla laicità e smascherano il volto idolatrico e oppressivo di tutti gli integralismi presenti e futuri.


(1) in AA.VV. Dialoghi sulla laicità, Rubbettino Editore, 2002


Gianfranco Solinas





LAVORO


  1. Il lavoro nelle Scritture e nella storia

Il mondo antico guardava con sospetto al lavoro e distingueva nettamente fra il lavoro manuale, servile e spregevole, e le professioni liberali, quelle che richiedono l’otium (tempo libero) e il cultus atque humanitas, la cultura come “coltivazione della propria umanità”: in una società schiavistica il lavoro manuale puzza sempre di servilità, ha in sé qualcosa di degradante. Al massimo, gli antichi facevano un’eccezione, retorica e letteraria, per il lavoro dei campi, in quanto legato al passato mitico, rustico e virtuoso, della stirpe e votato all’edificazione di un ambiente naturale umanizzato e perciò più bello ed armonioso, in grado di placare l’animo rasserenandolo.

Anche la società feudale, agricola e signorile, disprezzava il lavoro. Al punto che molti di quei sostantivi che designano i lavori manuali più umili venivano usati come insulti (facchino, villano…)

Arrivati a questo punto, però, l’Europa era divenuta una cristianità, cioè un impasto culturale dentro il quale agiva il lievito cristiano, fermentando un modo nuovo di guardare al lavoro.

Già dall’A.T. ci viene presentato un Dio operaio, che fabbrica il cosmo lavorando per sei giorni e riposando il settimo. Lo stesso Dio che volle l’uomo, la Sua immagine, come giardiniere di Eden e gli comandò il lavoro, in quanto sua specifica essenza (Gen. 2,15). Sarà l’uomo a fare del lavoro una maledizione, non accettando per sé quello che, come gli aveva suggerito il Serpente, reputava un ruolo subalterno e cercando di farsi padrone e signore, anzi, dio della terra, di riprendersi cioè per rapina quello che Dio gli aveva donato per misericordia: una vita libera dal timore. L’antico Israele, ristabilendo il patto, guarderà con rispetto e considerazione al lavoro, tutelato dalla legge e lodato dai sapienti (Lv. 9,13; Dt. 24,14; Prov. 10, 4-5; 31, 13-22; 22, 29 ). Il N.T., a sua volta, vedrà il Figlio di Dio, il Verbo incarnato, crescere in una famiglia di umili artigiani (Mt. 13,55), artigiano lui stesso (Mc. 6,3). I primi a rendere omaggio al Bambinello nella grotta, la notte prodigiosa dell’Avvento saranno dei pastori che bivaccavano nella campagna attorno a Betlemme. Lavoratori, pescatori per lo più, furono anche i primi discepoli (Mt. 4,18; Lc. 5,4; Gv. 21,3). Paolo l’apostolo infine lavorava “giorno e notte”, per non essere di peso ad alcuno e perché il Vangelo non fosse fonte di scandalo e pretesto alla pigrizia (1 Tess. 2,9). Tanto che disse. “e chi non lavora, neppure mangi” (2 Tess, 1,12). Perciò per il cristiano il lavoro ha diritto alla giusta mercede, affinché l’uomo possa con esso procurarsi il pane quotidiano (Mt. 10,10; Lc.10, 7; ma anche Mt. 6, 9-13 e Lc. 11, 2-4; inoltre 1 Cor. 9,10).

Agostino, rifacendosi a Paolo, riaffermò grandezza e dignità del lavoro, praticato anche da religiosi e anacoreti. Non a caso a svilire il lavoro, sostenendo che i monaci dovessero esserne esentati, erano gnostici e manichei, che vedevano nella materia un qualcosa di decaduto, l’opera di un dio malvagio, poiché il dio del bene e della luce avrebbe a che fare solo con lo spirito. Evidentemente sfuggiva loro il significato dell’Incarnazione (Gv. 1,14). Lo stesso modo di concepire la dignità del lavoro troviamo presso le primitive comunità monastiche dell’Occidente, quelle dell’ora et labora, che vedevano le due attività strettamente congiunte nell’unica lode al Padre. Così né in Benedetto, né più tardi in Francesco ritroveremo l’antica separazione tra il lavoro manuale e quello intellettuale, fondamento del futuro mito del colletto bianco e delle mani pulite, frutto di una divisione del lavoro che sta all’origine della lacerazione dell’unica umanità che, come il pazzo furioso, morde le sue stesse carni. Con la divisione del lavoro infatti l’uomo si pose come “uomo diviso”, il servo-padrone: una situazione in cui per potersi dire uomini a pieno titolo occorrerà disporre di una appendice servile, non foss’altro che una donna e i suoi figli.

In questa lacerazione (e il grande divisore è il diabolos), che colloca l’uomo al livello della più inconsapevole animalità e che proprio perciò non gli compete, né egli l’accetta, è il seme dell’odio intraspecifico, di quella violenza che fa l’uomo lupo per l’uomo. Sarà il lievito cristiano (coi valori di libertà, uguaglianza e fraternità (dove quest’ultimo rende possibile e non contradditoria la convivenza dei primi due) a rendere più tardi inaccettabile, richiedendone il superamento, la riproposizione borghese del conflitto sociale, che nasceva dalle ceneri del sistema feudale, presentandosi come il trionfo del popolo sui chiusi ordinamenti di casta, ma affermando al contempo nel possesso di ricchezza e di beni materiali l’insorgere di una nuova aristocrazia, che ha nel denaro la sua misura e la sua legittimità. La profezia di Francesco, con la sua ribellione al padre borghese in nome di un rilancio dell’utopia cristiana (Mt. 23,9), non potè adempirsi. Almeno non nel medio periodo: i tempi non erano maturi. Ma rimase conficcata nel cuore dell’occidente cristiano ed è giunta fino a noi.


  1. Il lavoro ai giorni nostri

In tutta quella buia vicenda di sangue, oppressione e gloria che è la storia della cristianità occidentale, la Chiesa istituzione ha spesso mostrato la tendenza a voler fare di sé stessa un idolo, arroccandosi a difesa del privilegio clericale. Ha finito così per ritrovarsi (soprattutto a partire dal sec XIX ) sempre più sbilanciata dalla parte dei potenti e fare opera di non sempre limpida mediazione, pur confortando i poveri con l’assistenza e il sacralismo ed abbagliandoli con la magnificenza dell’arte, una sorta di caparra del paradiso. Non le mancò mai tuttavia il soccorso dei suoi santi: la Parola di Dio non può essere né incatenata, né cancellata (2 Tim. 2, 9), come Colui che ce l’ha recata, essa risorge sempre nel cuore di chi l’ha accolta.

E tuttavia molti tra i poveri e i piccoli, che si sentivano traditi, non accettando “di essere amati meno degli altri” (Freud), seguirono falsi profeti e scelsero la strada senza uscita dell’eresia (patari, dolciniani, valdesi, anabattisti, ecc.). Eresia, utopia o sogno allucinato inizialmente spesso fedele al mite comando cristiano della non violenza, ma che molte volte degenerò, per reazione ed autodifesa, nel sangue e nella devastazione, nell’illusione ricorrente e così umana, di porre rimedio con la violenza ai guasti creati da una violenza precedente. Anche il socialismo, l’eresia secolare del XIX sec., “nacque col Vangelo in mano” (Turati), ma finì per confluire nella rivolta laicista e nel materialismo comunista non certo alieni anch’essi dalla violenza.

Il primo tuttavia ad impadronirsi della bandiera del lavoro fu il laicismo borghese, che inalberò sui suoi vessilli i tre grandi valori cristiani (liberté, égalité, fratenité). Già a partire dalla rivoluzione protestante, l’uomo borghese pone sé stesso come “il lavoratore per eccellenza”: deve e vuole lavorare, una vita senza lavoro è per lui una non vita, indegna e vana. Il lavoro assume così un significato sempre più autonomo e costruttivo, ricco com’è di conseguenze visibili ed opportunità di successo, segno tangibile della benedizione divina. Esso è la strada maestra verso la pienezza di vita e il suo godimento, il benessere, la fama.

I pensatori dell’età borghese (sec XVIII, XIX, XX) finiranno, assai poco scientificamente, per minimizzare o negare del tutto le radici cristiane della rivalutazione del lavoro, infervorati nell’esaltazione delle “magnifiche sorti e progressive” e inebriati dalla visione darwinista di una umanità affrancata, dominatrice del pianeta (quell’aristocrazia economica che gli americani chiamano i WAPS ). In questo senso si espresse anche Max Weber: “è semplicemente una favola che al lavoro sia stata aggiunta una qualche nuova dignità ad opera, ad esempio, del N.T.”.

Sul significato del lavoro nel destino dell’uomo Hegel si espresse in questi termini:”Ora et labora! Prega ed impreca! Lavorare significa annientare il mondo, ossia imprecare”. (Ovvero: lo spirito fa, disfà e rifà continuamente il mondo di cui non può accontentarsi mai, finché non giunga il giorno della sua completa autorivelazione: il compimento della Storia). E Marx:”l’uomo col lavora crea sé stesso” (crea cioè sé stesso come uomo diviso, servo – padrone, nelle varie società che man mano si affacciano alla storia, rivoluzione dopo rivoluzione, finché non ritroverà lo stato originario di edenica perfezione: il mondo senza classi, il comunismo). Infine il nippo-americano Fukujama, dichiara chiusa la storia: “la democrazia liberale si presenta come la fine della storia…, (poiché) è impossibile apportare miglioramenti all’ideale di democrazia liberale” (ossia: il liberal-liberismo all’americana è la forma compiuta più alta cui possa aspirare il nostro mondo, poiché consentirebbe all’uomo, offrendogli un eldorado di opportunità tra cui l’esercizio del voto, di ottenere l’ambito “riconoscimento”, soddisfacendo al suo bisogno di onore e alla sua sete di dignità).

Ma la condizione attuale del pianeta ha fatto strame del progressismo borghese. Le rivoluzioni hanno abortito.

Ai nostri giorni, ansiosi e pieni di paura, la sferza insonne della finanza usuraia ha cambiato il volto del lavoro, se ancora di lavoro si può parlare senza cadere nell’archeologia culturale (cfr. la celebre invettiva di Pound nel Canto XLV “ usura arrugginisce lo strumento, /arrugginisce il mestiere e l’artigiano…”). Fino agli anni ’50 il lavoro, come testimoniava lo stato del territorio, era ancora più simile a ciò che era stato ai tempi di Cristo, che non a quello che è diventato oggi. Oggi infatti la dialettica servo-padrone ha fatto un passo avanti, che Marx forse non si aspettava, almeno non di queste proporzioni. Un proletariato urbano ribelle e costoso è stato decisamente sostituito dalla macchina e la sua stessa esistenza ne risulta stravolta e marginalizzata. La falce ed il martello sono ormai attrezzi obsoleti.

Oggi la dialettica è quella uomo-impianto. Dove per impianto s’intende il Frankestein tecnologico: elettronico, informatico, robotico, mediatico, gran divoratore di energia per i suoi motori; un mostro che trasforma la natura in un fondo dove sono stivati i materiali necessari alla sua vita e alla sua opera di decostruzione-ricostruzione del mondo. In questo quadro l’uomo è semplicemente un animale stabulizzato, addetto al consumo di una produzione pletorica, che rilascia una quantità strabocchevole di rifiuti, quando non fa dell’uomo stesso un rifiuto. E allora, se è vero che il servo diventa padrone del padrone, sarà la macchina a guidare il gioco: la mega -macchina tecnologica ed organizzativa. L’uomo sarà, sempre di più, l’appendice senza volto di questa megamacchina, il suo manutentore e perfezionatore, il suo funzionario e il suo servo, oppure il suo prodotto di scarto.

Il lavoro ormai non conferisce più nessuna identità, bensì uno “status”. Intanto torna il caropane, l’alienazione galoppa, il truffaldino impero finanziario scricchiola e si riaffaccia lo schiavismo. Tornano anche la disoccupazione, il crumiraggio e il caporalato, ma li chiamano flessibilità, immigrazione, delocalizzazione, scuola di massa ecc. I fascisti preparano il grande ritorno. Persiste la violenza nei rapporti fra gli uomini e gli stati, resa ancor più distruttiva dalla scienza. L’ambiente naturale degrada a vista d’occhio. Ma allora forse la dialettica è sempre stata, al fondo, quello che era in origine, una dialettica uomo-natura, o meglio: la dialettica blasfema uomo-Dio. Forse ci siamo semplicemente illusi di costruirci da soli il nostro destino: la Storia. Invece abbiamo soltanto girato a tondo, sempre più velocemente, sotto l’ombra dell’albero della scienza. e non ci siamo mai mossi da lì.

In questo desolato paesaggio, costellato dalle macerie delle nostre illusioni e delle nostre vite, della natura e del mondo, sta, incrollabile, il Cristo, che addita un oltre, un aldilà rispetto a quelli che con stolta arroganza abbiamo creduto i grandi traguardi di gloria e di felicità che si offrivano al nostro violento operare. E’ Lui l’Alfa e l’Omega della storia. Da qui discende una richiesta di conversione e pentimento (Mt. 4,17), riconciliazione e solidarietà. E il nudo lavoro rispettoso della realtà creata.

E la povertà condivisa: che non è mai miseria, né morale, né materiale, né intellettuale. E’ questa la Via di una politica (“l’onesto e retto conversar cittadino”, nella bella definizione di Leopardi), che rispetti la Vita, riconducendo noi, che ci eravamo smarriti, alla casa del Padre (Lc. 15,11.32). E’ questa l’unica Verità umana, quindi accessibile all’uomo, e divina (Gv 14,16). Una via insomma non astrattamente teologica, né tanto meno filosofica, bensì incarnata in un Uomo (Gv 12,45), che è vissuto in mezzo agli uomini e che, attraversando la loro storia di miseria e di violenza, ha mostrato loro “la città (che) non ha bisogno della luce del sole nè della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello “ (Ap. 21, 23).


Flavio Zanardi





LETTERE


  1. Nei discorsi


Poco se ne parla perché se ne scrivono poche.

Sono subentrati molti altri mezzi di comunicazione sulla cui validità e sui cui limiti occorre riflettere molto.

Comunque, la quasi scomparsa delle lettere è una perdita grave per la comunicazione interpersonale di pensieri, sentimenti, speranze e delusioni, che è l’anima della società. E’ anche una grave perdita per la letteratura.

Si parla molto delle lettere che si devono scrivere in cerca di lavoro e per innumerevoli procedure amministrative; queste non sono di conforto e non fanno letteratura.


  1. Nel Vangelo


Tutte le Sacre Scritture, il primo e il nuovo Testamento, sono lettere che ogni giorno Dio invia personalmente a ogni donna e a ogni uomo. Il problema è aprire il cuore per accogliere il messaggio e Colui che lo scrive, purificare gli occhi per leggere ciò che è scritto.

Alla luce della Parola, nella fede, scopriamo che tutto è una lettera di Dio: il piccolo, il povero, il sofferente che si rivolge a noi, i giovani innamorati che vorrebbero sposarsi e non possono, chi lavora con fatica per mantenere la famiglia e, spesso, senza che gli venga riconosciuto, chi perde la propria vita nella sequela di Gesù Cristo e così la guadagna, quello che consideriamo lontano e classifichiamo come peccatore. Tutti fanno parte della corrispondenza che Dio intrattiene con noi.

S. Paolo ai Corinzi: “Cominciamo forse di nuovo a raccomandare noi stessi? O forse abbiamo bisogno, come altri, di lettere di raccomandazione per voi o da parte vostra? La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini. E’ noto infatti che voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori” (2 Cor. 3, 1-3).


  1. Nella vita


Ogni attenzione sincera al prossimo condividendo gioie e dolori è corrispondenza, scambio di lettere che arrivano e partono passando per Dio.

Questa corrispondenza non è in via di estinzione.


(da uno scritto di don Angelo Casati)





MALATTIA


  1. Nei discorsi


Si parla molto di malattia, la si teme e si prova pena quando colpisce altri, più quelli conosciuti ma anche estranei o lontani. “Quando c’è la salute c’è tutto”, è un detto popolare. Ma poi se la malattia non ci colpisce direttamente o nello stretto ambito familiare, per lo più non ci si pensa, non si pensa con gratitudine al fatto di essere “sani”. E capita soprattutto che se ci colpisce qualche piccolo acciacco ci sentiamo vittime di chissà quale persecuzione. Non solo, ma se ne parliamo con qualcuno l’interlocutore risponde “sapessi io…” e si sprofonda in una litania di mal di testa, mal di denti, notti insonni… piccole cose. Se poi ci si imbatte in malattie serie che compromettono la qualità della vita o addirittura possono portare alla morte chi ne è colpito, spesso si scappa: “vorrei, ma non ho tempo”, “scusa, ma sono molto impegnato”, e si è semplicemente cancellati dalla lista degli amici che ricompaiono puntualmente al funerale. Questo forse dimostra quanto la si temi e si preferisca tenersene lontani, non pensarci.


  1. Nel Vangelo


Gesù ha una profonda compassione per i malati. Molti suoi miracoli sono rivolti a persone colpite da malattie gravi. “Ero cieco…, ero storpio, i lebbrosi”. Piange per Lazzaro.

Guarisce anche di sabato suscitando l’indignazione dei farisei..

Si recarono da lui con un paralitico portato da quattro persone. Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dov'egli si trovava e, fatta un'apertura, calarono il lettuccio su cui giaceva il paralitico. Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: «Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati». Seduti là erano alcuni scribi che pensavano in cuor loro: «Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?”»”. (Mc. 2, 3-6).

Sembra che la condizione sia la fede: “se solo potrò toccare il suo mantello…” (Mt. 9, 21) ma anche un invito a credere in Lui. Molti lo accolgono ma anche molti lo temono. “Ma i farisei dicevano: «Egli scaccia i demòni per opera del principe dei demòni»”.

Ma anche: “Egli ha preso le nostre infermitàe si è addossato le nostremalattie”. (Mt. 8, 17)


  1. Nella vita


L’esperienza della malattia – parlando di malattie gravi o mortali – è tra quelle che più ci ricordano la fragilità e la piccolezza della nostra condizione di creature umane. Il nostro misero corpo contiene quella parte meravigliosa che è la nostra anima e nessuna delle due cose può prescindere l’una dall’altra. Spesso la malattia è vissuta come esperienza di espiazione dei peccati o di colpe di cui ci si sente responsabili. A volte c’è anche la rabbia: “perché proprio a me?”.

La malattia è di per sè anche esperienza di solitudine e di sofferenza psicologica. Se poi la componente più avvertita è il dolore fisico questo di per sé è “malattia”, invalidità che richiede dipendenza dagli altri. E il Signore ci ricorda: “In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (Gv. 21, 18).

Molti sani, ripeto, stanno lontani dalle esperienze di malattia e il malato non ha nessuno con cui parlare (tranne i medici che si rivolgono molto spesso al malato con un linguaggio strettamente tecnico e impersonale); questa solitudine influisce in modo fortemente negativo anche sulle possibilità di guarigione o di sollievo dalla propria condizione.

A fronte ci sono moltissime famiglie che si prendono cura dei genitori anziani e malati, a prezzo anche di grandi sacrifici, o di figli colpiti da gravi malattie. L’abnegazione a volte è totale. Alcuni fatti di cronaca ci parlano di queste situazioni e delle loro conseguenze, a volte drammatiche.

Ci sono molte persone che esercitando una autentica gratuità e compassione assistono persone gravemente malate, nelle case o negli ospedali. Molte si dedicano all’accompagnamento dei morenti, all’assistenza ai disabili. E con grande dedizione. Molte persone assistono i propri cari o perfetti sconosciuti negli ospedali o nelle loro abitazioni e quanto amore c’è anche solo dietro le cure fisiche (lavare il corpo, aiutarlo a nutrirsi, a trovare una posizione più comoda, leggergli un libro, parlargli e soprattutto ascoltarlo). Ho visto personalmente con quanto amore e dedizione alcune persone “sane” si prendono cura, si fanno carico, fanno un’esperienza di comunione in Dio con le persone malate come il Signore ci ha detto: “quello che fate a uno di questi piccoli, lo avete fatto a me”.

Ma come tutte le cose buone non fanno notizia, sono quasi invisibili, trasparenti agli occhi delle persone “sane”.


Laura Marini





IL MALE


  1. Nei discorsi


Come sostantivo: “il contrario del bene, tutto ciò che arreca danno turbando comunque la perfezione morale o il benessere fisico ed è perciò temuto, evitato, riprovato, condannato, commiserato”.

Come avverbio: “in modo non buono, non retto, non giusto, non conveniente, non opportuno, non vantaggioso, non rispondente alla legittima aspettativa – agire/comportarsi male; andar male” (Dizionario Enciclopedico Italiano Treccani).

Sono generalmente percepiti come “male” la mancanza di beni materiali o spirituali, l’insuccesso, il discredito, l’emarginazione, la malattia, la sofferenza.

E’ diffusa l’opinione che il male (come anche il suo opposto, il bene) sia questione soggettiva, “relativa”: è male ciò che l’individuo considera e sente come tale e/o gli produce malessere.

L’esistenza del male – soprattutto la sofferenza dell’innocente – è la principale obiezione che coloro che si dichiarano “non credenti” fanno all’esistenza di Dio (“come si fa a credere in un Dio buono e onnipotente in presenza di tanto male nel mondo?”).


  1. Nel Vangelo


  • Il male è l’opposizione, la ribellione a Dio; la sua sostituzione con altro (l’idolatria); il rifiuto da parte dell’uomo della propria condizione creaturale. In sostanza, il male è il peccato.

  • Chi decide che cos’è il male (e il bene) è Dio non l’uomo. Il compito dell’uomo è quello di discernere, evitare, combattere il male (e perseguire il bene). Non è sua prerogativa stabilire il male (e il bene). La coscienza individuale è oracolo, strumento di discernimento per capire che cosa è il male (e il bene) non la fonte del bene e del male. Il peccato (cioè il male) è descritto come rivendicazione dell’uomo del potere di decidere il bene e il male “per diventare come Dio” (Gen. 3, 1-5).

  • Bene e male convivono nella condizione umana. La radicale separazione del male dal bene è un’operazione indebita nel corso della storia; essa è riservata a Dio alla fine dei tempi (v. Mt. 13, 24-30 e 36-43: la parabola della zizzania e sua spiegazione).

  • L’uomo, da solo, è incapace di evitare il male. “C’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Rm. 7, 18-19).

  • La sofferenza non è la punizione divina della colpa. Il dolore colpisce anche il giusto (cfr. l’intero Libro di Giobbe e soprattutto la teofania finale, capp. 38-42 e le risposte di Giobbe). V. anche Lc. 13, 1-5: le vittime delle catastrofi non sono più peccatori degli altri; il cieco nato «né lui ha peccato, né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio” (Gv. 9, 3).

  • Il male non sta nella debolezza e nella fragilità dell’uomo, ma nella sua ostinata presunzione di non riconoscerla, di negarla. V. la parabola del fariseo e del pubblicano che Gesù “disse… per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri” (Lc. 18, 9-14). V. anche Gv. 9, 41: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “noi vediamo”, il vostro peccato rimane».

  • La salvezza dal male non è fuori né oltre (o dopo) la sofferenza, ma è “nella” grande tribolazione (Ap. 7, 14) e “nella” catastrofe (Isaia). Ma anche la sofferenza, la violenza (Is. 25, 7-9; 35, 10) e il disordine cosmico sono limitati nel tempo (Is. 11, 6-8).

  • La debolezza dell’uomo è il luogo in cui si manifesta la potenza di Dio (cfr. Gv. 9, 3 già citato). La condizione di povertà è la vera salvezza (le “beatitudini” Mt. 5, 2-12; Lc. 6, 20-22); al contrario “l’uomo nella prosperità non comprende (si illude di bastare a se stesso), è come gli animali che periscono” (Salmo 49, 13 e 21).


  1. Nella vita


  • Non solo la fede, ma anche l’esperienza ci insegna che il male non è nella povertà o nella debolezza fisica.

  • La testimonianza dei santi.

  • La “perfetta letizia” in S. Francesco (“in questo possiamo gloriarci: nelle nostre infermità e nel portare sulle spalle ogni giorno la santa croce del Signore nostro Gesù Cristo”).

  • L’accettazione della propria debolezza, il totale affidamento a Dio, danno gioia profonda pur non eliminando l’esperienza del dolore.

  • Il male fa notizia molto più del bene. Di per sé questo dimostra che il male è un’eccezione. La sua risonanza è negativa quando cessa di creare indignazione. L’idea del “così fan tutti” è falsa ed è accreditata da chi il male lo compie.

  • Nonostante il rumore del male, esiste un’enorme quantità di bene che silenziosamente manda avanti il mondo. Contro ogni apparenza il male è perdente: la stessa osservazione storica attesta la sua inefficacia, la sua fragilità e la sua temporaneità (l’immancabile crollo di tutte le tirannie, le immani sofferenze provocate dall’odio e dalla violenza stanno lì a dimostrarlo).



Giulio Cascino





(LA) MERCE

Pensavo di scrivere qualcosa su cosa penso della Comunicazione, poi ho pensato che su questo argomento altri hanno scritto in abbondanza e non è che possa aggiungere qualcosa. Poi mi sono accorto che ultimamente non si parla più della Merce. È sparita dal vocabolario, eppure mai come adesso la Merce incombe con la sua presenza e avvolge ogni cosa. E, d'altro canto}mai come adesso la Merce è collegata alla Comunicazione.

Nei miei lontani studi universitari, ci veniva spiegato che cosa fosse la Merce, quale fosse la sua vocazione.

Possibile che le Merci fossero sparite dalla circolazione? Ho pensato se per caso vi fosse un eufemismo che avesse sostituito tale parola e credo di averlo trovato nella parola Prodotto.

L'uso della parola Prodotto serve a far dimenticare che si vende Merce, tutti devono pensare che si offrono Prodotti.

Questo pian piano mi ha fatto maturare delle convinzioni (in un periodo in cui peraltro ne perdo tante altre) che mi svelano un assetto della società che ripropone (o vuole conservare) il vecchio, proprio mentre annuncia il nuovo.

Allora se questo è vero, cioè ti viene concesso di mantenerti (bene o male), non puoi far altro che trovare da vendere una Merce. Il vecchio motto: lavorare per mangiare è sostituito da: vendere per mangiare. Par dimenticare che si vendono Merci. Si offrono Prodotti.

Nella sua ricerca di un compratore laMerce èlasciata libera di parlare il linguaggio che vuole: ti parla di solidarietà, ti parla di etica, cerca di distrarre la tua attenzione dal suo reale valore d'uso. Forse quelli che vendono roba inutile non devono anche mangiare? C'è qualche altro modo? La stessa forma visibile delle Merci si allontana dall’uso cui è destinata.

Ognuno viene posto davanti a un cimento, una sfida con la quale misurarsi. Il luogo di elezione (reale o ideale) ove si svolge è il Mercato.

Quindi bisogna inventare Merci (sotto la dizione di Prodotti), frammentarle, segmentarle per venderle. E siccome bisogna creare sempre nuovi spazi, dalle Merci materiali si passa progressivamente alle Merci immateriali. Queste ultime si espandono a macchia d'olio e stanno rapidamente divorando le Merci materiali. È il terreno più fecondo e creativo dove si arruola uno stuolo sempre più numeroso di soggetti. E siccome su questo terreno il valore che si può attribuire è il più variabile ed indeterminato, può diventare il Paese della Cuccagna per alcuni e l'Inferno per altri. È il campo di arruolamento più fruttuoso.

Perché è il mezzo per acquisire quel titolo (ideologico) per spartirti un pezzo (o un pezzettino) di ricchezza.

Siccome per mangiare non devi tanto lavorare (produrre) quanto vendere, hai bisogno di un alleato fedele con il quale stabilire un fruttuoso sodalizio (verrebbe da pensare allo scudiere). Chi è?


La Moderna Comunicazione e il Mercato.


La Comunicazione (l'invito a comprare) non si indirizza tanto sulla Merce che si sta vendendo, quanto sulla creazione di un'atmosfera. Essa non sta lì per scambiare ma per offrire ed accontentare.

In questa attività di vendita, travestita da offerta, si dettano le regole sull'educazione dei figli, sui rapporti interpersonali, padri, nonni, sulla solidarietà, sulla gratuità, sulla libertà ecc..

La Comunicazione, alleata (protesi) del venditore, entra in un campo che non le è proprio.

In questo senso il Mercato non è un luogo neutro, crea ideologia, entra nel Potere. Un Potere con connotati gioiosi o, all’occorrenza, mesti, compassionevoli, ecc., si appropria di parole e linguaggi sin qui usati, dettandone nuovi significati. Supera la Politica e anche ad essa detta le regole.

La Comunicazione sa quando è disdicevole usare alcune parole, immagini perché il suo compito è quello di forgiare individui e coscienze. E dove va a rovistare per attirare l'attenzione? Le risposte sono tante ma me ne vengono immediatamente alcune: sesso, vanità e superbia. L'ultima mi colpisce particolarmente perché mi rammenta l'episodio di Lucifero.


Qual è il vecchio di tutto questo?


Prendiamo ad esempio il suo concetto di libertà. Esso implica semplicemente la libertà di scelta, quindi si identifica con il libero arbitrio, inteso come la gestione ad horas di una propria facoltà.

Certamente il concetto di libertà implica la possibilità di scegliere, ma non la esaurisce minimamente.

Altrimenti, ad esempio, una persona che decide liberamente di essere vegetariana, per il semplice fatto di non scegliere la carne, se ne può dedurre che non sarebbe libera.

In questo paradossalmente si può sostenere che più si usa il libero arbitrio, meno si è liberi.

Ma la Comunicazione usa la parola libertà in luogo di libero arbitro.

Questo influenzerà il concetto di libertà anche nelle scelte politiche, personali, familiari.

Purtroppo sul treno della Nuova Comunicazione si vogliono imbarcare tutti. Non a caso l'adescamento fa leva sui tre fattori di cui scrivevo più sopra.


Giuseppe Onorato





(LA) MESSA


  1. Nei discorsi


E’ l’incontro settimanale dei cristiani praticanti.

E’ il rito religioso in occasione di matrimoni e funerali.

E’ un adempimento religioso e culturale in alcune grandi feste: Natale e Pasqua.

E’ l’azione propria del prete, specialmente per quello che dice nelle omelie (prediche).

E’ il momento religioso di altri avvenimenti importanti: convegni, congressi, feste patronali, ecc.


  1. Nel Vangelo


E’ un’iniziativa di Gesù Cristo e non della Chiesa.

«Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me”». (1 Cor. 11, 23-25).


Nella fede è adesione al Mistero pasquale della morte e risurrezione di Gesù Cristo, cuore della storia e dell’evoluzione cosmica.

E’ il momento cruciale”in cui i veri adoratori adorano il Padre in spirito e verità” (Giov. 4, 24).

E’ il culto spirituale. “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rm. 12, 1-2).

E’ il momento del più profondo silenzio interiore.

Deposta dunque ogni malizia e ogni frode e ipocrisia, le gelosie e ogni maldicenza, come bambini appena nati bramate il puro latte spirituale, per crescere con esso verso la salvezza: se davvero avete già gustato come è buono il Signore” (1 Pt. 2, 1-3).

Ogni Messa è sul mondo, per la salvezza universale.

Ogni Messa è un momento fondamentale nel cammino di conversione dei singoli e di ogni comunità ecclesiale.


  1. Nella vita


Al di là dell’adempimento di un precetto, è un momento di contemplazione e di comunione con il Mistero pasquale del Signore che muore sulla croce e risorge.

E’ il tempo dell’intimità personale con Dio e della più ampia comunione con tutti gli uomini.

A Messa ci si riconosce come uniti nell’unica fede.


Pio Parisi





MISTERO


  1. Nei discorsi


Capita spesso che sentiamo dire: è un mistero!

Per me sono un mistero certe macchine che anche i ragazzi sanno come funzionano.

Per gli esperti e gli scienziati sono ancora un mistero molte realtà che un giorno capiranno e domineranno.

La natura è ancora piena di misteri.

Il comportamento degli uomini poi è spesso incomprensibile e misterioso, anche per gli psicologi e i sociologi.

Quel che è nascosto sotto le apparenze è spesso misterioso anche per i dietrologi della politica.

L’uso frequente della parola mistero si riferisce quasi sempre a qualcosa di oscuro e non allude a realtà superiori e trascendenti.


  1. Nel Vangelo


Il Mistero infinito è la gran luce del Vangelo che risplende nelle tenebre, nel più intimo di ognuno di noi e nelle grandi svolte della storia umana.

O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!” (Rm. 11, 33)

Egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà… il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Eph. 1, 9-10).

Ultimamente Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo” (Ebr. 1, 2).

Parliamo di una sapienza divina, misteriosa… nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscerla” (1 Cor. 2, 6-8).


Parresia.

La Parola e lo Spirito chiamano a una conversione radicale nell’impegno ecclesiale di annunciare e testimoniare il Vangelo. La fiducia nella ragione, spinta oltre i suoi limiti, ha sviato dal rapporto con il Mistero. L’etica naturale ha allontanato dall’incontro con il Mistero Pasquale. La mistica è stata attribuita a poche persone con doni eccezionali e il gregge è stato allontanato dai pascoli a lui destinati. Il Vangelo è stato ridotto a una raccolta di valori, di principi etici.

Ciò è particolarmente evidente nella Dottrina Sociale della Chiesa.


  1. Nella vita


Nella vita di tante, forse di tutte le persone c’è una ricchezza spesso ignorata, mal compresa.

I perché? Perché questo, perché a me, perché a lui? E’ un coro, spesso a bocca chiusa che si leva da tutta la terra. E’ un grido per lo più represso nei singoli che esplode qualche volta dalle comunità. E’ il grido che trascende l’uomo e dà l’avvio alla storia della salvezza.

Gli israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio” (Es. 2, 23).

C’è poi la ricerca di senso della propria vita:


  • i giovani spesso mortificati sul piano del lavoro.

  • le persone mature quando riescono a sottrarsi al vortice di occupazioni non vissute con scelte consapevoli;

  • gli anziani che guardano alla vita consumata e sentono l’istanza di una valutazione finale.


Il vero amore che condivide la gioia e la sofferenza della persona amata penetra nell’intimo e scorge la profondità misteriosa.

Quando poi la coscienza politica supera la palude o la sterpaglia delle facili contestazioni dei responsabili e dei sistemi politici che costringono più da vicino, e ci si affaccia sul mondo e sulla storia, il cumulo delle sofferenze e delle responsabilità appare infinito. Tutto, il tutto appare assurdo.

L’esperienza delle assurdità può essere un’introduzione al Mistero. Nel buio si comincia a intravedere la luce vera come le stelle nella notte.

I perché? Il grido, la ricerca di senso, la coscienza dolorosa dell’assurdo trasformano i cuori di pietra in cuori di carne (Ez. 36, 26) ed aprono al Mistero infinito dell’adorazione silente.


Pio Parisi





MONDO


  1. Nei discorsi


Il mondo sembra restringersi ai nostri occhi e al tempo stesso allargarsi. I mezzi di comunicazione sociale, le immigrazioni, fanno arrivare persone da luoghi lontani o sconosciuti. E anche sofferenze, miserie, violenze, guerre, malattie. Si restringe perché parti del mondo diventano parte del paese in cui viviamo, con differenze di usi, costumi, lingue, religioni. Si allarga perché i confini vengono via via a cadere. L’atteggiamento comune è di difesa dal mondo, da chi arriva, da chi “ci porta via il lavoro”, dalle tragedie lontane, rese vicine. Si percepisce dai discorsi che si sentono in autobus, tra la gente. Il mondo è anche luogo di turismo. Andare a conoscere, senza lasciarsi sfiorare dalla realtà del “Terzomondo”, di 90% di persone che si devono contentare di quanto resta del consumo dei paesi ricchi, cioè del 10% delle ricchezze del pianeta. In questi ultimi anni, dalla fine degli anni 60, gruppi e associazioni hanno avuto il merito di riportare alla ribalta il tema del mondo, della salvaguardia del creato, della necessità di redistribuire le ricchezze, di una giustizia e di uno stile di vita sobrio, da diffondere a ogni livello. Ma si è lontani dal coinvolgimento della maggior parte della gente. Il mondo, nei discorsi, assume questi due aspetti contraddittori: per i più è qualcosa da difendersi o da visitare, senza lasciarsi coinvolgere nelle vicende della gente che lo abita. Per altri è il tema della “mondialità”, di cui bisogna tenere conto per vivere in modo responsabile.


  1. Nella parola di Dio


Mondo è l’insieme delle cose create dall’amore di Dio; Dio ama il mondo (Gv. 3,17; Lc. 19,10; Rm. 5,8; Gv. 6, 38-40; 12, 44-47). In Cristo il mondo è riunificato dopo il peccato (Ef. 1, 9-10). La preghiera sacerdotale di Gesù diventa il momento più alto della manifestazione del suo amore e anche la consegna che si deve tradurre nella vita. Il cristiano è lievito e fermento (Mt. 5, 13-33) e non può non essere tale. Il male è nel mondo, è il nemico di Dio (Gc. 4,4; 1 Gv. 2, 15-17; 1 Cor. 5, 9-10). Gesù spinge a essere nel mondo, ma non del mondo (Gv. 17, 13-16); il mondo ha odiato Gesù e odierà i suoi discepoli; Satana, principe del mondo, è in agguato, cercando chi colpire (Gv. 14,30). Prima di morire Gesù promette ai discepoli di inviare lo Spirito Santo, che unirà tutti nella diversità dei carismi e dei compiti. Il sacrificio estremo della sua vita si trasforma in pienezza di vita per il mondo intero. “Io non prego soltanto per questi miei discepoli, ma prego anche per gli altri, per quelli che crederanno in me dopo avere ascoltato la loro parola. Fa che siano tutti una cosa sola: come tu Padre sei in me e io sono in te, anche essi siano in noi. Così il mondo crederà che tu mi hai mandato” (Gv. 17, 20-21).


  1. Nella vita


S. Benedetto nella Regola e nella vita apre il Monastero a tutti coloro che sono alla ricerca di Dio, persone potenti e poveri, malati e sani, bambini e adulti. La Parola di Dio è alla base della sua vita. L’ultima visione, al momento di morire, è l’universo intero attraversato da un fascio di luce, la luce di Cristo che unisce tutto e tutti. Il mondo può credere nell’amore se vede l’unità dei cristiani. Le divisioni tra cristiani, tra Primo, Secondo, Terzo e Quarto Mondo ci mettono davanti a una realtà di sofferenze e contrapposizioni, steccati e barriere, create da noi. Nella vita si dovrebbe cercare di creare ponti, tendere alla convivialità delle differenze, di cui parlava don Tonino Bello; di essere uniti perché l’unità nella diversità è segno di amore; di riuscire a godere delle cose belle create e delle persone che accanto a noi ci portano un po ‘di mondo “altro” e vivono i valori della solidarietà, della famiglia, dell’ospitalità, forse dimenticati da tanti di noi. A scuola dei “poveri” e dei cittadini “stranieri”, “con gli “ultimi” e con gli emarginati, potremo tutti recuperare un genere di vita diverso. Demoliremo gli idoli… Riscopriremo i valori del bene comune… (La Chiesa Italiana e le prospettive del Paese, 6). Il Concilio (GS) ci ha indicato alcune linee. Alcuni gruppi di spiritualità e di impegno ripropongono questi valori e questi principi; forse sono pochi o poco collegati tra loro per potere incidere sulla realtà del mondo. Ma dobbiamo sperare nello Spirito che il Signore ha inviato e non smette di inviare.


Maria Teresa Tavassi





MORTE


  1. Nei discorsi


La morte ci tocca da vicino: siamo tutti mortali.

Ma di questa nostra condizione “a termine” per lo più si cerca di non parlare, anche per non pensarci.

Si parla preferibilmente di morti eccezionali: di quelli che sono stati “grandi” in senso positivo e, qualche volta, anche negativo.

Ai funerali religiosi, con celebrazione della Messa, partecipano molte persone alle quali non verrebbe mai in mente di andare in chiesa.

Alcune morti eccezionali causate da violenza o da fatalità (?) diventano oggetto di discorsi, specialmente sui media. L’eccezionalità aiuta a distogliere l’attenzione dal comune esito mortale della vita umana.

Si parla del numero dei morti: 50, 100, mille e diecimila, per disastri naturali o per la violenza delle armi. L’attenzione spesso è presa dal numero più che dalle persone morte e da quelle che hanno così perso un congiunto, un amico.


  1. Nel Vangelo


L’Antico Testamento converge verso il Vangelo che è la buona notizia della vittoria sulla morte e sul peccato.

A partire dalla morte in croce di Gesù e dalla sua risurrezione tutta la nostra vita temporale è trasformata. “Il sole di giustizia trasfigura ed accende l’universo in attesa” (Inno di lodi).

La morte è stata ingoiata per la vittoria.

Dov’è, o morte, la tua vittoria?

Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?

Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!”

(1 Cor. 15, 54-57).


  1. Nella vita


Per quanto il nostro istinto e la cultura dominante tendano a spostare la nostra attenzione dalla condizione mortale personale, rimane nel pensiero e nel cuore di tanti la consapevolezza dei limiti della nostra vita terrena e, in qualche modo, l’orrore per l’assurdità della morte.

Ma questa estrema umiliazione apre, in molti casi, alla ricerca di un Salvatore e, in qualche modo, alla solidarietà più universale.


Pio Parisi





(La) PARROCCHIA

come la piazza della città: luogo d’incontro


La parrocchia è una determinata comunità di fedeli che viene costituita stabilmente nell’ambito di una Chiesa particolare, e la cui cura pastorale è affidata, sotto l’autorità del Vescovo diocesano, ad un parroco quale suo proprio pastore. (Canone 515, 1)


L'Agorà,(in greco γορά, da γω= 1. conduco, 2. governo) piazza principale della città greca era il luogo principale sia dal punto di vista economico e commerciale (in quanto sede del mercato) che dal punto di vista religioso. Era il luogo della democrazia per antonomasia, dato che era sede delle assemblee dei cittadini che vi si riunivano per discutere i problemi della comunità e decidere collegialmente sulle leggi, ma era contemporaneamente il luogo del mercato e il centro economico e politico, e perciò vi sorgevano gli edifici pubblici, gli uffici, i teatri. L'agorà fu un'autentica invenzione urbanistica, che non trovò riscontro né nei centri del Vicino Oriente né in quelli micenei dove tutto dipendeva dal re e non c'era bisogno di un luogo dove tenere l'assemblea. Nell'agorà, dunque, si mantenevano o si creavano numerose relazioni interpersonali e vi si prendevano numerose decisioni. Nella città greca (polis) tutti coloro che possedevano la qualifica di cittadini avevano gli stessi diritti e gli stessi doveri: si riunivano in assemblea ed eleggevano i magistrati, cioè gli esecutori del volere collettivo. Le polis erano principalmente delle città-stato. Famosi filosofi greci dicevano che la polis di Atene era un luogo con case, mercati, templi e teatri, ma che erano gli ateniesi a fare la polis.


Pensando alla definizione di Parrocchia data dal Diritto canonico e dalla quale certamente non ci si può aspettare se non una descrizione giuridica e forse un po’ “freddina’, mi è venuta in mente una domanda: per me cosa è la parrocchia? Dopo undici anni di servizio (dieci da viceparroco, uno da parroco) quello che sento di dire nasce dalla consapevolezza sempre più crescente che la parrocchia è una piazza. Naturalmente non nel senso di “luogo carico di confusione” dove si può solo urlare, recriminare o altro ancora.

Penso alla parrocchia come l’Agorà dell’antica Grecia, luogo di incontro, di scambio umano, culturale e spirituale. Certo anche luogo anche di traffico “commerciale”, dove in particolare ci si scambia le reciproche ricchezze personali. E il tutto nella linea della ricerca del bene comune. Considero la piazza non solo come struttura urbanistica fondamentale nella città, ma soprattutto come una dimensione mentale e affettiva. Chi ama la gente, chi predilige la relazione non può non vivere nella piazza. Il luogo dell’incontro dei cuori è lo spirito di dialogo, di partecipazione, di decisione che poi viene trasmesso agli altri.

Questa è la parrocchia-piazza: realtà strutturata, definita, con le sue regole di partecipazione, spesso non scritte, che ne fanno una componente fondamentale per la relazione. Vivere la parrocchia come spazio di esistenza, di espressione di se stessi mi regala la certezza che la realtà parrocchiale è una sorta di “ovile” all’interno del quale si trovano immense possibilità di creatività. La presenza della parrocchia nella vita della città è garanzia che si possa trovare sempre una dimensione di partecipazione dove l’unico fine è lo sviluppo e la tutela del bene comune.


Se vivi la parrocchia come una piazza in cui scendi per la tua recriminazione, la tua pretesa, il tuo disimpegno allora impoverisci questo luogo, ne asporti potenzialità immense. E’ come se tu avessi in mano un megafono che assorda o la vernice che imbratta: strumenti che renderebbero povero e inabitabile qualsiasi luogo. E allora la parrocchia è il luogo dove ci si abbraccia, ci si riconosce uno parte dell’altro, dove ci si racconta e ci si scambia il vissuto, dove si offre se stessi per costruire qualcosa. La parrocchia dovrebbe essere quel luogo dove un pezzo di carta visto in terra è un’occasione per chinarsi senza attendere che l’altro sia lo spazzino deputato al decoro del luogo. I miei atteggiamenti di fondo come l’amore, la gratuità, la sincerità possono diventare i bei vasi, le belle luci di cui ha bisogno ogni luogo per diventare accogliente. Tante volte invece ci comportiamo così male da essere noi stessi la prima immondizia gettata qua e là nel tessuto della comunità. Chiediamo al Signore, vera e unica icona da mettere al centro della nostra vita parrocchiale, che ci regali la consapevolezza che la parrocchia non è lo sgabuzzino o il ripostiglio, se non il cassonetto, delle nostre case, delle nostre vite. Sia, semmai, il prolungamento del salotto per gli ospiti, della stanza più bella, del giardino curato, della mansarda più decorata. Sia la sala comune appartenente ad ogni abitante del quartiere affinché almeno qui la gente che non si incontra (anzi si evita) impari quanto è bello stare insieme nella pace. Perciò che ciascuno di noi, prima di dirsi parrocchiano, veda se questa sua affermazione nasce dalla bellezza apportata a questo luogo esteriore ed interiore. La parrocchia, la comunità sia da tutti trattata con la riverenza che si dà al monumento più prezioso. Impegniamoci ad abbellire questo luogo divino e umano, perché così regaleremo agli altri prima di ogni cosa il senso di custodia e protezione di una realtà bella voluta sempre più luminosa.


La parrocchia sia davvero l’Agorà Divina dove il Signore dialoga con i suoi figli. Gruppi, idee, proposte e soprattutto impegno di ciascuno, anche a livello economico, nascano dalla volontà di rendere in prima persona la parrocchia come la “casa bella” per tutti. Sia perciò la nostra comunità non solo un luogo fisico, ma una dimensione di amore incastonata come una gemma nel tessuto a volte logoro e triste della nostra città. E allora forse già da domani, se ciascuno cercherà il suo inserimento d’amore nella parrocchia, molti figli sentiranno il richiamo verso uno dei luoghi in potenza più belli del mondo, ma che a causa di tanta indifferenza rischia di diventare il luogo dell’amore inespresso.


Don Fabrizio Biffi





POESIA


  1. Nei discorsi


Parlare di poesia è immettersi in una dimensione non catalogabile. Per molti è un linguaggio astruso, che scoraggia qualsiasi interpretazione. Infatti il sovvertimento dei canoni della grammaticità, della costruzione di una frase, può veramente disorientare. Dopo aver letto una poesia spesso ci si può domandare "che cosa significa?". E’ giusto.

La poesia è il vagare della fantasia nella interpretazione della realtà e questo non sempre è comprensibile. Infatti "poeta" è sinonimo di svagato o quanto meno di sognatore.

Certo poeta e poesia non sono la stessa cosa, un poeta può essere uno svagato, ma una sua poesia può avere una intuizione valida, un sentimento inavvertito, e allora i suoi versi vengono citati come una forma di intuizione, come una saggezza popolare.


  1. Nella vita


Nella vita un posto preponderante della poesia spetta ai classici. Ognuno ha le sue piccole o grandi cognizioni e tutti si sentono un po ‘coinvolti. Da Omero a Dante Alighieri, da Giosuè Carducci a Alessandro Manzoni. Anche perché fino a pochi anni fa nei programmi scolastici erano d'obbligo le poesie a memoria ed ognuno di noi ha il suo bagaglio di versi.

Questo per quanto riguarda le poesie del passato, per ciò che riguarda la poesia moderna, a parte i grandi nomi consolidati, da premi e da successi, c'è un gran proliferare di poeti, grande produzione di libri, libretti e manoscritti di poesia, forse superiore alla richiesta.... Però comunque la poesia, comprensibile o incomprensibile, pone sempre interrogativo e curiosità e qualche volta apprezzamento.


  1. Nel Vangelo


II substrato poetico percorre tutti i Vangeli.

Dai "gigli del campo" alla "rondine che ha il suo nido", dalla compassione per gli affamati e i sofferenti alla commozione per la morte di Lazzaro.

Anche la famosa frase "a chi ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha" (Mt. 13,12), può sembrare una espressione assurda, ma è mistica, ed ognuno può entrarci con la sua spiritualità. Nel vecchio Testamento, oltre ai vari Libri, i Salmi sono una miniera inesauribile di poesia, dalla fragilità umana, "l'uomo nell'abbondanza nulla intende", alla lirica vivacità della natura "i fiumi battono le mani". L'assurdità resa reale nelle immagini.

Ma la fede stessa è anche poesia, perché, essendo oltre la ragione, sconfina nel colloquio mistico.


Anna Dolci





POESIA


  1. Nei discorsi


Reminiscenze scolastiche di brani da imparare come esercizio di memoria, per altri apprendimento di contenuti scritti in una forma particolare, assonanza di parole nei versi, ripresi e ritrovati con effetti finali a sorpresa.

Le poesie sono anche il ricordo di letterati che hanno dato prestigio a formazione e cultura.

Se non si comprendono vengono apprezzate comunque quando si traducono in immagini che celebrano la bellezza.

Poesia è anche un componimento musicale, un quadro le cui immagini toccano delicatamente le corde dei sentimenti, un paesaggio che ci accoglie e ci rasserena, un sereno ricordo che ci consola, un film che ci commuove.

Versi di poesie, aforismi, testi di canzoni, slogan lanciati a volte per superare una certa difficoltà ad esprimere concetti attraverso ragionamenti in merito a gusti, appartenenze, identità, scelte è l’imporsi di una sensibilità priva di coscienza che per i giovani oggi forse è indice di fragilità culturale.


  1. Nel Vangelo


Tutte le volte che gli uomini colgono i segni che svelano la presenza di Dio, “quell’aprirsi dei cieli” al battesimo di Gesù è dimensione che rompe con tutto l’affanno dei discorsi e gli annunci dei profeti e che apre la parola al compimento della promessa.

Loquacità dell’evidenza che dis-vela le profezie perché le libera dal linguaggio metaforico.

Accoglienza che rende magnifico, cantato, benedetto ogni invisibile soffio di vita.

Gesù ascoltato nell’aperto del cuore è poetica che accoglie messaggi da inviare, riconquista di significato in sentimenti e vite umane per quelle parole che aiutano a ritrovare ciò che era malato, escluso, condannato, diviso, in una nuova luce. L’incomprensibile diviene vivibile, Cristo insegna a restare nelle cose anche sconvenienti: poetica del “luogo” come apertura al Mistero.



  1. Nella vita


La poesia è colloquio col Silenzio.

A volte è anche quel “grido” che prorompe con impeto incomprensibile dal profondo.

Vivere poeticamente è restare lì proprio dove si è toccati dal Mistero.

La poesia scuote la morte dalle parole per cercare quelle che resteranno. Poetare ancora per entrare così nel cuore dell’aletheia.


Maria Luisa Matera





POTERE


  1. Nei discorsi


La parola “potere” viene usata (sia come verbo che come sostantivo) per significare: forza/facoltà-diritto-autorità/capacità/possibilità/libertà di fare, di agire, di operare. Come sostantivo esprime anche una situazione di dominio (avere p. su qualcuno; ridurre altri in proprio p.) e indica una dimensione tra le più universali nell’esperienza umana.

Fra gli oggetti di desiderio è percepito come quello più seducente, tanto che gli altri (come il denaro, il successo, la bellezza, la salute, ecc.) sono spesso apprezzati non tanto in se stessi, quanto come strumenti per accedere al potere. Al tempo stesso il potere degli altri – soprattutto quando è esercitato su di noi – è visto con sospetto, come un pericolo o un nemico da cui difendersi perché, nell’immaginario collettivo, il potere è indissolubilmente legato all’idea di possesso e di dominio: quanto più si possiede (in termini non solo di beni materiali, ma anche di prestigio culturale e sociale), tanto più si ha potere; quanto più si domina, nel senso di capacità di piegare la volontà altrui alla propria o di servirsi degli altri a proprio vantaggio, tanto più si ha potere.

Generalmente il potere è collegato alla politica, o meglio: è la politica che viene concepita – e, soprattutto, praticata – come attività finalizzata alla conquista del potere inteso come possesso e dominio. Ed è così che il pregiudizio negativo che si ha nei confronti del potere si trasferisce automaticamente alla politica (la cosiddetta antipolitica, di cui tanto si parla, nasce da lì). Occorre però considerare che il potere come possesso/dominio è presente in tutti gli ambiti dell’esperienza umana (cultura, famiglia, lavoro, relazioni sociali, rapporti di coppia, ecc), e questo perché l’istinto “proprietario” è innato nell’uomo, anzi è tra quelli che si manifestano più precocemente nell’evoluzione della persona.


  1. Nel Vangelo


Nel Vangelo e, più in generale, nella Bibbia l’idea del potere è completamente rovesciata. Anzitutto perché il potere, quello vero, è attributo di Dio – l’Onnipotente – ed è quindi un valore tutto positivo (come le idee affini di “potenza”, di “forza” e di “autorità”). In secondo luogo perché il potere di Dio si presenta come l’esatto contrario del possesso e del dominio: è totale donazione di sé e misericordia.

  • Cristo Gesù è Re dell’universo perché svuota se stesso sino alla morte di croce; “per questo” Dio l’ha esaltato (Filippesi 2, 5-11).

  • La ragione dell’infinita misericordia di Dio è la sua onnipotenza: “Hai compassione di tutti, perché tutto tu puoi…” (Sap. 11, 23); “Il tuo dominio universale ti rende indulgente con tutti… Tu, padrone della forza, giudichi con mitezza; ci governi con molta indulgenza, perché il potere lo eserciti quando vuoi” (Sap. 12, 16-18).

Su questo punto, la radicale opposizione alla mentalità mondana è esplicita, dichiarata: “Mentre i Giudei chiedono miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani… perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1 Cor. 1, 22-25).

L’invito di Gesù ai discepoli è di fare come lui: “… coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano (interessante: non dice “i capi”… bensì “coloro che sono ritenuti i capi”), e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell’Uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Marco 10, 42-45. V. anche Mt. 20, 25-28; Lc. 22, 24-27; Gv. 13, 3-5).

Il potere e l’autorità vengono da Dio; l’uomo ne è amministratore, non proprietario e “i potenti saranno esaminati con rigore” (Sapienza 6, 6. Si legga l’intero brano, vv. 1-11).

Nella Bibbia il potere mondano, il potere come possesso e dominio, è quello che si oppone alla potenza di Dio e al suo disegno di salvezza; quello che ostacola e insidia il cammino del popolo dei redenti. E’ il potere demoniaco. Luca così descrive la seconda tentazione nel deserto, quella appunto riguardante il potere: «Il diavolo lo condusse in alto, e mostrandogli in un istante tutti i regni della terra, gli disse: “Ti darò tutta questa potenza e la gloria di questi regni, perché è stata messa nelle mie mani e io la do a chi voglio”…». C’è da rabbrividire! Anche nell’Apocalisse il potere del drago e della bestia sembrano incontenibili (Ap. 13). Ma è così solo in apparenza. Si tratta di un potere limitato, circoscritto nel tempo e negli effetti; un potere che “viene dato”, che “viene permesso” (Ap. 13, 5,7), e che è anch’esso soggetto al disegno di Dio, ormai realizzato in Gesù morto e risorto. La straordinaria, bellissima notizia contenuta nel Mistero pasquale è proprio questa: Gesù, sceso in terra e risalito in cielo, è il vero Signore del mondo e della storia. Non si tratta della premonizione di un lieto fine, più o meno lontano, ma della rivelazione di una realtà in atto. Non “sarà” così; è “già” così: “Babilonia la grande è caduta” (Ap. 14, 8) e il potere realmente vincente è quello dell’Agnello immolato, “ritto in mezzo al trono” (Ap. 5, 6).


  1. Nella vita


Il potere vissuto come servizio e come responsabilità nei confronti degli altri esiste ed è assai più diffuso di quanto non si pensi. A ben vedere il mondo si regge e va avanti – sia pure con fatica e innumerevoli contraddizioni – per l’opera quotidiana e silenziosa di persone che si dedicano con amore e gratuità agli altri. Chiunque sappia osservare in profondità la realtà familiare, lavorativa e sociale che lo circonda non fatica a trovare figure che – senza dare spettacolo, senza sgomitare alla conquista dei posti di comando, senza rivendicare (se non per gli altri) diritti e ricompense – lavora instancabilmente dedicando le proprie energie a servizio di chi ha bisogno. L’uomo è l’essere vivente che per più tempo è in mano altrui. Accade per tutti all’inizio e al termine della vita. C’è poi chi, per disabilità fisiche o psicologiche, è in questa condizione di dipendenza dagli altri per l’intera esistenza terrena. Accanto all’uomo debole e indifeso, troviamo altri uomini che sono lì per consolare, sostenere, condividere, curare, accudire, incoraggiare, guidare, istruire, educare. In una parola: sono lì a servire. Quasi sempre non fanno notizia né carriera. Spesso sono scomodi e vengono emarginati, scartati, derisi. Se ne apprezza il valore quando vengono meno. Solo allora ci si accorge che senza di loro… è la catastrofe. Sono “una moltitudine immensa, che nessuno può contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua….Sono coloro che passano attraverso la grande tribolazione e lavano le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello” (Ap. 7, 9, 14).


Giulio Cascino





PRECARIO


  1. Nei discorsi


E’ una parola che ricorre sempre più spesso nei nostri discorsi. Ciò avviene in riferimento al lavoro, con tutte le conseguenze di non averne uno stabile, a tempo indeterminato.

A proposito della salute, nostra personale e di chi ci è più a cuore, viene il momento in cui dobbiamo prendere atto della precarietà fino a quando ci rendiamo conto che, come diceva P. Castelli, non ci rimane che gestire bene lo sfascio.

Si sperimenta poi la precarietà in tanti altri rapporti con le persone e con le cose.

L’etimologia ci fa risalire alla parola “prex” preghiera, quindi a ciò che si ottiene per favore. La società in cui viviamo è tessuta e permeata di favoritismi.


  1. Nel Vangelo


Nel primo Testamento c’è un libro che può essere considerato il trattato della precarietà: il Quelet, “Vanità delle vanità, tutto è vanità…”. E’ il frutto di una grande esperienza e sapienza umana, con una concretezza e un realismo privo di ogni illusione. Ma è anche manifestazione di fede in Dio profondamente radicata.

E’ parola di Dio, alimento prezioso per la crescita della nostra fede.

Nel Vangelo secondo Luca Gesù dice: “Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nella abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni… un uomo arricchito diceva a se stesso: anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposa, mangia, bevi e datti alla gioia. Ma Dio gli disse: stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita” (Lc. 12, 15-20).

In tutte le esperienze della nostra personale precarietà come nella constatazione angosciante della precarietà di tutto ciò che nella storia è opera dell’uomo, mentre siamo colpiti da profonda tristezza – “un baratro è l’uomo e il suo cuore un abisso” (Salmo 64) – ecco il Vangelo, la buona notizia: Gesù Cristo ucciso sulla croce è risorto, è veramente risorto!

Ed ora tutto ciò che è precario, mentre passa inesorabilmente, si iscrive ed entra nel definitivo.

Tutto ciò che, spesso stoltamente, gli uomini dimenticano, è conservato in Dio.

Il lavoro di un giorno, la gioia e la sofferenza di un’ora o di lunghi anni, rimangono nella vita nuova per cui siamo creati.

La quotidianità come gli eventi che fanno la storia, tutto è salvato.

Così la percezione viva della precarietà è confortata e trasformata nella fede in Gesù Cristo; si ritrova il fondamento solido per ogni impegno a vivere la precarietà e a far tutto il possibile per procurare la stabilità conveniente alla qualità della vita, senza nasconderci la condizione temporale. Così si fonda la più autentica laicità che cerca “tutto” in Dio.


  1. Nella vita


L’esperienza della precarietà è diffusissima e continua. Ci sono tante piccole sicurezze con cui si cerca di distrarsi più che di illudersi.

Qualcuno si sente sicuro come il ricco della parabola. Diceva Saverio Corradino: chi vuol la sicurezza la sua misura è poca e l’uomo delle mezze misure è una mezza misura di uomo.

La pubblicità punta molto sulle “garanzie” che quando sono vere sono a tempo.

Tanti vivono coscientemente la precarietà e in questo maturano una forte pazienza, una penetrante intelligenza, una generosa solidarietà.

C’è una grande apertura al Vangelo, alla buona notizia, che però non di rado viene trascurata da un prevalere moralistico, che carica di pesi e non aiuta a vivere positivamente la precarietà.


Pio Parisi





PREGARE


  1. Nel discorsi


Nella società intessuta di favori si parla molto di pregare i nostri simili, quelli che hanno qualche potere, per ottenere qualcosa che spesso ci è dovuto.

Ora però prendiamo in considerazione il pregare rivolto a chi riteniamo sia al di sopra delle creature, in qualche modo “trascendente”.

Non di rado chi prega veramente e anche assiduamente ne parla poco; chi ne parla molto qualche volta in realtà prega assai poco.

Si parla molto di manifestazioni religiose in cui non manca la preghiera ma sembra non di rado prevalere il folclore e lo spettacolo. L’attenzione poi è spesso rivolta alla presenza di qualche autorità civile o religiosa.

Molto diffuse sono le devozioni ai santi. In uno studio recente si rilevava in prima posizione S. Pio da Pietralcina seguito da S. Antonio da Padova; la Madonna e Gesù Cristo notevolmente distaccati.

E’ considerata normale e anche molto positiva la presenza alla Messa di personaggi notoriamente non credenti.

E’ diffusa la richiesta degli amici di una preghierina per qualche problema che ci tocca da vicino.


  1. Nel Vangelo


E’ la rivelazione della sorgente e del fine di ogni preghiera, il mistero della vita trinitaria di Dio: “Per Cristo, con Cristo ed in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen” (Preghiera eucaristica).

Gesù pregava continuamente anche con i Salmi: “al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava” (Mc. 1, 35).

Mt. 14, 19; 15, 36; Mc. 6, 41; 8, 7; Lc. 9, 16; Giov. 6, 11…

Attenti alle parole e ai miracoli di Gesù, può sfuggirci il fatto che i Vangeli riferiscono in continuazione la sua preghiera.

Gesù ci ha insegnato a pregare con il Padre Nostro (Mt. 6, 7-15).

La liturgia è continuazione della preghiera di Gesù e l’inizio della liturgia celeste nella pienezza della vita per cui Dio ci crea e ci santifica.


  1. Nella vita


La preghiera è il fatto più intimo, spesso non manifestato e nemmeno espresso e formulato a se stessi.

E’ preghiera l’accettazione della vita come un dono anche quando non è messo a fuoco il donatore.

E’ preghiera anche l’affidarsi alla Provvidenza specialmente quando il cammino è in una valle oscura.

C’è poi la richiesta continua di aiuto per sé e per i propri problemi, ma anche per gli altri e per tutto il mondo.

La partecipazione ai riti religiosi, specialmente quelli popolari, è vissuta da molti con viva fede anche quando si manifesta in forme incomprensibili da spiriti raffinati e forse totalmente inesperti di preghiera.

C’è spesso ammirazione per i monasteri di vita contemplativa. Così anche, qualche volta, per i musulmani che pregano in certe ore del giorno.

Infine c’è una preghiera silenziosa di grande valore anche se poco consapevole, come quella del pubblicano nel tempio (Lc. 18, 10-13) e quella del Salmo 36-37 “Sta’ in silenzio davanti a Dio e spera in Lui”.

Chi dice “io non so pregare” forse prega meglio di tanti altri che vanno sicuri nell’esercizio della preghiera.


Pio Parisi





RECIPROCITA'


Nei discorsi


In logica e in matematica la reciprocità è un tipo di relazione fra dati, e così a sua volta un dato oggettivo, privo, come tale, di qualsiasi carica di valore o disvalore.

Questa connotazione di "neutralità" assiologica del termine sembra mantenersi anche quando esso viene riferito a un analogo tipo di relazioni interpersonali o fra comunità, nel senso che valore e disvalore sembrano propri solo dell'oggetto o del contenuto del rapporto. Si dà per scontato, e il linguaggio puntualmente lo riflette, che vi possa essere, e vi sia, reciprocità nel bene come nel male. Reciproci possono essere la simpatia e l'antipatia, la stima e il disprezzo, l'amore e l'odio.

Qualcuno, recentemente, ha indicato nella reciprocità un valore altamente positivo, in quanto fatto eminentemente relazionale fra individui in un mondo in cui il tramite pervasivo del mercato tende a eliminare la fecondità degli incontri-scontri (come la lotta allo Yabok fra Giacobbe e l'Angelo, che ferisce ma rinnova e genera unione) e a ridurre quindi l'uomo in solitudine.

Il rapporto di reciprocità, d'altro canto, è per definizione un rapporto binario, esclusivamente duale e quindi, per questo verso, limitato e infecondo.

La reciprocità nei sentimenti può essere un dato, qualcosa che nasce e si riscontra esistere senza che magari se ne possa comprendere il motivo, come per la simpatia, o può essere il risultato di un confronto, come per la stima: ma spesso è pretesa o estorta, così come pretesa o estorta, o quanto meno oggetto di un'aspettativa pronta a risentirsi, è quasi sempre la reciprocità nei comportamenti.

Etimologicamente "reciproco" è "ciò che va avanti e dietro", che va e viene.

Reciprocamente si dà e si riceve: può esserci, c'è, un margine per la liberalità (ricevere e dare), ma è, fondamentalmente, l'economia dello scambio, in cui si dà perricevere, o see in quanto(e quanto) si riceve. Ed è anche l'economia del contraccambio, bene per bene, male per male, espressa nella legge del taglione. E' il regno delle regole, della quantità ("misura per misura").


Nel Vangelo


Nel Vangelo non c'è reciprocità, come non c'è corrispettività.

Lo scambio è proprio della tentazione demoniaca: "tutti questi regni... se mi adorerai, io te li darò" (Lc. 4, 6-7); e l'esempio tipico dello scambio reciproco è quello dell'amministratore infedele con i creditori del suo padrone (Lc. 16, 1-7).

"Non invitare quelli che possono ricambiarti, ma quelliche non possono" (Lc. 14, 12-14).

Nel Regno non c'è scambio, ma dono, nel quale poi non c'è misura ma sovrabbondanza; e non c'è contraccambio ma, sempre e comunque e a chiunque, una risposta di amore.

"Come volete che gli uomini facciano a voi, così voi fate a loro" (Lc. 6, 31): non perchèsia fatto a voi, ma quel che vorreste fatto a voi: non stabilisce una regola e meno che mai una misura di reciprocità, ma indica anzi la necessità di prendere l'iniziativa, e di prenderla "senza aspettare nulla in cambio" (Lc. 6, 36): non solo senza richiedere, ma senza neanche aspettarsi nulla, neanche la gratitudine. "I peccatori danno in prestito per avere altrettanto....l'Altissimo è buono con gli ingrati e con i cattivi" (Lc 6, 34-35).

"Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi" (Is.50, 4-7):Gesù, preconizzato nel Servo di Jhavè, "quando veniva insultato non insultava" (1Pt. 2, 23).

La legge del taglione, che pure, stabilendo misure, era un progresso rispetto alla vendetta smisurata e tracotante dei discendenti di Caino, è espressione dell'egoismo, della durezza che va tolta dal cuore dell'uomo: "Voi sapete che è stato detto: occhio per occhio, dente per dente: ma Io vi dico"..."fate del bene a quelli che vi odiano; benedite quelli che vi maledicono; pregate per i vostri calunniatori. A chi ti percuote una guancia porgi anche l'altra; a chi ti porta via il mantello non impedire di toglierti anche la veste. Dà a chiunque ti chiede: anzi a chi ti toglie il tuo non lo richiedere" ((Mt. 5, 38, Lc 6, 27-29).

"Date e vi sarà dato; vi sarà versata in seno una buona misura, pigiata, scossa e traboccante" (Lc. 6, 38).

Non vi è e non vi può essere reciprocità fra l'uomo e Dio, fra creatore e creatura, fra il Signore e l'ospite nel giardino, fra il Seminatore e la terra, che di per sè non feconda ma nel migliore dei casi accoglie il seme e lo lascia fruttificare senza soffocarlo.

La promessa del premio ("se uno osserva la mia parola non vedrà mai la morte": Gv. 8, 51) non ha nulla a che vedere con la reciprocità o lo scambio della tentazione demoniaca, perchè in realtà il premio è già nella risposta alla chiamata, anzi è la stessa risposta: chi fa la volontà del Padre è per ciò stesso nel Regno, la Via per ottenere la vita è essa stessala Vita.

Gesù la sera del Giovedi non dice lavatemi i piedi come io li ho lavati a voi, amatemi come io vi ho amato, ma lavatevi i piedi gli uni gli altri, amatevi gli uni gli altri come il Padre ha amato me e io ho amato voi (Gv. 13, 14; 15, 9-12). Gli uni gli altri non indica un rapporto scambievole di uno con un altro, ma l'apertura nella carità di ognuno a tuttigli altri. Il discorso, rivolto con tanta intensità al piccolo gregge degli apostoli (a voi), si apre poi senza limiti: "chi mi ama (chiunque mi ama) sarà amato dal Padre mio" (Gv. 14, 21): destinataria dell'invito è l'intera umanità: "la promessa è per voi e per tutti" (At. 2, 39).

Il Vangelo ci dice amatevi, confortatevi, aiutatevi a vicenda tutti, senza porre condizioni perchè la condizione umana è che tutti ne abbiamo bisogno, senza pretendere prima di verificare i meriti perchè nessuno può dire di averne nei confronti del Padre. "Come io vi ho amato" vuol dire anche "per il solo fatto che esistete", che vi ho creato.

E' chiaramente infranto ogni limite, tipicamente "terrestre", di scambio, di dualità, di rapporto binario. Il vortice travolgente di amore di cui ci parla Pino Stancari è smisuratamente fecondo.

Nella vita


Se tutto si gioca nell'alternativa radicale fra scambio e dono, fra egoismo e amore, bisognerà guardare a fondo anche in quei rapporti "reciproci" che si presentano, pur nella loro limitatezza, positivi. Bisognerà tenere sempre ben presente che lo "scambio di doni" spesso non ha nulla a che vedere con il donare ed è, se non peggio, l'adempimentopiù o meno spontaneo di un "dovere" sociale, che implica una valutazionedi equivalenza, cioè di corrispettività, ed è quindi solo, appunto, uno scambio economico (l'invitare quelli che possono ricambiare); e che anche l'"amore reciproco" di due fidanzati o due sposi, chiamato a essere "sacramento grande", può talvolta non essere altro che l'incontro, magari anche fortunato, di due egoismi, come è rivelato da certo lessico specifico (la "conquista", il "possesso", ecc.).

Pietro Scoppola nel suo congedo ha additato la "mentalità di scambio" sottesa perfino alla preghiera, tutte le volte che questa "rivendica diritti all'ascolto".

Il luogo dello scambio è anche il luogo dell'incontro, ma a parte che vi sono, sotto gli occhi e nell'esperienza di tutti, troppi scambi (di beni, di "favori") in cui se pure non è illecito quanto è scambiato è illecito il fatto che sia oggetto di scambio, anche l'ordinario, quotidiano, infinitamente ripetuto scambio economico di beni e servizi, che, solo, sembra rendere possibile la vita collettiva, ha sempre, alla base, una spinta egoistica: si dà per ricevere qualcosa che, dal proprio punto di vista e nella propria situazione, ha, o sembra avere, un valore maggiore. L'equivalenza "oggettiva" delle prestazioni è una mera eventualità, e la legge interviene, se e quando concretamente interviene, solo nei casi di manifesta, "ingiustificata" ed "eccessiva" onerosità: interviene cioè a "regolare", a mitigare le conseguenze di un "eccessivo" egoismo. La legge d'altronde esiste per questo, per regolare e mitigare gli istinti suscettibili di disgregare il corpo sociale, e ad essa non si può chiedere di più.

Una sorta di scambio reciproco c'è anche nell'estorsione e nel ricatto.

Sembra una regola ovvia, tanto è abituale e diffusa, che la reciprocità sia la condizione del riconoscimento di diritti o dell'apertura di una trattativa.

Quando tale condizione è posta dal più forte costituisce, evidentemente, uno strumento giugulatorio. Ma anche al di fuori di questi casi, per quanto buone siano le intenzioni iniziali e ragionevoli gli obiettivi perseguiti, una condizione è di per sè una chiusura al dialogo, un sintomo e una manifestazione di sfiducia, che porta direttamente a una ("reciproca") chiusura e sfiducia. Le conseguenze poi possono divenire paradossali: l'avere condizionato alla reciprocità il riconoscimento agli stranieri dei diritti civili storicamente ha comportato, da noi come altrove, che questi venissero negati non tanto ai responsabili quanto alle vittime di regimi dittatoriali e repressivi, a tanti che, fuggiti da un Paese divenuto loro ostile ma di cui erano comunque cittadini e rifugiatisi da noi o in altro Paese democratico e "civile", si sono qui visti rifiutare il diritto di lavorare o di acquistare una casa in cui vivere.

La reciprocità come espressione di diffidenza è la cifra dell'uomo che confida nell'uomo.

La reciprocità con riferimento al quantosi dà e si riceve, espressione dell'egoismo e dell'individualismo e come tale perennemente nel cuore dell'uomo "terrestre", sembra a taluni contraddistinguere in modo particolarissimo il nostro mondo, il mondo "moderno" e occidentale, che ha come stigma la "pulsione", di cui ha parlato Mario Tronti, "a privilegiare la dimensione quantitativa dei problemi della vita", e in cui, come è stato rilevato in un convegno di giuristi (non di moralisti o di teologi) sulle famiglie, si vivono con atteggiamento predatorio anche i rapporti affettivi.

Si chiede, si pretende, molto più di quanto si sia disposti a dare.

Era stato detto: lasciata la fede "si odieranno e si tradiranno l'un l'altro" (Mt. 24, 9).

Per uscirne bisogna essere dalla parte di chi dà senza chiedere, accettare di essere prede piuttosto che farsi predatori.

Il discernimento, per non farsi giudizio sui fratelli, che ci è vietato, deve essere parte di un cammino di conversione. Rimuovendo la trave dal nostro occhio, portando nell'incontro un cuore nuovo, di carne e non di pietra, secondo lo spirito e non secondo la legge, potremo scoprire e riconoscere che, nonostante tutto e per grazia del Padre, anche se per lo più silenziosa e nascosta, invisibile a chi non abbia sguardo limpido e magari inconsapevole di sè stessa, vi è anche una reciprocità nel dono e nel servizio in cui l'annullamento di ogni distanza egoistica si fa via di autentica carità, effusiva e feconda, liberata dal limite chiuso del "reciproco".

Per vivere nel Regno bisogna credere, e imparare a vedere, che esso è già ora, e accettare, perchè non spetta a noi stabilire i tempi, che non sia ancora. Bisogna imparare a vedere quanti si spendono ogni giorno in perfetta gratuità, amarli e seguirli, e accettare, senza per ciò rassegnarsi, che anche nel loro cuore, ancora, possano talvolta rinascere la rapacità o l'ira e la violenza cainitica. Giacomo e Giovanni, dopo aver lasciato tutto e aver trascorso tre anni nell'ascolto e nella comunione di vita con Gesù, sdegnati con i Samaritani che rifiutano di accoglierlo "perchè stava andando a Gerusalemme", vorrebbero "dire al fuoco di scendere dal cielo e distruggerli" (Lc 9, 53-54). Gesù li rimprovera ma non si allontana da loro, li tiene stretti a sè perchè, per tutta la durata della storia, il Signore non dimentica il suo popolo e non tiene conto dei suoi peccati (v. Is. 43, 1-7; Ger. 31, 34).


Massimo Panvini Rosati




RESPONSABILITA’

  1. Nei discorsi

Responsabilitàè senz’altro un termine chiave nel linguaggio giuridico, che attiene al rispetto delle leggi nei vari ambiti della vita sociale. I filosofi, da parte loro, segnalano che il concetto di responsabilità ha direttamente a che fare con l’atto del “rispondere”. Ma, si chiede ad esempio M. Cacciari, «a chi do questa risposta? Ossia a chi prometto che compirò questa o quest’altra cosa? E, prima ancora, perché io possa rispondere, non devo forse presupporre una chiamata? Io rispondo ascoltando un qualcuno o un qualcosa che mi chiama. Non vi può essere responsabilità se non definisco chio che cosami chiama. La responsabilità implica sempre e comunque il rispondere ad una chiamata». C’è sempre un altro (“totalmente altro”) che mi chiama e mi trascende, e spetta a me «riconoscere che non posso metterlo a tacere. La mia volontà viene infatti afferrata dalla chiamata e si sente costretta a rispondere». Questa risposta, d’altra parte, implica sempre una dimensione di gratuità: «Non si può, prima di rispondere all’altro che chiama, stabilire la direzione verso cui quella voce porterà. Davvero, quella voce avviene, emerge, al di là delle mie reali possibilità di progettare e di prevedere». Se viene meno questa dimensione originaria di gratuità, la responsabilità diventa, puramente e semplicemente, «il mio rispondere a me stesso, ai miei scopi, ai miei fini, in modo perfettamente razionale».

Al di là dei discorsi, tuttavia, l’impressione oggi più diffusa è quella di trovarsi di fronte ad una vera e propria “eclissi” della responsabilità. Ciò è più che mai evidente sul piano della vita pubblica, nella politica in particolare, dove sembra che nessuno debba più “rispondere” del mandato ricevuto, della propria condotta all’interno delle istituzioni. Ma il fenomeno è altrettanto vistoso anche sul piano dei comportamenti individuali, laddove si è chiamatia “prendersi cura” – per esempio in ambito professionale – di quegli “altri” che ci sono affidati. Far bene il proprio lavoro, al servizio degli altri, non sembra più essere il “cuore” della propria “vocazione”, anch’essa decisamente “eclissata”.

Anche in ambito ecclesiale, d’altra parte, il discorso religioso si trasforma, a volte, in una fuga dalla responsabilità (verso gli altri, il mondo, la storia) o in una comoda delega ad altri delle proprie responsabilità personali. Anche Benedetto XVI, nella sua ultima enciclica (Spe salvi, n. 16) si domanda, a proposito del tempo moderno: «Come ha potuto svilupparsi l’idea che il messaggio di Gesù sia strettamente individualistico e miri solo al singolo? Come si è arrivati a interpretare la “salvezza dell’anima” come fuga davanti alla responsabilitàper l’insieme, e a considerare di conseguenza il programma del cristianesimo come ricerca egoistica della salvezza che si rifiuta al servizio degli altri?».


2. Nel Vangelo


Fin dal “principio” Dio affida all’uomo la responsabilità della creazione: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivassee lo custodisse» (Gen. 2,15). Nello stesso tempo l’uomo è posto di fronte alle sue responsabilità, circa le conseguenze del peccato: «A causa di un … uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato» (Rm. 5,12).

Ogni uomo è chiamato ad essere responsabiledel proprio fratello (e di tutti i fratelli): «Allora il Signore disse a Caino: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. Egli rispose: “Non lo so. Sono forse il custode di mio fratello?» (Gen. 4,9). Ma il Signore si prende cura anche di Caino e lo affida alla responsabilitàdei fratelli: «“Chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!”.Il Signore impose a Caino un segno perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato» (Gen. 4,15). «Chi è il mio prossimo?» (Lc. 10,29), chiederà a Gesù un dottore della legge. E al termine della parabola Gesù risponderà con un’altra domanda: “Chi è… stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?”. Quegli rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”. Gesù gli disse: “Va’ e anche tu fa’ lo stesso” (Lc. 10,36-37).

Costantemente i profeti hanno richiamato il Popolo d’Israele e le sue guide alle loro responsabilità: “Le vostre iniquità hanno scavato un abisso fra voi e il vostro Dio; i vostri peccati gli hanno fatto nascondere il suo volto così che non vi ascolta. Le vostre palme sono macchiate di sangue e le vostre dita di iniquità; le vostre labbra proferiscono menzogne, la vostra lingua sussurra perversità” (Is. 59,2-3). Sempre la Chiesa è richiamata dalla Parola di Dio alla responsabilità di annunciareil Vangelo, di rinunciareal potere, di denunciarel’ingiustizia.


3. Nella vita


Cristo è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro” (2 Cor. 5,15).

Finora gli uomini si sono dedicati a trasformare il mondo, d’ora in poi dovranno farsene carico” (M. Cruz).

Nonostante l’eclissi della responsabilità e il dilagare dell’individualismo, esiste anche nel nostro tempo una moltitudine nascosta di uomini e donne che si fanno carico, rispondendo alla loro vocazione, della vita dei loro fratelli.

Sono “padri” e “madri” che, anche oltre il legame di sangue, nel silenzio e nel nascondimento si fanno carico della crescita dei loro figli o di quelli loro affidati, rispettandone, talora con sofferenza, scelte ed errori, senza far mancare ad essi la loro vigile ed amorosa presenza.

Figli” che si fanno caricodei propri “genitori” anziani, soli o malati, con vero spirito di “sacrificio”.

Insegnanti che, a volte tra difficoltà e incomprensioni, si fanno carico dell’educazione e della crescita dei loro allievi.

Uomini e donne che dedicano la loro vita al servizio degli altri, che lottano contro l’egoismo della generazione presente al fine di preservare la “madre” terra anche per le generazioni future.

Uomini e donne capaci di declinare la propria responsabilità politica non in modo “predatorio”, ma per la crescita della comunità civile.

Uomini e donne che, come il Samaritano della parabola, anche solo compiendo fino in fondo il proprio dovere, sono capaci di “farsi vicini”, di “fasciare le ferite”, di “caricarsi” sulle spalle e di condividere (“compatire”) le sofferenze del “prossimo”, rimettendoci anche del proprio, in una logica di “pura perdita” (anziché di guadagno), che è la logica del Vangelo.


Ercolino Cannizzaro





RICCHEZZA


Nei discorsi correnti


Se ne parla molto perché tante persone non facoltose pensano ad altre che essendo ricche possono permettersi di comprare ogni cosa; se ne parla pure di persone molto buone che hanno dentro una ricchezza d’animo.

Come per mia esperienza ho una persona tanto ricca dentro che mi sta aiutando pur non essendo facoltosa.


Nella vita


Nella vita la ricchezza può significare molte cose futili, come importanti.

Ad esempio si può essere ricchi se si possiede una macchina o una casa, ma queste sono semplicemente cose materiali; a mio parere le vere ricchezze della vita sono altre, ad esempio avere dei figli e nel crescerli trasmettergli tutto l’amore che proviamo.

Altra ricchezza è avere una compagna con la quale condividere ogni momento positivo o negativo della vita. Oppure avere un amico sincero d’animo come nel mio caso.

La ricchezza fondamentale per me è la salute, che ti permette di poter vivere la vita a pieno con tutte le ricchezze sopra citate.


Nel Vangelo


Gesù disse ad un giovane ricco cosa doveva fare per essere buono.

Se vuoi essere perfetto vendi quello che possiedi e dallo ai poveri, ed avrai un tesoro nel cielo.

Gesù disse pure ai suoi discepoli: difficilmente un ricco entra nel regno dei cieli: ve lo ripeto, è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli.


Ezio Siciliani






RICCHEZZA


  1. Nei discorsi


Nella sua dimensione materiale è in genere considerata il bene più grande insieme al potere e, quando uno ci pensa, alla salute.

Un bene posseduto o vivamente desiderato.

Un bene ammirato, ovviamente nei ricchi. Ammirazione molto spesso diffusa anche fra chi si professa cristiano, seguace di Gesù Cristo, e fra chi, credente o meno, propugna una più equa distribuzione dei beni e una maggiore giustizia sociale.

La ricchezza per alcuni è un idolo e diventa un vero padrone.

La ricchezza è l’obiettivo primo delle nazioni e di chi le governa.

Scarsa è la considerazione dei modi con cui si formano le ricchezze e di come queste siano causa di povertà per molti che non ne sono partecipi e che vengono sfruttati.


  1. Nel Vangelo


La salvezza è mistero di povertà (Tillard).

Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghinei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Fil. 2, 5-11).

Ma guai a voi, ricchi, perché avete gia la vostra consolazione” (Lc. 6, 24).

Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio. Ed è per lui che voi siete in Cristo Gesù, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione, perché, come sta scritto:

Chi si vanta si vanti nel Signore” (1 Cor. 1, 26-31).

Gesù allora disse ai suoi discepoli: «In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli». A queste parole i discepoli rimasero costernati e chiesero: «Chi si potrà dunque salvare?». E Gesù, fissando su di loro lo sguardo, disse: «Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile” (Mt. 19, 23-26).

Ma l'uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono” (Salmo 49, 21)

  1. Nella vita

Le forme di povertà sono innumerevoli. Gran parte dell’umanità vive poveramente, non è benestante, anche se non è nell’estrema miseria. Sono beati perché amati dal Signore.

Gli squilibri e le responsabilità di chi è nel benessere sono grandissimi. Siamo per questo chiamati a impegnarci per una maggiore giustizia.

Tale impegno non deve farci dimenticare che la condizione del povero è migliore. C’è un appello politico ai piccoli e ai poveri perché aiutino la società a capire e cambiare.


Pio Parisi





ROM


Leggevo per caso questa frase di Don Milani (da un libro “La ferita dell’altro” di L. Bzumi presentato ai Circoli Dossetti) che mi ha molto colpita.


Oggi arriva la salvezza nella nostra parrocchia: una famiglia con sei bambini, tutti handicappati”.


Penso che don Milani oggi l’avrebbe ripetuta sostituendo “un gruppo di rom”.


Ma la voce di tanti cristiani, anche sacerdoti e gerarchie comprese, è assai tiepida. Freddo e anonimo il linguaggio dei vari vescovi e dello stesso Padre che parla di accoglienza nella “legalità”, ecc., utilizzando un linguaggio politico.

Si, l’accoglienza offerta a un popolo rifiutato da tutti (la Romania stessa, gli stessi rumeni li disprezzano), che non ha dove posare il capo, che incarna ormai il male, sarebbe una salvezza per la Chiesa intesa come comunità di cristiani.


Aprirsi all’altro, rischiandone anche la ferita, questa è la scommessa. Si può restare feriti, ma un cristiano dovrebbe accettarlo senza se e senza ma. Così fece Gesù. In ciò la salvezza: metterci tutti alla prova del fuoco della parola.


Sono addolorata per l’assoluta solitudine che soffre questo popolo, con tutte le contraddizioni che si porta dietro (e chi non ne ha?), è fatto di esseri umani, di disperati, gli ultimi, così ultimi da restare fuori da ogni comunità.


Come si può accettare tutto questo? Il lavoro di tanti laici, di alcuni sacerdoti, non mitiga la mia amarezza. Vorrei che un solo urlo ci unisse tutti, che fossimo capaci unendoci tutti in una voce sola, di gridare al mondo intero che ancora una volta stiamo crocifiggendo Gesù, nel silenzio di molti e in gran parte proprio di quelli che dicono di averlo conosciuto.


Sono molto triste.


Graziella Trotta





SALVEZZA


  1. Nei discorsi


La parola è poco presente, per non dire del tutto assente. Non si cerca più la salvezza come un tempo: la salvezza dell’anima. Semmai oggi si cerca la realizzazione di sé, a volte si cerca il senso della propria vita. Si cerca più facilmente la sicurezza, la salute, lo stare bene in senso economico come possibilità di salvezza, quanto meno parziale. In situazioni difficili si dice metaforicamente, ma non troppo: «si salvi chi può». Si arriva a dire anche: «mors tua, vita mae» (la tua morte è la mia vita) con un paradosso che vedremo negli altri due punti. Spesso mi sono chiesto cosa voglia dire salvezza, quale etimologia abbia, in quanto mi sembra una parola significativa, ma sostanzialmente vuota in quanto non abbiamo dei modi di dire, dei giri di frase che ci aiutino a dire questa realtà.


  1. Nei Vangeli


Guardando a Gesù, al suo agire e al suo dire, possiamo vedere alcune situazioni di guarigione in cui dice: la tua fede ti ha salvato(alla peccatrice che gli bagna i piedi, Lc. 7, 50; all’emoroissa, Mt. 9, 22; al cieco, Mc. 10, 52; a Giairo, Lc. 8, 50; al lebbroso guarito, Lc. 17, 19).

Gesù dice: chi vuol salvare la propria vita, la perderà(Mc. 8, 35).

A Gesù viene detto: salva te stesso scendendo dalla croce(Mc. 15, 30).

A me sembra che salvare voglia dire prendersi cura contemporaneamentedella propria e altrui vita, dove il punto forte è sul: contemporaneamente. In tutta la Bibbia il Salvatore è colui che si prende cura della vita altrui, ma avendo cura anche della propria vita.

Nella alleanza tra Dio e il suo popolo, Dio deve salvaguardare il proprio nome rimanendo fedele alle promesse di vita che ha fatto al suo popolo. Il popolo deve vivere nella giustizia e nella fraternità per mantenersi nell’alleanza con il suo Dio. I profeti hanno annunciato nel corso della storia d’Israele la fedeltà di Dio e l’appello alla conversione per il popolo idolatra e ingiusto nella vita sociale.

In Gesù la salvezza contemporanea della propria e altrui vita passa attraverso il paradosso evangelico del seme che caduto in terra, muore e poi dà frutto. Gesù, dando la propria vita fino alla morte, spogliando sé stesso (Fil. 2), trova la “vita eterna”, quella che il Padre gli dà dopo la morte con la resurrezione. Questa infatti è la vita che non muore: quella che si dona con dedizione incondizionata (nel duplice senso che non condiziona la libertà dell’uomo e non è condizionata dal peccato dell’uomo). Egli salva se stesso in croce dando la vita per gli altri, avendo così cura contemporaneamente della propria e altrui vita. Facendo così Gesù compie la legge che si condensa nell’amare il prossimo come se stessi (la contemporanea cura della propria e altrui vita; cfr. Rm. 13, 8-10: «Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge. Infatti il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desideraree qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso. L'amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l'amore»; Lc. 10, 25-28, cui segue per illustrare la domanda posta dallo scriba la parabola del buon samaritano), mostrando così cosa vuol dire amare Dio con tutto se stessi, fino a ri-consegnare nelle sue mani il dono della vita, non considerandolo un tesoro geloso (cfr. Fil. 2).


  1. Nella vita


Mi sembra che nella vita delle persone possiamo riconoscere questa salvezza nella normale dedizione dei genitori verso i figli, dei coniugi reciprocamente, soprattutto quando le situazioni si fanno più difficili: un figlio drogato, handicappato, una malattia grave, una difficoltà economica. In queste situazioni si dice: ha dato tutta la vita per… Lo stesso nella vita pubblica: magistrati, preti, imprenditori, ecc. uccisi dalla malavita organizzata, persone credenti o meno che si dedicano una vita intera in favore di persone minacciate: minori resi schiavi, tratta di persone, malati, morenti, ecc.. Ma anche situazioni più “normali”, come l’agone sociale e politico, in cui la cura contemporaneamentedella sopravvivenza della propria e altrui “parte”, diventa un segno distintivo, quasi un miracolo che dà vita a tutta la società. Un esempio è la comunità dei primi discepoli ebrei che si è aperta ai pagani con il Concilio di Gerusalemme e che nel giro di pochi decenni la comunità dei cristiani ha visto la presenza solo di persone non-ebree. Eppure la prima comunità di ebrei è ancora oggi canone(norma fondamentale) per ogni comunità cristiana.


Marco Bonarini





SILENZIO


Monastero S.Chiara – Urbino

Natale 2007


Carissimo p. Pio,


Buon Natale! è il tempo della grande speranza cristiana. Ci è donato un Salvatore: un Bimbo piccolino in braccio a sua Madre! Un Bimbo è il Salvatore del mondo! grande è il mistero!

Sono ribaltate le categorie umane di potere e avere, sono rovesciati i potenti dai loro troni e indicato in un Bambino il nostro Dio e Signore.


La ragione umana ha le vertigini, ma il “piccolo” che è in ciascuno di noi esulta:

Giubilate voi tutti umili della terra!

È solo entrando nel “grande silenzio” che anche le vertigini dell’orgogliosa mente umana trovano pace e anch’essa può vibrare di gioia.


La stagione della mia vita, l’ultima, la più bella, vive di silenzio – un silenzio non solo di parole, perché anche queste quando comunicano vita, amore, amicizia, fanno entrare nel silenzio che pacifica il cuore, guarisce le ferita e insegna l’arte di guardare lontano oltre la barriera della morte.


C’è un silenzio che è pulizia mentale per la quale imparo ad accogliere solo le parole che generano vita. Non è facile...ma è l’ultimo combattimento! “Hai addestrato le mie mani alla guerra e le mie dita alla battaglia – mi hai fatto salire sulle alture della terra – e i miei piedi non hanno vacillato” dice un salmo che riecheggia spesso in me.


C’è un silenzio prezioso, del vivere come in disparte dalla propria comunità, ai margini della chiesa, ma con il cuore aperto e sereno. In monastero questo silenzio, soprattutto nell’ultima stagione della vita, è proprio radicale...ma se accolto fa conoscere la beatitudine evangelica del “servo inutile”....”quando avrai fatto tutto quel che ti competeva o ti compete, dì: sono un servo inutile”! Capire questo è proprio entrare nell’avventura del chicco evangelico che marcisce nel solco della terra, e solo così genera vita.

Quello che conta è intessere reti di relazioni amicali, che sono rinsaldate dall’essere e non dal fare... qui si trova la strada per la fraternità universale perché in queste reti ogni uomo povero, malato, vecchio o giovane può trovare il suo posto.


C’è il silenzio della speranza: “sta in silenzio davanti al Signore – e spera in lui” – in silenzio, in pura perdita su tutti i fronti, ma davanti a Lui, nella speranza, la speranza indistruttibile che ha attraversato la valle del pianto cambiandola in una sorgente.


Sperare la vita anche quando questa si va disfacendo, è un fiore raro che germina sul terreno del silenzio... questo l’ho capito giorno per giorno, rimanendo “in pura perdita” senza tentare di uscire da questo terreno, con fatica, ma rimanendo-restando-perseverando-resistendo fino a quando giunge la luce rara che brilla nelle tenebre e apre orizzonti nuovi sul mondo dove i bagliori della bellezza riscattano tutti gli oppressi e fanno sentire i passi del Salvatore, del Dio che viene ad abitare con noi.

Chiara Patrizia






LA SOFFERENZA


  1. Nei discorsi correnti


E’ un termine che ricorre anche se più spesso si parla di specifiche sofferenze che sono varie come varia è l’esperienza umana.

Ci sono le sofferenze fisiche causate dalle malattie e si parla spesso di “dolori”. Ci sono sofferenze materiali per la mancanza di beni essenziali: casa, vitto, lavoro, ecc.

Innumerevoli sono le sofferenze psichiche: ansie, paure, angosce, amarezze, inimicizie, delusioni, odi, frustrazioni.

Il termine sofferenze è spesso accompagnato da qualificazioni: grandi, immani, insopportabili, disumane.

Si parla spesso delle proprie sofferenze, dei propri guai, anche se molti preferiscono tenerseli per sé, per difendersi o per non causare la sofferenza di altri.

Si parla anche delle sofferenze degli altri: di singoli, di famiglie, di gruppi… di tutta l’umanità.

Non di rado si va direttamente a cercare le cause delle sofferenze, specialmente le responsabilità di terzi, senza soffermarsi su quello che sperimentano le vittime.

Grandi sofferenze di parti notevolissime dell’umanità sono conosciute solo attraverso i media che hanno il potere di distorcere spesso la realtà. Ma quel che dovrebbe allarmare molto di più è che ciò che si vede attraverso i media non coinvolge molto e con facilità si rimuove anche solo con un telecomando.

C’è poi una sofferenza diffusa che è la coscienza di essere a termine, mortali. Ma di questo poco si parla.


  1. Nel Vangelo


Tutta la Bibbia, primo e nuovo testamento, parla della sofferenza umana: la riconosce, la svela e ne rivela il significato nel disegno misterioso e misericordioso di Dio.

Mi limito qui a tre brevissimi accenni.

I canti del servo di Javeh nel secondo Isaia:

Disprezzato e reietto dagli uomini,

uomo dei dolori che ben conosce il patire

….

si è caricato delle nostre sofferenze,

si è addossato i nostri dolori

….

egli è stato trafitto per i nostri delitti,

schiacciato per le nostre iniquità,

il castigo che ci dà la salvezza si è abbattuto su di lui;

per le sue piaghe siamo stati guariti” (Is. 53).


I racconti della passione di Gesù Cristo nei quattro Vangeli occupano uno spazio grandissimo. Vanno continuamente letti e meditati, non a scopo culturale, ma come comunione intima e costante con il Mistero e la gioia pasquale.

Il capitolo V dell’Apocalisse: il libro chiuso che nessuno può aprire e che contiene il senso della storia personale e universale, il pianto di Giovanni e di ogni uomo che si pone i perché ultimi di tutto, e poi l’Agnello immolato che apre il libro e sta ritto sul trono di Dio, Gesù crocifisso e risorto.




  1. Nella vita


Con la sofferenza la pazienza ricopre tutta la terra.

Noi siamo portati a fare molte distinzioni fra chi è paziente e chi è impaziente, fra chi accetta e chi si ribella, fra chi sopporta e tiene duro e chi non ne può più.

Sperimentiamo in noi la compassione data e ricevuta che è una forma eccellente dell’amore.

La sapienza e la misericordia infinite di Dio colgono l’intimo nesso di ogni sofferenza con la passione del suo Figlio unigenito Gesù Cristo nel “disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Ef. 1, 10).

Il Vangelo illumina ogni gioia e ogni tribolazione con l’annuncio del Mistero Pasquale.

Quando ci si limita ai valori del Vangelo riducendolo a un’etica, la sofferenza rimane nell’oscurità e la storia umana un’assurda tragedia.


Pio Parisi





SOLITUDINE


  1. Nei discorsi


Gran parte dell’umanità sperimenta e soffre la solitudine in forme molto diverse.

Come fu per Caino e per Giuda c’è una solitudine conseguente alla colpa dei piccoli e grandi delinquenti. Ci si difende dalla giustizia e dalla punizione legale, si fugge da se stessi e dall’umanità.

Nelle varie forme sociali ci sono le solitudini del tiranno, del respinto, del rifiutato, del non accolto, dell’escluso.

Il clamore dei grandi raduni impedisce l’ascolto e la comunicazione, senza le quali si è nella solitudine. Ciò può accadere, per esempio, anche nella folla in piazza S. Pietro o in piazza S. Giovanni.

C’è la solitudine del moribondo, del condannato a morte e del povero rifiutato dal ricco.

C’è una solitudine che consiste nella mancanza di compagnia, di amicizia, di solidarietà. Alcuni sperimentano la solitudine come mancanza di seguaci e di collaboratori nel loro operare che pure ritengono valido e importante. Altri sentono la solitudine come mancanza di capi, di guide, di modelli da imitare.

Pur essendo la condizione di tanti la solitudine è scarsamente messa a tema e analizzata. Non ha posto adeguato nella riflessione sui mali della società. Chi non ne soffre, o pensa di non soffrirne, parla con facilità della solitudine degli altri ma raramente se ne sente responsabile.


  1. Nel Vangelo


Il Mistero di Dio uno e trino è il fondamento di ogni comunione e quindi il superamento di ogni solitudine.

Dio per purissimo amore crea un sistema autosufficiente e lo affida a creature libere. Uomini e donne li crea perché si realizzino nella comunione. Così la solitudine diventa via privilegiata alla comunione e quindi all’Eucaristia.

Gesù si ritirava in luoghi solitari a pregare” (Lc. 5, 16).

Gesù se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione” (Lc. 5, 12),

Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo” (Mt. 4, 1).


  1. Nella vita


Sperimentando in vario modo la solitudine si rientra spesso in se stessi e si comincia a comprendere tante cose, aprendosi agli altri e alla rivelazione di Dio.

Qualcuno ha esclamato: “O beata solitudo, o sola beatitudo”.


Paolo Merucci





SPERANZA


1. Nei discorsi


Oggi il termine “speranza”, nella sua accezione di aspettativa di realizzazione - nel presente o nel futuro - dei propri desideri, è riscontrabile frequentemente nei discorsi correnti: indizio, questo, dell'esistenza di molti desideri non realizzati, con un conseguente diffuso senso di insoddisfazione, spesso indefinita.

Di fatto nei discorsi la speranza è rivolta ad eventi favorevoli per la salute o per la situazione economica, proprie o di familiari o amici stretti: meno frequentemente ad eventi che attengano alla vita dello spirito o ad una vita dopo la morte.

L'uso frequente denuncia una forte preoccupazione che è “diretta” per le sicurezze, fisiche ed economiche, proprie o di una ristretta cerchia familiare o amicale, ed invece solo “di riflesso” per le sicurezze più “sociali”: limitata, in tal caso, agli effetti che possono favorevolmente riflettersi sulle prime.

Altrettanto frequentemente, se non di più, si coglie nei discorsi correnti la presenza del termine “disperazione”, che, al contrario, indica una situazione di “mancanza di speranza”: spesso nella disperazione, nella mancanza di ogni prospettiva favorevole, viene individuata la matrice di fondo comune a tante situazioni di disagio personale, ma anche sociale, locale, nazionale ed anche internazionale: una delle più gravi viene indicata nei fenomeni di terrorismo, a carattere politico, praticato con la metodologia dei “kamikaze”.

In particolare la mancanza di speranze, di aspettative favorevoli per il proprio inserimento nel mondo del lavoro, anche solo in funzione della propria indipendenza economica e del proprio benessere materiale, sembra connotare oggi la situazione spirituale di una larga parte di giovani ed innescare dinamiche negative personali ma spesso anche familiari e sociali.

L'alimentazione e la lusinga spregiudicate della “speranza” dei giovani, ma anche di tanti adulti, e la strumentalizzazione cinica della loro “disperazione” spesso diventano lo strumento preferito di forze politiche alla ricerca di facili consensi elettorali.

Al contrario l'aspettativa, la “speranza”, di una società basata su rapporti di giustizia, di pace, di solidarietà, di carità a livello personale e sociale, è poco frequente nei discorsi correnti, ove essa appare indicata piuttosto con il termine “utopia”, che ne denuncia la qualità ritenuta di “speranza che non può avere attuazione” nel concreto del vissuto quotidiano.


  1. Nel Vangelo


L'avvento del Regno di Dio, realizzatosi in Gesù, il Vangelo da Lui annunciato (Mt. 4,17), è, per i cristiani, la realizzazione completa e definitiva della “speranza” di Israele: la speranza nelle promesse fatte da Dio ad Abramo (Gn. 12, 1 ss.).

Nello stesso tempo, per i cristiani, la “speranza” non si è esaurita ma si proietta verso il futuro, e diventa aspettativa di un ulteriore evento futuro, ma ora certo: è l'attesa amorevole del ritorno finale e glorioso di Gesù e l'instaurarsi della vita eterna nella gloria di Dio (At. 1,11; 1 Ts. 4, 13 e ss.).

La “speranza” è classificata, nella dottrina della Chiesa, come una “virtù teologale”: dono soprannaturale di Dio ed avente ad oggetto diretto Dio stesso.

La speranza della Chiesa, fondata sulla fede in Cristo, diventa incrollabile e gioiosa, pur nella constatazione del male e del dolore che affligge il mondo, per la consapevolezza della vittoria finale dell'Agnello (Ap. 5, 1 ss.; 21, 1 ss. ).

La stessa fede in Cristo, che ci ha rivelato l'infinito, fedele e misericordioso, amore di Dio per le sue creature, sostiene la “speranza cristiana” del singolo, pur nella constatazione della propria naturale debolezza di peccatore (1 Ts. 5, 24 ss.; 1 Cor. 1, 9; Rom. 5).


La speranza diventa preghiera di invocazione: “Marana Tha “, “Vieni, Signore” (Ap. 22, 20 e ss.).

Sul tema della speranza cristiana si è oggi espresso il Magistero di Papa Benedetto XVI nell'enciclica “ Spe salvi” (v. ibi ).


  1. Nella vita


Nella vita di relazione quotidiana si coglie come costante e dominante la speranza di un raggiungimento, e di un mantenimento il più a lungo possibile, di ottime condizioni di benessere fisico ed economico, quale presupposto - imprescindibile e forse anche esaustivo - di un benessere spirituale; questo obiettivo diventa la motivazione di gran lunga predominante nella ricerca di un proprio ruolo personale, familiare e sociale.

Appare, infatti, molto diffusa e del tutto naturale, nei rapporti individuali e di gruppo una preoccupazione, una ricerca, una attesa, “una speranza” di situazioni favorevoli o comunque di miglioramento, egoisticamente riflessa su se stessi, e talvolta anche sulla propria ristretta cerchia familiare od amicale, con connotati anche di “consorteria” e con comportamenti talvolta sconfinanti nell'illecito civile e penale; essa ha raggiunto livelli tali da suscitare, in particolar modo oggi, una diffusa reazione di insofferenza che si manifesta con istanze svariate, che vanno da manifestazioni di sentimenti cosiddetti di “antipolitica” a fughe dalle responsabilità ed a rifugi strumentali in varie forme di spiritualità avulsa dal concreto.

La “speranza cristiana” come attesa del ritorno finale di Gesù e della vita eterna, appare confinata intanto nella sfera della spiritualità personale, in una dimensione intimistica, del tutto avulsa dal “concreto” del mondo, ed - anzi - un elemento controproducente e dannoso per l'affermazione personale, sopratutto nel cosiddetto “sociale”.

La “speranza cristiana” non appare un diffuso criterio di discernimento che orienti il singolo nella vita quotidiana, nelle relazioni interpersonali, nel lavoro e nelle scelte sociali, politiche e dei politici.

Non mancano certo testimonianze del contrario, cioè di una “speranza cristiana” vissuta nel concreto quotidiano, anche con sofferenza e con alti costi personali, sia da singoli che da piccoli gruppi, i quali molto spesso operano nell'anonimato e fuori da strutture ufficiali: fuori anche da quelle che istituzionalmente sarebbero magari chiamate a renderne testimonianza.


Pino Macrini





STORIA


La parola storiaha il sapore di un croceviatra esperienza individuale e accadimenti che interessano la collettività (locale, nazionale, mondiale), quindi tra sentimenti personali (affetti, fatiche, entusiasmi, delusioni, dolori, gioie) e fatti oggettivi (guerre, rivolgimenti politici, carestie, benessere economico, scoperte scientifiche); ma anche croceviatra passato e futuro, cioè anello tra il vissuto e le aspettative per il domani, tra la riflessione e la progettazione, tra la conoscenza e la ricerca.

Chi ha fede vede nella storiail lento maturare e affermarsi del regno di Dio, nel proprio cuore e nel mondo umano e naturale, la faticosa riconquista del Paradiso terrestre, perduto con il peccato originale; cioè il contributo dell’uomo alla salvezza individuale e del mondo, attuato con l’aiuto determinante di Dio che guida le tensioni e le ricerche degli uomini nella direzione di un progresso lento e costante, non immaginabile se affidato esclusivamente alle nostre miserie (nel senso di “poca cosa”, “inadeguatezza”) ed egoismi (nel senso di “esclusiva soddisfazione dei propri bisogni”). La storiaè il progressivo avvicinamento dell’uomo (e di tutto il mondo naturale) a Dio.

L’immagine della storiacome crocevia(duplice intersezione tra esperienza di vita individuale e accadimenti che interessano la collettività, da una parte, e tra passato e futuro, dall’altra) rimanda all’immagine della croce di Cristo, cioè della nuova alleanza uomo-Dio dopo la rottura del patto originario, vissuta nella dimensione temporale che caratterizza la nostra vita terrena.


Pier Ugo Foscolo





SUCCESSO


  1. Nei discorsi


E’ ciò che si cerca per sé e si augura agli altri nei più diversi campi: nello studio, nel lavoro, nell’arte, nello spettacolo, nello sport, nella politica.

E’ ciò che si ammira in chi si afferma in qualunque campo, senza chiedersi molto come egli sia arrivato al successo, e non di rado considerando il risultato raggiunto una giustificazione del cammino percorso.

Nelle opere buone la preoccupazione del successo porta facilmente a ritenere che il fine giustifica i mezzi. Chi mi aiuta ad aiutare non mi interessa come sia arrivato a procurarsi i mezzi per aiutarmi.

Sul piano religioso il successo diventa spesso una falsa convalida dell’azione apostolica e pastorale. Anche fra cristiani si confonde la santità con il successo in questo mondo.


  1. Nel Vangelo


Stringendomi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio” (1 Pt. 2, 4)

Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi” (Lc. 6, 26)

Da allora Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno. Ma Pietro lo trasse in disparte e cominciò a protestare dicendo: «Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Lungi da me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!». Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt. 16, 21-25).


  1. Nella vita


La gran parte delle donne e degli uomini che non contano sono emarginati e faticano sostenuti dal testimonio della buona coscienza.

Giovani e meno giovani non mancano di iniziativa che spesso non è coronata da successo: lo Spirito li sostiene.


Pio Parisi





TECNICA


  1. Nei discorsi correnti


Ho sempre sentito parlare di tecnica in due modi nettamente distinti:

1. modo ottimista: si parla di tecnica pensando ai risultati positivi ottenuti nell'ultimo secolo (in ambito medico, comunicazione, lavorativo,...)

2. modo pessimista: se ne parla pensando agli stravolgimenti sociali e culturali che i cambiamenti sopra detti hanno apportato (fine dell'artigianato, scomparsa dei dialetti locali e delle tradizioni popolari,...)


In anni di litigi verbali abbastanza accesi tra due concezioni molto diverse (vecchio contro nuovo, pluralismo contro cultura dominante,...) non mi è mai capitato di sentir parlare di cosa invece in questi anni non è cambiato:

1. la cultura è rimasta un privilegio di pochi?

2. siamo ancora così lontani dai popoli degli altri continenti? Che cosa sappiamo di quello che avviene oggi nelle altre nazioni?

3. ci sono problemi scientifici (in ambito ingegneristico, matematico,...) che non troveranno mai una soluzione?

4. è vero che ancora oggi non tutti hanno la possibilità di far conoscere al mondo intero le proprie idee?


Chi si pone con un atteggiamento quasi di “adorazione” verso tutto ciò che è nuovo e moderno, è portato a rispondere di no a tutte e quattro le domande appena scritte.

Viceversa chi non vuole sentirne neanche parlare avanza sempre dubbi e preoccupazioni (anche infondate) sugli ultimi cambiamenti. Ad esempio chi non trova lavoro dà la colpa (tra le altre cose) al fatto che con le nuove tecnologie non c'è più bisogno di manodopera...


Alcune considerazioni


Ritengo che la colpa e il merito di qualunque cosa non possa mai essere attribuita a questo o a quell'oggetto. Se i giovanissimi non escono più di casa perché preferiscono dialogare con i coetanei davanti lo schermo di un computer non credo sia colpa dell'oggetto che stanno usando. Quello che manca nell'opinione comune è la consapevolezza del "cosa non si può fare" con tutte queste novità. Purtroppo essendo cose recenti non sappiamo ancora per cosa conviene sfruttarle anche perché non abbiamo ancora esempi a riguardo. Il vero pericolo credo che sia la "santificazione" da un lato e la "demonizzazione" dall'altro che essendo presupposti non razionali dettati a volte solo dal gusto o dalla propria convenienza, impediscono un giudizio critico obiettivo e ritarderanno un inevitabile esame approfondito dei cambiamenti a cui stiamo assistendo.


Concludo elencando a mio avviso un paio di aspetti su cui sarà necessario riflettere nei prossimi anni:

1. “libera” circolazione delle idee:

non è vero che su internet tutti trovano tutto. è vero che solo pochi esperti riescono a trovare quello che cercano. potete provare a scrivere su un qualunque motore di ricerca parole chiave come "violazione diritti umani" per accorgervene. Purtroppo la circolazione delle idee non è affatto così libera sul web e questo è molto pericoloso se pensiamo al fatto che per contro stanno diminuendo le occasioni di dialogo tra persone "fisiche" (nelle assemblee ma anche nel quotidiano). Un confronto con gli stili di vita di qualche anno fa mostra che oggi corriamo il rischio grazie ai cellulari e ad internet di non parlare con nessuno che non sia già entrato in una cerchia ristretta di persone care, cosa impensabile fino a pochi anni fa. Bisogna in qualche modo mantenere la possibilità di incontri casuali e non previsti (gli incontri più belli avvengono sempre per caso!).


2. educazione all'utilizzo di internet nelle scuole:

ottima l'idea di educare i ragazzi all'uso di internet sotto l'occhio vigile degli insegnanti. Purtroppo spesso i docenti ne sanno meno degli alunni e in molti casi non vedono l'ora di portare i ragazzi nella sala computer per andarsi a fare una chiacchierata nei corridoi... aggiungo anche il fatto che non tutte le scuole possono permettersi spese così ingenti per l'acquisto di macchinari che nel giro di 2-3 anni saranno già vecchi e superati. Quello che si dovrebbe fare a scuola è spiegare il meccanismo della pubblicità (sono proprio le persone più deboli a fare le spese più folli) e delle grandi multinazionali (a chi appartiene google?) in modo che i ragazzi ricevano gli strumenti per difendersi dal bombardamento a cui saranno esposti.


  1. Nel Vangelo


L'Antico Testamento è sempre molto critico verso l'uomo che cerca di risolvere i propri problemi con il solo “metallo fuso” anziché con la fiducia in Dio e nell'altro. Si veda ad esempio Es. 32, 8 (dopo che gli Ebrei preoccupati dalla lunga assenza di Mosè, decisero di adorare il vitello d'oro) "Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicata! Si son fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: «Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dal paese di Egitto»".

Numerosi sono i Re di Israele che non vennero salvati dal Signore perché si erano rivolti per curarsi ai medici (non trovo però i riferimenti) anziché ai sacerdoti (2 Re 20, 1-6).

Probabilmente l'episodio più celebre è quello della Torre di Babele (Gen. 11) in cui gli uomini sono dispersi per aver voluto sfruttare la tecnologia per sostituirsi a Dio.

Nel Nuovo Testamento invece emerge un tono molto più positivo verso la tecnica quando se ne fa un uso corretto. Si veda ad esempio il quinto capitolo sulla pesca miracolosa nel Vangelo di Luca, segno che le opere dell'uomo, anche se molto semplici, possono portare molto frutto se sono in accordo con il volere di Dio.

Negli Atti degli apostoli invece (a partire dal Capitolo 6 con l'incarcerazione di Stefano) vengono descritte una ad una le persecuzioni contro gli apostoli, qui la tecnica è usata contro di loro, da chi è più potente e più forte, per toglier loro la libertà e la possibilità di esprimersi.


Claudio Stirpe





TRADIZIONE


  1. Nei discorsi


E‘una parola che non è molto usata.

Qualche volta è considerata come un ostacolo all’innovazione.

Di fatto si nota spesso una perdita di memoria molto grave, anche quando sembrerebbe particolarmente necessaria per non ripetere gli errori del passato e stimolare la ricerca del nuovo.

Si ricorre alla tradizione per marcare la propria identità ma, se non si tratta della identità più profonda, si corre il rischio di rafforzare lo schieramento, l’autoreferenzialità, e, in modo più o meno esplicito, la conflittualità.


  1. Nel Vangelo


Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal. 2, 20).


Parole vere e autentiche, non collegate a una tradizione religiosa precisa, le troviamo soprattutto nel Discorso della montagna. Parole che toccano ciò che di più sensibile c’è nella esistenza umana: la fedeltà, la lealtà, l’umiltà – non sappia la destra ciò che fa la sinistra – il perdono, il non preoccuparsi delle cose di questo mondo, non accumulare tesori, non giudicare per non essere giudicati, fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi. Questo è un insegnamento sicuro per tutti, che tocca nell’intimo il nostro cuore e ha la forza di rinnovare un ebreo, un cristiano, un musulmano, un indù, un buddista, proprio in quanto attinge le profondità dello spirito.

Dunque, rimanendo necessario un dialogo ad alto livello, il nostro cammino interreligioso deve consistere soprattutto nel convertire radicalmente” (Card. Carlo M. Martini).


  1. Nella vita


All’ondata travolgente dei media non mancano punti di resistenza, non tanto nelle tradizioni esteriori quanto in atteggiamenti profondi, pazienza, gratuità, solidarietà, presenti negli anziani che trovano un’eco e rifioriscono nei giovani. L’interiorità è insidiata ma non si spegne


Pio Parisi





TRAMANDARE


Il vocabolario della lingua italiana assegna alla parola “tramandare”questo significato: trasmettere alle età seguenti, ai posteri, es. tramandare il proprio nome, la memoria di un fatto ecc.

Noi vogliamo riferire il dinamismo del tramandare, tra i moltissimi ambiti possibili, particolarmente all’ambito della fede.

Tramandiamo alle generazioni future la fede che noi abbiamo ricevuto? Quelli che ci hanno preceduto ci hanno lasciato tanti segni del loro vivere e del loro credere. Roma non manca di istituzioni caritative o culturali escogitate da nostri predecessori; tra essi annoveriamo santi elevati agli onori dell’altare o piccoli e tenaci testimoni quasi sconosciuti. A cominciare dalle catacombe, nate come forma di condivisione e di ospitalità per la sepoltura da parte di persone abbienti e proprietarie di terreni adatti allo scavo delle gallerie, nei confronti di altri più poveri ma appartenenti alla stessa fede, a continuare con i tesori di arte, vedi ad esempio nelle pareti delle basiliche o delle chiese, le raffigurazioni di scene del Vecchio e Nuovo Testamento, chiamate la “Bibbia dei poveri”. Di questo patrimonio ci serviamo ancora oggi per gli spunti di catechesi che ci offre ampiamente.

Naturalmente questo tramandare non avviene solamente a grandi livelli ma anche in maniera spicciola si effettua con le tradizioni familiari, sociali. Anche nelle piccole cose di ogni giorno, nella concretezza della vita, si tramanda qualcosa dei nostri valori e delle nostre convinzioni.

Certamente tutti coloro che vivono e operano, lasciano una qualche traccia di sé che altri potranno accogliere o rifiutare. Ma credo che questa funzione e questo compito investa soprattutto i genitori. Essi sono impegnati in questo sforzo che è vitale e anche inconsapevolmente trasmettono ai figli insegnamenti e comportamenti che riemergeranno nella loro vita e che in seguito condizioneranno i loro atteggiamenti e scelte.

Un primo comportamento e una prima attenzione è quella di vivere bene materialmente, cercando per il figlio ogni sorta di benessere, abituandolo ad avere appagata ogni sorta di richiesta e spesso di prevenire ogni esigenza e ogni desiderio.

Questo si esprime ad esempio nel cibo, consumato ad ogni momento, senza badare a spese, e con abbondante spreco; nel ricercare anche nel vestito l’ultima moda o il prodotto firmato; nella emulazione a ostentare l’ultimo prodotto. Fin da bambini si respira questa atmosfera.

Prendiamo ad esempio la festa di compleanno. In parrocchia a volte si metteva a disposizione una sala per queste ricorrenze. Le prospettive che si reputavano valide erano che l’incontro tra famiglie lasciasse qualche segno di comunione e di conoscenza reciproca, se è vero che la parrocchia voleva essere famiglia di famiglie. Ma queste aspettative rimanevano vanificate dal fatto che predominante se non esclusiva era la preoccupazione del regalo, in un crescendo di emulazione e soprattutto in un obbligo di restituzione alla prossima occasione. Così ad esempio se faceva festa di compleanno un bambino e invitava i suoi 20 compagni di classe, erano 20 regali, ma con il sentito obbligo di ripetere la festa quando toccava ad un altro, erano altri 20 regali e così innescando questo processo erano 400 regali. Per questo motivo in parrocchia non ci si prestava più a questo meccanismo e non si ospitavano più incontri di questo genere.

In occasione dei sacramenti, Prime Comunioni in modo particolare, la preoccupazione di molti era quella di apparire e di mettere al primo posto nella graduatoria dei valori il far bella figura e quindi il vestito, le fotografie il ristorante, gli inviti ecc.. Se nelle riunioni con i genitori in parrocchia, ci si intratteneva sulla necessaria partecipazione della famiglia e sul clima di fede da respirare e far respirare ai propri figli per questo evento, e magari il discorso scivolava sulla organizzazione, sui vestiti, sulle foto….appariva ben chiaro che questi temi riscuotevano tutto l’interesse e invadevano tutti gli altri temi, escludendo attenzione ed interesse per tutte le altre prospettive che ci si sforzava di far recepire. Non era raro che apparisse tutta la litigiosità e animosità presente spesso nelle riunioni di condominio.

Anche la parrocchia cercava di instaurare delle abitudini che poi si tramandavano di anno in anno. Gli anni successivi, le proposte attuate negli anni precedenti, venivano meglio digerite e anche condivise.

Ricordo la resistenza iniziale nel proporre ai genitori un abito normale che i bambini e le bambine potessero usare anche nelle altre domeniche e negli altri giorni dell’anno. Accadeva che molte famiglie magari si indebitavano, pur di non rinunciare a sfruttare questa occasione per fare spettacolo.

Se da un lato c’era da parte delle famiglie questo arrivismo, dall’altro lato la parrocchia si sforzava di istaurare abitudini che alleviassero oneri, magari fornendo un abito uguale per tutti: la tunica bianca che dopo averla indossata si portava in tintoria e entro la settimana si riconsegnava in parrocchia rendendola disponibile per i turni successivi.

Altro settore riguardava la scelta dei padrini per la cresima. I criteri spesso presenti nelle famiglie, non erano certo quelli suggeriti dalla fede, ma quelli piuttosto della prospettiva di un regalo più consistente o di una convenienza sociale. A volte, quando i criteri della disciplina ecclesiale escludevano da questo ruolo persone, perché non ancora cresimate o non regolarmente sposate, erano drammi, perché la proposta era stata già avanzata e non si poteva tornare indietro se non a scapito di malumori e di reazioni negative nei confronti della Chiesa.

(Ho sentito che in ambienti mafiosi il regalo per la cresima è la pistola per difendersi ed affermare in tal modo la propria forza ed autorità nel contesto sociale.)

Nella esperienza parrocchiale si veniva spesso a contatto con queste problematiche sia nelle occasioni di incontro personali, sia per le circostanze che avvicinano alla parrocchia le famiglie in occasione della catechesi, dei sacramenti o della partecipazione alla vita di gruppo dei propri figli.

Negli incontri con famiglie giovani alle prese con la educazione dei figli, negli anni del post-battesimo o della catechesi di comunione, venivano fuori le perplessità e la constatazione che il messaggio verbale non attecchiva se non si dava con la vita testimonianza che quel messaggio era convinto e vissuto personalmente.

Vedasi questo per quanto riguarda la partecipazione alla messa domenicale o l’educazione alla preghiera in famiglia, al trovare tempo per dialogare con i figli e non scaricarsi magari da un senso di colpa, riempiendo di regali, per giustificare la propria assenza da quel dovere di essere presenti e perdere tempo a dialogare con i figli, per crescere insieme nella responsabilità.

Importante la condivisione di certi valori tra marito e moglie per non disorientare i figli negli atteggiamenti e nei valori da assimilare.

Al giorno di oggi molte ferite del rapporto coniugale si trasmettono ai figli e instaurano la mentalità che con certe situazioni si può convivere ugualmente bene e che poi non è così importante sacrificarsi per certi ideali perché si campa lo stesso.


Sandro Amatori





UMANITA’


Tutte le donne e tutti gli uomini

passati presenti e futuri.

Attualmente circa sei miliardi e mezzo.

In Asia circa il 60%, in Africa il 14%, in Europa il 12%, nell’America del Nord l’8%,

nell’America del Sud il 6%.


  1. Nei discorsi


Si parla in genere solo di una parte dell’umanità o di singole donne e di singoli uomini.

Si parla di tutti quando si tratta del progresso o del regresso dell’umanità, delle disuguaglianze e degli squilibri di vario genere: tra nord e sud, tra uomini e donne, tra diverso sviluppo economico e tecnologico.

Ci sono molti dati statistici, spesso ignorati da gran parte delle persone che tuttavia parlano e disquisiscono su tutta o parte della famiglia umana.

Ci sono poi molti discorsi astratti sull’umanità e sulla condizione umana, determinati da esperienze personali e da ideologie.


  1. Nel Vangelo


Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò” (Gen. 1, 27).

Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama” (Lc. 2, 14).

(Purtroppo nel “Gloria” si dice ancora: “agli uomini di buona volontà”).

Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo” (dal Credo della Messa).

Prendete e mangiatene tutti… Prendete e bevetene tutti…” (dalla preghiera eucaristica).


  1. Nella vita

Nonostante i discorsi correnti e in particolare l’influsso dei media, con i dati e le immagini, ci sono ancora momenti e situazioni che aiutano a vivere la fraternità universale.

Spesso si tratta di disgrazie che coinvolgono numerose persone, anche distanti da noi.

Ci sono poi incontri personali, occasionali o abituali che ci aiutano a vivere l’appartenenza alla famiglia umana.

Nella più alta teologia c’è chi afferma che l’amore richiede sempre l’appuntarsi di una relazione personale determinata, per non essere una pura astrazione. Il superamento di questa convinzione, che appare assai lontana dal Vangelo, va ricercato nella riscoperta dell’essenziale dimensione mistica della fede e della coscienza politica necessaria alla carità.

Tante persone piccole, povere e sofferenti sperimentano l’appartenenza all’umanità anche se poco discorrono di tale esperienza.


Pio Parisi





UMILTA’


  1. Nei discorsi


L’umiltà come virtù è quasi assente nei discorsi correnti e nei media.

Non di rado fa professione di umiltà per accattivarsi le persone a cui si rivolge anche chi parla con qualche presunzione ed arroganza.

L’umiltà non è considerata un fattore positivo per la vita sociale.

Non di rado si esalta l’orgoglio, anche di essere cristiani.

Umili sono considerate le persone di bassa condizione sociale.


  1. Nel Vangelo

Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclamiche Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre”. (Fil. 2, 5-11).


Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero” (Mt. 11, 28-30).


Allora Maria disse:

L'anima miamagnifica il Signore
e il mio spirito
esulta in Dio, mio salvatore,
perché
ha guardato l'umiltà della sua serva.
D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata
” (Lc. 1, 46-48).


Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell'altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc. 18, 13-14).


  1. Nella vita


Tanti piccoli, poveri, sofferenti, emarginati, considerati peccatori sentono di valere poco, non hanno speranze umane di potere emergere, né aspirazioni a dominare. Tengono duro e sperano anche senza e contro ogni speranza.

Sono trascurati anche da alcuni che dovrebbero annunciare loro la buona notizia e da loro dovrebbero imparare una più profonda umiltà.


Pio Parisi




UNIVERSO


  1. Nei discorsi


Per noi Miss Italia è più importante di Miss Universo. Nei nostri discorsi ci riferiamo per lo più, in modo positivo ed autoreferenziale, al nostro gruppo, alla nostra città, al nostro paese, parliamo poco e solo per lamentarci degli estranei che entrano nel nostro orizzonte, visti soprattutto come minaccia per la nostra tranquillità e la nostra sicurezza.

Nella dialettica politica e sociale la parola ‘universo’, paradossalmente, viene a volte utilizzata per separare ed esaltare una parte sul tutto: per esempio si parla di ‘universo femminile’.

L’orizzonte di cui parlano gli scienziati è molto più grande: l’universo osservabile ha un raggio di 46 miliardi di anni luce, una distanza che per essere scritta in chilometri richiederebbe l’impiego di 24 cifre. E’ punteggiato da miliardi di miliardi di miliardi di stelle. Rari qua e là, è del tutto verosi­mile che esitano pianeti in condizioni fisiche e chimiche tali da consentire la vita. Se è così esistono miliardi di miliardi di esseri intelligenti lontani nell’universo, anche se non entreranno mai in collo­quio con gli esseri umani (gli umani, un domani, potranno solo captare loro segnali.)

L’universo è cominciato, 13,7 miliardi di anni fa, con una immane esplosione (il Big Bang) i cui istanti iniziali sono importantissimi per capire come fatto. Dopo un secondo dal Big Bangla tempe­ratura dell’universo da infinita era già scesa all’irrisorio livello di dieci miliardi di gradi.
L’universo si espande a grande velocità. L’espansione, che dovrebbe rallentare a causa delle forze gravitazionali, accelerava molto all’inizio e accelera un po ‘anche ora (e questo fatto pone un grosso problema alla fisica.) Ma l’universo, sempre più rarefatto, potrebbe sparire cadendo in un buco nero e magari riapparire da qualche “altra parte”…

Alcuni dicono che una gigantesca macchina acceleratrice di particelle costruita in Svizzera - ca­pace di ricreare condizioni mai più realizzatesi dopo un trilionesimo di secondo dal Big Bang- po­trebbe produrre piccoli buchi neri e altri oggetti eccezionali capaci di risucchiare la Terra (e forse l’intero universo). I responsabili del CERN di Ginevra assicurano che le probabilità di incidenti nell’uso del Large Hadron Collider (L. H. C.), sono tanto piccole da non costituire una preoccupa­zione.
Uno dei temi emersi dalla recente cosmologia è che l’universo osservabile potrebbe essere solo una piccola parte di uno spazio molto più grande. Universi paralleli potrebbero essere reciproca­mente inosservabili. Certi universi paralleli potrebbero avere qualche effetto sul nostro e così po­tremmo in qualche modo affermarne l’esistenza.


  1. Nel Vangelo


Nella Sacra scrittura l’Universo è costituto dal binomio cielo-terra, e dal tempo, che ha un inizio ed una fine in Dio. I riferimenti spaziali e temporali sono il lessico delle relazioni tra Dio e gli Uomini. Ricordiamone solo alcuni.


In Genesi, capitoli 1 e 2, la parola “Dio” compare una trentina di volte. Dio è il creatore diretto di ognuna di quelle cose che costituiscono il contesto e la premessa per la creazione dell’Uomo. L’Uomo è creato per ultimo, a significare la perfezione raggiunta dall’opera di Dio.


La maestà e la bellezza dei cieli ci manifestano la gloria di Dio, loro creatore. Salmo 19.

I cieli narrano la gloria di Dio, e l'opera delle sue mani annunzia il firmamento. Il giorno al giorno ne affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette notizia. Non è linguaggio e non sono parole, di cui non si oda il suono. Per tutta la terra si diffonde la loro voce e ai confini del mondo la loro parola. Là pose una tenda per il sole che esce come sposo dalla stanza nuziale, esulta come prode che percorre la via. Egli sorge da un estremo del cielo e la sua corsa raggiunge l'altro estremo: nulla si sottrae al suo calore. […]


Anche le nazioni del mondo, parte del regno di Dio, ci mostrano la gloria di Dio. Salmo 22.

[…] Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra, si prostreranno davanti a lui tutte le famiglie dei popoli. Poiché il regno è del Signore, egli domina su tutte le nazioni. A lui solo si prostreranno quanti dormono sotto terra, davanti a lui si curveranno quanti discendono nella polvere. E io vivrò per lui, lo servirà la mia discendenza. Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunzieranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno:”Ecco l'opera del Signore!”.


Il “Padre nostro” (Matteo, 6, 9-13) pone Dio nel Cielo; la preghiera è per l’attuazione della volontà di Dio in Terra (così come già avviene in Cielo): “Padre nostro che sei nei cieli […] sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra

Si prega perché venga il Regno di Dio: “Venga il tuo regno”, questo regno è realizzato in Cielo ma non ancora pienamente in Terra; d’altra parte non si tratta di un regno di natura terrena, Gesù dice: “Il mio regno non è di questo mondo” (Giovanni, 18,36).


La creazione dell’Universo e la venuta del Verbo in Terra sono visti come eventi strettamente con­catenati nel prologo del vangelo di Giovanni.

In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta. […] Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Egli era nel mondo e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe. Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto. A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare fi­gli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di ve­rità.[…]


Gesù viene dal Cielo. Per es. v. in Giovanni 6, dal versetto 32 in poi. […] “In verità, in verità vi dico: non Mosé vi ha dato il pane dal cielo ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero. Il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo.” […] “sono disceso dal cielo.


Gesù ha residenza in Cielo, lì dove sta anche il Padre. Gesù torna in Cielo dopo la sua morte e la sua resurrezione. Ma tornerà ancora in Terra. Atti degli Apostoli, inizio (1,6-11)

Così venutisi a trovare insieme gli domandarono: “Signore, è questo il tempo in cui ricostruirai il regno d’Israele?” Ma egli rispose: “Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi…”. Detto que­sto fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. E poiché stavano fis­sando il cielo mentre egli se ne’andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: ‘Uomini di Galilea perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi as­sunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui lo avete visto andare in cielo”.


Il ritorno di Gesù in Cielo è un passaggio necessario della storia di Dio e degli Uomini, che non sco­raggia i suoi seguaci, i quali anzi sono ancora capaci di provare grande gioia. Luca 24, 50.

Poi li condusse fuori, verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si separò da loro e fu portato verso il cielo. Essi, dopo averlo adorato, se ne tornarono a Gerusalemme con grande gioia. E stavano sempre nel tempio lodando e ringraziando Dio.


Gesù ritorna in Cielo ma in un modo misterioso rimane con i suoi discepoli. Fine del Vangelo se­condo Matteo.

Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato. Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano. E Gesù, avvicinatosi, disse loro: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque […]. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».


Gesù rimane come pane disceso dal Cielo, per nutrire spiritualmente gli esseri umani. Giovanni 6, 51. “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.


Paolo afferma l’unità del misterioso disegno di Dio, creatore dell’universo, che ha mandato Cristo sulla Terra. Efesini, 3,8-11: 4,8-10.

A me, che sono l'infimo fra tutti i santi, è stata concessa questa grazia di annunziare ai Gentili le imperscrutabili ricchezze di Cristo, e di far risplendere agli occhi di tutti qual è l'adempimento del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio, creatore dell'universo, perché sia manifestata ora nel cielo, per mezzo della Chiesa, ai Principati e alle Potestà la multiforme sapienza di Dio, se­condo il disegno eterno che ha attuato in Cristo Gesù nostro Signore, […] sta scritto: Ascendendo in cielo ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini. Ma che significa la parola "ascese", se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per riempire tutte le cose.


Nella Bibbia, Dio e il bene stanno in Cielo, il male sta sulla Terra (e nel mare e sotto terra). La fine del tempo coinciderà con la venuta di una nuova città dal Cielo, la Gerusalemme celeste. Apocalisse, capitoli 21 e 22.

Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c'era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono:«Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il "Dio-con-loro". E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte,
né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate». […] Non vidi alcun tempio in essa perché il Signore Dio, l'Onnipotente, e l'Agnello sono il suo tempio. La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l'Agnello. Le nazioni cammineranno alla sua luce e i re della terra a lei porteranno la loro magnifi­cenza. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, poiché non vi sarà più notte. E porte­ranno a lei la gloria e l'onore delle nazioni.[…] Mi mostrò poi un fiume d'acqua viva limpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell'Agnello. In mezzo alla piazza della città e da una parte e dall'altra del fiume si trova un albero di vita che dà dodici raccolti e produce frutti ogni mese; le foglie dell'albero servono a guarire le nazioni. E non vi sarà più maledizione. Il trono di Dio e dell'Agnello sarà in mezzo a lei e i suoi servi lo adoreranno; vedranno la sua faccia e porte­ranno il suo nome sulla fronte. Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli.
[…]


  1. Nella vita


1 - Questa mia riflessione sull’Universo è cominciata dalla lettura di una decina di autorevoli testi divulgativi di fisica e di cosmologia che mi sono capitati tra le mani del tutto casualmente nell’arco di quattro mesi.

La probabilità che potessi imbattermi in tutti questi testi, simili e complementari fra loro, in un breve periodo della mia vita, era veramente molto piccola. Mi sono domandato se potesse esserci un motivo profondo perché ciò sia avvenuto. E’ stata l’occasione per una riflessione esistenziale.

Non so se questo strano evento che mi è capitato – per un verso luminoso ma anche fonte di ten­sione, di sofferenza e di stordimento – debba considerarsi negativo o positivo. Spero che qualche amico mi sappia dare delle indicazioni in merito.


2 – Quando andavo a scuola, una cinquantina di anni fa, si riteneva ancora valida la dimostrazione aristotelica dell’esistenza di Dio qualE’ motore immobile’. Per alcuni scienziati e filosofi, la spiega­zione tendenzialmente esaustiva dell’Universo con le leggi della fisica permetterebbe all’Uomo di rinunciare a Dio.


3 - Gli esseri umani, all’infuori del ristrettissimo circolo dei ricercatori nell’esercizio delle loro fun­zioni, si mettono in relazione piuttosto raramente con l’Universo e lo fanno per lo più in maniera mistica e poetica.

Francesco d’Assisi canta l’universo come una meravigliosa e calda creazione del Signore: “Lau­dato sie mi Signore cum tucte le tue creature, spezialmente messer lo frate Sole[…] per sora Luna e le stelle. […]

Leopardi pensa ad un universo infinito, fatto di “interminati spazi”, “sovrumani silenzi, e profon­dissima quiete” che infondono timore (“per poco il cor non si spaura”); il poeta cerca un equilibrio: 1) tra la percezione attuale (lo sfiora un soffio di vento) e il pensiero del silenzio infinito dello spa­zio, 2) tra il tempo passato (“le morte stagioni”) e il momento presente in cui vive.

4 - Nel 1925 papa Pio XI con l’enciclica “Quas primas” istituì la festa di Cristo Re (N.S. Gesù Cristo Re dell’Universo), per combattere la “peste del laici­smo”, per rafforzare il potere dei Cri­stiani nel mondo e nello stesso tempo per riaffermare che il re­gno di Cristo “non è di questo mondo”.


5 - Il preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, approvata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, afferma che “il riconoscimento della dignità ine­rente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fon­damento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”.


Giuseppe Lodoli





LA VERITA’


  1. Nei discorsi


La verità è una parola e un’idea alla quale si ricorre con molta frequenza, dandone per scontato il significato. Generalmente, per verità si intende la rispondenza all’effettiva realtà, ma a ben vedere l’uso di questa parola non è affatto univoco e pone questioni di fondo. Esiste la verità? Ha a che fare con le parole (“dire” la verità) o con i comportamenti (“essere” veri)? Con il sapere o con il vivere? Siamo noi che raggiungiamo la verità attraverso la correttezza e la coerenza del nostro procedimento cognitivo o è la qualità della realtà che si rivela a noi? La verità è solo “soggettiva” o ha anche una validità “oggettiva”? Quali sono gli strumenti per conoscerla? La ragione e l’esperienza o anche i sentimenti e la fede? Ragione e fede possono andare d’accordo? La verità è “relativa” (mutabile nel tempo e nello spazio, a seconda delle epoche e delle culture) o “assoluta” (immutabile e universale)? Sono domande alle quali il pensiero umano ricerca da sempre – e sempre cercherà – una risposta con la filosofia, la teologia e la scienza. “Che cos’è la verità?” domanda Pilato a Gesù nel momento più drammatico del loro dialogo (Giov. 18, 38).

A fronte delle due posizioni estreme: quella scettica (la verità non esiste) e quella dogmatico-fondamentalista (la verità che “possiedo io” è indiscutibile, “non negoziabile” e superiore a ogni altra), c’è un’opinione diffusa, forse maggioritaria che, più o meno, si articola così: la verità esiste (perché esiste l’essere); però l’uomo la conosce a fatica e mai integralmente; spesso proprio i risultati della conoscenza (segnatamente in campo scientifico) ci rendono consapevoli di quanto sia ampio il campo dell’ignoto (sappiamo di non sapere); anche chi “è certo”, per fede religiosa, delle verità finali non è esente da dubbi, errori, infedeltà; lo spazio che intercorre tra “cose ultime” e “cose penultime” va coperto dalla laboriosa, quotidiana ricerca – sempre discutibile e perfettibile – del miglior bene (o del minor male) concretamente realizzabile (è lo spazio della laicità).

Va poi considerato che la verità, nel tempo che viviamo, deve misurarsi con il fenomeno della spettacolarizzazione che ha assunto proporzioni sconosciute in passato, anche per effetto del peso che oggi hanno i c.d. mezzi di comunicazione (Tv in testa). Tutto è oggetto di spettacolo: la vita quotidiana e i sentimenti (con i reality show), l’economia e gli affari (con la pubblicità), la politica (con il populismo, il leaderismo, i sondaggi), perché in ogni campo la rappresentazione scenica e l’audience sono i principali strumenti di successo. In questa situazione cresce enormemente il tasso di finzione; è sempre più incerto il confine tra il reale e il virtuale; è sempre più normale la distanza tra ciò che si dice o si promette e ciò che si pensa o si fa; un divario che non crea più alcun imbarazzo in chi lo dichiara, né riprovazione in chi lo registra; l’uso delle parole, infine, prescinde dal loro significato perché non serve a dire cose, ma a suscitare emozioni e ottenere consensi.


  1. Nei Vangeli


La visione biblica della verità è molto centrata sull’essere e sul fare. Per i riferimenti rinvio alla scheda di Francesco Giordani, nonché all’ampia trattazione del tema, sotto la voce “verità”, contenuta nel Dizionario di teologia biblica a cura di Xavier Leon-Dufour (ed. Marietti).

Mi limito a evidenziare gli aspetti che mi sembrano più significativi:

  • Il superamento di una visione intellettualistica: la verità è legata all’esperienza dell’incontro con Dio e alla relazione con gli uomini.

  • Nell’A.T. la verità è la qualità di ciò che è solido, fedele, degno di fiducia.

  • Nel N.T. la verità è il Mistero Pasquale di Gesù morto e risorto. E’ Gesù stesso (“Io sono la via, la verità e la vita”, Giov. 14, 6); è la sua regalità (“…Io sono Re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo; per rendere testimonianza alla verità”, Giov. 18, 37).

  • L’uomo da solo è incapace di fare il bene, anche quando conosce la verità e vorrebbe seguirla (Rm. 7, 18-19); tuttavia è nella debolezza dell’uomo che si manifesta pienamente la potenza di Dio (2 Cor. 12, 9).

  • L’Agnello immolato è il solo capace di dare senso alla storia (Ap. 5).

  • Il vero potere è la donazione di sé, non il possesso (Fil. 2, 6-11).

  • La beatitudine e la salvezza non sono fuori ma “nella” tribolazione (Is.; Ap; Mt. 5, 3-12; Lc. 6, 20-23).

  • Il dire senza il fare non vale nulla (Mt. 7, 21; 21, 28-32).

  • Il primato dell’interiorità (Mt. 6, 1).

  • La verità è rivelata ai “piccoli” ed è tenuta nascosta ai “sapienti e agli intelligenti” (Mt. 11, 25).


  1. Nella vita


Nonostante il dilagare della furbizia e del culto dell’apparenza la verità resta, nel profondo delle coscienze, un ideale positivo, un qualcosa di cui si sente gran bisogno. La verità è una conquista faticosa; è difficile conoscerla e assai di più praticarla. E’ la “porta stretta, la via angusta” consigliata da Gesù nel discorso della montagna per accedere alla vita: “quanto pochi sono quelli che la trovano!” (Mt. 7, 13-14). L’uomo, creatura limitata, è spinto a nascondere, anche a se stesso, i suoi molti errori, le sue debolezze, le sue infedeltà. La menzogna, però, dà ansia e insicurezza; c’è sempre il timore che venga scoperta; costruisce sulla sabbia; procura vantaggi fragili, momentanei, spesso solo apparenti. Invece la verità, la fedeltà, l’integrità danno serenità e gioia, anche se sono il frutto di una lotta costante anzitutto dentro di noi. Il loro grande alleato è il tempo, perché l’esperienza insegna che “alla fine” la verità paga. “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio” (Mt. 5, 8). E’ la grazia che invochiamo nel Miserere contro la doppiezza verso la quale siamo spinti dalle nostre paure: “Crea in me, o Dio, un cuore puro” (Salmo 50, v. 12).


Giulio Cascino





VERITA’



  1. Nel linguaggio corrente:


  • la contrapposizione tra relativisti e “assolutisti” (quanti credono che la verità si evolve col tempo e cambi a seconda delle varie culture e invece quanti credono che vi sia una verità assoluta).

  • tale distinzione ricalca spesso quella tra cattolici e laici: i primi credono in una Verità rivelata una volta per tutte che non può essere cambiata. I secondi fondano invece le proprie conoscenze e i propri valori su un’analisi razionale, scientifica, libera da condizionamenti e pregiudizi, quindi passibile in ogni momento di revisioni e ripensamenti.

  • Il fondamentalismo: la convinzione di possedere la Verità chiusa a qualsiasi dialogo con l ‘altro.

  • La percezione di vivere in un’epoca in cui tutte le verità e i valori tradizionali sono stati distrutti: la conseguente reazione di molti che recuperano la tradizione, spesso in maniera fondamentalista, per evitare lo spaesamento e l’anomia.

  • La ricerca di una verità storica: il revisionismo, che riesamina eventi passati rimettendone in discussione l’immagine corrente; gli infuocati dibattiti che esso suscita; la grande valenza politica che gli si attribuisce.

  • I mass media come strumenti che permettono di far conoscere ciò che succede nel mondo con un’aderenza totale ai fatti così come sono avvenuti. Per contro, il timore che i mass media siano manipolati dai poteri forti e pertanto riportino una versione alterata della realtà, anche se con una fortissima parvenza di verità grazie alle tecnologie usate.

  • Le statistiche come rappresentazione oggettiva della realtà sociale.

  • La fiducia (o la sfiducia) nella scienza e negli scienziati. Spesso il solo titolo di scienziato è sufficiente per essere creduto, indipendentemente dalle cose dette e dalla loro reale validità scientifica. Il titolo come garanzia di verità anche in altri campi.


  1. Nella Parola di Dio:


I salmi sono ricchi di riferimenti alla Verità (25,10/ 26, 3-4/ 43,3/ 86, 11): la Verità che proviene da Dio è accostata alla sua grazia, alla sua bontà e alla sua luce. E’ bella e piena di significato l’immagine del cammino (“Mostrami, Signore, la tua via, perché nella tua Verità io cammini” Sal. 86,11): la Verità di Dio è come una luce che guida l’uomo nella sua vita spirituale in modo che non si perda, o si smarrisca o si ritrovi in terreni insidiosi (da notare Sal. 25,10: “Tutti i sentieri del Signore sono Verità e grazia per chi osserva il suo patto e i suoi precetti”, l’accenno ad una pluralità di vie). L’accostamento tra la Verità e l’immagine della via, del cammino, c’è anche nel Vangelo (Gv. 16,6). Mi sembra che più che a un particolare contenuto di conoscenza si faccia riferimento a un sentimento di sicurezza e di fiducia. La Verità non è intesa come traguardo di un processo conoscitivo, ma come una disposizione dell’animo che accompagna l’uomo di fede nella sua esistenza.


Salmo 119, 160: “La verità è principio della tua parola”, la fiducia che la Parola di Dio sia veritiera e non menzognera.


Salmo 85, 10-12: la Verità come promessa. La Verità come una delle realtà che si realizzerà con l’avvento del Regno di Dio, insieme alla salvezza, alla gloria di Dio, alla misericordia, alla giustizia e alla pace.

Salmo 101, 7: l’opposto della Verità è la menzogna e l’inganno. Come per la Verità viene prospettata un‘attuazione futura, la menzogna e l‘inganno saranno banditi dalla presenza del Signore.


Matteo 11, 25-27: I sapienti e gli intelligenti in questo mondo sono i detentori e gli amministratori delle conoscenze. La conoscenza è un aspetto del potere. La Rivelazione di Dio si afferma in maniera del tutto indipendente e svincolata dai sistemi umani di gestione della conoscenza e del sapere. Chi è al di fuori di questi sistemi, in quanto piccolo e povero, è un destinatario privilegiato della Rivelazione di Dio.


Giovanni 4,19-24: Gesù indica in coloro che adorano Dio in Spirito e Verità i veri adoratori di Dio. Questa maniera di adorare Dio, in Spirito e Verità, viene presentata come un superamento del culto reso a Dio in particolari luoghi, in particolari templi e seguendo determinati riti a seconda delle proprie tradizioni e della propria cultura (Ebrei, Samaritani…). Adorare Dio in Spirito viene riconosciuta come una maniera di relazionarsi a Dio più adeguata alla sua Verità.


Giovanni 8,12-59: all‘inizio del passo Gesù dice di sé “Io sono la luce del mondo”. Questa affermazione suscita sconcerto. Gli viene contestato di dare testimonianza da sé stesso, gli viene chiesto di mostrare le prove che consentano di considerare vero ciò che dice. Gesù rigira sui suoi interlocutori la questione, rivelando loro delle verità sconcertanti e sconvolgenti su loro stessi. Dice in sostanza: se veramente credeste nel Padre come dite di credere, sapreste che la mia testimonianza viene dal Padre. Ma poiché siete invece adoratori del demonio, non vi accorgete che dico la Verità che mi è stata consegnata dal Padre (infatti la Verità viene da Dio, mentre il diavolo è stato menzognero fin dall‘inizio). La Verità di Dio si manifesta qui anche come l’effetto dell‘intervento di Dio, che fa emergere dagli abissi del nostro animo la Verità profonda su noi stessi, che anche a noi è nascosta. In questo caso Gesù rivela ai propri interlocutori la loro cattiva coscienza. Anche nell ‘episodio della samaritana cui Gesù chiede l’acqua (Gv. 4, 1-42) c’è un accenno a questa idea, quando la samaritana alla fine dice: “Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il messia?” (Gv. 4, 29).


Giovanni 17, 15-19: il concetto di “consacrazione nella Verità”


Giovanni 18, 37-38: In questo passo emerge l’incomprensione di Pilato che cerca di capire chi è Gesù facendo riferimento alle categorie consuete ed abituali che si usano fra gli uomini: Re, Regno, Verità… Si affaccia una Realtà più ampia per descrivere la quale queste categorie sono usate solo come un segno esteriore.


1 Corinzi 13, 6: “(la carità) non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità” un importante accostamento tra Verità e Carità.


  1. Nella vita:


Tutte le persone che nel mondo di oggi, dove conta così tanto l’apparenza, cercano di presentarsi agli altri in maniera autentica, così come sono realmente.


Tutte le persone i cui discorsi corrispondono realmente alle intenzioni di fondo, che evitano la doppiezza.

Tutte le persone che rischiano in prima persona per far conoscere i fatti che sono tenuti nascosti dai poteri di questo mondo. Che non si rassegnano alla censura che i media esercitano su certe realtà compromettenti.


Tutte le persone che non hanno paura di cosa vi è nel profondo del proprio animo, e quando questo ha occasione di venir fuori, sono capaci di accettarlo, di non negarlo a sé stessi. Che hanno la forza e l’umiltà di accettare il giudizio su sé stessi.


Tutti coloro che sanno farsi piccoli, mettendo almeno momentaneamente da parte il proprio sapere e la propria cultura, per poter accogliere la rivelazione di Dio.


Tutti coloro che percepiscono la presenza dell‘al di là, di una dimensione trascendente, primordiale ed ultima, che travalica la realtà tangibile di qui ed ora con le sue categorie e le sue definizioni, ma che avvertono anche il suo mistero, si rendono conto dell’incapacità di tutti gli strumenti della conoscenza umana a descriverla in maniera definitiva e soddisfacente.


Francesco Giordani





VIAGGIARE


  1. Nei discorsi


Si parla molto dei viaggi che si fanno per turismo, con le più diverse qualifiche, da quelle religiose a quelle culturali, di puro svago fino a quelle sessuali. Si tratta spesso di viaggi all’estero anche in luoghi molto distanti.

Non pochi devono viaggiare per lavoro o per andare a lavorare. Non di rado con mezzi pubblici non confortevoli.

C’è poi il viaggiare degli emigranti o degli immigrati con grandi disagi e rischi.

Non ho mai sentito qualcuno accostare il proprio viaggiare per divertimento a quello degli immigrati.


  1. Nel Vangelo


Il Signore disse ad Abramo: vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò” (Gen. 12, 1). Israele si è formato come popolo peregrinante per quarant’anni nel deserto.

Dopo la visita dei Magi “un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto” (Mt. 2, 13).

Il Vangelo di Luca, a partire dal cap. 9 racconta la salita di Gesù verso Gerusalemme. I viaggi di Paolo (Atti degli Apostoli) realizzano il mandato di Gesù: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc. 16, 15).

Usciamo dunque anche noi dall’accampamento e andiamo verso di lui, portando il suo obbrobrio, perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura” (Ebr. 13, 13-14).


  1. Nella vita


La fatica di chi è costretto a viaggiare per lavoro, lo sfruttamento degli emigranti, le sofferenze e i rischi a cui vanno incontro responsabilizzano quanti vivono tranquilli nella loro casa e nel loro paese e viaggiano per una loro libera scelta e per diporto.

Quanti invece soffrono perché costretti a viaggiare, anche se inconsciamente sono nelle dinamiche del regno di Dio che ha la sua fonte e il suo vertice nella morte in croce, nella risurrezione e nell’ascensione al cielo di Gesù Cristo.


Pio Parisi





VISIBILITÁ


1. Nei discorsi


Nella vita quotidiana, il termine visibilità viene utilizzato per indicare sia la possibilità di vedere (qualcuno o qualcosa), sia la possibilità di esser visti da altri.

In questa seconda accezione, la visibilità, soprattutto quella assicurata dai media, equivale ad un segno di potere e di prestigio. Questo è il motivo per cui molto spesso la ricerca del successo personale passa attraverso la ricerca della visibilità.

Nell’ambito della competizione per la conquista e gestione del potere, già da tempo i partiti di massa – dotati di una solida radice sociale e di una non trascurabile capacità di rappresentanza – sono stati soppiantati dai partiti personali. Li guidano leaders che cercano non il “senso”, ma il “consenso”. La loro principale preoccupazione non è quella di veicolare un discorso, ma di occupare gli spazi televisivi. Questo modo di interpretare l’impegno politico è quello ormai più diffuso. Dal capo del governo, fino all’ultimo consigliere comunale, i politici cercano la visibilità. E non per promuovere un progetto di cambiamento, ma per riprodurre se stessi.

Anche nella chiesa, e in particolare nelle sue espressioni gerarchiche, la visibilità è cercata come indispensabile strumento per una efficace difesa dei valori cristiani. Questa strategia difensiva spesso può dar luogo ad una specie di “sindrome da confessionalismo assediato”, che rende complicati l’incontro e la comunicazione con quanti sono portatori di valori diversi, o di altre visioni del mondo.


2. Nel Vangelo


All’inizio della sua vita pubblica, Gesù tiene nascosta la sua identità messianica (Mc. 1,.32-34). La novità della sua predicazione consiste nella autorevolezza di un discorso che non precede i fatti, ma si invera in una esperienza: “Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità. Comanda persino agli spiriti immondi e gli obbediscono!” (Mc. 1,.27).

Quando Gesù rivela ai suoi discepoli la sua identità di Figlio con un discorso aperto, esplicitando il senso ultimo del suo viaggio a Gerusalemme, Pietro non comprende (Mc. 8,.32), e si merita il rimprovero del Signore (Mc. 8, 33).

Le opere che, secondo i Giudei del suo tempo, rendevano l’uomo giusto davanti a Dio erano la preghiera, l’elemosina e il digiuno (cfr. Mt. 6, 1 e ss.). Gesù non si contrappone a queste pratiche, ma offre indicazioni molto chiare rispetto al modo in cui vanno vissute: “Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati; altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli” (Mt. 6, 1).


3. Nella vita


L’essenziale è invisibile agli occhi”.

La maggior parte delle esperienze umane e delle ricerche di senso più significative si consumano nel silenzio e nel nascondimento.

Le fatiche e le gioie della vita familiare.

La capacità di affidarsi dei bambini.

L’entusiasmo e la ribellione degli adolescenti.

L’impegno e la passione, i successi e i fallimenti nella vita professionale.

Il dialogo incessante con il Signore e la preghiera di intercessione per il mondo nella vita contemplativa.

La saggezza e la solitudine degli anziani.

La sofferenza degli ammalati.

La solitudine dei morenti.


Giorgio Marcello





VITA


  1. Nei discorsi

Oggi più che della vita si parla molto della qualità della vita.

La crescita dell’economia è finalizzata al miglioramento della qualità della vita: la qualità della vita è misurata fondamentalmente dal benessere economico, dai conti in banca, dai consumi.

Molti discorsi riguardano la difesa della salute, con il moltiplicarsi delle cure, della prevenzione, dell’igiene.

Ma mentre la preoccupazione per la conservazione della propria vita e l’esecrazione per i rischi come quelli del sabato sera sono crescenti, si perde sempre più la sensibilità per la vita degli altri. Ci si va abituando ai numeri elevatissimi di persone che muoiono nelle guerre, nei disastri naturali, nelle epidemie, ecc. Rimangono numeri senza partecipazione alle tragedie umane. Un nostro piccolo disturbo occupa la nostra mente più delle immense sofferenze di tante persone preziose come siamo noi stessi.

Al di sopra di ogni altra voce si leva a difesa della vita, dal concepimento alla morte, quella della Chiesa ufficiale. Ripetutamente viene affermato questo primato della vita terrena, proposto come un assoluto.


  1. Nei Vangeli

La buona notizia è la vita che non muore: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta” (1 Giov. 1, 1-4).

Il Signore non ha negato il comandamento di non uccidere ma lo ha portato a compimento: “Avete inteso che fu detto agli antichi: non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna” (Mt. 5, 21-22).

La vita temporale non è un assoluto: “E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo; ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna” (Mt. 10, 28).

Ma Dio lo ha resuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere” (At. 2, 24).

Gli disse Gesù: Io sono la via, la verità, la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Giov. 14, 6).


  1. Nella vita


Se la vita eterna è uscita dai discorsi rimane nella coscienza di molti.

Tanti sono impegnati quotidianamente nei mille problemi della vita temporale sorretti da una speranza data dallo Spirito, aperta a chi è al di là e al di sopra di noi.

Nella coscienza di molti c’è la persuasione che chi ci ha lasciato vive ancora nell’al di là. Per questo ha senso pregare per loro e più ancora aspettare da loro aiuto e protezione.

Il culto dei morti è vivo e diffuso e andrebbe meglio evangelizzato, purificandolo da molte fantasie e riscoprendo il Mistero Infinito rivelato nel Mistero Pasquale di Gesù Cristo.


Pio Parisi





VOLTO


  1. Nei discorsi


Più frequente è il termine “faccia”.

Se ne parla molto in modo piuttosto superficiale.

Frequenti sono gli apprezzamenti estetici. Ancora più frequenti i segnali che si colgono sulla faccia: dalla stanchezza, alla soddisfazione, all’inquietudine, alla gioia, ecc.

Spesso proiettiamo nella faccia delle persone i nostri stati d’animo nei loro confronti: simpatia, antipatia, ecc.

C’è anche chi si fa il “lifting”.


  1. Nel Vangelo


Mosè ad Aronne: voi benedirete così: ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace” (Nm. 6, 22 e ss.).

Il Mistero infinito di Dio ha un volto, è un volto.

Gesù Cristo è il volto di Dio che si rivela.

Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, Gesù indurì il suo volto, e si diresse verso Gerusalemme” (Lc. 9, 51).

Gesù è il servo di Javeh di cui parla Isaia: “come molti si stupirono di lui – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo – così si meraviglieranno di lui molte genti” (Is. 52, 14-15).


  1. Nella vita


Tanta ammirazione per la bellezza dei volti. Particolare attenzione per gli occhi che in qualche modo introducono nell’interiorità e nel mistero della persona.

Rispetto anche per i volti sfigurati dalla sofferenza.

La sapienza popolare sa che anche il meno attraente è bello per sua madre.

Quando si cerca a chi assomiglia il nuovo nato, qualcuno si ricorda che è immagine e somiglianza di Dio.


Pio Parisi

































































Incontri Maurizio Polverari

Via degli Ortaggi, 42

00157 Roma

ass.mpolverari@tiscali.it

1 Senza cultura adeguata è assai difficile il dialogo, come capacità di pacato confronto: questo spiega in parte le difficoltà registrate in politica, in tempi recenti, per un dialogo costruttivo ed utile: V. in proposito il n. 6.

2 V. Messaggio di Papa Giovanni Paolo II per la celebrazione della giornata mondiale della pace 1° gennaio 2001: “Se perciò è importante, da un lato, saper apprezzare i valori della propria cultura, dall'altro occorre avere consapevolezza che ogni cultura, essendo un prodotto tipicamente umano e storicamente condizionato, implica necessariamente anche dei limiti. Perché il senso di appartenenza culturale non si trasformi in chiusura, un antidoto efficace è la conoscenza serena, non condizionata da pregiudizi negativi, delle altre culture. Del resto, ad un'analisi attenta e rigorosa, le culture mostrano molto spesso, al di sotto delle loro modulazioni più esterne, significativi elementi comuni. Ciò è visibile anche nella successione storica di culture e civiltà. La Chiesa, guardando a Cristo, rivelatore dell'uomo all'uomo, e forte dell'esperienza compiuta in duemila anni di storia, è convinta che, « al di sotto di tutti i mutamenti, ci sono molte cose che non cambiano ».Tale continuità è fondata sulle caratteristiche essenziali e universali del progetto di Dio sull'uomo”.

3 V. Messaggio di Papa Giovanni Paolo II per la celebrazione della giornata mondiale della pace 1° gennaio 2001: Dialogo tra le culture per una civiltà dell'amore e della pace; “Il dialogo tra le culture, Analogamente a quanto avviene per la persona, che si realizza attraverso l'apertura accogliente all'altro e il generoso dono di sé, anche le culture, elaborate dagli uomini e a servizio degli uomini, vanno modellate coi dinamismi tipici del dialogo e della comunione, sulla base dell'originaria e fondamentale unità della famiglia umana, uscita dalle mani di Dio che « creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini » (At 17,26).

In questa chiave, il dialogo tra le culture… emerge come un'esigenza intrinseca alla natura stessa dell'uomo e della cultura. Espressioni storiche varie e geniali dell'originaria unità della famiglia umana, le culture trovano nel dialogo la salvaguardia delle loro peculiarità e della reciproca comprensione e comunione. Il concetto di comunione, che nella rivelazione cristiana ha la sua sorgente e il modello sublime in Dio uno e trino (cfr Gv 17,11.21), non è mai appiattimento nell'uniformità o forzata omologazione o assimilazione; è piuttosto espressione del convergere di una multiforme varietà, e diventa perciò segno di ricchezza e promessa di sviluppo.

Il dialogo porta a riconoscere la ricchezza della diversità e dispone gli animi alla reciproca accettazione, nella prospettiva di un'autentica collaborazione, rispondente all'originaria vocazione all'unità dell'intera famiglia umana. Come tale, il dialogo è strumento eminente per realizzare la civiltà dell'amore e della pace, che il mio venerato predecessore, Papa Paolo VI, ha indicato come l'ideale a cui ispirare la vita culturale, sociale, politica ed economica del nostro tempo. All'inizio del terzo millennio è urgente riproporre la via del dialogo ad un mondo percorso da troppi conflitti e violenze, talvolta sfiduciato e incapace di scrutare gli orizzonti della speranza e della pace”.

4 Giovanni Paolo II, parlando il 5 ottobre 1995 all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ricordò che noi « non viviamo in un mondo irrazionale o privo di senso vi è una logica morale che illumina l'esistenza umana e rende possibile il dialogo tra gli uomini e tra i popoli ». Vale a dire – ha aggiunto Benedetto XVI – “l'insieme di regole dell'agire individuale e del reciproco rapportarsi delle persone secondo giustizia - e solidarietà, è iscritta nelle coscienze, nelle quali si rispecchia il progetto sapiente di Dio. Come recentemente ho voluto riaffermare, « noi crediamo che all'origine c'è il Verbo eterno, la Ragione e non l'Irrazionalità ». La pace è quindi anche un compito che impegna ciascuno ad una risposta personale coerente col piano divino In tale prospettiva, le norme del diritto naturale non vanno considerate come direttive che si impongono dall'esterno, quasi coartando la libertà dell'uomo. Al contrario, esse vanno accolte come una chiamata a realizzare fedelmente l'universale progetto divino iscritto nella natura dell'essere umano… Il riconoscimento e il rispetto della legge naturale pertanto costituiscono anche oggi la grande base per il dialogo tra i credenti delle diverse religioni e tra i credenti e gli stessi non credenti. È questo un grande punto di incontro e, quindi, un fondamentale presupposto per un'autentica pace. Sono sempre le parole di Papa Benedetto.

Occorre, ammoniva Benedetto XVI, “pur nel quadro delle attuali difficoltà e tensioni internazionali, impegnarsi per dar vita ad un'ecologia umana che favorisca la crescita "dell'albero della pace ”. Di qui l’esigenza di una visione della persona non viziata da pregiudizi ideologici e culturali o da interessi politici ed economici, che incitino all'odio e alla violenza. Mentre si comprende che le “visioni dell'uomo varino nelle diverse culture”. invece non si può ammettere che vengano coltivate concezioni antropologiche che rechino in se stesse il germe della contrapposizione e della violenza. Ugualmente inaccettabili sono concezioni di Dio che stimolino all'insofferenza verso i propri simili e al ricorso alla violenza nei loro confronti “.

5 Messaggio di Papa Giovanni Paolo II per la celebrazione della giornata mondiale della pace 1° gennaio 2001.

6 Messaggio di Papa Giovanni Paolo II, cit.

7 L’anno 2008 è l’Anno europeo del dialogo interculturale. Il Parlamento europeo nell’accogliere la proposta ha posto la religione al centro delle iniziative da sviluppare in quell'occasione. I deputati hanno chiesto l'istituzione di un premio per il dialogo interculturale da attribuire ad un progetto giovanile nel contesto dei programmi comunitari e propongono di concludere l'Anno con un Foro che riunisca società civile e rappresentanti politici e religiosi.

La proclamazione implica il finanziamento di una serie di iniziative e attività che hanno lo scopo di promuovere questo dialogo interculturale attraverso campagne d'informazione, manifestazioni ed eventi nonché la realizzazione di studi ed indagini.

Gli obiettivi generali dell'Anno europeo dovranno riguardare la promozione del dialogo interculturale mediante progetti specifici volti ad aiutare i cittadini europei «ad imparare a vivere insieme armoniosamente e a superare le differenze inerenti alla loro diversità culturale, religiosa e linguistica, non soltanto tra le culture dei diversi Stati membri, ma anche tra le varie culture e i gruppi religiosi degli Stati membri». Da notare che questa formulazione ha ottenuto 299 voti favorevoli, 298 contrari e 17 astensioni. Inoltre, si tratterà di sensibilizzare i cittadini europei e quanti vivono nell'Unione europea «all'importanza di sviluppare una cittadinanza europea attiva e aperta sul mondo, rispettosa della diversità culturale e fondata sui valori comuni dell’Unione europea».

8 Questo è stato l’oggetto di un incontro (La Pace: Comprensione tra i popoli) su iniziativa del Centro studi per la Comprensione tra i Popoli, “Archi di Pace”, tenutosi il 31 marzo 2007 a San Giovanni Rotondo, con una relazione di P, Grimaldi. Il percorso psicologico nella comprensione tra i popoli, e un’altra relazione di R. Chieppa, Il dialogo strumento di pace e di comprensione.

9 Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso (P.C.D.I.) ha come finalità la promozione del dialogo interreligioso, in adesione allo spirito del Concilio Vaticano II, in particolare della dichiarazione "Nostra Aetate", con i seguenti compiti:

  • promuovere la mutua comprensione, il rispetto e la collaborazione fra i cattolici e i seguaci di altre tradizioni religiose;

  • incoraggiare lo studio delle religioni;

  • promuovere la formazione di persone votate al dialogo.

Il dialogo è impostato su un sistema di duplice comunicazione. Esso implica il parlare e l'ascoltare, il dare ed e il ricevere, per il mutuo sviluppo e arricchimento. Si tratta di un dialogo che è testimonianza della propria fede ma, nello stesso tempo, un'apertura verso quella degli altri. Non è un tradimento della missione della Chiesa, e neppure un nuovo metodo di conversione alla Cristianità.

Tutto ciò è stato chiaramente stabilito nella lettera enciclica "Redemptoris Missio" di Papa Giovanni Paolo II. Al tempo stesso, tale veduta fu manifestata in due documenti pubblicati dal Consiglio: L'Atteggiamento della Chiesa Cattolica di fronte ai seguaci di altre religioni, riflessioni e orientamenti di Dialogo e Missione (del 1984), e "Dialogo e Annuncio" (del 1991), quest'ultimo, congiuntamente con la Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli.

10 Cardinale Carlo Maria Martini, Discorso alla città per Sant'Ambrogio, Milano, 6 dicembre 1990.

11 Cardinale Carlo Maria Martini, Discorso cit.

12 R. Chieppa all’apertura dell’udienza del 25 marzo 2003 della Corte Costituzionale.

13 R. Chieppa, Per la pace, per la giustizia e per il rispetto della persona umana: mai più guerra e violenza, in Giovanni Paolo II le vie della giustizia, Itinerari per il terzo millennio, Omaggio dei giuristi a Sua Santità nel XXV anno di pontificato, a cura di A. Loiodice e M. Vari, Roma, Bardi – Libreria editrice vaticana, 2004. p. 844.

14 A cura di N. Boschiero, Ordine internazionale e valori etici, VIII Convegno SDI Verona 26-27 settembre 2003.

15 Antonio Marziale, giornalista, presidente dell'Osservatorio sui Diritti dei Minori, dirigente nazionale dell'Associazione Nazionale Sociologi, Fonte: Scuola online permanente di Educazione ai Media dell'Osservatorio sui Diritti dei Minori.

16 R. Chieppa, Valori e metodo giuridico nel pensiero di Luigi Mengoni, conclusioni dell’incontro di studio Università.

17 Marcello Pedrazzoli, Luigi Mengoni e il diritto del lavoro.

18 In Prefazione nei Saggi, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Giuffrè, Milano, 1996, pag. VII, a proposito dell’humus favorevole alla rinascita di forme della antica dialettica.

19 R. Chieppa, Omaggio a Luigi Mengoni, maestro di diritto e di umanità, Milano 19 gennaio 2002. in Jus, 2002, 18.

20 A. Quadrio Curzio e G.M. Flick lo hanno sottolineato, in separate sedi, in occasione del 60° anniversario della Costituzione.

21 Mario Castelli ha messo in luce come per comprendere che cosa sia e debba essere il nostro impegno politico occorre partire da come Dio entra nella nostra politica, per la pace. Non c’è ancora chi accolga questo insegnamento, peraltro elementare, e la resistenza è ostinata come quella che tutti opponiamo alla vera conversione.

Discernimento

Mistero, Politica, Fraternità 2007-08